venerdì 11 luglio 2014

LA VITA DI SAN BENEDETTO - Testo integrale tratto dal Libro II dei «Dialoghi» di San Gregorio Magno



Indice

Inizio del libro
1. Il primo miracolo
2. Tentazione e vittoria
3. Il segno della croce
4. Correzione del monaco dissipato
5. L’acqua dalla pietra
6. Il ferro che torna nel manico
7. Mauro cammina sull’acqua
8. Il pane avvelenato
9. La pietra che diventa leggera
10. L’incendio della cucina
11. Il piccolo monaco schiacciato
12. Il cibo preso trasgredendo la Regola
13. Il fratello del monaco Valentiniano
14. La simulazione del re Totila
15. La profezia per Totila
16. Il chierico liberato dal demonio
17. Predice la distruzione del suo monastero
18. Il furto del bariletto di vino
19. I fazzoletti delle monache
20. Il pensiero superbo del piccolo monaco
21. La farina alle porte del monastero
22. Una fabbrica regolata in visione
23. Le monache riconciliate per mezzo del Sacrificio
24. Il piccolo monaco fuggitivo
25. Il monaco e il dragone
26. L’elefantiaco risanato
27. Il debitore pagato
28. La bottiglia che non si rompe
29. L’anfora vuota riempita d’olio
30. Il monaco liberato dal demonio
31. Uno sguardo liberatore
32. Il fanciullo risuscitato
33. Il miracolo di sua sorella Scolastica
34. L’anima di sua sorella vola al cielo
35. La visione del mondo e dell’anima di Germano
36. La regola monastica
37. Il passaggio all’eternità
38. La pazza risanata nello Speco

Inizio del libro

Gregorio: seguitando le nostre conversazioni, parleremo oggi di un uomo veramente insigne, degno di ogni venerazione. Si chiamava Benedetto questo uomo e fu davvero benedetto di nome e di grazia. Fin dai primi anni della sua fanciullezza era già maturo e quasi precorrendo l’età con la gravità dei costumi, non volle mai abbassare l’animo verso i piaceri.
Se l’avesse voluto avrebbe potuto largamente godere gli svaghi del mondo, ma egli li disprezzò come fiori seccati e svaniti.
Era nato da nobile famiglia nella regione di Norcia. Pensarono di farlo studiare e lo mandarono a Roma dove era più facile attendere agli studi letterari. Lo attendeva però una grande delusione: non vi trovò altro, purtroppo, che giovani sbandati, rovinati per le strade del vizio.
Era ancora in tempo. Aveva appena posto un piede sulla soglia del mondo: lo ritrasse immediatamente indietro. Aveva capito che anche una parte di quella scienza mondana sarebbe stata sufficiente a precipitarlo intero negli abissi.
Abbandonò quindi con disprezzo gli studi, abbandonò la casa e i beni paterni e partì, alla ricerca di un abito che lo designasse consacrato al Signore. Gli ardeva nel cuore un’unica ansia: quella di piacere soltanto a Lui. Si allontanò quindi così: aveva scelto consapevolmente di essere incolto, ma aveva imparato sapientemente la scienza di Dio.
Certamente io non posso conoscere tutti i fatti della sua vita. Quel poco che sto per narrare, l’ho saputo dalla relazione di quattro suoi discepoli: il reverendissimo Costantino, suo successore nel governo del monastero; Valentiniano, che fu per molti anni superiore del monastero presso il Laterano; Simplicio, che per terzo governò la sua comunità; e infine Onorato, che ancora dirige il monastero in cui egli abitò nel primo periodo di vita religiosa.

1. Il primo miracolo

Abbandonati dunque gli studi letterari, Benedetto decise di ritirarsi in luogo solitario. La nutrice però che gli era teneramente affezionata, non volle distaccarsi da lui e, sola sola, ottenne di poterlo seguire. E partirono.
Giunti alla località chiamata Enfide, quasi costretti dalla carità di molte generose persone, dovettero interrompere il viaggio; presero così dimora presso la chiesa di S. Pietro.
Qualche giorno dopo, la nutrice aveva bisogno di mondare un po’ di grano e chiese alle vicine che volessero prestarle un vaglio di coccio. Avendolo però lasciato sbadatamente sul tavolo, per caso cadde e si ruppe i due pezzi. Ed ora? L’utensile non era suo, ma ricevuto in prestito: cominciò disperatamente a piangere.
Il giovanotto, religioso e pio com’era, alla vista di quelle lacrime, ebbe compassione di tanto dolore: presi i due pezzi del vaglio rotto, se ne andò a pregare e pianse. Quando si rialzò dalla preghiera, trovò al suo fianco lo staccio completamente risanato, senza un minimo segno d’incrinatura: «Non c’è più bisogno di lacrime – disse, consolando dolcemente la nutrice – Il vaglio rotto eccolo qui, è sano!».
La cosa però fu risaputa da tutto il paese e suscitò tanta ammirazione che gli abitanti vollero sospendere il vaglio all’ingresso della chiesa: doveva far conoscere ai presenti e ai posteri con quanto grado di grazia Benedetto, ancor giovane, aveva incominciato il cammino della perfezione.
Il vaglio restò lì per molti anni, a vista di tutti, e fino al tempo recente dei Longobardi, è rimasto appeso sopra la porta della chiesa.
Benedetto però non amava affatto le lodi del mondo: bramava piuttosto sottoporsi a disagi e fatiche per amore di Dio, che non farsi grande negli onori di questa vita. Proprio per questo prese la decisione di abbandonare anche la sua nutrice e nascostamente fuggì. Si diresse verso una località solitaria e deserta chiamata Subiaco, distante da Roma circa 40 miglia, località ricca di fresche e abbondantissime acque, che prima si raccolgono in un ampio lago e poi si trasformano in fiume.
Si affrettava dunque a passi svelti verso questa località, quando si incontrò per via con un monaco di nome Romano, che gli domandò dove andasse.

Conosciuta la sua risoluzione, gli offrì volentieri il suo aiuto. Lo rivestì quindi dell’abito santo, segno della consacrazione a Dio, lo fornì del poco necessario secondo le sue possibilità e gli rinnovò la promessa di non dire il segreto a nessuno.
In quel luogo di solitudine, l’uomo di Dio si nascose in una stretta e scabrosa spelonca. Rimase nascosto lì dentro tre anni e nessuno seppe mai niente, fatta eccezione del monaco Romano. Questi dimorava in un piccolo monastero non lontano, sotto la guida del padre Adeodato; con pie industrie, cercando il momento opportuno, sottraeva una parte della sua porzione di cibo e in giorni stabiliti la portava a Benedetto.
Dal monastero di Romano però non era possibile camminare fino allo speco, perché sopra di questo si stagliava un’altissima rupe. Romano quindi dall’alto di questa rupe, calava abilmente il pane con una lunghissima fune, a cui aveva agganciato un campanello: l’uomo di Dio sentiva, usciva fuori e lo prendeva.
Il bene però non piace mai allo spirito maligno: sentiva rabbia della carità dell’uno e della refezione dell’altro. Un giorno, osservando che veniva calato il pane, scagliò un sasso e ruppe il campanello. Romano però continuò lo stesso, come meglio poteva, a prestare questo generoso servizio.
Dio però, che tutto dispone, volle che Romano sospendesse la sua laboriosa carità e più ancora volle che la vita di Benedetto diventasse luminoso modello agli uomini: questa splendente lucerna, posta sopra il candelabro, doveva ormai irradiare la sua luce a tutti quelli che sono nella casa di Dio.
Per questo il Signore stesso si degnò di trovarne la via. Un certo sacerdote, che abitava parecchio distante, si era preparata la mensa nel giorno di Pasqua. All’improvviso ecco una visione: è il Signore che parla: «Tu ti sei preparato cibi deliziosi, e va bene: ma guarda là; vedi quei luoghi? Lì c’è un mio servo che soffre la fame».
Il buon sacerdote balzò in piedi e nello stesso giorno solenne di Pasqua, raccolti gli alimenti che aveva preparato per sé, volò nella direzione indicatagli. Cercò l’uomo di Dio tra i dirupi dei monti, tra le insenature delle valli e tra gli antri delle grotte: lo trovò finalmente, nascosto nella spelonca.
Tutti e due volarono prima di tutto al Signore, innalzando a Lui benedizioni e preghiere. Sedettero poi, insieme, scambiandosi dolci pensieri sulle cose del cielo.
«Ora – disse poi il sacerdote – prendiamo anche un po’ di cibo, perché oggi è Pasqua». «Oh, sì, – rispose Benedetto – oggi è proprio Pasqua per me, perché ho avuto la grazia di vedere te». Così lontano dagli uomini il servo di Dio ignorava persino che quel giorno fosse la solennità di Pasqua.
«Ma oggi è veramente il giorno della Risurrezione del Signore – riprese il sacerdote – e dunque non è bene che tu faccia digiuno. Io sono stato inviato qui proprio per questo, per cibarci insieme, da buoni fratelli, di questi doni che l’Onnipotenza di Dio ci ha messo davanti».
E così, con la lode di Dio sulle labbra, desinarono. Finita poi la refezione e scambiata qualche altra buona parola, il sacerdote fece ritorno alla sua chiesa.
Poco tempo dopo anche alcuni pastori scoprirono Benedetto nascosto dentro lo speco. Avendolo intravisto in mezzo alla boscaglia, coperto com’era di pelli, credettero sulle prime che si trattasse di una bestia selvatica. Ma riconosciutolo poi come un vero servo di Dio, molti di essi, che veramente eran pari alle bestie, mutati dalla grazia, si diedero a santa vita.
In seguito a questi fatti la fama di lui si diffuse in tutti i paesi vicini. E le visite sempre più diventarono frequenti: gli portavano cibi per sostenere il suo corpo e ripartivano col cuore ripieno di sante parole, alimento di vita per l’anima loro.

2. Tentazione e vittoria

Un giorno mentre era solo, ecco presentarsi il tentatore. Era sotto forma di un uccello piccolo e nero, un merlo; svolazzava intorno al suo corpo e insistente e importuno gli sbatteva le ali sul viso, tanto che se l’avesse voluto l’avrebbe potuto afferrar colle mani. Fece un segno di croce e l’uccello si allontanò.
Ma appena scomparso il merlo lo invase una tentazione impura così forte, come il santo uomo non aveva provato mai. Un tempo egli aveva veduta una donna ed ora lo spirito maligno turbava con triste ricordo la sua fantasia. E fiamma sì calda il diavolo suscitò nell’animo del servo di Dio con quella appariscente bellezza, che egli non riusciva più a contenere il fuoco dell’amore impuro e già quasi vinto stava per decidersi ad abbandonare lo speco. Fu un istante: illuminato dalla grazia del cielo, ritornò improvvisamente in se stesso. Visti lì presso rigogliosi e densi cespugli di rovi e di ortiche, si spogliò delle vesti e si gettò, nudo, tra le spine dei rovi e le foglie brucianti delle ortiche.
Si rotolò a lungo là in mezzo e quando ne uscì era lacerato per tutto il corpo; ma con gli strappi della pelle aveva scacciato dal cuore la ferita dell’anima, al piacere aveva sostituito il dolore; quel bruciore esterno imposto volutamente per pena, aveva estinto la fiamma che ardeva all’interno, e così, mutando l’incendio, aveva vinto l’insidia del peccato.
Da quel giorno in poi, come egli stesso in seguito confidava ai discepoli, fu talmente domato l’incentivo della sensualità, da non sentirlo affatto mai più.
Dopo ciò, molti abbandonando la vanità del mondo, accorrevano gioiosi sotto la sua disciplina e giustamente, libero ormai dall’insidia della tentazione, egli poteva farsi per gli altri maestro di sante virtù. Del resto anche Mosè aveva avuto da Dio questo comando: che i leviti dai venticinque anni in su prestino i servizi nel tempio e dopo i cinquanta diventino custodi dei vasi sacri dell’altare.
Pietro: non capisco bene il significato del passo che hai ricordato: vorrei che me lo spiegassi un po’ meglio.
Gregorio: eppure mi sembra abbastanza chiaro, Pietro; nella gioventù le tentazioni della carne sono più impetuose, ma dopo i cinquant’anni l’ardore del sangue comincia a raffreddarsi. I vasi sacri poi sono le menti dei fedeli.
Gli eletti quindi, finché sono ancora nel periodo delle tentazioni, è meglio che stiano in sott’ordine, che prestino i servizi e si affatichino nell’obbedienza e nel lavoro; quando poi nell’età più matura il calore della tentazione scompare, allora essi diventano custodi dei vasi sacri, diventano cioè guide e maestri delle anime.
Pietro: ecco, adesso la tua spiegazione mi soddisfa. Ho capito benissimo il significato della tua citazione. Ora però, giacché mi hai raccontato gli inizi della vita di questo giusto, ti dispiace di raccontarmi il resto?

