venerdì 20 giugno 2014

SE STARAI CON ME TI PARLERO’ DI ME - Gesù racconta dalla Croce



PRESENTAZIONE
L'esperienza di fede del cristiano è inti­mamente congiunta con l'esperienza di amo­re, che il Figlio di Dio Gesù Cristo ha voluto fare per noi e insieme con noi sulla terra, me­diante la sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione. Egli ha percorso le nostre vie, dialogando con noi e introducendoci passo pas­so per le vie salutari del Regno di Dio. Gesù è l'Amore in cammino. Chi crede in Lui, lo rende presente e diviene a Lui presente nell'amore, incamminandosi insieme con Lui verso la Dimora del Padre. Il palpito ardente del suo Spirito lo avvolge di tenerezza e lo ren­de raggiante alla sua presenza (cf. 2 Cor 4,6), facendogli degustare la dolcezza della sua com­pagnia e attirandolo a Lui con vigore. Gesù Cristo diventa così, nell'intimo di chi crede fer­mamente in Lui e apre il cuore al suo amore misericordioso, viva sorgente di speranza (cf. Col 1,27), nutrita soavemente dalla memoria che Egli continuamente fa della sua vita di Fi­glio dal Padre e dal suo ardente desiderio di riportargli a casa tutti i fratelli, invitandoli di persona alla grande festa del Regno di Dio e conducendoli Egli stesso alla presenza del Padre.
Durante il suo pellegrinaggio di amore mi­sericordioso, Gesù dialogava volentieri e si compiaceva di fare le sue confidenze a quanti gli stavano più vicini, condividendo con Lui la Sua stessa forma di vita e ricevendo in cam­bio da Lui la promessa di condividere pure la dimora del Padre celeste. Le moltitudini re­stavano stupite dei suoi racconti e anche gli Apostoli, che continuamente stavano in ascolto della sua parola, non ne divenivano sazi, de­siderando anzi di conoscerLe sempre meglio e di penetrarne l'arcano divino mistero. Gli chiesero che insegnasse loro a pregare e ne eb­bero in dono il " Padre nostro" (cf. Le 11, 1 ss. ; Mt 6,9-13). Quando poi Filippo Gli chiese di mostrare loro il Padre, rimase sorpreso di po­terlo mirare sul volto stesso di Gesù (Gv 14, 1 ss.)  Tutti erano meravigliati dei suoi inse­gnamenti e stupiti di fronte ai segni e prodigi che operava.
Ma quando giunse 1' ora della sua passio­ne e morte, sembrò che la sua voce si fosse definitivamente spenta e qualcuno, come Tom­maso o come i due Discepoli di Emmaus, eb­be la tentazione di rivolgersi altrove. Fortunatamente Tommaso ritornò da Lui ed ebbe la gioia di riconoscerLe.

Gesù si rivelò a lui, presentandogli i se­gni del suo infinito amore e invitandolo a di­morare ancora presso di Lui, chiamando anzi "beati, coloro che, senza aver visto, avrebbe­ro creduto!" (Gv 20, 29). Si aprì così, nuo­vamente, la "via nuova e vivente" (Eb 10, 20), inaugurata per noi da Gesù e il Suo dialogo con noi continua confidenzialmente, come con i Discepoli di Emmaus (cf. Lc 24, 13ss,) o con gli Apostoli sulle rive del Lago di Tiberiade, all'alba di un nuovo giorno di Dio. Là Pietro venne risanato dal ricordo del suo tradimento e ristabilito nella corroborante amicizia e nel­la consolante intimità d'amore di Gesù, che lo aveva rigenerato per sempre, costituendo­lo Pastore supremo, garante dell'unità di fede e della comunione di amore di tutta la Chiesa (cf. Gv 21).
Dialogando con i suoi Discepoli, dopo la Risurrezione, Gesù li consolava e li ristabili­va nella dimora del Padre celeste come com­mensali del Regno di Dio, condividendo con loro la mensa della sua Parola e del suo Cor­po, divenuto per tutti Eucarestia e sorgente di vita. Ai Discepoli di Emmaus Gesù insegnò con tanta bontà a comprendere anche i momen­ti più drammatici della Sua esistenza terrena e a riconoscervi il segno definitivo e perfetto del Suo amore per loro.
Quel dialogo, pieno di infinito amore, rie­cheggia dolce e suasivo nelle pagine del libretto che ho la gioia di presentare: "SE STARAI CON ME, TI PARLERÒ DI ME". Gesù rac­conta dalla Croce. Sembra ripreso il pellegri­naggio di Gesù con gli uomini d'oggi per renderli partecipi della sua mirabile e stupen­da avventura d'amore. Il tono è confidenzia­le, lo stile vivace e conciso, con la precisione del Testimone fedele e la gioia di aver com­piuto il mandato, ma anche con immensa no­stalgia per coloro ai quali Egli ha donato la Sua vita sulla croce per dire che andava a prepa­rare loro un posto nella casa del Padre e vole­va portarli con Sé proprio loro, tutti loro, come figli prediletti del Padre.
Gesù continua le Sue confidenze con com­movente bontà, con parole toccanti, soffuse di divina tenerezza, in questa meditazione ispi­rata, viva testimonianza che ci aiuta a compren­dere come si può essere, se si vuole, contem­plativi nel mondo.
Rosalba ha saputo armonizzare la sua vi­ta di lavoro, di sposa, di madre e di Terziaria francescana, stimolata dalla Grazia divina, in un unico palpito, racchiuso nella fede, in un grande amore per Gesù Cristo e per quanti Egli ha amato ed ama e vuole benignamente am­maestrare, parlando loro non come ad estra­nei, ma come ad amici speciali, per i quali Egli veramente ha dato la vita per amore.
Il racconto è confidenziale, con uno stile vibrante, appassionato, scarno e incisivo, che scolpisce le scene, imprimendovi nel cuore le immagini con una potente accensione d'amore. Si riscontrano invero nella storia dell'e­sperienza mistica racconti della vita e della passione di Gesù. Ma il racconto che ne fa Ro­salba è nuovo e originale per intensità e vigo­re, per l'incantevole stile da filmato, che ripropone vivacemente le immagini, scolpen­dole nel cuore prima di farne percepire il rac­conto parlato.
Il racconto, confidenziale e delicatissimo, rivela le pieghe più intime e segrete del Cuo­re di Gesù nelle ore più drammatiche della Sua esperienza terrena e ne ritrasmette i sentimenti d'infinita dolcezza e amabilità, di soave tene­rissimo amore verso quanti il Padre celeste Gli ha affidato e che amore e dolore Gli hanno reso maggiormente fratelli. Ad essi Egli dischiude il cielo, aprendo loro la dimora del Padre.
E così che le parole si susseguono senza lasciare respiro, perché respirano palpitanti e risuonano vigorose dall'arcano sacrario del Cuore di Gesù e penetrano come fiaccole ar­denti il cuore di chi le legge e ne custodisce il mistero, degustandone la divina fraganza.
Auguro, a quanti avranno la singolare gra­zia di leggere queste pagine, di percepirne il sa­pore evangelico e la genuina freschezza, per pro­seguire rigenerati e sereni il loro cammino in­sieme con Gesù, che dalla Sua croce continua an­che con loro il suo dialogo d'amore, per ripetere con tenerezza che proprio per loro Egli ha patito tutto questo e non ha gioia maggiore che di parte­cipare loro il frutto di quell'immenso amore e di quell'immenso dolore. Potranno così, anch'essi come me, proseguire esultanti il loro cammino pieno di speranza, all'alba del nuovo giorno, che vide Gesù consolare gli Apostoli, rendendoli per sempre Suoi commensali nella casa del Padre.
Mi congratulo con Rosalba per queste in­tense e profonde meditazioni e La ringrazio di averci resi partecipi di questo prezioso dono.
Roma, nella Solennità della Riseurrezione di Gesù, 1991
Frate Cornelio M. Del Zotto ofm Docente di Teologia Dommatica nel Pontificio Ateneo "Antonianum" di Roma
 
