lunedì 10 agosto 2015

Beato Maurizio (Maurice) Tornay Sacerdote e martire - Rosière, Svizzera, 31 agosto 1910 - To Thong, Tibet, 11 agosto 1949 - Tema : Peccato - Missione - Tibet



Una sera, accanto al fuoco, Faustina Tornay racconta ai figli più piccoli, Maurizio e Anna, la vita di sant'Agnese, vergine e martire. Rispondendo alla loro domanda, essa spiega: «Siete entrambi vergini, cari i miei bambini; martiri, è più difficile... Bisogna amare il buon Dio più di tutto, ed esser pronti a dare la vita, a versare fino all'ultima goccia di sangue per Lui, piuttosto che offenderLo...». Maurizio reagisce, veloce come un fulmine: «Vedrai, Anna, sì, vedrai, sarò martire...». Parole profetiche: il 16 maggio 1992, sarà beatificato come martire da Papa Giovanni Paolo II.
Maurizio Tornay è nato il 31 agosto 1910, settimo di una famiglia di otto figli, nella frazione di La Rosière, abbarbicata a 1200 metri di altitudine sul fianco scosceso di una montagna, nel Vallese (Svizzera). Fin dal primo anno di scuola, si rivelano le sue qualità eccezionali, ma anche i suoi difetti e imperfezioni. Gentile, zelante, di un'intelligenza vivace, si dimostra tuttavia dominatore, testardo, talvolta addirittura aggressivo. Dopo la scuola, i figli Tornay aiutano i genitori nella stalla, sui pascoli, nell'orto: la vita è dura in montagna. Un affetto profondo unisce tutti i membri della famiglia. In essa, si sperimenta la confortante verità descritta da sant'Agostino: «Dove c'è amore, non c'è dolore, e se c'è dolore, esso è amato». Ancora giovane, Maurizio si sforza di correggere i propri difetti, e ci riesce, almeno in parte. Anna attribuisce il successo all'Eucaristia: «Dopo la prima Comunione, Maurizio divenne gentile». Il ragazzo ha preso dal suo patrono, san Maurizio, che ha pagato a caro prerzzo la sua fedeltà a Cristo: è stato martirizzato con tutta una legione di soldati romani a Agaunum, non lontano da La Rosière. A quindici anni, Maurizio entra nel collegio dell'Abbazia di San Maurizio, costruita sulla tomba del martire; vi rimarrà per sei anni come convittore. Si fa ben presto notare per lo zelo nello studio e per la devozione, che però è ben lungi dall'essere affettata: gli piace ridere e pratica in sommo grado la virtù dell'eutrapelia, vale a dire l'arte di infiorare le relazioni umane con tratti umoristici e una sana giovialità. Nei momenti di libertà, gli capita di trascinare i compagni nella cappella per una breve meditazione: legge loro brani di san Francesco di Sales o una pagina della Storia di un'anima di santa Teresa di Gesù Bambino.
Saremmo abbastanza folli per cacciarlo?

Un giorno, parlando della presenza di Cristo nell'Eucaristia, Maurizio afferma: «Ha fatto un ciborio della nostra anima e vi dimorerà perpetuamente, fino a quando fossimo abbastanza folli per cacciarLo con il peccato mortale». Tale osservazione denota uno sguardo lucido sul più gran male che possa colpire l'uomo: il peccato. «Colui che pecca ferisce l'onore di Dio e il suo amore, la propria dignità di uomo chiamato ad essere figlio di Dio e la salute spirituale della Chiesa di cui ogni cristiano deve essere una pietra viva», ricorda infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC). «Agli occhi della fede, nessun male è più grave del peccato, e niente ha conseguenze peggiori per gli stessi peccatori, per la Chiesa e per il mondo intero» (CCC 1487-88). Il peccato consiste in qualsiasi atto, parola o desiderio contrario alla legge di Dio. Si distinguono il peccato veniale ed il peccato mortale (o grave). Il peccato veniale intiepidisce l'amore di Dio nei nostri cuori senza privarci della vita della grazia. Il peccato mortale distrugge la carità nel cuore dell'uomo a causa di una violazione grave della legge di Dio; distoglie l'uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e la sua beatitudine, preferendo a Lui un bene inferiore. Perchè un peccato sia mortale, si richiede che concorrano tre condizioni: materia grave, piena consapevolezza, deliberato consenso (ved. CCC 1855-57).