3. Il segno della croce

Gregorio: la tentazione dunque fu superata. Libero da quella, l’uomo di Dio, sempre con più abbondanza dava frutti vigorosi di virtù, proprio come avviene in un terreno mondato dalle spine e ben coltivato. Conduceva vita veramente santa, e per questo la sua fama si andava divulgando dovunque. Non molto lontano dallo speco viveva una piccola comunità di religiosi, il cui superiore era morto di recente. Tutti insieme questi uomini si presentarono al venerabile Benedetto e lo pregarono insistentemente perché assumesse il loro governo. Il santo uomo si rifiutò a lungo, con fermezza, soprattutto perché era convinto che i loro costumi non si sarebbero potuti mai conciliare con le sue convinzioni. Ma alla fine, quando proprio non poté più resistere alla loro insistenza, acconsentì.
Li seguì dunque nel loro monastero. Cominciò subito a vigilare attentamente sulla vita regolare e nessuno si poteva permettere, come prima, di flettere a destra o a sinistra dal diritto sentiero dell’osservanza monastica. Questo li fece stancare e indispettire, e, stolti com’erano, si accusavano a vicenda di essere andati proprio loro a sceglierlo per loro abate; la loro stortura cozzava troppo contro la norma della sua rettitudine.
Si resero conto che sotto la sua direzione le cose illecite non erano assolutamente permesse e d’altra parte le inveterate abitudini non se la sentivano davvero di abbandonarle: è tanto difficile voler impegnare per forza a nuovi sistemi anime di incallita mentalità!
E cosa purtroppo notoria che chi si comporta male trova sempre fastidio nella vita dei buoni; e così quei malvagi si accordarono di cercar qualche mezzo per togliergli addirittura la vita. Ci furono vari pareri e infine decisero di mescolare veleno nel vino, e a mensa, secondo una loro usanza, presentarono all’abate per la benedizione il recipiente di vetro che conteneva la mortale bevanda.
Benedetto alzò la mano e tracciò il segno della croce.
Il recipiente era sorretto in mano ad una certa distanza: il santo segno ridusse in frantumi quel vaso di morte, come se al posto di una benedizione vi fosse stata scagliata una pietra. Comprese subito l’uomo di Dio che quel vaso non poteva contenere che una bevanda di morte, perché non aveva potuto resistere al segno che dona la vita.
Si alzò sull’istante, senza alterare minimamente la mitezza del volto e la tranquillità della mente, fece radunare i fratelli e disse semplicemente così: «Io chiedo al Signore che voglia perdonarvi, fratelli cari: ma come mai vi è venuto in mente di macchinare questa trama contro di me? Vi avevo detto che i nostri costumi non si potevano accordare: vedete se è vero? Adesso dunque basta così; cercatevi pure un superiore che stia bene con la vostra mentalità, perché io, dopo questo fatto, non me la sento più di rimanere con voi».
E se ne tornò alla grotta solitaria che tanto amava, ed abitava lì, solo solo con se stesso, sotto gli occhi di Colui che dall’alto vede ogni cosa.
Pietro: non capisco bene l’espressione che hai detto: «abitava solo solo con se stesso».
Gregorio: ti spiego meglio. Se il santo uomo avesse voluto tenere per forza lungo tempo sotto il suo governo quei monaci che erano unanimi contro di lui ed avevano abitudini tanto diverse dalle sue, forse sarebbe stato spinto a sospendere la sua austerità e a perdere la sua costante tranquillità, distogliendo l’occhio della mente dalla radiosa contemplazione. Forse, esaurito dalle quotidiane riprensioni e castighi che era necessario dare, avrebbe atteso con minore slancio al suo perfezionamento, e forse avrebbe finito col perdere di vista la propria anima, senza riuscire a guadagnare quella degli altri.
Certo, ogni volta che siamo fuori di noi stessi a causa di ansiose preoccupazioni, siamo con noi e non siamo con noi, perché non vedendo più bene noi stessi, ci andiamo svagando in altre vanità.
Si può dire, per esempio, che era in se stesso quel tale che emigrò in lontana regione, sciupò l’eredità ricevuta, si mise a servizio di un cittadino, fu relegato a pascere porci e mentre questi mangiavano le ghiande, lui disgraziato soffriva di fame? In seguito, però, quando lo invase il ricordo dei beni perduti, di lui è scritto così: «Tornato in sé, disse: quanti mercenari in casa di mio padre abbondano di pane!». Vuol dire che prima era uscito da sé, altrimenti da dove avrebbe fatto ritorno a sé?
Mi è piaciuto dunque, parlando di questo venerabile uomo, usare l’espressione «abitò con se stesso», perché sempre vigilante nel custodirsi, sempre sotto gli occhi del Creatore, esaminando e considerando unicamente se stesso, non divagò mai fuori di sé l’occhio dell’anima sua.
Pietro: e allora come si spiega quello che è scritto di Pietro Apostolo che, liberato dal carcere, «tornò in sé e disse: ora capisco che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha salvato dalle mani di Erode e di tutta la gente giudaica che era in attesa»?
Gregorio: Caro Pietro, in due maniere noi possiamo uscire da noi stessi: o precipitando sotto di noi per il peccato di pensiero o innalzandoci al di sopra di noi per la grazia della contemplazione. Colui, per esempio, che invidiò i porci, cadde al di sotto di sé, a causa della sua mente svagata ed immonda. Pietro invece che dall’angelo fu sciolto dalle catene, e fu rapito nell’estasi, anche lui, certo, uscì da se stesso, ma fu innalzato al di sopra di sé. Ambedue poi ritornarono in se stessi, l’uno quando dalla sua condotta colpevole riprese padronanza del suo cuore, l’altro quando dalla sublimità della contemplazione riacquistò la comune coscienza come l’aveva prima.
È dunque esatto dire che il venerabile Benedetto in quella solitudine abitò con se stesso, perché tenne in custodia se stesso entro i limiti della propria coscienza. Quando invece lo slancio della contemplazione lo rapì in alto, allora certamente lasciò se stesso, ma al di sotto di sé.
Pietro: è proprio interessante quello che dici. Ora però vorrei forti un’altra domanda. Vorrei che mi dicessi se ha fatto bene a lasciare i fratelli, dopo aver accettato di governarli.
Gregorio: senti, Pietro: io ritengo che se in un gruppo di persone cattive ve ne sia qualcuna cui si possa portar dell’aiuto, allora è bene che si sopportino con serena pazienza. Ma quando non si vede neanche l’ombra di un buono da cui sperare un po’ di frutto, allora è proprio tempo e lavoro sprecato tutto quello che si fa per i cattivi, specialmente poi se vi siano a portata vicina altre attività che giovino maggiormente alla gloria di Dio.
Su chi sarebbe rimasto a vigilare il santo, quando vedeva che tutti senza eccezione eran d’accordo a perseguitarlo? E poi dobbiamo anche tener presente questo: che spesso i santi, quando si accorgono che ove sono lavorano inutilmente, maturano nell’anima la deliberazione di andarsene altrove, in luogo più fecondo alle fatiche dell’apostolato. Persino Paolo, quel nobilissimo predicatore che bramò di morire per vivere con Cristo, per il quale la vita era Cristo e la morte un guadagno, il quale non solo bramò la sofferenza e la lotta per sé, ma ne infervorò anche gli altri, ebbene anche lui, perseguitato in Damasco, per poter evadere dalle mura cercò una fune e una sporta e di nascosto volle esser calato fuori. Avremmo il coraggio di sostenere che Paolo abbia avuto paura della morte, mentre lo sentiamo affermare di desiderarla per amore di Cristo? Certamente no. Fu invece così, che, prevedendo in quel luogo ben poco frutto con grandi fatiche, volle conservare la vita per altro luogo con fatiche più fruttuose. Quel forte campione di Dio sdegnò rimanere chiuso di dentro le mura e andò in cerca del campo di battaglia all’aperto.
Ti accorgerai presto, se avrai piacere di ascoltarmi ancora, che anche il venerabile Benedetto lasciò per conto loro quei pochi indocili vivi, ma risuscitò altrove moltissimi cuori dalla morte dell’anima.
Pietro: vedo bene che è proprio così come dici: hai fatto dei ragionamenti molto logici e li hai anche convalidati con appropriata testimonianza biblica.
Adesso allora riprendiamo, ti prego, il racconto della vita di così grande Padre.
Gregorio: Nella sua solitudine Benedetto progrediva senza interruzione sulla via della virtù e compiva miracoli. Attorno a sé aveva radunati molti al servizio di Dio onnipotente, in sì gran numero, che, con l’aiuto del Signore Gesù Cristo vi poté costruire dodici monasteri, a ciascuno dei quali prepose un Abate e destinò un gruppetto di dodici monaci. Trattenne con sé alcuni pochi ai quali credette opportuno dare personalmente una formazione più completa.
Anche alcuni nobili e religiosi romani cominciarono ad accorrere a lui per affidargli i propri figli, perché li educasse al servizio di Dio onnipotente. Tra questi Eutichio gli affidò il suo Mauro e il patrizio Tertullo il suo Placido: due figlioli veramente di belle speranze.
Mauro, essendo già adolescente e dotato di sante abitudini, divenne subito l’aiutante del maestro. Placido invece era ancora un bambino, con tutte le caratteristiche proprie di quell’età.

4. Correzione del monaco dissipato

In uno di quei monasteri che aveva costruito nei dintorni c’era un monaco che non era mai capace di stare alla preghiera: tutte le volte che i fratelli si radunavano per fare orazione quello prendeva la via dell’uscita e con la mente svagata si occupava in faccenduole materiali di nessuna importanza. Il suo abate l’aveva già richiamato diverse volte: alla fine lo condusse dall’uomo di Dio, il quale pure lo rimproverò assai aspramente di tanta leggerezza. Ritornò al monastero, ma l’ammonizione fece presa su di lui a mala pena per un paio di giorni; il terzo giorno, ritornato alle vecchie abitudini, ripigliò nuovamente a gironzolare durante il tempo della preghiera. L’abate riferì nuovamente la cosa al servo di Dio. Questi rispose: «Adesso vengo, e ci penserò io stesso a mettergli giudizio».
Giunse Benedetto in quel monastero. Nell’ora stabilita, proprio mentre i monaci, finita la recita dei salmi, si applicavano alla meditazione, egli osservò che una specie di fanciulletto, piccolo e nero, traeva fuori quel monaco che non era capace di stare in preghiera, tirandolo per il lembo del vestito. Domandò allora sottovoce all’abate del monastero che si chiamava Pompeiano e al servo di Dio Mauro: «Vi siete mica accorti chi è che tira fuori questo monaco?». Risposero: «No, Padre». Egli soggiunse: «Preghiamo, perché anche voi possiate vedere a chi egli vada dietro». Dopo due giorni di preghiera il monaco Mauro lo vide, Pompeiano invece non vide niente.
Il giorno dopo, uscito dall’oratorio al termine della preghiera, il servo di Dio incontrò il monaco che stava fuori; allora lo frustò aspramente con una verga: era l’unico rimedio per la leggerezza di quella mente!
Da quel giorno in poi non fu mai più influenzato dalla suggestione del piccolo negro, ma perseverò fermo e raccolto nell’orazione. E l’antico nemico non osò più influenzare sul suo pensiero, come se quelle frustate le avesse subite personalmente lui.