E il venerdì sette aprile, ore dodici, del­l'anno trenta e mi ritrovo appeso come un cen­cio su una croce, trattato come un brigante, anzi condannato a morte al posto di un brigante.
M'è davanti la mia tenerissima madre, rit­ta, ai piedi di questo palo al quale m'hanno in­chiodato. Sembra un soldato valoroso che, al termine di una grande battaglia vinta, mostra fiero le ferite sanguinanti del corpo al coman­dante per dirgli: "Sono ridotto così, ma non preoccuparti, abbiamo vinto".
"Sì madre, puo dirlo forte, abbiamo vin­to. Io torno al Padre e nel Padre troverò la sua compiacenza per te e continuerò ad amarti ed attenderti fintanto che gli Angeli santi ti ricon­durranno a me nella santa Dimora".
Nel suo cuore rivedo la piccola casa di Na­zareth. Il mio caro Giuseppe che non dimen­ticò mai, quando mi teneva fra le braccia, che sotto quella tenera carne di bimbo palpitava l'essenza del Dio dei suoi Padri. L'espressio­ne si riferisce al verbo incarnato. Adorò in me il Dio creato e celato, fu il primo adoratore dell'Eucarestia. Guardò e custodì mia madre come un tempio santo, lasciandosi inebriare dal suo profumo verginale e consacrante.
 

I primi tempi

Mi rivedo adulto a trent'anni, quando per l'ultima volta lasciai quella casa che, come il seno di mia madre, mi aveva custodito, per an­dare incontro agli uomini.
In un solo attimo mi si ripresentano tutte le tappe degli ultimi tre anni della mia vita. L'incontro con Giovanni il Battista... il suo cuore sincero, la sua umiltà profonda mi fe­cero un gran bene dopo il distacco dalla casa di Nazareth.
I quaranta giorni nel deserto della valle del Giordano in una lunga estasi all'ascolto inti­mo e divino del progetto del Padre per la rap­pacificazione del suo amore con il cuore degli uomini. E poi l'incontro con i primi due apo­stoli: Giovanni ed Andrea, che con semplici­tà credettero che ero il Messia. E la faccia corrucciata di Pietro che non seppe resistere suo malgrado al mio sguardo e mi seguì. E tutti gli altri.
Rividi il pozzo di Giacobbe sul monte Ga­rizim, dove incontrai un'umile peccatrice sa­maritana, che pur non comprendendo il mio discorso lo accolse e cambiò vita, solo perchè le diedi fiducia, chiamandola col titolo onorifico di donna, pieno di stima ed affetto ri­verente.
Mi tornano alla mente tutti i miracoli che ho fatto e tutti i miracolati ai quali ho ridato vita e salute pur sapendo che oggi li avrei ri­visti nel vigore delle loro forze ai piedi di que­sto monte a gridare "Crocifiggilo".
E Maria, la prostituta che entra a casa di Simone confondendosi con i servi per cospar­gere i miei piedi con prezioso profumo misto alle sue calde lacrime e la mia gioia nell'am­ministrarle il perdono: "Donna ti sono perdo­nati i tuoi peccati, va' in pace''.
E gli Scribi e i Farisei, sempre pronti lì a volermi far fuori per non scomodarsi a rive­dere il proprio interiore. Li rivedo adesso in mezzo a questa enorme folla che compiaciuta si gode uno spettacolo gratuito in questo gior­no, grazie proprio alla pervicacia di quei go­vernatori e conservatori della legge di Mosè, legge interpretata e non amata.
Rivedo Pietro, la sua fede, il suo "ascol­tare" i miei discorsi senza tanti ragionamen­ti. Mi aveva seguito perchè gli ero simpatico e mi voleva bene con l'affetto di un padre. Per me aveva lasciato moglie e figlia, con grande dolore, ma senza mai pentirsi. Mi amava più di ogni cosa al mondo, più di se stesso. Fu lui che con grande impeto mi gridò: "Sei tu il Messia, il figlio del Dio vivente". Verità ri­velatagli, per il suo cuore libero e sincero, dal Padre mio. E fu in quel momento, che con pro­fonda riconoscenza sentii che potevo fidarmi di lui, gli diedi il potere di sciogliere e di le­gare qualsiasi cosa in terra confermandogli che così sarebbe stato anche nei cieli, insomma gli diedi le chiavi del Regno.
Esattamente otto giorno dopo aver annun­ciato di essere il Messia, invitai Pietro, Gia­como e Giovanni sul monte Tabor. Arrivammo lì molto stanchi verso sera. Il sole radente il­luminava l'orizzonte. Sentii un gran bisogno di allontanarmi da loro per unirmi intimamente al Padre mio, sotto la volta di un cielo intes­suto di stelle e volli dare loro un segno della beatitudine Trinitaria. Con un gran bagliore, meglio che se fosse stato mezzogiorno, il mio corpo apparve loro condensato di una luce vi­vissima, riflessa dalla presenza del Padre mio. Con me erano Mosè ed Elia, rappresentanti della legge e della profezia. E Pietro, sempre lui così irruento e spontaneo, mi fece la pro­posta di voler fare tre tende!
E poi la festa dei Tabernacoli, quella che ricordava la dimora degli antichi Ebrei sotto le tende nel deserto. Ero lì anch'io ed era l'an­no ventinove. Seduto insieme con i miei apo­stoli assistevo alla grandiosa fiaccolata che concludeva gli otto giorni di celeIrazioni. Am­miravo le danze che facevano gareggiando nel saltellare il più a lungo possibile con in mano la fiaccola accesa. Ero affascinato da quella allegria popolare e guardando le grandi lampade appese agli altissimi candelabri pensavo, e confidai il mio pensiero agli Apostoli: "Io sono la vera luce del mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà sempre la lu­ce della vita eterna".
Ad un tratto si sentì un gran chiasso, al­cuni Farisei trascinavano una donna che ave­vano sorpresa mentre giaceva con un uomo che non era suo marito. Volevano lapidarla. Ma ciò che più mi fece male fu il ragionamento dei Farisei. Non erano lì per osservare con zelo la legge, come poteva apparire, ma l'avevano portata apposta per mettere me in difficoltà. Loro facevano presa sul fatto che io avevo pre­dicato l'amore ed il perdono cercando di spie­gare alla gente che il Padre mio mi aveva mandato solo per dare speranza ed amore... "Amatevi a vicenda, perdonate settanta volte sette, perché il Padre ha questi sentimenti nei vostri confronti e voi dovete averli nei con­fronti degli altri". Loro davano per scontato che io avrei perdonato e amato quella donna e quindi avrebbero potuto condannarmi a morte per non aver osservato la legge di Mosè. D'al­tronde se anch'io fossi stato dalla loro parte mi avrebbero presentato al popolo come un bu­giardo che dopo aver predicato l'amore ed il perdono, presente l'occasione di praticarlo, mi tiravo indietro per paura, comportandomi di­versamente da come avevo predicato. Tutto questo lessi nei loro cuori e nelle loro menti, mentre seduto per terra col dito tracciavo dei segni nella sabbia. Insistevano nel chiedermi un parere e così al di là di ogni legge delibe­rai che chi non avesse peccato poteva comin­ciare a tirare la prima pietra. Con questo mio dire desiderai rendere chiaro che nessun uo­mo può appellarsi a nessuna legge per giudi­care un altro uomo, poichè ci sono peccati che possono essere scoperti, come questo, ma ci sono molti altri peccati avvolti dalle tenebre della furbizia che l'uomo riesce perfettamente a nascondere. Se ne andarono lasciandomi quella donna raggomitolata per terra, piena di paura e stupore. In quel momento mi alzai e fui pienamente felice di poterle dare una ma­no rassicurante e con tutto l'affetto del cuore le dissi: "Donna va' in pace. E d'ora in poi non peccare più". Ella mi guardò con gli oc­chi pieni di lacrime e di gratitudine e nel suo sguardo lessi: "Grazie, maestro buono, il tuo amore mi ha guarita".
 