Oggigiorno, tuttavia, una mentalità ampiamente diffusa tende a negare o a ridurre la realtà del peccato mortale. Si afferma che atti particolari, anche gravemente contrari alla legge di Dio, non separerebbero l'uomo da Dio, purchè il soggetto abbia un'intenzione globale (detta «opzione fondamentale») di orientare la propria vita verso Dio. Contro tale mentalità, Papa Giovanni Paolo II ha scritto, nell'Enciclica Veritatis Splendor, in data 6 agosto 1993: «Si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale all'atto che esprime una «opzione fondamentale» contro Dio, secondo l'espressione corrente attualmente, intendendo con questo un disprezzo formale ed esplicito di Dio e del prossimo, oppure un rifiuto implicito e incosciente dell'amore. In realtà, vi è peccato mortale anche quando l'uomo sceglie, consciamente e volontariamente, per una qualunque ragione, qualcosa di gravemente disordinato. Infatti, una tale scelta include per se stessa un disprezzo della Legge divina, un rifiuto dell'amore di Dio per l'umanità e per tutta la creazione: l'uomo si allontana da Dio e perde la carità. L'orientamento fondamentale può dunque essere radicalmente modificato attraverso atti particolari» (n. 70). È il caso, per esempio, della bestemmia, dell'idolatria, dell'irreligione, dell'eresia, dello scisma, dello spergiuro, dell'aborto, della contraccezione, dell'adulterio, della fornicazione, dell'omosessualità, della masturbazione, ecc.
«Qualcosa di più grandioso»
L'orrore del peccato, che era profondamente radicato nel cuore di Maurizio, manifestava uno dei frutti di un'educazione totalmente impregnata dello spirito di fede. Giunto al termine degli studi liceali, il giovane chiede di essere ammesso presso i Canonici Regolari del Gran San Bernardo. Scrive la sua intenzione al Prevosto della congregazione: «Corrispondere alla mia vocazione, che è quella di lasciare il mondo e di dedicarmi integralmente al servizio delle anime per guidarle verso Dio e per salvare me stesso». La missione dei Canonici si riassume nelle parole scolpite sul frontone dell'ospizio: «Hic Christus adoratur et pascitur – Qui Cristo è adorato e nutrito». Essi assicurano la celebrazione della Messa e delle Ore canoniche, ma sono anche pastori d'anime, prestano soccorso ai pellegrini che devono valicare le Alpi, o servono la Chiesa in altri ministeri che vengono affidati loro dai vescovi. Al momento di lasciare la famiglia, Maurizio risponde alla sorella maggiore che gli suggerisce di rimanere con i suoi: «C'è qualcosa di più grandioso di tutte le bellezze terrene». Il 25 agosto 1931, è ammesso al noviziato dell'ospizio del Gran San Bernardo, situato a 2472 m. di altitudine. D'inverno, il termometro scende a –20°C.
Meno di due mesi dopo esser stato ammesso al noviziato, Maurizio scrive alla famiglia: «Non sono mai stato tanto libero. Faccio quel che voglio, posso fare tutto quel che voglio, perchè la volontà di Dio mi viene espressa in ogni istante, e voglio fare solo questa volontà». Alla sorella Anna, scrive: «Dobbiamo affrettarci, vero, Anna? Dobbiamo sbrigarci: alla nostra età, altri erano santi. Perchè, se lo stelo fiorisce troppo a lungo, il frutto non può maturare prima del freddo e della morte. E molti sono quelli che implorano, tanti peccatori, tanti pagani ci chiamano; vogliamo risponder loro, vero? La nostra salute, la nostra carne, sono per loro, vero? Te lo ripeto, dobbiamo affrettarci. Più avanzo nella vita e più sono convinto che il sacrificio, il dono (di sè), danno senso, sono i soli a dar un senso ai giorni che trascorriamo...». Maurizio è ossessionato dall'idea che ci sono anime che contano su di noi per essere salvate, e arde dal desiderio di andar a portar loro il Vangelo, di partire nei paesi lontani per guadagnarle a Cristo. Alcuni decenni dopo, Papa Giovanni Paolo II sottolineerà: «Il numero di coloro che ignorano Cristo e non fanno parte della Chiesa aumenta continuamente, ed è addirittura quasi raddoppiato dalla fine del Concilio (Vaticano II) a questa parte. Nei riguardi di questo immenso numero di uomini che il Padre ama e per i quali ha inviato suo Figlio, è evidente l'urgenza della missione» (Enciclica Redemptoris Missio, 7 dicembre 1990, n. 3). «La ragione di tale attività missionaria scaturisce dalla volontà di Dio, che vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti (1 Tim. 2, 4-5); e in nessun altro c'è salvezza (Atti 4, 12). Bisogna dunque che tutti si convertano a Cristo, conosciuto attraverso la predicazione della Chiesa, e che siano anch'essi incorporati dal battesimo nella Chiesa, che è il suo Corpo. Poichè Cristo medesimo, insegnando in termini formali la necessità della fede e del battesimo (ved. Marco 16, 16; Giov. 3, 5), ha confermato in pari tempo la necessità della Chiesa in cui gli uomini entrano attraverso il battesimo come attraverso una porta» (Concilio Vaticano II, decreto Ad Gentes, n. 7).