5. L’acqua dalla pietra


Tra i monasteri che aveva costruiti ce n’erano tre situati in alto tra le rupi dei monti e per i poveri fratelli era molto faticoso dover discendere tutti i giorni al lago per attingere l’acqua; tanto più che essendo il fianco della montagna tagliato a precipizio, C’era da aspettarsi prima o dopo qualche grave pericolo per chi discendeva. Si misero dunque d’accordo i monaci dei tre monasteri e si presentarono al servo di Dio. «Noi – dissero – dobbiamo scendere tutti i giorni fino al lago per prender l’acqua e questo lavoro sta diventando un po’ troppo difficoltoso: noi saremmo del parere che i nostri tre monasteri siano trasferiti altrove». Egli li consolò con dolcezza e con un sorriso li congedò.
Nella stessa notte, preso con sé quel piccolo Placido, di cui ho già parlato più sopra, salì su quei rapidi monti, e si fermò lungamente a pregare.
Terminata la preghiera collocò in quel punto tre pietre, come segno e senza che nessuno si accorgesse di nulla, fece ritorno al suo monastero.
In uno dei giorni seguenti i monaci tornarono da lui per sentire cosa avesse deciso sulla necessità dell’acqua. Rispose: «Andate qua sopra, su questi monti, e dove troverete tre pietre poste una sull’altra, lì scavate un poco. A Dio Onnipotente non manca la possibilità di far scaturire acqua anche sulla cima di questa montagna, degnandosi di liberarvi dalla fatica di un viaggio tanto pericoloso. Andate».
Partirono e trovarono la rupe del monte che Benedetto aveva descritta: era già tutta trasudante acqua. Vi scavarono una buca che subito rigurgitò di acqua e questa scaturì così abbondante che fino ad oggi copiosamente scorre lungo le pendici, scendendo fino alla valle.

6. Il ferro che torna nel manico

Si era presentato a chiedere l’abito monastico un Goto. Era un povero uomo di scarsissima intelligenza, ma il servo di Dio, Benedetto, lo aveva accolto con particolare benevolenza.
Un giorno il santo gli fece dare un arnese di ferro che per la somiglianza ad una falce viene chiamato falcastro, perché liberasse dai rovi un pezzo di terra che intendeva poi coltivare ad orto. Il terreno che il Goto si accinse immediatamente a sgomberare si stendeva proprio sopra la ripa del lago. Quello lavorava vigorosamente, tagliando con tutte le forze cespugli densissimi di rovi, quando ad un tratto il ferro sfuggì via dal manico e andò a piombare nel lago, proprio in un punto dove l’acqua era così profonda da non lasciare alcuna speranza di poterlo ripescare.
Tutto tremante per la perdita dell’utensile, il Goto corse dal monaco Mauro, gli rivelò il danno che aveva fatto e chiese di essere punito per questa colpa. Mauro ebbe premura di far conoscere l’incidente al servo di Dio e Benedetto si recò immediatamente sul posto, tolse dalle mani del Goto il manico e lo immerse nelle acque. Sull’istante il ferro dal profondo del lago ritornò a galla e da se stesso si andò ad innestare nel manico. Rimise quindi lo strumento nelle mani del Goto, dicendogli: «Ecco qui, seguita pure il tuo lavoro e stattene contento!».

7. Mauro cammina sull’acqua

Un giorno mentre il venerabile Benedetto sedeva nella sua stanza, il piccolo Placido, già altre volte nominato, usci ad attingere l’acqua nel lago. Immergendo sbadatamente il secchiello che reggeva per mano, trascinato dalla corrente cadde anche lui nell’acqua e l’onda lo travolse trasportandolo lontano da terra, quasi quanto un tiro di freccia.
L’uomo di Dio benché fosse dentro la cella si accorse immediatamente del fatto. Chiamò in gran fretta Mauro e gli gridò: «Corri, fratello Mauro, corri, perché Placido, che è andato a prender l’acqua, è cascato nel lago, e le onde già se lo stanno trascinando via!».
Avvenne allora un prodigio meraviglioso, che dopo Pietro apostolo non era successo mai più. Chiesta e ricevuta la benedizione, Mauro si precipitò volando ad eseguire il comando che il Padre gli aveva espresso e convinto di camminare ancora sulla terra, corse sulle acque fin là dove si trovava il fanciullo, trascinato dall’onda, lo acciuffò pei capelli e poi, a corsa veloce, ritornò indietro. Non appena toccata terra, rientrato in sé, si volse, vide e capi di aver camminato sull’acqua. Sbalordito di aver fatto una cosa che non avrebbe mai presunto di poter fare, fu preso da spavento e si affrettò a raccontare ogni cosa al Padre. Benedetto attribuì subito il prodigio alla pronta obbedienza di lui, Mauro invece insisteva che tutto era potuto accadere soltanto per il comando di lui, e che egli non era affatto responsabile di quel miracolo in cui era stato protagonista senza neanche accorgersi. In questa amichevole gara di umiltà si frappose arbitro il fanciullo che era stato salvato: «Mentre venivo salvato dall’acqua – disse – io vedevo sopra il mio capo il mantello dell’abate e sentivo che era proprio lui stesso che mi tirava fuori».
Pietro: sono veramente meraviglioso i fatti che racconti e son sicuro che gioveranno all’edificazione di tanti. Io per conto mio più sorbisco i miracoli di questo uomo tanto buono e più me ne cresce la sete.

8. Il pane avvelenato

In tutte le zone circostanti alla dimora del Santo si era andato sviluppando un grande fervore religioso verso il Signore Gesù Cristo, nostro Dio; e molti abbandonavano la vita del secolo per curvare la superbia del cuore sotto il giogo leggero del Redentore.
Purtroppo però c’è stato sempre il tristo costume dei cattivi di urtarsi della virtù che altri hanno e che essi non si curano minimamente di avere.
Il prete di una chiesa vicina, di nome Fiorenzo – antenato di Fiorenzo suddiacono nostro – istigato dallo spirito maligno, cominciò a bruciare d’invidia per i progressi virtuosi dell’uomo di Dio, a spargere dubbi sulla sua santità e a distogliere quanti poteva dall’andarlo a trovare. Si accorse però che non solo non poteva impedirgli i progressi, ma che anzi la fama della sua santità si diffondeva sempre di più e che molti proprio per questa reputazione di santità sceglievano la via della perfezione.
Per questo si rodeva sempre più per l’invidia e diventava ognor più cattivo, anche perché avrebbe voluto anche lui le lodi per una condotta lodevole, senza però vivere una vita lodevole.
Reso ormai cieco da quella tenebrosa invidia, progettò infine un’orrenda decisione: inviò al servo dell’onnipotente Signore un pane avvelenato, presentandolo come pane benedetto e segno di amicizia.
L’uomo di Dio lo accettò con vivi ringraziamenti, ma non gli rimase nascosta la pestifera insidia che il pane celava.
All’ora della refezione veniva abitualmente dalla vicina selva un corvo e beccava poi il pane dalle mani di lui.
Venne anche quel giorno; e l’uomo di Dio gli gettò innanzi il pane che aveva ricevuto in dono dal sacerdote e gli comandò: «In nome del Signore Gesù Cristo, prendi questo pane e buttalo in un luogo dove nessun uomo lo possa trovare».
Il corvo, spalancato il becco e aperte le ali prese a svolazzare intorno a quel pane, e crocidando pareva volesse dire che era pronto ad eseguire il comando, ma una forza glielo impediva.
Il servo di Dio dovette ripetutamente rinnovare il comando: «Prendilo, su, prendilo senza paura e vallo a gettare dove non possa trovarsi mai più». Dopo aver ancora a lungo esitato, finalmente l’afferrò col becco, lo sollevò e volò via.
Tornò circa tre ore dopo, senza più il pane, e allora come sempre prese il suo cibo dalla mano dell’uomo di Dio.
Il venerabile Padre comprese da questa vicenda quanto l’animo del sacerdote si accanisse contro la sua vita e ne provò un immenso dolore, non tanto per sé quanto per il povero sventurato.
Intanto però Fiorenzo, visto che non era riuscito ad uccidere il Maestro nel corpo, macchinò di rovinare nell’anima i suoi discepoli. A tale scopo fece entrare nell’orto del Monastero sette fanciulle nude che, tenendosi per mano e danzando a lungo sotto i loro occhi, dovevano accendere nel loro animo impuri desideri. Si accorse di questo il santo e temette seriamente che i discepoli, ancor teneri nello spirito, avessero a cadere. Capì benissimo però che tutto questo era diretto a perseguitare lui solo. E allora credette più opportuno cedere alla gelosia altrui: sistemò ben bene l’ordinamento dei monasteri che aveva costruiti, costituendo i superiori e aggiungendo altri fratelli; poi, portando con sé solo alcuni monaci, parti, per andare ad abitare altrove.
Ma l’uomo di Dio si era appena allontanato evitando umilmente l’odio di quell’uomo, che Dio Onnipotente non tardò a punire costui con un castigo spaventoso. Stava difatti questi sul suo terrazzo tutto gongolante di gioia alla notizia che Benedetto era partito, quando ad un tratto, mentre il resto dell’edificio restava in piedi, il terrazzo dov’era lui precipitò, stritolando tra le macerie il nemico di Benedetto. Il discepolo Mauro credette opportuno comunicare la notizia al venerabile Padre, che forse non era ancora lontano più di dieci miglia di strada. Gli mandò dunque a dire: «Torna indietro, Padre, perché il prete che ti perseguitava è morto».
Udendo la notizia l’uomo di Dio scoppiò in direttissimo pianto, sia perché era morto il nemico, sia perché il discepolo se ne era rallegrato.
Anzi allo stesso discepolo impose poi una bella penitenza, perché nel mandargli questo annunzio aveva osato essere troppo lieto per la scomparsa del suo nemico.
Pietro: Sono veramente stupende e meravigliose le tue narrazioni. Quando fa scaturire l’acqua dalla pietra io rivedo un nuovo Mosè; quando richiama il ferro dal profondo dell’acqua, un nuovo Eliseo; quando fa camminare sull’acqua, ripenso a Pietro, e quando esige obbedienza dal corvo un nuovo Elia. Quando infine lo sento piangere per la morte del nemico, non posso pensare che a David. Questo uomo fu davvero ripieno dello spirito di tutti i giusti!
Gregorio: vedi, Pietro, questo uomo di Dio ebbe un unico spirito: quello di Colui che mediante la grazia della redenzione, riempì i cuori di tutti gli eletti. Di lui dice Giovanni: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo». Di lui anche è I scritto: «Dalla pienezza di lui, noi tutti abbiamo ricevuto».I santi di Dio hanno potuto ricevere da Dio questi poteri, ma non poterono trasmetterli ad altri. L’unico che concesse ai discepoli il potere di far miracoli fu Colui che promise ai suoi nemici di dare se stesso come segno di Giona: e di fatto si degnò di morire sotto lo sguardo dei superbi e risorgere sotto lo sguardo degli umili, affinché quelli vi vedessero una cosa spregevole, questi invece un oggetto di venerazione e di amore. Per questa misteriosa economia avviene che mentre i superbi vedono in lui solo l’umiliazione della morte, gli umili invece contemplano la sua gloriosa potestà sulla morte.
Pietro: vorrei adesso sapere ancora due cose: dove andò a finire il santo uomo e se diede ancora segni del suo miracoloso potere.
Gregorio: il santo uomo dunque aveva preso la decisione di cambiare dimora, ma non poté mutare un nemico. In seguito infatti non solo dovette sostenere lotte ancora più gravi, ma si trovò davanti a combatterlo apertamente, a tu per tu, il maestro stesso del male. Il paese di Cassino è situato sul fianco di un alto monte, che aprendosi accoglie questa cittadella come in una conca, ma poi continua ad innalzarsi per tre miglia, slanciando la vetta verso il cielo. C’era in cima un antichissimo tempio, dove la gente dei campi, secondo gli usi degli antichi pagani, compiva superstiziosi riti in onore di Apollo. Intorno vi crescevano boschetti, sacri ai demoni, dove ancora in quel tempo, una fanatica folla di infedeli vi apprestava sacrileghi sacrifici.
Appena l’uomo di Dio vi giunse, fece a pezzi l’idolo, rovesciò l’altare, sradicò i boschetti e dove era il tempio di Apollo eresse un Oratorio in onore di S. Martino e dove era l’altare sostituì una cappella che dedicò a S. Giovanni Battista.
Si rivolse poi alla gente che abitava lì intorno e con assidua predicazione la andava invitando alla fede.
L’antico nemico, però, non poté tollerare questa attività e non più occultamente o in sogno, ma con palesi apparizioni prese a disturbare la tranquillità del Padre. Con alte grida si lamentava della violenza che subiva e i suoi urli giungevano fino alle orecchie dei fratelli, pur senza vederne la figura.
Egli stesso poi, il venerando Padre, raccontava ai suoi discepoli che l’antico nemico gli appariva davanti agli occhi orridissimo e furibondo, e con bocca ed occhi di fuoco faceva mossa di lanciarglisi contro. Quello poi che diceva, qualche volta poterono udirlo tutti: prima lo chiamava per nome e siccome il santo non dava risposta, si sfogava allora con furiose contumelie. Urlava a gran voce: «Benedetto! Benedetto!», ma aspettando invano una risposta, subito soggiungeva: «Maledetto, non Benedetto! Si può sapere che hai con me? Si può sapere perché mi perseguiti?».
Ma di queste lotte del nemico contro il servo di Dio ne dovremo ancora vedere parecchie altre. Esso gli scatenò contro con tutte le forze una spietatissima guerra, senza accorgersi che, suo malgrado, gli prestò l’occasione di altrettante vittorie.