La Parola: Verità e Misericordia

Il mio coraggio nel testimoniare la verità mi attirò molte simpatie per cui molti chiese­ro di diventare miei discepoli. Ne scelsi set­tantadue e li mandai come i miei dodici a predicare.
Solo pochi mesi e la mia vita terrena si sarebbe conclusa. Così in quel tempo che mi rimaneva non parlai altro che dell'amore. Vo­levo arrivare a far vibrare il cuore degli uo­mini e di tutti gli uomini, anche di quelli che pensavano di essere vittime indiscutibili dei propri vizi e così raccontai la parabola del Fi­gliol Prodigo. Parlavo spesso in parabole, parabole dell'amore. Era una pedagogia adatta a quegli uomini semplici perché imparassero a mente i miei insegnamenti. Un padre, due figli con caratteri diversi. L'uno attratto dai piaceri della vita, l'altro ligio al dovere e per questo sicuro di dovere ricevere la lode dal pa­dre e deluso perché i fatti si svolsero diver­samente.
"Prendo tutto ciò che mi spetta", disse il primo al padre, "voglio godermi la vita, com­prarmi tutti i piaceri che il mondo mi offre" .
Il padre rispetta la libertà del figlio, gli concede il suo e lascia col cuore triste che var­chi la porta di casa, chissà forse per non rive­derlo più. L'amore lascia sempre libero l'amato di amare oppure no, questa è la radi­ce dell'amore stesso. Ma quel figlio, fatta l'e­sperienza della propria fragilità, si ritroverà solo ed affamato e dopo aver sperperato tut­to, sente e comprende che l'amore di suo padre, rimasto immutato nell'infinita Mi­sericordia, lo attende sempre. E così và e tro­va il padre suo ad attenderlo, senza rinfac­ciargli nulla, felice solo di poterlo riab­bracciare.
Così scorrono nella mente mia le imma­gini degli ultimi giorni della mia vita terrena, mentre il sangue gronda dalle mie ferite ed i dolori mi penetrano le ossa da non poterne più. Mi accorgo che ricordare mi fa bene, perché lo strazio delle mie carni trova in questa me­moria una risposta.
Ho amato tutti gli uomini miei fratelli e voglio dimostrare loro che continuo ad amar­li e li amerò sempre e darò tutto me stesso poi­che di più non posso.
 

A Gerusalemme

Ed ecco riprendo a ricordare il mio ingres­so trionfale nella Città Santa.
Montai su un asinello a circa un chilome­tro dal tempio, operando guarigioni tra le gri­da gioiose dei fanciulli. La folla non riuscì più a contenere l'entusiasmo; pochi giorni prima avevo risuscitato Lazzaro e questo era stato per loro il miracolo più strepitoso, quindi getta­rono i loro mantelli sotto i piedi della caval­catura e tagliati rami d'ulivo, li agitavano gridando: "Evviva, evviva, osanna al Figlio di Davide"!
Passato il torrente Cedron, alzai lo sguar­do verso il tempio candido di marmi e sfavil­lante di ori ai primi raggi del sole. I miei occhi si riempirono di lacrime; pensai che di quel tempio così maestoso non sarebbe rimasta pie­tra su pietra che non fosse distrutta. Gerusa­lemme sarebbe stata rasa al suolo e dei suoi abitanti chi ucciso e chi condotto in schiavitù. Entrai, accompagnato dal sempre crescente en­tusiasmo della folla, nell'atrio del tempio e mi vennero incontro alcuni Greci e con l'aiuto di Filippo che conosceva il greco seppi che vo­levano conversare con me. Parlai in perifrasi anche con loro. Raccontai che se il granello di frumento caduto in terra non muore, non porta frutto; come a dire: "Proprio quando mi uccideranno comincerò a vivere nei vostri cuo­ri". E proprio il Padre mio mi rese testimo­nianza, come durante il battesimo e sul Monte Tabor: si udì un rumore come di tuono e e una voce che scandiva queste parole: "Ho glori­ficato il tuo nome".
Ma nè i miei interlocutori, nè il popolo compresero. Così mentre loro continuavano ad inneggiare io ridiscesi verso il torrente Cedron e, tra i sentieri dell'Orto degli Ulivi, mi di­ressi a Betania ove andai a trovare il mio ami­co Lazzaro e passai la notte.
 