Il merito delle sofferenze di una giornata
Provvidenzialmente, le Missioni Estere di Parigi intervengono presso la Congregazione del Gran San Bernardo, in vista di inviare nell'Himalaia alcuni monaci abituati alla vita in montagna. Dopo aver esaminato la questione, il Prevosto, Monsignor Bourgeois, decide di rispondere positivamente alla richiesta, ed un primo gruppo di monaci parte, nel gennaio del 1933, per Weisi nello Yünnan (sud-ovest della Cina), ma Maurizio Tornay non fa parte del gruppo. Nel gennaio del 1934, i medici gli diagnosticano un'ulcera duodenale che necessita un'operazione. La convalescenza sarà lunga. L'esperienza della sofferenza lo porta ad incoraggiare i genitori, i fratelli e le sorelle ad utilizzare meglio il tesoro troppo misconosciuto che costituisce la sofferenza sopportata in unione con Cristo sofferente. Scrive alla sorella Giuseppina: «Sai che quando hai freddo ed offri quel freddo al Buon Dio, puoi convertire un pagano? E che tutte le sofferenze di una giornata, sopportate bene, hanno più merito per te che se avessi pregato per tutta la giornata? Che mezzi facili hai di far del bene a me, di far del bene a tutti... Tutte le nostre pene, anche infime, hanno un valore infinito se le uniamo a quelle di Cristo. Oh! quanto Cristo ti amerebbe allora!»
L'8 settembre 1935, il giovane canonico pronuncia i voti solenni di povertà, castità e obbedienza. Monsignor Bourgeois decide allora di rafforzare il gruppo dei pionieri nello Yünnan; il canonico Tornay, guarito, partirà con i confratelli, i canonici Lattion e Rouiller. Si preparano tutti e tre per parecchi mesi ad alleviare la miseria umana attraverso corsi pratici di aggiornamento presso un medico ed un dentista. Qaundo viene fissato il giorno della partenza, Maurizio confida al fratello Luigi: «Ho ricevuto nettamente nell'anima la seguente intuizione: perchè il mio ministero sia fecondo, devo applicarmi con tutto l'ardore dell'anima, per il più puro amore di Dio, senza nessun desiderio di veder notata la mia opera. Voglio estenuarmi al servizio di Dio. Non tornerò più».
Dopo circa un mese e mezzo di viaggio, i tre canonici arrivano alla missione di Weisi (m. 2350), nelle Marche tibetane. Il canonico Tornay scrive: «E adesso, ho fatto quasi il giro del mondo: ho visto ed ho sentito che ovunque la gente è infelice, che la vera infelicità consiste nel dimenticare Dio, che a parte servire Dio, veramente, nient'altro ha valore, niente, niente, niente». Senza por tempo in mezzo, riprende lo studio: da un lato, la teologia, sotto la guida del canonico Lattion, dall'altro, la lingua cinese, con un vecchio professore protestante, che ha una certa simpatia per il cattolicesimo. Ansioso di evangelizzare i pagani nella loro lingua e nel rispetto della loro cultura, fa rapidi progressi in cinese. Ma, per quanto il suo programma di studio sia sovraccarico, il canonico si dà con zelo agli esercizi di devozione: adorazione, orazione, Messa, recita dell'Ufficio divino. È così che la sua anima trova la forza di portare la croce del missionario. A quell'epoca, scrive ai genitori: «Quel che voi dissodate, vi lascerà un giorno; quel che amate, passerà un giorno ad altri. No, certo, bisogna amare la terra; ma non bisogna amarla che per quel tanto che essa ci conduce a Dio, che per quel tanto che essa ci dice quanto Dio sia bello e misericordioso. Il resto non vale niente, perchè il resto passerà. Sì, tutto il resto passerà. Ma il mio affetto per voi non passerà, perchè, in Cielo, ci ameremo per sempre».