9. La pietra che diventa leggera

Un giorno, mentre i monaci stavano costruendo gli ambienti del monastero, capitò proprio là in mezzo una grossa pietra e pensarono bene di adoperarla per la costruzione. Ci provarono prima in due poi in tre ma non riuscirono a sollevarla; ci provarono poi in parecchi, ma niente da fare: quella rimaneva lì, immobile, come se avesse radici piantate per terra. «Qui ci dev’essere seduto sopra lo spirito maligno in persona – ragionarono quei monaci -; possibile che tante braccia d’uomini non riescano a spostarla?».
Visto ormai vano ogni tentativo, si pensò di mandare uno dal servo di Dio pregandolo che venisse a scacciare con una preghiera il nemico e dar così la possibilità di sollevare il macigno. Accorse subito, fece orazione, diede una benedizione e il sasso fu sollevato con tanta facilità come se non avesse avuto alcun peso.

10. L’incendio della cucina

Subito dopo l’uomo di Dio ordinò che in quello stesso punto scavassero la terra. Penetrando molto in profondità, i fratelli vi scoprirono un idolo di bronzo, lo gettarono per il momento in cucina e si rimisero al lavoro. All’improvviso fu vista uscire dalla cucina una fiammata, sotto gli occhi di tutti i monaci; sembrava che bruciasse l’intero edificio. Con alte grida di spavento cominciarono a gettare acqua, tentando di spegnere il fuoco. Colpito da quel frastuono, il servo di Dio accorse sollecito. «Ma quale fuoco vedete? – esclamò – esiste soltanto nei vostri occhi: io non vedo proprio niente!». Chinò poi il capo e pregò. Invitò poi i monaci illusi da quel fuoco immaginario che guardassero un po’ meglio: i muri della cucina erano intatti e solidi e le fiamme illusorie dell’antico nemico non si vedevano più.

11. Il piccolo monaco schiacciato

Un’altra volta i monaci stavano sopraelevando una parete perché l’edificio lo esigeva e l’uomo di Dio se ne stava chiuso nella sua stanzetta, intento all’orazione. Gli si fece innanzi, beffardo, l’antico nemico e lo avvisò che stava per andare a fare una visitina ai monaci al lavoro.
Colla massima celerità l’uomo di Dio mandò di corsa uno dei suoi ad avvisare i monaci: «Fate attenzione, fratelli: sta arrivando proprio adesso il maligno!».Il messo non aveva neanche finito di parlare che il maligno spirito, rovesciando la parete in costruzione, aveva seppellito e schiacciato sotto le macerie un piccolo monaco, figlio di un impiegato di curia. Pieni tutti di grave costernazione e tristezza, non per la parete crollata ma per il monacello schiacciato, si affrettarono a dare con lagrime di profondo dolore la notizia al venerando Padre Benedetto.
«Andatelo a prendere e portatemelo qui!» ordinò il Padre. Ma non fu possibile trasportarlo se non sopra una coperta, perché i sassi della parete precipitata non solo gli avevano pestato la carne, ma anche schiacciate le ossa. L’uomo di Dio lo fece deporre nella sua stanzetta sopra la stuoia dov’egli soleva pregare; poi licenziato i fratelli chiuse la porta e si buttò in ginocchio a pregare con una insistenza come mai aveva fatto finora.
Ed ecco il miracolo! Entro la stessa ora egli rimandò al lavoro il fanciullo sano e robusto come prima, perché insieme agli altri monaci terminasse la costruzione della parete.
Con la morte di questo fanciullo l’antico nemico si era illuso di prendersi beffa di Benedetto!

12. Il cibo preso trasgredendo la Regola

Fu in questo tempo che il Signore si degnò di insignire il suo servo col dono della profezia: prediceva avvenimenti futuri ed annunciava ai presenti cose e persone anche lontane.
Era una consuetudine del suo monastero che quando i fratelli uscivano di casa per qualche commissione non dovevano prendere assolutamente nulla, né cibo né bevande: usanza regolare che veniva osservata col massimo rigore.
Accadde un giorno che alcuni monaci, usciti per commissioni, furon costretti a rimaner fuori fino ad ora molto più tarda del previsto. Conoscevano la casa ospitale di una pia donna: entrarono dunque nell’abitazione di quella e vi presero cibo. Tornarono al monastero piuttosto tardi e, com’è d’uso, andarono a chiedere la benedizione del Padre. Appena li vide domandò subito premurosamente: «Dove avete mangiato?». Risposero: «In nessun posto». Egli allora disse: «Come? Su, su, non mi dite bugie! Non siete entrati forse in casa della tale signora? E avete accettato tali e tali vivande? E avete bevuto tanti e tanti bicchieri?».
A questa precisa indicazione del venerabile Padre sull’ospitalità della donna, sulla qualità dei cibi e sul numero dei bicchieri, riconobbero sinceramente quel che avevano fatto a caddero tremanti ai suoi piedi confessando la loro mancanza. Egli concesse immediatamente il perdono, sicuro che quelli in sua assenza non avrebbero mancato mai più; avevan la prova che egli in spirito era sempre presente.

13. Il fratello del monaco Valentiniano

Ho fatto più sopra il nome di Valentiniano. Questo monaco aveva un fratello che viveva nel mondo ma era tanto timorato di Dio. Ogni anno partiva digiuno da casa sua e si recava a piedi al monastero per ricevere la benedizione del santo e allo stesso tempo fare una visitina al fratello.
Un giorno mentre era appunto in viaggio verso il monastero, gli si accompagnò un viandante che portava qualcosa con sé da mangiare strada facendo.
Ad ora abbastanza avanzata lo sconosciuto gli rivolse l’invito: «Senti, fratello, vogliamo prendere un boccone? Altrimenti le forze ci verranno meno per via». Ma egli rispose: «Mi dispiace proprio, fratello, ma non posso; ho preso l’abitudine di presentarmi sempre digiuno al venerabile Padre Benedetto».A questa risposta il compagno per il momento non osò insistere: ma fatto un altro pezzetto di strada di nuovo ripete l’invito. L’altro tenne duro perché a qualunque costo voleva arrivare digiuno al monastero. Anche questa volta il primo la smise di insistere e si adattò a seguitare digiuno anche lui ancor per un poco.
Ma la via era sempre più lunga, l’ora già tarda e camminando si sentivano veramente stanchi. Ad una curva della strada si offri ai loro occhi un bel prato e una fontanella d’acqua, proprio quello che ci voleva di meglio per riposare finalmente le membra. E compagno esclamò: «Oh, guarda, guarda; qui c’è acqua, c’è un bel prato: è proprio il posto ideale per mangiar qualche cosa e riposarci un pochino. Dopo, ristorati, potremo riprender cammino». -
Quelle parole erano proprio lusinga all’orecchio, come il luogo lo era per gli occhi: si lasciò quindi persuadere da questo terzo invito e acconsenti a mangiare.
Verso sera giunse al monastero.
Presentatosi al venerabile Padre, lo pregò che gli desse la benedizione. Ma il santo senza indugi lo rimproverò di quel che aveva fatto durante il viaggio. Gli disse: «Come mai, fratello? Ti sei fatto vincere dal maligno nemico, che ti parlava per bocca del tuo compagno di viaggio! Al primo tentativo non c’è riuscito, al secondo nemmeno, al terzo ti ha superato e, purtroppo, ti ha piegato a quello che voleva lui!».
Il pio uomo riconobbe allora la sua colpevole debolezza e gettandosi ai piedi del santo, prese a piangere vergognoso e confuso, soprattutto perché aveva capito che, anche lontano, aveva commesso questa colpa sotto gli occhi del Padre Benedetto.
Pietro: ancora una volta, in questo fatto di trovarsi presente ad un discepolo assente, io vedo nell’uomo di Dio lo stesso spirito del Profeta Eliseo.
Gregorio: è bene, Pietro, che tu per adesso non m’interrompa, perché tu possa conoscere prodigi ancor più rilevanti.

14. La simulazione del re Totila

Al tempo dei Goti, il loro re Totila, avendo sentito dire che il santo era dotato di spirito di profezia, si diresse al suo monastero. Si fermò a poca distanza e mandò ad avvisare che sarebbe tra poco arrivato. Gli fu risposto dai monaci che senz’altro poteva venire.
Insincero però com’era, volle far prova se l’uomo del Signore fosse veramente un profeta. Egli aveva con sé come scudiero un certo Riggo: gli fece infilare le sue calzature, lo fece rivestire di indumenti regali e gli comandò di andare dall’uomo di Dio, presentandosi come fosse il re in persona. Come seguito gli assegnò tre conti tra i più fedeli e devoti: Vul, Ruderico e Blidino, i quali, in presenza del servo di Dio, dovevano camminare ai suoi fianchi, simulando di seguire veramente il re Totila. A questi aggiunse anche altri segni onorifici ed altri scudieri, in modo che, sia per gli ossequi di costoro, sia per i vestiti di porpora, fosse giudicato veramente il re.
Appena Riggo entrò nel monastero, ornato di quei magnifici indumenti, e circondato dagli onori del seguito, l’uomo di Dio era seduto in un piano superiore. Vedendolo venire avanti, appena fu giunto a portata di voce, gridò forte verso di lui: «Deponi, figliolo, deponi quel che porti addosso: non è roba tua!». Impaurito per aver presunto di ingannare un tal uomo, Riggo si precipitò immediatamente per terra e, come lui, tutti quelli che l’avevan seguito in questa gloriosa impresa.
Poco dopo si rialzarono in piedi, ma di avvicinarsi al santo nessuno più ebbe il coraggio. Ritornarono al loro re e ancora sbigottiti gli raccontarono come a prima vista, con impressionante rapidità, erano stati immediatamente scoperti.

15. La profezia per Totila

Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio. Quando da lontano lo vide seduto, non ebbe l’ardire di avvicinarsi: si prosternò a terra. Il servo di Dio per due volte gli gridò: «Alzati!», ma quello non osava rialzarsi davanti a lui. Benedetto allora, questo servo del Signore Gesù Cristo, spontaneamente si degnò avvicinarsi al re e lui stesso lo sollevò da terra. Dopo però lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. «Tu hai fatto molto male – gli disse – e molto- ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai». Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno diminuì di molto la sua crudeltà.
Non molto tempo dopo andò a Roma, poi ritornò verso la Sicilia; nel decimo anno del suo regno, per volontà del Dio onnipotente, perdette il regno e la vita.
Veniva spesso a trovare il servo di Dio il vescovo di Canosa, e Benedetto lo amava molto per la sua degnissima vita. Un giorno discorreva con lui dell’entrata di Totila in Roma e della distruzione della città che per opera di quel re sarebbe stata distrutta e resa inabitabile. Il servo di Dio gli rispose: «Roma non verrà distrutta dai barbari; ma colpita dalle tempeste, uragani, fulmini e terremoti, cadrà da se stessa in rovina».
Il mistero di questa profezia lo vediamo chiaramente manifesto sotto i nostri occhi, perché vediamo abbattute le mura, diroccate le case, distrutte le chiese dal turbine e gli edifici già fatiscenti per lunga vecchiaia cadere a terra in sempre crescenti rovine.
Questa profezia me l’ha riferita il suo discepolo Onorato: egli però attestava di non averla mai udita dalla sua bocca ma era stata riferita a lui dai fratelli che l’avevano ascoltato parlare così.