Verso la Pasqua

Il dì successivo mi alzai di buon mattino e mi recai regolarmente nel tempio a predicare. Era il lunedì tre aprile dell'anno trenta. I Farisei si erano nel frattempo organizzati escogitando ancora una volta di rendermi ri­dicolo agli occhi del popolo.
Mi sottoposero dunque un problema di tas­se: "E giusto o no pagarle?"
Il tranello era ben progettato, c'era Cesa­re di mezzo e quindi se avessi detto "si" avrei avuto il popolo contro che di fronte alle tasse versate ad un governatore tiranno e straniero pensava fosse meglio non pagare; se avessi det­to "no" a quel punto sarebbero intervenute le guardie e mi avrebbero eliminato per oltrag­gio al grande Cesare ... Ipocriti! Ciechi!
Mi feci portare una moneta del tributo con 1'effige di Cesare e spiegai loro che come c'è un dovere da compiere in una società civile al quale non si può e non ci si deve sottrarre, così c'è un dovere morale impresso nella coscien­za di ogni uomo al quale si deve soddisfare. Ma loro non la finirono più con le domande.
L'indomani, martedì quattro aprile, mi sottoposero il problema della risurrezione nel caso di una donna che nell'aldilà si ritrova con sette mariti. A quel punto non ne potei più: "Ipocriti, razza di vipere, i risorti saranno in­corrutibili ed immortali, non avranno l'uso fi­siologico della sessualità, la loro vita materiale scomparirà con le loro ceneri. Saranno uno con me nel Padre, purificati dall'amore sostanzia­le dello Spirito Santo".
Se ne andarono scuotendo il capo con l'a­ria di chi sa di ritornare alla carica. Fui preso da una violenta reazione contro la loro ipocri­sia e gli gridai contro: "Guai a voi, perchè chiudete il Regno dei Cieli in faccia agli uo­mini. Non solo voi non vi entrate, ma fate di tutto perchè gli altri non vi entrino. Ipocriti ciechi che pretendete di fare agli altri da guida! Serpenti, razza di vipere, sepolcri imbianca­ti! Non illudetevi di poter sfuggire al fuoco del­la Geenna". Dopo questo sfogo mi sentii sfinito e mi rifugiai all'interno del tempio.
Il mio animo si acquietò quando vidi una vecchietta mettere nella cassetta dell'elemosine pochi spiccioli. Mi rivolsi agli Apostoli facen­do loro notare quanto sia gradita l'offerta presa dal proprio necessario, molto di più di quella scrosciante che i ricconi fanno cadere dall'alto.
 

Il tradimento

Ma proprio a questo ricordo il mio pen­siero va a Giuda.
Poveretto, la mia sfuriata gli aveva dimo­strato che non possedevo alcun senso politico e si sentì deluso, lui che da me si aspettava la testimonianza di un maestro sapiente di que­sto mondo. Crollarono le sue ultime illusioni, così prese la decisione di aiutare i Farisei a mettermi a tacere. Ormai non gli interessavo più. Per lui ero solo un pazzo, un esaltato, e nient'altro. Così quella stessa sera mentre mi avviavo con gli altri apostoli verso l'Orto de­gli Ulivi, Giuda rimase in città per prendere i primi contatti con i capi dei Sacerdoti, stabi­lendo l'incontro per l'indomani sera. Quanta tristezza nel mio cuore! Giunti che fummo nel­l'Orto mi sedetti per terra e poggiando la schie­na in un albero di ulivo invitai gli apostoli ad ascoltarmi. "Mancano due giorni alla mia cro­cifissione", spiegai, "e sarà proprio a Pasqua".
Ma loro rimuginavano tutto ciò che era ac­caduto in quegli ultimi giorni ed erano confu­si, quasi non mi ascoltavano. Dopo l'ingresso trionfale a Gerusalemme, pensavano che quel popolo mi amava, mi aveva accettato come Messia e lì, fors'anche per un rifiuto dettato dal grande affetto che avevano per me, ferma­vano il loro pensiero. Preferii non insistere e li lasciai con le loro convinzioni, non me la sentivo di continuare a spiegare cose che non avrebbero mai compreso, tanto li avrebbero vissuti da lì a poco questi giorni, insieme a me e non era il caso di scoraggiarli più di quanto non lo fossero già. Ci appisolammo.
L' indomani mercoledì cinque aprile si ten­ne un ulteriore consiglio in casa di Caifa e si ribadì che bisognava catturarmi con inganno per evitare una sommossa nel popolo.
Cercarono subito di rintracciare Giuda il quale fu ammesso a partècipare al loro conci­liabolo.
Giuda che nella sua vita era stato abitua­to a dare un prezzo a tutto, volle darlo anche a me. E subito, prima ancora di impegnarsi definitivamente a consegnarmi nelle loro ma­ni, chiese: "Quanto mi date?". Gli risposero: "Trenta sicli d'argento".
Questo infatti era il prezzo che la legge ebraica stabiliva quale riscatto in caso che uno schiavo fosse ucciso. Giuda accettò: pensava di investire l'intera somma per acquistare un podere. Questa mercede mi fece molto più ma­le del tradimento in sé. Se mi avesse conse­gnato senza alcuna ricompensa, avrebbe guadagnato probabilmente la stima degli stes­si Farisei i quali avrebbero pensato che, delu­so dall'opinione ideale che lui si era fatta su di me e non valendo che niente ai suoi occhi, poco contava per lui che fossi ucciso o rima­nessi vivo e in ciò, alla richiesta insistente di consegnarmi nelle loro mani, avrebbe potuto aderire come chi, avendo la proposta di disfarsi di ciò che non bisogna, se ne disfà volentieri. Ma la degradazione più grande Giuda l'ebbe quando vendette non me, ma il suo ideale de­luso per trenta sicli d'argento. Riflettei molto su questo e pensai che il cuore dell'uomo chiuso alla grazia del suo Dio, non saprà far altro che vendere, comprare, perire. Lo vidi torna­re a sedere in mezzo agli altri apostoli. Rima­se molto male quando sentì che avevo dato a Pietro e Giovanni il compito di organizzare la cena per la Pasqua, perché a lui urgeva sape­re dove saremmo andati.
Così mi rivolsi ai due apostoli e parlai in modo molto enigmatico per far comprendere a Giuda che ero al corrente di suoi piani, per invitarlo a riflettere, ma non volle, pensando forse che ormai era troppo tardi per tornare indietro, dimostrando così di non avere fidu­cia nel mio amore, nel mio perdono.
 