Una gioia temperata
Dopo aver superato brillantemente gli esami di teologia, il canonico Tornay può esser ordinato sacerdote. Il prelato più vicino, Monsignor Francesco Chaize, risiede a Hanoi; il giovane diacono intraprende quindi un viaggio di venti giorni per recarsi da lui. La sera stessa dell'ordinazione, il 24 aprile 1938, scrive ai genitori: «Vostro figlio è sacerdote! Gloria a Dio! Questa notizia non vi procurerà che una gioia temperata, perchè non sono assieme a voi. Ma voi siete cristiani e mi capite. C'è un Dio che bisogna servire con tutte le proprie forze. Per questo sono partito, per questo avete sopportato tanto bene la mia partenza».
Nel settembre del 1939, scoppia la guerra mondiale. La Cina è invasa dal Giappone, e le Marche tibetane sono occupate militarmente, il che provoca carestia, sommosse popolari, saccheggi. Padre Tornay è confrontato al problema dell'alimentazione dei partecipanti alla «probazione», specie di preparazione al seminario minore fondato dai canonici e affidato a lui. Arriva al punto di farsi mendicante per nutrire i suoi ragazzi, ma deve lui stesso, talvolta, passare giorni e giorni senz'altro nutrimento che radici di felci. «Portare la croce, scrive all'epoca, ho capito un po' il senso di queste parole». Ma la miseria generale, lungi dallo scoraggiarlo, non fa che infiammare il suo desiderio di far del bene intorno a sè: «Più i tempi sono difficili, più è urgente occuparsi delle anime». La guerra non è ancora finita, nel marzo del 1945, quando Padre Tornay viene nominato curato di Yerkalo (2650 metri di altitudine), nel sud-est del Tibet. Accettare la nomina significa avviarsi su una strada che presenta tutte le probabilità di sfociare nel martirio. Infatti, parecchi sacerdoti vi hanno trovato la morte a causa dell'intolleranza religiosa delle autorità locali. Alla notizia della nomina, il missionario cerca rifugio nella preghiera. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! (Matt. 26, 39).
Due eserciti alle prese
Nella regione in cui Padre Tornay esercita il suo apostolato, il lama capo Gun-Akhio è onnipotente sul piano religioso come nei campi economico e politico. Egli alimenta un odio implacabile contro i missionari. Già san Paolo aveva messo in guardia il suo discepolo preferito Timoteo contro le prove che non mancano mai agli operai del Vangelo: Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo saranno perseguitati (2 Tim. 3, 12). Non è il caso di stupirsene perchè, se «Dio ha deciso di intervenire nella storia umana in modo nuovo e definitivo, inviando suo Figlio nella nostra carne, per strappare attraverso Lui gli uomini all'impero delle tenebre e di Satana, e per riconciliarsi in Lui il mondo» (Concilio Vaticano II, Decreto Ad Gentes, n. 3), le forze del male, che possono servirsi della libera cooperazione degli uomini, si sforzano di impedire l'annuncio della verità salvifica. Un gran vescovo missionario in Papuasia all'inizio del XX secolo, Monsignor Alain de Boismenu, scriveva: «Esistono veramente due regni che si dividono il mondo e si contendono le anime; due eserciti sempre e violentemente alle prese: l'esercito di Gesù Cristo, la Chiesa, pronto a salvare le anime; l'esercito di Satana, focoso a perderle. Guerra senza tregua e senza quartiere. Molti la ignorano, molti vi vedono soltanto una finzione. Eppure essa è proprio reale. È la trama invisibile della storia del mondo, fino alla fine dei secoli. Realtà formidabile; dobbiamo, prima di tutto, crederci fermamente».