16. Il chierico liberato dal demonio

Sempre in quel torno di tempo c’era nella chiesa di Aquino un chierico tormentato dal demonio e il suo venerando vescovo Costanzo l’aveva mandato in molti luoghi ai sepolcri dei martiri, per ottenere la grazia della liberazione. Ma i santi martiri non gli vollero concedere questo dono, perché ancora una volta si manifestasse quanta fosse la grazia di Benedetto.
Lo condussero dunque al santo e questi effondendosi in preghiera al Signore Gesù Cristo senza indugio lo liberò dell’antico nemico.
Però subito dopo avergli resa la guarigione il santo gli diede questa ammonizione. «Adesso torna pure a casa; d’ora innanzi però non mangiare mai carne e non ardire di accedere agli ordini sacri perché nello stesso giorno sarai dato di nuovo in balia del demonio».
Il chierico risanato partì e si mantenne fedele agli avvisi dell’uomo di Dio perché, come spesso succede, un recente castigo tiene stretto l’animo in impressione e paura. Ma dopo parecchi anni, osservando che i più anziani di lui erano ritornati al Signore e i chierici più giovani gli andavano avanti nella carriera ecclesiastica, non tenne più conto delle parole dell’uomo di Dio, quasi dimenticate per il lungo tempo, e si presentò a ricevere l’ordine sacro. Ma il diavolo che lo aveva lasciato, subito ne riprese possesso e non cessò di tormentarlo fino a togliergli persino la vita.
Pietro: Se Benedetto poté vedere che quel chierico era stato dato in balìa del diavolo perché non osasse accedere agli ordini sacri, vuol dire che questo uomo di Dio riusciva a penetrare anche nei divini segreti?
Gregorio: è chiaro che riusciva a conoscere i segreti di Dio, proprio perché osservava i precetti di Dio. Non sta scritto, infatti: «Chi è unito al Signore, forma un solo spirito con lui»?
Pietro: Ma allora, se chi è unito al Signore forma un unico spirito con lui, come mai l’esimio banditore del Vangelo dice: «Chi ha conosciuto il pensiero del Signore e chi fu suo consigliere?». Mi pare che non sia molto logico che uno ignori il pensiero di colui col quale forma un unico spirito.
Gregorio.- Ai santi, nella misura che sono un solo spirito col Signore, non è ignoto il pensiero di lui. Infatti lo stesso apostolo dice: «Chi, fra gli uomini, conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche nessuno conosce le cose di Dio se non lo spirito di Dio».E per dimostrare che egli conosceva le cose di Dio, aggiunse: «Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo spirito che viene da Dio». E poco dopo aggiunge: «Occhio non vide, orecchio non udì, né entrò mai nel cuore dell’uomo ciò che Dio ha preparato per quelli che l’amano. A noi Dio l’ha rivelato per mezzo dello spirito suo».
Pietro: Se dunque all’Apostolo furono rivelate le cose di Dio, come mai poco prima aveva esclamato: «O sublime ricchezza della sapienza e della scienza di Dio! quanto incomprensibili sono i suoi pensieri e imperscrutabili le sue vie!»? Ma mentre dico questo, un’altra questione mi sorge alla mente. Il Profeta David dice al Signore: «Con le mie labbra esalto tutti i giudizi della tua bocca!». Certamente il poter anche esprimere è più che il solo conoscere: e allora perché Paolo afferma che i giudizi di Dio sono incomprensibili, mentre Davide attesta che non solo li conosce, ma di averli anche proclamati con la sua bocca?
Gregorio: Rifletti bene e vedrai che ad ambedue le questioni ti ho già brevemente risposto quando ti ho detto che i santi, in quanto sono uniti intimamente a Dio, non ignorano il pensiero di Dio. Tutti quelli che con pietà seguono il Signore, proprio per questo sono uniti col Signore, ma siccome sono ancora gravati dal peso del corpo corruttibile, non sono ancora con lui. Perciò, in quanto sono uniti con lui, conoscono i segreti di Dio; ma in quanto ne sono disgiunti, li ignorano. Poiché dunque non penetrano ancora perfettamente i suoi segreti, essi confessano che i pensieri di lui sono incomprensibili; essendo però uniti a lui con l’anima, ricevendo luce o dalla Sacra Scrittura o da private rivelazioni, h conoscono e una volta conosciuti li esprimono pure. In poche parole: i giudizi che Dio loro nasconde, non h conoscono, quelli che Dio loro rivela, li conoscono.
Per questo, quando Davide dice: «Con le mie labbra ho espresso tutti i pensieri» vi aggiunge subito: «della tua bocca».Vuole dire chiaramente così: «lo ho potuto conoscere e proclamare i tuoi giudizi, ma solo quelli che tu apertamente mi hai rivelati; perché quelli che tu non rivela vuol dire che li vuoi tener nascosti alla nostra conoscenza».
Vanno dunque pienamente d’accordo le parole del profeta e dell’Apostolo: i pensieri di Dio sono incomprensibili, ma dopo che sono stati rivelati dalla bocca di lui, possono essere proclamati da labbra umane; possono cioè essere conosciuti e proclamati davanti a tutti; solo quelli però che Dio ha rivelato; gli altri no, rimangono occulti.
Pietro: Ti ho fatto queste obiezioni perché avevo qualche piccolo dubbio: ora la questione è perfettamente chiarita. E adesso, ti rimane ancora qualche altra cosa da dire sulle virtù del nostro santo? Continua pure.

17. Predice la distruzione del suo monastero

In seguito ai consigli del Padre Benedetto, era venuto alla vita monastica un nobile di nome Teoprobo, e il santo aveva con lui una confidente familiarità, perché era uomo di integerrimi costumi. Entrò un giorno nella stanzetta del Maestro e lo trovò che spargeva amarissime lacrime. Attese a lungo in silenzio, ma le lacrime non accennavano a finire. Appena però si accorse che l’uomo di Dio non piangeva per fervore di orazione, come spesso gli succedeva, ma per un grave dolore, si avvicinò e gli chiese il motivo di tanto cordoglio.
Rispose subito l’uomo di Dio: «Tutto questo monastero che io ho costruito e tutte le cose che ho preparato per i fratelli, per disposizione di Dio Onnipotente, sono destinate in preda ai barbari. A gran fatica sono riuscito ad ottenere che, di quanto è in questo luogo, mi siano risparmiate le vite».
Le parole che allora Teoprobo ascoltò, noi le vediamo oggi avverate: ci è giunta difatti la notizia che proprio di recente il monastero è stato distrutto dai Longobardi. Sono entrati difatti in monastero di notte, . durante il riposo dei fratelli, hanno rapinato ogni cosa, ma non sono riusciti a impadronirsi di una sola persona. Dio onnipotente ha così mantenuto quel che aveva promesso al fedele servo Benedetto, che cioè dando il monastero in balìa dei barbari, avrebbe però custodito le vite. Mi sembra che in questa circostanza Benedetto possa paragonarsi all’apostolo Paolo: allorché tutte le cose della sua nave andarono in fondo al mare, egli ottenne la consolazione di veder salva la vita di tutti quelli che lo accompagnavano.

18. Il furto del bariletto di vino

Ti ricorderai certamente di quel certo Esilarato, che visse qui tra noi come monaco. Egli un giorno fu mandato dal suo padrone al monastero a portare all’uomo di Dio due recipienti di legno, chiamati volgarmente fiasconi, pieni di vino. Durante il viaggio ne nascose uno lungo la via e l’altro lo presentò al Padre. L’uomo di Dio, a cui i fatti anche lontani non eran nascosti, accettò ringraziando quel solo bariletto; mentre però il servo stava per riprender la via del ritorno, gli diede questo avviso: «Stai attento, figlio, a non bere a quel fiascone che hai nascosto; inclinalo invece con cautela e vedrai cosa c’è dentro».
L’altro restò sorpreso assai da quelle parole e si mise in cammino.
Sulla via di ritorno volle accertarsi sugli avvisi del santo: inclinò il recipiente e subito ne scivolò fuori una serpe. Spaventato e impressionato da quella brutta sorpresa, si pensi per il sotterfugio che aveva commesso.

19. I fazzoletti delle monache

Non molto lontano dal monastero era una contrada, ove, per la predicazione di Benedetto, un notevole numero di gente si era convertita dal culto degli idoli alla fede di Dio. C’era lì un gruppetto di donne consacrate e il servo di Dio aveva cura di mandarvi spesso i suoi monaci per assistere spiritualmente quelle anime.
Un giorno ne mandò uno, secondo il consueto. Terminata la piccola conferenza, il monacello, pregato da quelle sante donne, accettò alcuni fazzoletti e se li nascose in seno.
Appena tornato al monastero, il servo di Dio prese a rimproverarlo con estrema severità: «Come mai – gli andava ripetendo come mai ti è entrata in petto l’iniquità?».Quegli rimase profondamente stupito e non ripensando a quel che aveva fatto, non capiva bene i motivi del rimprovero. Glieli fece capire il santo dicendogli: «E non ero io presente quando hai accettato quei fazzoletti dalle serve di Dio e poi l’hai nascosti nel seno?». Subito allora il monaco si gettò ai suoi piedi e chiedendo perdono per aver agito senza prudenza, trasse fuori dal petto i fazzoletti che vi aveva nascosto.

20. Il pensiero superbo del piccolo monaco

Un giorno il venerabile Padre, già sull’ora del vespro, prendeva un po’ di cibo e un suo monaco, figlio di un avvocato, gli reggeva la lucerna davanti alla tavola. Mentre l’uomo di Dio mangiava e quello se ne stava lì in piedi a servirlo facendogli lume, chiuso nella taciturnità, cominciò a ruminare nell’animo pensieri di superbia, dicendo in cuor suo: «E chi è costui che io lo debba assistere mentre mangia, reggergli la lucerna e prestargli servizio? Sono proprio uno che deve fare il servo?».
Voltandosi all’improvviso verso di lui, il servo di Dio lo prese vivamente a rimproverare: «Fatti un segno di croce sul cuore, fratello! Che vai rimuginando nella mente? fatti un segno di croce!». Chiamati subito altri monaci, ordinò che gli togliessero dalle mani la lucerna, dicendo poi a lui di desistere pure da quel servizio e di sedersi tranquillamente al suo posto.
In seguito, interrogato dai fratelli che cosa avesse avuto nel cuore, il monaco raccontò umilmente tutto quello che, in silenzio, aveva formulato contro il servo di Dio.
Apparve allora ancor più manifesto che nulla si poteva nascondere al venerabile Benedetto, perché alle sue orecchie giungeva persino il suono delle parole anche soltanto pensate.

21. La farina alle porte del monastero

Una grande carestia era sopravvenuta in quei tempi nelle regioni della Campania e la grande penuria di alimenti metteva un po’ tutti in strettezze.
Anche nel monastero di Benedetto il grano era finito: i pani erano già stati quasi tutti consumata, tanto che un giorno allora della refezione non più di cinque ne furon trovati.
Il venerabile Padre osservò i volti non troppo sereni e volle correggere con dolce rimprovero il loro scoraggiamento e in più, a loro sollievo, aggiunse una promessa: «Ma perché ve la state a prendere tanto per la scarsezza del pane? Oggi, è vero, ce n’è poco: ma domani vedrete quanta abbondanza ne avremo!».
Il giorno seguente si trovarono davanti alla porta del monastero duecento sacchi di farina e fino ad oggi rimane ancora da sapere a quali misteriose persone l’onnipotente Dio abbia dato l’incarico di portarli.
I fratelli resero infinite grazie al Signore e dopo quella prova impararono a non dubitare mai più della Provvidenza neanche nei tempi di strettezze.
Pietro: ti faccio una domanda: dobbiamo pensare che il servo di Dio aveva di continuo il dono della profezia, oppure veniva illuminato solo ad intervalli di tempo?
Gregorio: lo penso, Pietro, che lo spirito di profezia non illumina in modo continuo la mente dei profeti. È scritto che lo Spirito Santo «spira dove vuole»; così deve anche ammettersi che spira quando vuole. Questa è la ragione per cui Natan, interrogato dal re se gli era permesso di costruire il tempio, prima assentì e poi lo proibì. Così pure, anche per Eliseo quando vide la donna che piangeva e non conoscendone i motivi, disse al servo che voleva allontanarla: «Lasciala stare, perché si vede che ha una grande pena, ma non so quali ne siano le cause perché il Signore non me le ha rivelate». Se Dio dispone così, lo fa per misericordiosa provvidenza, perché ora concedendo e ora sottraendo il dono della profezia, eleva e allo stesso tempo custodisce le anime dei profeti, così che quando ricevono il dono percepiscano quello che Dio opera in loro, e quando vengono privati del carisma conoscano quanto valgono da se stessi.
Pietro: Le tue ragioni mi convincono che deve essere proprio così. Riprendiamo di nuovo i racconti del Padre Benedetto, se ancora ne hai in mente qualche altro.