L'ultima cena

La cena pasquale si consumò al primo pia­no vicino la casa di Caifa. Era la sera del gio­vedì sei aprile e seguìto dai miei apostoli mi recai nel luogo stabilito. Giuda assunse una espressione molto preoccupata vedendoci in­camminare proprio verso la casa di Caifa, sem­brava infatti che io lo conducessi a compiere il suo misfatto quanto prima possible. Si ras­sicurò quando, appena seduto a tavola dissi sor­ridendo: "Ho desiderato tanto mangiare questa Pasqua con voi, sapete, questa è l'ultima volta".
Il clima, almeno apparentemente, era ab­bastanza sereno, favorito anche dalle carni fu­manti, dalle ricche posate, dai vini pregiati. Gli apostoli non raccolsero ancora una volta il senso delle mie parole, loro pensavano che fosse terminato il periodo in cui avevo voluto vivere nascosto e che subentrava un'era nuo­va, l'era in cui avrei rivelato con potenza di essere il Messia, e così avrebbero finalmente potuto dimostrare a tutti che loro erano stati quei fortunati che l'avevano incontrato per pri­mo. Per questo cominciarono a discutere sul-
le cariche che dovevano dividersi. Interruppi il loro dire e dissi: "Colui che serve è il mag­giore tra di voi", mi cinsi al fianco un' asciu­gamano e cominciai a lavar loro i piedi.
Non appena gli fui innanzi, Pietro si sco­stò con veemenza dicendomi che mai si sarebbe sottoposto a questo per la grande stima che ave­va di me. Ma quando mi sentì dire che non avrebbe avuto parte con me se non mi avesse lasciato fare questo servizio, l'impetuoso Pietro quasi mi gridò: "Allora non solo i piedi, ma anche le mani ed il capo" .
Tenero dolce Pietro, dal viso scavato dalle lunghe rughe annerite da quel sole bruciante che lo attendeva ogni giorno sul lago, e dal cuore di bimbo che non fece altro che sogna­re per tutta la vita una buona pesca quotidiana per un sicuro pezzo di pane.
Lo guardai e gli dissi: "Chi ha fatto il ba­gno non ha bisogno che di lavarsi i piedi perché e pulito. E voi tutti siete puliti, tranne uno"
Giuda abbassò lo sguardo, era sgomento. E fu sempre Pietro che con foga mi chiese: "Sono forse io, Maestro?"
Lo rassicurai con lo sguardo e osservai uno per uno tutti gli altri Apostoli, li vidi in­terdetti, spauriti, non sapevano capacitarsi per quello che avevo detto: "Uno di voi mi tradirà" .
Intanto Giuda fors'anche per rompere quell'atmosfera gelida che si era creata e che gli pesava sul capo come una candanna, mi si avvicinò e mi chiese con atteggiamento altez­zoso: "Maestro, sono forse io?"
Gli risposi a bassa voce, per non farmi sentire dagli altri: "Tu l'hai detto".
Dopo ciò indietreggò è tornò a sedersi al suo posto.
Sono circa le due del pomeriggio. Devo puntare i piedi sui chiodi e scostare le spalle dal patibolo per prender un pò di respiro; le ferite causate dal flagello hanno aperte le mie carni fino all'osso e il sangue ed il sudore le hanno richiuse malamente, per questo ogni mo­vimento è uno strazio.
Il sole picchia forte e arroventa il legno, ma più ancora i chiodi. Il rumore della folla e ciò che sento gridare mi dilaniano più in pro­fondità.
Loro gridano: "A morte, a morte", ed il mio cuore a loro: "Muore il mio corpo, ma non il mio amore; vi amo e vi amerò per sempre! "
Con lo sguardo, per quello che ormai pos­sono permettermi i grumi di sangue che si so­no formati attorno agli occhi a causa della corona di spine, intravedo Giovanni, l'apostolo che si era donato a me agli albori dei suoi an­ni, e me lo rivedo così, quando posando il ca­po sul mio petto, mi chiese: "Signore chi è colui che ti tradirà?". "È quello al quale da­rò un pezzetto di pane intinto", avevo risposto.
Ecco, la mia mente ora torna in quella stanza con i miei dodici. E mentre tutte le ferite del mio corpo pulsano con dolore imma­ne, il mio cuore si dilata all'infinito per esser­mi fatto Eucarestia.
Questo è un momento d'infinito amore. "Prendete, questo è il mio corpo", dissi loro, spezzando il pane. E poi aggiunsi, por­gendo il calice: "Questo è il mio sangue, che sta per essere versato. Ripetete questo gesto in memoria di me".
Ecco, avevo istituito il Sacramento che mi avrebbe reso eternamente presente in mezzo a loro. "Amici, consumatemi in questo cibo prezioso, insieme, da uomini uniti dalla fede e dall'amore e non temete perché io sono la vostra forza. Ma prima di accostarvi a tale mensa abbiate sempre il cuore mondo, altri­menti fareste come Giuda, al quale diedi un pezzetto di pane intinto nel mio piatto e glielo misi sulla bocca dicendogli: "Quello che de­vi fare fallo presto" .
Egli infatti non disdegnò di prenderlo, ma subito dopo andò via, scomparendo nel buio della notte.
Appena uscì, la cena riprese in un'atmo­sfera di serenità. Non seppero spiegarlo nean­che loro perchè, ma tutti si sentirono il cuore libero e leggero, desiderosi solo di stringersi a me.
Li guardai con grande affetto e mi venne così spontaneo chiamàrli per la prima volta “fi­glioli”, li sentivo parte integrante di me, anzi li sentivo dentro di me, per questo mi donai a loro nell'unica forma in cui potevo donarmi tutto, con il mio corpo ed il mio sangue, la mia anima, la mia divinità, tutto e per sempre.
Così ripresi a parlare: "Figlioli, vedete ... ancora per poco sarò con voi, ma prima di tornare al Padre desidero dirvi che dovete amarvi gli uni gli altri, come io vi ho amati. Vedete come è bello sentirsi in consonanza con tutti i fratelli? È solo questo che desidero testimoniate, perchè solo da questo crederanno che siete stati con me e che io vi ho rivelato l'amore; lo stesso amore per il quale siete sta­ti creati e per il quale tra poco io darò la mia vita. Vedete... nella casa del Padre mio vi so­no molti posti, io vado a prepararvi un posto adatto per ciascuno di voi, affinché possiate un giorno venire anche voi dove sono io".
Tommaso che era il più razionale degli apostoli mi interruppe dicendomi: "Signore, ma se noi non sappiamo dove vai, come pos­siamo conoscere la via!" Gli risposi: "Io so­no la Via, la Verità e la Vita. Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me conoscerete anche il Padre; an­zi vi dico che fin da ora lo conoscete e lo ave­te visto".
E Filippo, dimostrando di avere capito meno degli altri, mi chiese: "Signore, mostraci il Padre e ci basta"
"Oh, Filippo, Filippo come puoi dire: - Mostraci il Padre? -, Io sono nel Padre e il Padre è in me, è lui che sta compiendo in me l'opera di redenzione, credimi, il Padre ed io siamo una cosa sola".
Detto questo sentii una grande nostalgia del Padre. Le parole sgorgavano così tenera­mente dal profondo del mio cuore, che gli apo­stoli, percependo il mio sentimento, esitavano ad interrompermi. Così spontaneamente pre­gai rivolgendomi direttamente a Lui, al Padre mio, dicendogli: "Padre santo, quando io ero con loro li custodivo, adesso è venuto il mo­mento di tornare a te, perciò ti prego custodi­scili tu, perchè abbiano la stessa gloria in me, della mia in te. Ti prego anche per tutti quelli che in me crederanno, affinché tutti siano una sola cosa, come tu Padre sei in me ed io in te".
 