«Ero appena giunto a Yerkalo, scriverà nel suo diario Padre Tornay, e già si parlava sottovoce di mettere il missionario alla porta. Durante le danze dei lama di Karmda, si proclama, davanti al cielo e alla terra, che il missionario dovrà ben presto andarsene, pena i peggiori castighi che un essere umano possa temere, che i Cristiani dovranno apostatare e tutti i loro figli rivestire la toga dei lama; perchè «non deve esserci che una sola religione nel paese dai mille dei»». Malgrado il pericolo e le difficoltà dell'apostolato, Padre Tornay vuol rimanere sul posto. Come il santo Curato d'Ars, che aveva detto: «Lasciate una parrocchia senza sacerdote per vent'anni, e vi si adoreranno gli animali», egli si rende conto che il popolo ha bisogno dei missionari per conoscere la legge di Dio e rimanervi fedele grazie ai sacramenti della Chiesa. Le minacce di Gun-Akhio non lo distolgono dal suo dovere: «Sono stato mandato a Yerkalo dal mio vescovo, e vi rimarrò finchè egli vorrà che mi ci trattenga, scrive Padre Tornay ad un confratello. Se si vuole allontanarmi, c'è un solo mezzo per i lama: legarmi sul dorso di un mulo e spronare la bestia; non cederò che di fronte alla violenza». L'ordine di non cedere che di fronte alla violenza gli è stato dato dal vescovo. Anche quando i lama gli gridano apertamente: «Partirai! Partirai! Ti ammazzeremo! Ti butteremo nel Mekong!», Tornay rimane imperterrito.
Il 26 gennaio 1946, la mattina, una quarantina di lama invade la residenza del missionario, la saccheggia, la distrugge e, sotto la minaccia di 12 fucili, trascina Padre Tornay in esilio a Pamè, nello Yünnan cinese. Comincia allora un anno che sarà il più duro di tutta la sua vita missionaria. Nel villaggio, infatti, c'è una sola famiglia cristiana; il vecchio tibetano che lo ospita è un ubriacone; i lama continuano a minacciarlo di morte, se non interrompe la corrispondenza con i fedeli di Yerkalo. Prega molto, visita gli abitanti, cura i malati.
All'inizio del maggio 1946, Padre Tornay riceve una lettera dal Governatore di Chamdo, suprema autorità civile dell'est tibetano. Egli gli promette la sua protezione e lo invita a tornare a Yerkalo. Il 6 maggio, Padre Tornay si mette in viaggio, ma, quando sta per varcare il confine di Yerkalo, viene arrestato da Gun-Akhion: «Alt! Vietato andare oltre». Con la morte nel cuore, Padre Tornay torna indietro in piena notte. Senza scoraggiarsi, si propone di recarsi a Lhasa, capitale del Tibet (34 giorni di cammino), per ottenere dal Dalai-Lama, capo religioso e politico supremo del paese, la libertà religiosa dei Cristiani di Yerkalo. È stato incoraggiato a compiere questo passo dai rappresentanti della Santa Sede e dai governi svizzero e francese.
L'arrivo nella vera patria
Il 10 luglio 1949, Padre Tornay, aggregandosi ad una carovana di mercanti, inizia il lungo viaggio alla volta di Lhasa, viaggio previsto per durare due mesi. Benchè si sia rasata la barba e porti l'abito tibetano, viene riconosciuto e denunciato durante una tappa. Costretto a lasciare la carovana ed a tornarsene indietro, riesce comunque a raggiungerla di nuovo. «Non bisogna aver paura, dice ai suoi compagni, se ci ammazzeranno, andremo difilato in Paradiso. Moriremo per i Cristiani». La carovana si ferma, vicino alla frontiera, sul territorio dello Yünnan, in un luogo detto Tothong. È un posto sinistro, propizio ad un'imboscata. Improvvisamente, quattro lama armati irrompono dal sottobosco. Padre Tornay grida: «Non sparate, si può discutere!». Ma, in quello stesso istante, si sentono due spari. Egli si precipita verso il suo fedele compagno, Doci, che è stato colpito. Altre fucilate risuonano: Padre Maurizio Tornay si accascia sotto i proiettili. È l'11 agosto 1949, nella foresta di Tothong, sotto il passo di Chula (3000 m.), nelle ultime ore prima di mezzogiorno. Più tardi, le autorità cinesi imporranno una multa considerevole alla lamasseria di Karmda. La responsabilità dell'assassinio viene, di conseguenza, riconosciuta ufficialmente. Il motivo: «Padre Tornay propagava la religione cattolica a Yerkalo». La fede cattolica vi è oggi tuttora vivace.
Ancora collegiale, Maurizio Tornay aveva scritto: «La morte è il giorno più felice della nostra vita. Bisogna rallegrarsene più di tutto, perchè è l'arrivo nella nostra vera patria». Dopo aver camminato sulle tracce del Buon Pastore che dà la vita per le sue pecorelle, il Beato è entrato nella vita eterna. Che ci ottenga di partecipare al suo amore appassionato per Cristo e di andare fino in fondo alle esigenze del suo amore per noi!
Dom Antoine Marie osb
"Lettera mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia
(Website : www.clairval.com)"




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