22. Una fabbrica regolata in visione

Gregorio: Un’altra volta fu pregato da un buon cristiano di mandare alcuni discepoli in un fondo di sua proprietà presso Terracina, perché vi voleva costruire un monastero.
Acconsentì volentieri: scelse dei monaci, e nominò chi doveva essere l’Abate e chi il secondo dopo di lui. Al momento della partenza prese questo impegno: «Adesso voi partite subito: il tal giorno verrò io pure e vi indicherò dove dovrete edificare la cappella, dove il refettorio, dove la foresteria per gli ospiti e dove gli altri ambienti necessari». Quelli, ricevuta la benedizione, si misero in cammino. Intanto nell’attesa impaziente del giorno stabilito, cominciarono a preparare tutte quelle cose che sembravano loro necessarie per coloro che avrebbero accompagnato il venerato Padre.
Ma nella stessa notte in cui cominciava il giorno della promessa, l’uomo di Dio apparve in sogno al santo uomo da lui designato come Abate e al suo Priore e tracciò loro, con le più minuziose indicazioni, le singole posizioni che conveniva dare a ciascun ambiente.
Appena svegliati si raccontarono a vicenda quanto avevano visto. Credettero meglio però farsi una risatella su questa visione che non meritava nessuna importanza e attesero ansiosi la promessa venuta dell’uomo di Dio. Ma il giorno stabilito non venne nessuno. Un po’ contrariati e rattristati tornarono dal santo a dirgli: «E com’è, Padre, che non sei venuto? Siamo stati tanto ad aspettare! Ci avevi promesso che saresti venuto ad indicarci dove e come dobbiamo fare le costruzioni. Com’è?». Ed egli a loro: «Perché, fratelli, parlate così? ‘E proprio vero che non sono venuto, secondo la promessa?».
«E quando sei venuto?».
«Ma non vi ricordate che tutti e due mi avete visto durante il sonno e vi ho tracciato la posizione dei singoli locali? Su, su, tornate, e costruite pure ogni reparto del monastero proprio come avete veduto nella visione...». Figuriamoci la loro meraviglia! Tornarono con gioia al detto podere e costruirono le singole parti del monastero come la rivelazione aveva loro indicato.
Pietro: Io ho qualche dubbio. Vorrei sapere in che modo egli poté andare lontano ad istruire persone che dormivano e queste udirlo in visione e riconoscerlo.
Gregorio: come mai, Pietro, rimani perplesso, esaminando come si è svolto il fatto? Lo capirai se ricorderai prima di tutto che lo spirito è di sua natura molto più agile del corpo. Difatti, per testimonianza della Scrittura, sappiamo che un profeta fu levato in alto in Giudea col pranzo che portava e in un batter d’occhio deposto in Caldea e poi, dopo aver ristorato col cibo un altro profeta, di nuovo si trovò in Giudea. Se Abacuc in un istante poté andare così lontano col suo corpo e portare anche un pranzo, perché meravigliarsi che il Padre Benedetto abbia ottenuto di recarsi in spirito ad indicare le diverse necessità allo spirito di monaci addormentati? Come il profeta era andato col corpo a consegnare cibo corporale, così Benedetto fu presente con lo spirito per organizzare cose di vita spirituale.
Pietro: la tua risposta ha cancellato, direi quasi con la mano, tutti i miei dubbi. Vorrei adesso sapere quale era il suo modo di parlare ordinario.

23. Le monache riconciliate per mezzo del Sacrificio

Gregorio: Era difficile, Pietro, che anche il parlare ordinario del santo non fosse pieno di prodigiosa efficacia, perché il suo cuore era elevato a cose alte e quindi non c’era parola della sua bocca che cadesse invano. Anche quando gli capitò di pronunciare qualcosa anche di non decisivo ma di semplice minaccia, anche allora la sua parola aveva tanta forza, come se l’avesse pronunziata non con animo esitante o condizionato, ma come una vera espressione di volontà.
Non lontano dal suo monastero, due religiose, appartenenti a famiglie nobili, vivevano l’osservanza religiosa nella loro casa; per le cose necessarie all’esterno prestava loro servizio un buon uomo, molto religioso e zelante.
Purtroppo capita spesso che la nobiltà dei natali provochi in alcuni una specie di volgarità d’animo, forse perché ripensando che sono stati un po’ più degli altri, più difficilmente disprezzano se stessi in questo mondo.
Queste due religiose insomma non ancora avevano stretto bene i freni alla propria lingua, anche portando l’abito monastico, e spesso con le loro sgarbate parole provocavano ad ira quel pio uomo che le serviva. Questi per un bel pezzo riuscì a tollerarle, ma alla fine si presentò all’uomo di Dio e gli raccontò le molte insolenze che doveva subire. L’uomo di Dio porse bene l’orecchio a quanto gli veniva narrato e immediatamente mandò a dire a quelle così: «Tenete un po’ più a freno la vostra lingua, perché, se non vi emenderete vi tolgo la comunione». Certo non intendeva con queste parole di lanciare la scomunica, ma soltanto di minacciarla.
Quelle però continuarono, senza mutare affatto le vecchie abitudini. Di li a pochi giorni morirono e furono sepolte in chiesa.
Successe allora questo: tutte le volte che in quella chiesa si celebrava la Messa solenne, quando il diacono ordinava: «Chi è scomunicata esca!», la loro vecchia nutrice, che soleva offrire oblate in loro suffragio, le vedeva venir fuori dal loro sepolcro e uscire di chiesa. Avendo osservato più volte che proprio alla voce del diacono non potevano restare in chiesa, si ricordò del comando che l’uomo di Dio aveva loro mandato, mentre vivevano, e cioè che le avrebbe private della comunione se non si fossero emendate nei modi e nelle parole.
Informò allora addolorata il servo di Dio, il quale, proprio di sua mano le diede un’offerta dicendo: «Andate e fate offrire per loro al Signore questa oblazione e saranno sciolte dalla scomunica». Difatti, dopo che fu sacrificata per loro l’offerta, quando il diacono intimava agli scomunicati di uscir fuori, quelle non furon viste uscirsene mai più.
Da ciò apparve evidente che il Signore le aveva riammesse alla sua comunione per intercessione del servo di Dio, perché non lasciavano più il loro posto in chiesa, come persone scomunicate.
Pietro: a me pare proprio inverosimile che un uomo, per venerabile e santissimo che sia, ma ancora vivente in questa carne mortale, abbia potuto assolvere anime che si erano già presentate all’invisibile giudizio.
Gregorio: Pietro caro, e non era in questa vita colui che si sentì dire: «Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato in cielo, e quel che scioglierai sopra la terra, sarà sciolto anche nel cielo»? In questo ufficio di legare e sciogliere gli succedono ora coloro che degnamente e con fede sono costituiti nel sacro governo. Ma perché l’uomo terrestre potesse avere tanta potestà, il Creatore del cielo e della terra è disceso dal cielo in terra e fattosi uomo per gli uomini – egli che era Dio – si è degnato concedere all’uomo composto di carne la facoltà di giudicare anche sulle cose dello spirito. Nel momento stesso in cui la potenza di Dio scendeva fino a farsi debolezza, proprio in quel momento la nostra debolezza veniva elevata al di sopra di sé.
Pietro: i tuoi ragionamenti armonizzano perfettamente con i prodigi che mi hai raccontato.

24. Il piccolo monaco fuggitivo

Gregorio: tra i suoi monaci Benedetto ne aveva uno, ancora giovanotto, che passava un po’ troppo i limiti nell’affetto verso i genitori. Un giorno senza chiedere affatto la benedizione, uscì dal monastero e se ne andò a casa. Ma il giorno stesso, poco dopo arrivato, fu colto da malore e morì.
Lo seppellirono; ma il giorno dopo trovarono che il suo corpo era stato rigettato fuori della terra. Fu sepolto di nuovo, ma il giorno seguente ecco di nuovo lo stesso fenomeno: respinto fuori e insepolto come prima.
Pensarono di correre in fretta ai piedi del Padre Benedetto, e lo supplicarono con gran pianto, che si degnasse di riammetterlo nel suo perdono. L’uomo di Dio senza indugio consegnò loro, di sua mano, l’ostia del Corpo del Signore, dicendo: «Andate e con gran riverenza posate sul petto di lui il Corpo del Signore, e così seppellitelo».
Eseguirono queste istruzioni e la terra ricevette il corpo del fanciullo e non lo respinse mai più.
Adesso, Pietro, tu puoi misurare bene quanto merito avesse agli occhi del Signore Gesù Cristo un uomo così santo: persino la terra si rifiutava di accogliere uno che non era nelle grazie di Benedetto.
Pietro: me ne sono accorto molto bene e ne rimango immensamente stupito.

25. Il monaco e il dragone

Gregorio: aveva anche un monaco di carattere fiacco e incostante: stanco di stare in monastero voleva andarsene via. L’uomo di Dio era assiduo nel riprenderlo e spesso si industriava a fargli coraggio; ma egli per nessun motivo voleva acconsentire a perseverare nella comunità, anzi non la finiva più di importunare perché lo lasciassero partire. Alla fine il venerabile Padre, sopraffatto un giorno dalla sua importunità, gli comandò con sdegno che se ne andasse pure.
Era appena uscito dalla porta del monastero, quand’ecco pararglisi incontro, lungo la strada, un dragone colle fauci spalancate, che voleva ad ogni costo divorarlo. Terrorizzato e tremante si diede ad urlare a gran voce: «Aiuto, aiuto! C’è un dragone che mi vuol divorare!».
Accorsero i fratelli, ma non videro nessun dragone. Lo riportarono dentro le mura del monastero, più morto che vivo, ed egli, Pi, proprio sul momento, promise che non si sarebbe allontanato mai più. Perseverò difatti nella sua promessa. Erano state le preghiere del santo a fargli vedere il dragone che gli si lanciava contro, quel dragone che egli prima, non visibile, aveva seguito.

26. L’elefantiaco risanato

C’è un altro fatto che credo bene non lasciare sotto silenzio. Mi fu raccontato dall’illustre e nobile Antonio. Mi diceva, dunque, che un garzone di suo padre fu trovato infetto da elefantiasi e già per la caduta dei peli, per il gonfiore della pelle e per la materia purulenta, non poteva più nascondere il suo male. Il padre lo fece portare dall’uomo di Dio e sull’istante fu restituito alla primitiva sanità.

27. Il debitore pagato

Voglio raccontare ancora un altro fatto, riferito molto spesso dal suo discepolo Pellegrino. Eccolo.
Un povero uomo, buon cristiano, spinto dall’urgenza di pagare un debito, pensò che non v’era altro da fare che andare dall’uomo di Dio e manifestargli l’urgente necessità.
Vi andò difatti, trovò il servo di Dio e gli confidò che per dodici soldi era aspramente vessato dal creditore.
Il venerabile Padre gli fece presente che purtroppo neanche lui aveva quei dodici soldi; gli fece però coraggio con buone parole a non avvilirsi per la sua povertà, e licenziandolo gli disse: «Per adesso vai a casa; ritorna però fra un paio di giorni, perché quello che chiedi per oggi non l’abbiamo».
Durante quei due giorni rivolse al Signore insistenti preghiere.
Il terzo giorno quel povero debitore in angustie era già di ritorno.
All’improvviso, sopra un cassone del monastero, ricolmo di grano, furono scoperti tredici soldi. L’uomo di Dio se li fece portare e li consegnò al poveretto, che era Pi tutto addolorato, dicendogli che dodici erano per la restituzione, l’altro lo tenesse pure per sé, per le proprie necessità.
Mi pare che sia opportuno inserire qui alcuni di quei fatti che, come ti ho accennato all’inizio di questo colloquio, mi furono riferiti dai suoi quattro discepoli. Eccone uno.
Un uomo aveva la disgrazia di essere aspramente invidiato da un suo avversario e l’odio di costui giunse a tal punto da gettargli un veleno, a sua insaputa, in una bevanda. Il veleno fortunatamente non ebbe tanta forza da levargli la vita, gli produsse però sulla pelle di tutto il corpo delle macchie di vario colore, che, a vederle, somigliavano molto alla lebbra.
Condotto dall’uomo di Dio, non appena questi lo toccò, scomparve subito ogni chiazza dalla sua pelle e ben presto riacquistò la completa sanità.