Il Getsemani

Era già notte fonda quando mi riebbi e vol­li uscire fuori.
Sentivo in quel momento tutto l'amore per tutti gli uomini dei quali il Padre mio mi ave­va reso fratello, ma anche tutto il peso dei lo­ro peccati venirmi addosso.
Sostai un attimo sull'uscio, guardai l'im­mensità oscura e mi incamminai andando in­contro a quel buio nel quale l'anima mia si rispecchiava perfettamente. Mi incamminai co­me al solito verso l'Orto degli Ulivi, i miei apo­stoli mi seguirono a gruppetti. C'era un vento gelido ed un silenzio mortale. Si sentiva solo il rumore dei nostri passi sull'acciottolato. Nel cielo brillavano le stelle e la luna piena rende­va gli alberi degli ulivi argentati. Era uno spet­tacolo di straordinaria bellezza. Gli apostoli, lontani dal pensare che questa era l'ultima notte che avrebbero passato con me, si sdraiarono per terra e coprendosi con i loro mantelli si addormentarono. Li guardai e mi accorsi di soffrire anche per loro, mi erano stati amici, avevano rinunciato a tutto per seguirmi; mi ap­parivano come bambini che certi della custo­dia della madre si addormentano con abbandono. Li amai come non mai in quel mo­mento, avrei voluto accarezzarli e stringerli al mio petto ad uno ad uno, proprio come una madre fa con i suoi bambini.
Parlai loro con il cuore dicendo: "Amici miei, per causa mia vi perseguiteranno e vi metteranno a morte, devo mandarvi come pe­core in mezzo ai lupi; mi addolora, ma voi siete stati scelti quale eco per diffondere il gorgheg­giare della fonte che è lo Spirito di Verità e arriverete così poveri, così indifesi, fino ai con­fini della terra".
Ad un tratto mi accorsi che Pietro, Gia­como, Giovanni, non dormivano. Mi accostai a loro per rivelare il mio stato d'animo.
"L'anima mia è triste fino alla morte", dissi, "tenetemi un pò di compagnia".
La mia voce tremava, la paura di ciò che doveva accadermi mi faceva sudare. Sentii poi un gran bisogno di parlare con il Padre per es­sere rassicuarato da Lui, ma nel contempo sen­tivo l'esigenza di una presenza fisica e così, dilaniato fino allo spasimo, andavo e tornavo. Ad un tratto mi mancarono le forze e caddi in ginocchio e alzati gli occhi al cielo rividi la luna, le stelle sempre lì fedeli fin dalla fuga in Egitto quando illuminarono il sentiero a Ma­ria mia madre e a Giuseppe, compagne a me per tanti notti ed ora testimoni di un amore di­stillato goccia a goccia che trasudava dalla mia fronte e di colore scarlatto. "Padre, Padre!", ripetevo, "allontana da me questo calice!'
Ad un tratto rientrai in me, rividi il Pa­dre e alla di lui presenza mi sentii ricolmo di tutto il sudiciume che gli uomini passati pre­senti e futuri avevano e avrebbero racimolato coi loro peccati. La sfavillante presenza del Pa­dre rese la mia anima consapevole, non solo dell'oltraggio fatto dall'uomo a Colui che è l'a­more per essenza, ma anche di che cos'è l'uo­mo senza il suo Dio d'amore. Mi guardai così come apparivo al Padre e mi vidi un obbro­brio. Lui per consolarmi mandò uno dei suoi angeli che mi diede il sapore del mio cielo. "Amo tutto ciò che tu hai fatto, Padre mio e mio Dio", dissi, 'ma più ancora amo le tue creature che hai fatte ad immagine di me. Vo­glio restituirle al tuo amore. Voglio far riemer­gere in loro quel soffio di vita che sei tu, togliendo ogni ludibrio alla primordiale bel­lezza. E se per far ciò devo bere il calice fino alla feccia, sono pronto Padre mio' .
 

La cattura ed il processo

Mi rialzai cercando di riunire tutte le mie forze e mi portai dove erano i miei apostoli.
Li feci alzare e andai incontro al bacio di Giu­da. Così i soldati arrivati con gran chiasso mi presero e mi condussero via incatenato come un assassino.
Dovevo attendere lo spuntare del sole, del sole di questo giorno, perchè il Sinedrio si riu­nisse e quindi passai le rimanenti ore di que­sta ultima notte terrena in carcere, in compagnia dei custodi che bendatomi mi per­cuotevano e si prendevano gioco di me.
In quei momenti il mio pensiero improv­visamente andò a Giuda e lo vidi penzolare da un albero, con una corda al collo che smorzò l'ultimo grido dettato dalla disperazione e dal rimorso. Il figlio dell'orgoglio non volle am­mettere di avere sbagliato, di aver bisogno di perdono.
Lui, facendo sempre affidamento sulla sua intelligenza, si mise su un piano di autosuffi­cienza.- Doveva chiedere a me il perdono e non seppe farlo. Per orgoglio non seppe neanche perdonarsi. Se avesse atteso avrebbe visto che per dare questo perdono agli uomini, io morivo.
Finalmente spuntò l'alba di questo venerdì sette aprile e mi ritrovai nella sala del palazzo dove il Sinedrio, presieduto da Caifa, si era appena riunito.
Mi interrogarono: "Sei tu il Cristo?" "Io lo sono" , risposi con voce limpida e pacata.
Così mi giudicarono colpevole di bestem­mia e sentenziarono la condanna a morte. Mon era una condanna ufficiale, questa poteva in­fliggerla solo Pilato. Così fui mandato da lui guardato a vista dai soldati.
Faceva freddo e nell'atrio i servi dei som­mi sacerdoti avevano acceso un fuoco per scal­darsi. Ad un tratto sentii la voce di Pietro dire: "Non lo conosco".
Mi girai e lo vidi con gli occhi sgranati, si guardava attorno. Lo fissai intensamente negli occhi e in quello sguardo Pietro ritrovò la predizione che gli avevo fatto giorni prima: "Prima che il gallo canti mi rinnegherai tre volte".
Al contrario di Giuda, avrebbe voluto in quello stesso istante buttarmi le braccia al collo e dirmi: "Perdonami, Maestro", ma non po­tè farlo per paura che lo arrestassero, quindi leggendo nel mio sguardo il perdono uscì fuori e pianse amaramente.
 

Al Pretorio

Verso le sei del mattino fui condotto dal procuratore Ponzio Pilato che però, saputo che ero Galileo, mi mandò a sua volta da Erode Antipa, figlio di Erode il Grande.
Lì non risposi ad alcuna domanda. Non ne valeva la pena. Erode era un uomo molto frivolo ed era interessato a me solo per curiosità. Il mio silenzio lo fece montare su tutte le furie e dopo avermi violentemente insulta­to mi rivestì, schernendomi, di un manto di porpora e mi rimandò da Pilato. Questi era un uomo di potere, datogli in prestito da Tiberio il quale lo avrebbe destituito da lì a poco, ed aveva un carattere pusillamine. Pur riconoscen­domi innocente, non ebbe il coraggio di pro­clamarlo per paura della folla, ma non ebbe neanche il coraggio di proclamarmi colpe­vole.
"Sei tu re dei Giudei?", mi chiese.
"Il mio regno non è di questo mondo", risposi, "ma è vero, sono re, ma nel senso ul­traterreno, così come è scritto nei libri sacri".
La mia voce era molto pacata e da questo Pilato si rese conto che non aveva a che fare con un agitatore politico.
Continuai: "Si, sono re, per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità"
La parola "verità" fece presa nella men­te di Pilato. Pensò fossi uno dei soliti filosofi che si illudevano di trasformare il mondo con il pensiero anzicchè con la violenza. Così re­plicò: "Ma cos'è la Verità?", ma non aveva nessuna voglia di saperlo, perchè subito uscì fuori verso i Giudei offrendo loro la possibi­lità di rendermi libero secondo l'usanza di ri­lasciare per la Pasqua un prigioniero. E così mi barattarono con Barabba, un ladro, finito in carcere per omicidio.
Pilato, lavatosi le mani dopo avermi fatto flagellare, mi ripresentò alla folla urlante. I suoi occhi mi seguirono mentre camminavo giù nel cortile del Pretorio.
Così fui ridotto ad un'intera piaga. Secondo la legge di Mosè avrebbero do­vuto darmi quaranta colpi, anzi solitamente per rimanere dentro la legge ne davano uno in me­no, con una frusta formata con corde di cuoio che avevano alle estremità sfere di metallo e punte ad uncino, chiamata "flagrum". Ma a me ne diedero molti di più e non contenti di ciò mi posero sul capo un serto di spine rica­vato da sterpi di pimpinella che i soldati ave­vano messi da parte per accendere il fuoco durante le veglie. Colpendo con un bastone procurarono di farmela aderire attorno alla te­sta, soprattutto nella parte frontale. Così, quale cencio umano, Pilato ordinò che fossi condotto innanzi al popolo.
Per un attimo a tale vista la folla rimase smarrita e come uno scemare di tempesta ci fù un grande silenzio. Cercai con lo sguardo un volto amico, qualcuno che pur non poten­domi salvare dalla morte mi dicesse: "Gesù, figlio di Maria e del Dio di Abramo, ti amo e credo in te", e invece udii solo la voce di Pilato: "Ecco, questo è l'uomo, in lui non ho trovato nessuna colpa".
Ero sfinito, per farmi coraggio ripensai a tutti gli uomini amati dal Padre, ritornare a Lui, a tutti questi fratelli legati a me dal patto della nuova ed eterna alleanza. Per questo in fondo sono venuto: perchè il mio corpo si facesse via attraverso la quale poter tornare a casa.
Ad un tratto mi sentii osservato. Una don­na avvolta in uno scialle scuro lasciava intrav­vedere due grandi occhi che il pianto aveva reso simili a due laghi dalle acque profonde e cristalline.
Nessuno la riconobbe, ma io sì. Era Ma­ria, quella soprannominata "La peccatrice". "Signore, so che muori per i miei pecca­ti", mi diceva il suo cuore, "ma prima di te nessuno mi aveva amata per amore. D'ora in poi non potrò più vivere se non per amore, l'A­more che sei tu" .
La guardai e risposi col mio cuore al suo messaggio: "Guardami donna, muoio per da­re a tutti gli uomini ciò che ho dato a te: il per­dono e la vita eterna; consolati, il tuo fiume d'amore d'ora in poi troverà il suo letto per sfociare infine nel grande mare della mia Mi­sericordia".
Le urla dei sommi Sacerdoti mi scosse­ro: "Crocifiggilo, crocifiggilo", e da lì a po­co tutta la folla gridò così.
I soldati si avvicinarono e Pilato mi con­segnò a loro. Mi legarono il patibolo sulle spal­le, mi appesero al collo il cartello che indicava il motivo della condanna e mi spinsero insie­me ad altri due condannati per le vie della cit­tà in direzione del Calvario.
 