28. La bottiglia che non si rompe

Nel tempo in cui la Campania fu desolata da una gravissima carestia, l’uomo di Dio aveva dato via in elemosina a molti poveri tutti i viveri che si trovavano in monastero. Nella dispensa non era rimasto nient’altro che un poco di olio entro un’ampolla di vetro.
Capitò un suddiacono di nome Agapito, e chiese caldamente se poteva avere la carità di un po’ di olio.
L’uomo di Dio, che si era proposto di dare via tutto sulla terra per tutto depositare nei tesori del cielo, ordinò che senz’altro gli fosse consegnato quel poco ch’era rimasto.
Il monaco incaricato della dispensa, sentì molto bene la disposizione del superiore, ma non aveva proprio alcuna voglia di metterla in pratica. Richiesto poco dopo dal santo se era stata fatta quell’elemosina come aveva comandato, il monaco rispose di non aver dato nulla perché se avesse dato via anche quello, per i monaci non sarebbe poi rimasto più niente.
Allora comandò con energica severità che fosse immediatamente gettata dalla finestra l’ampolla di vetro con l’olio, perché nella dispensa nulla rimanesse per disobbedienza; e fu fatto così.
Sotto la finestra si apriva un gran precipizio, irto di grossi macigni. L’ampolla di vetro piombò con violenza sui sassi, ma rimase intatta, come se non fosse stata scagliata: non si infranse, né l’olio si versò. L’uomo di Dio la fece raccogliere e, integra com’era, la fece immediatamente consegnare a chi la chiedeva.
Raccolti poi i confratelli, rimproverò davanti a tutti il monaco disobbediente, perché era stato infedele e superbo.

29. L’anfora vuota riempita d’olio

Terminata la riprensione, insieme a tutti i fratelli si raccolse in preghiera. Nel luogo stesso ove pregavano c’era un’anfora di terracotta, vuota e coperta. Mentre il santo insisteva nella supplica, il coperchio dell’anfora cominciò a sollevarsi per l’olio che cresceva: e crebbe a tal misura che, rimosso il coperchio, traboccò dai bordi del recipiente fino ad inondare il pavimento.
A quella vista Benedetto terminò la preghiera e nello stesso istante finì di fluire anche l’olio. Approfittò di questo per ammonire, con più persuasivi argomenti, il monaco disobbediente, perché imparasse ad avere più fiducia ed umiltà.
Il monaco così salutarmente corretto era pieno di confusione, perché Benedetto aveva comprovato con un miracolo quell’onnipotenza di Dio alla quale si era richiamato nel rimproverarlo. Nessuno in seguito osò più dubitare di quello che prometteva, dopo aver visto che, nello spazio di pochi istanti, in cambio di un vaso di vetro quasi vuoto, aveva procurato un’anfora colma d’olio.

30. Il monaco liberato dal demonio

Saliva un giorno all’oratorio del Beato Giovanni, situato sulla cima di un monte, quando gli si fece incontro l’antico nemico in sembianze nientemeno che di veterinario, con in mano la cassetta dei medicinali e una corda. Benedetto gli domandò: «Dove vai?». Rispose: «Sto andando dai monaci, a dare una piccola purga». Il venerabile Padre proseguì lo stesso verso l’oratorio e terminata la preghiera, prese in gran fretta la via di ritorno.
Il cattivo spirito intanto si era incontrato con un vecchio monaco che attingeva acqua, in un lampo era entrato in lui, lo aveva gettato a terra, e lo strapazzava con feroce crudeltà.
Di ritorno dalla preghiera, nel vedere il poveretto tormentato con tanta violenza, il servo di Dio gli appioppò senz’altro uno schiaffo, e tanto bastò per scacciare immediatamente lo spirito, che non si azzardò mai più a rifarglisi nuovamente vicino. ‘
Pietro: io vorrei sapere una cosa: questi miracoli li operava sempre in forza della sua preghiera, oppure qualche volta li operava anche col solo atto della volontà?
Gregorio: coloro che aderiscono a Dio con piena dedizione d’anima, se la necessità lo richiede, sanno operar miracoli nell’una e nell’altra maniera, talvolta in virtù dell’orazione e altre volte per proprio potere. Dice Giovanni: «A quanti lo accolsero, diede potere di diventare figli di Dio». E quindi non fa proprio nessuna meraviglia che chi è figlio di Dio per il potere concessogli, abbia il potere di fare miracoli.
Che poi i santi possano operar miracoli in ambedue i modi ne diede una prova Pietro che risuscitò con la preghiera la morta Tabita e invece con un rimprovero destinò alla morte i due mentitori Anania e Saffira: non si legge che abbia pregato perché morissero, ma semplicemente li rimproverò duramente della colpa che avevan commessa.
E chiaro quindi che operano prodigi talvolta con l’autorità propria e talvolta per averlo chiesto a Dio: a questi Pietro con una riprensione tolse la vita, a quella, con una preghiera, la restituì.
E adesso, a comprova di quanto ho detto, voglio riferirti altri due fatti del servo di Dio Benedetto, in uno dei quali appare con chiarezza che operò per potere comunicatogli da Dio, nell’altro invece che ottenne in forza dell’orazione.

31. Uno sguardo liberatore

Al tempo del re Totila, un goto di nome Zalla, seguace dell’eresia ariana, imperversò con incredibile spaventosa crudeltà contro i fedeli cattolici e chiunque gli capitava tra le mani, chierico o monaco che fosse, lo spediva senza complimenti al Creatore.
Un giorno, divorato dall’avarizia e dall’avidità di denaro, torturava con crudeli tormenti un contadino, straziandolo con svariati supplizi. Estenuato dalle pene, il povero uomo dichiarò di avere affidato tutte le proprie sostanze al servo di Dio Benedetto; sperava così che il carnefice, credendogli, avrebbe smesso per un momento la sua crudeltà, concedendogli, così ancora qualche istante di vita.
Zalla infatti cessò per allora di torturarlo, ma legategli le braccia con una grossa fune, se lo spinse davanti al proprio cavallo, perché gli facesse strada a quel Benedetto che aveva in consegna le sue ricchezze. Con le braccia legate in quel modo il contadino andò innanzi fino al monastero dove era il santo, e lo trovò solo solo, davanti alla porta, intento alla lettura.
Si rivolse allora al feroce Zalla e: «Eccolo – disse – è questo qui quel Padre Benedetto di cui t’ho parlato». Questi, furioso, con folle e perversa intenzione, prima lo squadrò da capo a piedi, poi pensando di incutergli quello spavento che usava cogli altri, cominciò ad urlare a gran voce: «Su, su, senza tante storie, alzati in piedi e tira fuori la roba di questo villano, che hai in consegna!».
A quelle grida, l’uomo di Dio alzò subito con calma gli occhi dalla lettura, volse uno sguardo al goto e poi girò l’occhio anche sul povero contadino legato. Proprio nell’istante in cui volgeva gli occhi sulle braccia di lui, avvenne un prodigio!... Le funi cominciarono a sciogliersi con tanta sveltezza come nessun uomo vi sarebbe riuscito.
Alla vista del contadino che, prima legato, all’improvviso gli stava lì davanti libero dai legami, Zalla si spaventò per tanta potenza; precipitò a terra e piegando fino ai piedi del santo la dura e crudele cervice, si raccomandò alle sue orazioni.
Il santo non si levò dalla lettura, ma chiamati alcuni monaci, comandò di farlo accomodare dentro e di imbandirgli la tavola benedetta. Quando lo ricondussero fuori, lo ammonì che la smettesse con tante crudeltà. Ed egli se ne andò via umiliato e non osò chiedere mai più nulla a quel poveretto che l’uomo di Dio, non colle armi, ma col solo sguardo, aveva liberato.
Ecco qui quello che ti avevo detto, Pietro: quelli che con la massima fedeltà servono Dio onnipotente, qualche volta possono operar miracoli per il potere dato loro da Dio. Il santo, infatti, che, stando a sedere, represse la ferocia del terribile goto e con lo sguardo spezzò le funi annodate che incatenavano braccia innocenti, con l’istantaneità del miracolo vuole chiaramente indicare che per potere ricevuto gli era stato concesso di fare così.

32. Il fanciullo risuscitato

Adesso invece narrerò un altro grande miracolo che egli ottenne con la preghiera.
Un giorno il Padre era uscito con i fratelli per il lavoro dei campi, quando arrivò al Monastero un contadino che, piangendo a caldissime lagrime, reggeva sulle braccia il corpo del figliolo defunto e chiedeva ansiosamente del Padre Benedetto.
Quando gli fu risposto che stava con i fratelli al lavoro nei campi, senza attendere un istante, depose davanti la porta il cadavere del figliolo e, sconvolto dal dolore, si lanciò a precipitosa corsa in cerca del venerando Padre.
In quella stessa ora l’uomo di Dio era già di ritorno dal lavoro. Appena il contadino lo vide, cominciò a gridare: «Rendimi mio figlio, rendimi mio figlio!». L’uomo di Dio si arrestò un momento e chiese: «Ma quando mai ti ho preso il tuo figlio?». E l’altro: «È morto: vieni e ridagli la vita». A queste parole il servo di Dio si rattristò assai e rivolto ai circostanti che insistevano: «Non insistete, fratelli! – disse – non insistete! Queste azioni spettano ai santi Apostoli, non alle nostre povere forze. Perché volete imporci un peso che non siamo capaci di portare?».
Il buon uomo però, stretto da immenso dolore, insisteva nella sua richiesta, giurando che non sarebbe partito di lì, se non gli avesse risuscitato il figliolo.
Allora d servo di Dio gli domandò: «Dov’è?» Rispose: «Il suo corpo giace sulla soglia del monastero...».
Appena l’uomo di Dio vi giunse seguito dai fratelli, piegò le ginocchia per terra e si prostrò sopra il corpicino del fanciullo.
Poi sollevandosi tese le braccia al cielo e pregò: «Signore, non guardare i miei peccati, ma la fede di quest’uomo che domanda la risurrezione del suo figlio e restituisci a questo piccolo corpo l’anima che hai tolta».
Aveva appena finito di pronunciare queste parole, che il piccolo corpo del fanciullo, per il ritorno dell’anima, incominciò a sussultare e sotto gli occhi di tutti i presenti fu visto fremere e palpitare con miracoloso scuotimento. Il santo lo prese per mano e vivo e sano lo restituì a suo padre.
Qui è chiaro, Pietro, che questo miracolo non l’operò per potere posseduto, perché per poterlo compiere, dovette chiederlo prostrato per terra.
Pietro: non c’è dubbio che è proprio come dici tu: la tua dottrina è provata pienamente coi fatti.
Vorrei adesso che mi spiegassi se i santi possono compiere tutto quello che vogliono e se ottengono tutto quello che desiderano.

33. Il miracolo di sua sorella Scolastica

Gregorio: Credi, Pietro, che al mondo ci sia stato uno più degno di Paolo? Eppure egli supplicò tre volte il Signore per essere liberato dallo stimolo della carne, e non riuscì ad ottenere quanto voleva.
Perciò è necessario che io ti racconti come ci fu una cosa che il venerabile Benedetto, desiderò, ma non gli fu concesso di ottenerla.
Egli aveva una sorella di nome Scolastica, che fin dall’infanzia si era anche lei consacrata al Signore. Essa aveva l’abitudine di venirgli a fare visita, una volta all’anno, e l’uomo di Dio le scendeva incontro, non molto fuori della porta, in un possedimento del Monastero.
Un giorno, dunque, venne e il suo venerando fratello le scese incontro con alcuni discepoli. Trascorsero la giornata intera nelle lodi di Dio ed in santi colloqui, e quando cominciava a calare la sera, presero insieme un po’ di cibo. Si trattennero ancora a tavola e col prolungarsi dei santi colloqui, l’ora si era protratta più del consueto.
Ad un certo punto la pia sorella gli rivolse questa preghiera: «Ti chiedo proprio per favore: non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare, con le nostre conversazioni, le gioie del cielo...». Ma egli le rispose: «Ma cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero».
La serenità del cielo era totale: non si vedeva all’orizzonte neanche una nube.
Alla risposta negativa del fratello, la religiosa poggiò sul tavolo le mano a dita conserte, vi poggiò sopra il capo, e si immerse in profonda orazione. Quando sollevò il capo dalla tavola si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che né il venerabile Benedetto, né i monaci ch’eran con lui, poterono metter piedi fuori dell’abitazione.
La santa donna, reclinando il capo tra le mani, aveva sparso sul tavolo un fiume di lagrime, per le quali l’azzurro del cielo si era trasformato in pioggia. Neppure ad intervallo di un istante il temporale seguì alla preghiera: ma fu tanta la simultaneità tra la preghiera e la pioggia, che ella sollevò il capo dalla mensa insieme ai primi tuoni: fu un solo e identico momento sollevare il capo e precipitare la pioggia.
L’uomo di Dio capì subito che in mezzo a quei lampi, tuoni, e spaventoso nubifragio era impossibile far ritorno al monastero e allora, un po’ rattristato, cominciò a lamentarsi con la sorella: «Che Dio onnipotente ti perdoni, sorella benedetta; ma che hai fatto?». Rispose lei: «Vedi, ho pregato te e non mi hai voluto dare retta; ho pregato il mio Signore e lui mi ha ascoltato. Adesso esci pure, se gliela fai: e me lasciami qui e torna al tuo monastero».
Ormai era impossibile proprio uscire all’aperto e lui che di sua iniziativa non l’avrebbe voluto, fu costretto a rimaner lì contro la sua volontà. E così trascorsero tutti la notte vegliando e si riempirono l’anima di sacri discorsi, scambiandosi a vicenda esperienze di vita spirituale.
Con questo racconto ho voluto dimostrare che egli ha desiderato qualcosa, ma non riuscì ad ottenerla. Certo, se consideriamo le disposizioni del venerabile Padre, egli avrebbe voluto che il cielo rimanesse sereno come quando era disceso; ma contrariamente a quanto voleva, si trova di fronte ad un miracolo, strappato all’onnipotenza divina dal cuore di una donna.
E non c’è per niente da meravigliarsi che una donna, desiderosa di trattenersi più a lungo col fratello, in quella occasione abbia avuto più potere di lui perché, secondo la dottrina di Giovanni: «Dio è amore»; fu quindi giustissimo che potesse di più colei che amava di più!
Pietro: confesso che mi piacciono moltissimo questi racconti.