La via della Croce

Due soldati camminavano davanti a me e due dietro. Tutt' attorno c'era il popolo che pre­so dalla curiosità voleva godersi lo spettacolo fino in fondo.
Dopo aver percorso un breve tragitto mi accasciai a terra sotto il peso dell'asse che portavo sopra le spalle. I soldati che stavano die­tro di me m'aiutarono a rialzarmi con veemen­za e mi rimisero in piedi non curanti dei dolori lancinanti che mi procurava il legno sulle nu­de piaghe. Il sangue mi grondava da tutte le parti del corpo.
Pensai a mia madre e provai una fitta al cuore quando mi accorsi che mi veniva innanzi. Mi seguiva silenziosa, e il suo volto, per quanto addolorato, sprigionava una luce d'amore dalla quale mi sentii abbracciare.
"Madre, sii benedetta fra tutte le donne, perché hai aderito sempre alla volontà del Pa­dre mio" .
Mi trascinavo a stento e i soldati, veden­do che non riuscivo più a stare in piedi, fer­marono un uomo, un certo Simone di Cirene. Faceva il contadino, tornava stanco dal lavo­ro e per qualche denaro accettò di aiutarmi a portare l'asse.
Una donna si fece innanzi e con grande pietà mi asciugò il volto, mi sentii refrigerato e, per ricompensare la sua carità, le lasciai im­presso il mio volto nel panno. Altre donne mi consolavano durante il cammino con pianti e gemiti e, malgrado fossi allo stremo delle for­ze, le avvertii delle future sofferenze che si sa­rebbero abbattute su di loro e sui loro figli.
Il Calvario dista dal Pretorio meno di un chilometro. Così, giunti sul monte con la ve­locità di chi vuole sbarazzarsi della prova del delitto, buttato l'asse per terra, m'hanno spo­gliato completamente e disteso supino.
Un carnefice m'ha inchiodato i polsi al pa­tibolo e legata la fune al petto.
Altri due m'hanno innalzato sullo stipite già pronto e infisso al terreno.
Fermati i due assi della croce hanno al­lentato la fune e il mio corpo, scivolando ver­so il basso, s'è assestato con un orribile strattone. Poi hanno inchiodato anche i miei piedi.
Le immagini dei ricordi si esauriscono. C'è solo da attendere che tutto si compia. Ab­bassando lo sguardo rivedo mia madre soste­nuta dal braccio di Maria Maddalena e Maria di Cleofa. C'è anche Giovanni, lui solo fra tutti gli apostoli. Li affido l'uno all'altra, perché l'uno dell’altra avranno bisogno.
Ad un tratto sento una voce che mi dice: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso ed an­che noi". È uno dei due malfattori che sono crocifissi con me.
L'altro però lo rimprovera, dicendogli: "Noi moriamo per le nostre iniquità ed è giu­sto, ma lui che male ha fatto?" e poi rivolto a me dice: "Gesù, quando sarai arrivato nel tuo regno, ricordati di me".
Cosa sa lui di me e del mio regno? Ne avrà sentito parlare fra la folla solo durante il tra­gitto dal Pretorio al monte dove siamo croci­fissi, ma la predisposizione alla verità lo ha illuminato dentro, così mi percepisce per quello che sono, Re del Regno dei Cieli, e compren­de pure in così poco tempo che appartenere al mio regno è solo una questione di amore. Mi volto verso di lui e gli dico: "Oggi ti porterò con me in Paradiso".
Nello stesso istante il sole si eclissa, il cie­lo diventa buio, l'aria si fa molto calda, irre­spirabile, è l'afa che precede i temporali. Si fa un grande silenzio. In questo momento ho la percezione di essere uno di voi, ho appeso sì il peccato alla croce, ma ancora non basta. Sono gli ultimi momenti della mia vita. In que­st'attimo mi vedo tutto uomo ed il Padre mio non più dentro di me, ma di fronte a me, tutto Dio nella meraviglia della sua perfezione; ho un grido: "Dio mio, Dio mio perchè mi hai abbandonato?" .
Lo chiamo "Dio mio" perchè proprio ho bisogno di gridarla questa verità. Io uomo fatto peccato e lui il mio Dio. Così imploro il per­dono per i miei crocifissori e per tutti gli uomini, mi porgo a lui ed in nome di tutti gli uo­mini lo richiamo: "Padre", gli dico, "ades­so che tutto è compiuto, depongo nelle tue mani il mio spirito, torniamo a casa perché ormai i miei fratelli conoscono la via e potranno, se lo vorranno, abitare nelle stanze che tu, o Pa­dre, hai loro preparato".
Il Padre mi apre il suo seno e mi dice: "Vieni servo buono e fedele, vieni fratello dei fratelli, vieni amore mio incarnato".
Questa è l'agonia. Torno a guardare la fol­la, questa volta oppressa, impaurita per l'at­mosfera che si è creata attorno. Al di là di ogni ragione la natura creata per amare si ribella nel vedere l'amore crocifisso, ma al di là di ogni ragione, proprio perché crocifisso, l'a­more può aprirsi all'infinito poiché non lo fa­rà più con le braccia, ma con il cuore il quale e il solo che amando si dilata all'infinito.
Sono le ore quindici, emetto l'ultimo re­spiro. Muoio. Ma risorgerò, non vi lascio orfani, vi manderò lo Spirito Consolatore che vi insegnerà ad amare come Io vi ho amati.
 

RIFLESSIONE

La persona "uomo" sta in mezzo tra il Padre Creatore e il Cristo Redentore. Attor­no a lui vi è uno spazio che si chiama libero arbitrio.
Se l'uomo non distende le sue braccia a mo' di crocifisso, all'Uno per ritrovare l' Al­tro, non potrà mai essere inserito nel Proget­to di DIO, che è quello di dargli una Dimora stabile ed eccellente per il suo spirito. L'uomo può anche rifiutarsi di entrare a far parte di questa perfezione e fuggire attra­verso quegli spazi che Dio gli ha lasciato at­torno e che si chiamano libertà. Ma sarà una meteora, che rimarrà a roteare nell'infinito spa­zio, che non è lo Spazio Infinito, e lì rischierà di permanere in una eternità dove, al di là della luce del sole, c'è solo tenebra.
Fratelli, se vivremo nei cieli di Cristo, Cristo ci renderà suo cielo e, ad imitazione del Serafico Padre, saremo gaudenti uomini di Pa­radiso. A lode di Cristo e del Santo Francesco d'Assisi. Amen.


Articoli correlati per categorie



1 commento:

  1. Che dire - leggere di Gesù che parla in prima persona è fantastico - Brava come sempre PAOLA - Grazie
    Umberto

    RispondiElimina