34. L’anima di sua sorella vola al cielo

Gregorio: il giorno seguente tutti e due, fratello e sorella, fecero ritorno al proprio monastero.
Tre giorni dopo Benedetto era in camera a pregare. Alzando gli occhi al cielo, vide l’anima di sua sorella che, uscita dal corpo, si dirigeva in figura di colomba, verso le misteriose profondità dei cieli.
Ripieno di gioia, per averla vista così gloriosa, rese grazie a Dio onnipotente con inni e canti di lode, poi andò a partecipare ai fratelli la sua dipartita. Ne mandò poi subito alcuni, perché trasportassero il suo corpo nel monastero e lo seppellissero nel sepolcro che egli aveva già preparato per sé.
Avvenne così che neppure la tomba poté separare quelle due anime, la cui mente era stata un’anima sola in Dio.

35. La visione del mondo e dell’anima di Germano

Un certo Servando, diacono e Abate di quel monastero che il patrizio Liberio costruì nella regione Campana, aveva l’uso di fargli ogni tanto una visita di amicizia. Faceva questo perché era anche lui ripieno di dottrina celeste e così si trasfondevano a vicenda confortevoli parole di vita e non potendo ancora gustare il dolce cibo della patria del cielo, lo pregustavano almeno con ardente desiderio.
Una volta si trattennero tanto, che era già l’ora di andare al riposo. Benedetto si era ritirato a riposare nel piano superiore di quella torre che si elevava a dominare tutto l’abitato, Servando nei locali inferiori: i due piani però erano in comunicazione per mezzo di una comoda scala. Di fronte poi alla torre si estendeva un fabbricato più grande, ove presero riposo i discepoli dell’uno e dell’altro.
Mentre i fratelli dormivano, Benedetto prolungò la veglia in attesa della preghiera notturna, e in piedi, vicino alla finestra, pregava. D’un tratto, fissando l’occhio nelle tenebre profonde della notte, scorse una luce scendente dall’alto che fugava la densa oscurità e diffondeva un chiarore così intenso da superare persino la luce del giorno. In questa visione avvenne un fenomeno meraviglioso, che lui stesso poi raccontava: fu posto davanti ai suoi occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole.
Mentre contemplava con lo sguardo gli splendori di quella luce smagliante, vide l’anima di Germano, Vescovo di Capua, trasportata dagli angeli, raccolta in un globo di fuoco.
Volendo quindi avere un testimone di sì mirabile prodigio, chiamò a gran voce, ripetutamente, due o tre volte, il diacono Servando. Questi, impressionato alle grida insolite di quell’uomo, corse su veloce, guardò anche lui e poté vedere con meraviglia l’ultimo affievolirsi di quella luce meravigliosa, mentre l’uomo di Dio completava il racconto di quanto aveva veduto, suscitando in lui profondo stupore per il grande miracolo.
Mandò subito dopo a Cassino un messaggero al monaco Teoprobo, perché nella stessa notte si recasse a Capua e si informasse, per poi riferire, che fosse successo al vescovo Germano. L’ordine fu eseguito. L’inviato trovò già defunto il reverendissimo Vescovo Germano, e, informandosi delle circostanze della morte, gli risultò che coincideva proprio con quel momento nel quale l’uomo di Dio aveva contemplata la sua elevazione al cielo.
Pietro: - È un Miracolo meraviglioso e stupendo!
Ma cosa vuol dire che fu presentato davanti agli occhi di lui tutto il mondo, come raccolto in un raggio di sole?
Siccome a me non è successo mai, allora non riesco proprio a immaginare, come possa avvenire che un solo uomo possa vedere l’intero mondo.
Gregorio: Pietro, tieni bene in mente questo che ti dico: all’anima che contempla il Creatore, ogni creatura è ben piccola cosa. Quando essa vede un bagliore del Creatore, per piccolo che sia, esigua gli diventa ogni cosa creata. Per la luce stessa che contempla interiormente, si dilata la capacità dell’intelligenza, e tanto si espande in Dio da ritrovarsi al di sopra del mondo. Anzi l’anima del contemplativo si eleva anche al di sopra di se stessa. Rapita nella luce di Dio, si espande interiormente sopra se stessa e quando sollevata in alto riguarda al di sotto di sé, comprende quanto piccolo sia quel che non aveva potuto contemplare dal basso.
L’uomo di Dio, dunque, che fissava il globo di fuoco e gli angeli che tornavano in cielo, non poteva contemplare queste cose se non nella luce di Dio. Non reca dunque meraviglia se vide raccolto innanzi a sé tutto il mondo, perché, innalzato al cielo nella luce intellettuale, era fuori del creato.
Tutto il mondo si dice raccolto davanti a lui, non perché il cielo e la terra si fossero impiccoliti, ma perché lo spirito del veggente si era dilatato, sicché, rapito in Dio, poté senza difficoltà contemplare quel che si trova al di sotto di Dio.
Perciò in quella luce che brillò ai suoi occhi corporei, era simboleggiata la luce interiore della mente, la quale nel rapimento dell’anima, gli mostrò quanto piccole fossero tutte le cose di quaggiù.
Pietro: mi accorgo che è stato un bene per me non aver capito prima quel che avevi detto. La mia ottusità ha occasionato queste tue esposizioni veramente sublimi.
Adesso ho capito benissimo la cosa e quindi, se non ti dispiace, riprendi il filo del racconto.

36. La regola monastica

Gregorio: mi piacerebbe molto, Pietro, prolungarmi ancora nel racconto dei fatti di questo venerabile Padre, ma molte cose bisogna che volutamente le ometta, perché è necessario che io mi accinga a narrare anche la vita di altri.
C’è una cosa però interessante, che non devi ignorare, cioè che l’uomo di Dio, oltre ai tanti miracoli che lo resero così conosciuto nel mondo, rifulse anche per una eccezionale esposizione di dottrina. Scrisse infatti anche una regola per i monaci, regola caratterizzata da una singolare discrezione ed esposta in chiarissima forma.
Veramente se qualcuno vuol conoscere a fondo i costumi e la vita del santo, può scoprire nell’insegnamento della regola tutti i documenti del suo magistero, perché quest’uomo di Dio certamente non diede nessun insegnamento, senza averlo prima realizzato lui stesso nella sua vita.

37. Il passaggio all’eternità

Nell’anno stesso in cui doveva morire, annunziò il giorno del suo beatissimo transito ai suoi discepoli, alcuni dei quali vivevano con lui ed altri che stavano lontani. Ai presenti ordinò di custodire in silenzio questa notizia, ai lontani indicò esattamente quale segno li avrebbe avvisati che la sua anima si staccava dal corpo.
Sei giorni prima della morte, si fece aprire la tomba. Assalito poi dalla febbre, cominciò ad essere prostrato da ardentissimo calore. Poiché di giorno in giorno lo sfinimento diventava sempre più grave, il sesto dì si fece trasportare dai discepoli nell’oratorio, ove si fortificò per il grande passaggio ricevendo il Corpo e il Sangue del Signore.
Sostenendo le sue membra, prive di forze, tra le braccia dei discepoli, in piedi, colle mani levate al cielo, tra le parole della preghiera, esalò l’ultimo respiro.
In quel medesimo giorno, a due fratelli, uno dei quali stava in monastero, l’altro fuori, apparve una identica visione.
Videro una via, tappezzata di arazzi e risplendente di innumerevoli lampade, che dalla sua stanza volgendosi verso oriente si innalzava diritta verso il cielo. In cima si trovava un personaggio di aspetto venerando e raggiante di luce, che domandò loro di chi fosse la via che contemplavano. Confessarono di non saperlo. «Questa – disse egli – è la via per la quale Benedetto, amico di Dio, è salito al cielo».
Così i presenti e i lontani videro e conobbero da quel segno predetto la morte del santo.
Fu sepolto nell’oratorio del Beato Giovanni Battista, oratorio che egli aveva edificato, dopo aver distrutto il tempio di Apollo. E fino ai nostri giorni, se la fede degli oranti lo esige, egli risplende per miracoli anche in quello Speco di Subiaco, dove egli abitò nei primi tempi della sua vita religiosa.

38. La pazza risanata nello Speco

Il fatto che ora racconto è successo proprio in questi giorni.
Una donna che per malattia mentale aveva perduto completamente la ragione, si aggirava per i monti e le valli lungo i boschi e attraverso i campi, sia di giorno che di notte, e si fermava soltanto quando la stanchezza la costringeva.
Un giorno in questo suo pazzo errare vagabondo, capitò nello Speco del beatissimo Padre Benedetto ed entrata così, all’insaputa, si fermò lì, dentro e vi trascorse tutta la notte.
Al sorgere del giorno ne uscì fuori, ma con la ragione in così perfetto equilibrio, come se non avesse mai sofferto di malattia mentale. In seguito, finché visse, non perdette mai più la riacquistata sanità.
Pietro: non riesco a comprendere bene quello che tante volte si dice, che cioè si ricevono più benefizi per mezzo delle reliquie dei martiri, che non negli stessi santuari dei martiri dove è il loro corpo. Si va dicendo cioè che operino maggiori benefizi dove non si trova il loro sepolcro.
Gregorio: non c’è dubbio, Pietro, che nei luoghi dove i santi martiri riposano coi loro corpi, moltissimi sono i miracoli operati per loro intercessione: a chi prega con rettitudine d’animo distribuiscono grazie senza numero. Però agli uomini di poca fede può facilmente sorgere il dubbio se i santi siano presenti dove si sa che non riposano coi loro corpi. Allora ecco la necessità che essi mostrino prodigi più grandi proprio là dove le anime deboli hanno motivo a dubitare della loro presenza. Coloro invece che hanno la mente ferma in Dio, acquistano tanto maggior merito nella fede, quanto più credono di essere esauditi là dove i martiri non hanno il sepolcro. Si comprende ora perché la stessa Verità, per accrescere nei discepoli la fede, ebbe a dire: «Se io non andrò via, il Paraclito non verrà a voi». In verità il Paraclito procede sempre dal Padre e dal Figlio: e allora perché il Figlio dice che si allontanerà per far venire Colui che dal Figlio non è mai separato? Appunto perché i discepoli, che vedevano il Signore corporalmente, bramavano di vederlo sempre corporalmente, proprio per questo è stato detto loro: «Se io non andrò, il Paraclito non verrà», quasi volesse apertamente insegnare: «Se io non allontano il corpo non potrò mostrare chi sia lo Spirito che è Amore; e se non cessate di guardarmi con l’occhio del corpo, non imparerete mai ad amarmi in modo spirituale».
Pietro: Adesso sì che sono persuaso.
Gregorio: Ora sarà bene, Pietro, sospendere per un po’ i nostri colloqui. Nel frattempo, in attesa di ricominciare fra poco il racconto dei miracoli di altri santi, ristoriamo, con un po’ di silenzio, le nostre energie.

Fine del II Libro dei Dialoghi di S. Gregorio Magno


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