giovedì 24 settembre 2015

UNA SPIRITUALITÀ PER IL DIALOGO di Andrea Gasparino ( Fontanelle di Boves, 1923 – Cuneo, 26 settembre 2010) è stato un presbitero e scrittore italiano, fondatore del Movimento Contemplativo Missionario Padre De Foucauld.




Ogni sorta di bestie è stata domata dall’uomo, ma la lingua nessun uomo la può domare” (Gc 3, 7)

IMPORTANZA DEL DIALOGO
Come sarebbe strano se ci saltasse in mente, quando la Panda si ferma, di riempire il serbatoio di acqua invece che di benzina! Si capisce che la Panda non uscirebbe più dai suoi guai. È un po’ la storia del dialogo. Quando s’inceppa la carità, è sempre per una causa semplicissima: si è arrestato il dialogo. Che cosa fare? È semplicissimo: si ritorna al dialogo. È la benzina del motore, non dobbiamo farci illusioni. La nostra carità sta in piedi perché si dialoga e finché si dialoga; cala, s’inceppa e si arresta quando non si dialoga.
È il dialogo l’anima della nostra carità. E il dialogo il bisogno essenziale della nostra carità. Per il pieno di benzina ci vogliono i distributori, per il dialogo è ancora più semplice: basta la nostra buona volontà. Non allarmiamoci troppo quando la carità si arresta: con una buona volontà di dialogo la carità può riprendere. È il grande segreto della vita, è la chiave maneggiabile da tutti quelli che hanno buona volontà.
La vita è amare
La vita è solo questo: è amare. La vita senza questo non ha senso. Senza amore, è un tunnel senza uscita.
Viviamo per amare. Per amare e per essere amati. Non basta che amiamo. Occorre anche essere amati. Ma il problema va avanti da sé: chi ama è amato; chi ama, presto o tardi suscita amore. Quando siamo preoccupati per il problema della carità occorre subito richiamarci a questa realtà semplicissima: per risuscitare l’amore basta amare. L’uomo è un essere così ben strutturato che risponde sempre all’amore: avrà i suoi ritardi dovuti alle cause più strane, ma quasi con certezza assoluta l’uomo risponde all’amore se è oggetto di amore.

Non esiste amore senza dialogo
Viviamo per amare. Tutta la Bibbia lo proclama, dalle prime pagine della Genesi fino all’Apocalisse è un richiamo incessante a questa verità: l’uomo deve amare, l’uomo esiste per amare. Gesù lo dichiara primo comandamento, cioè primo dovere dell’uomo, da cui dipendono tutti gli altri comandamenti, cioè tutti gli altri doveri. Lo dichiara la nostra natura, lo proclama la Parola di Dio, lo verifica la nostra esperienza: la nostra vita è profondamente mutilata senza l’amore. Ora la legge fondamentale dell’amore è comunicare. Non esiste amore senza dialogo. Non esiste dialogo senza amore. L’amore se è autentico si esprime nel dialogo. Il dialogo insomma è una delle espressioni più necessarie dell’amore. È una verifica, un segno inconfondibile dell’amore, ed è un segreto di ripresa quando l’amore scade. Perché questo è un dato scontato: l’amore non è facile, ha i suoi alti e bassi, ha i momenti duri e ha anche le sue brusche interruzioni. L’amore è come un bambino delirante: tutto può succedere alla salute di un bambino delirante, basta un’imprudenza, basta un’inavvertenza, e la sua salute è in pericolo. L’amore è un fiore delicato che non può essere esposto a tutti i venti. L’amore vive solo se lo si tiene acceso. E tenerlo acceso comporta sacrificio. Ora uno dei mezzi più validi per coltivare l’amore, è imparare l’arte del dialogo.
PRIMA CONDIZIONE DEL DIALOGO: AMARE SE STESSI
La prima condizione per amare è amare in modo giusto se stessi. È il presupposto al dialogo. Non impara a dialogare chi non parte da qui. Il vero amore degli altri comincia dall’amore giusto a noi stessi. Chi non si ama non è attrezzato per amare gli altri. Dice lo psicologo John Powell: «Quando noi perdiamo la capacità di apprezzare noi stessi e di godere di essere noi stessi, ogni sorta di cose nere e di cose penose entrano in noi a colmare il vuoto». Solo chi è in sintonia con se stesso è capace di amare. Chi odia se stesso non getta il ponte verso gli altri. La persona egoista, chiusa, che non ama nessuno, è sempre una persona che non ama se stessa. C’è gente che impiega tutto il suo tempo a piagnucolare su di sé: chi vive così non ha capacità di amare gli altri. Non vibra per gli altri un cuore atrofizzato anche verso se stesso. Il pessimista sempre a caccia di nuvoloni neri, che non sa vedere il bene nemmeno dentro di sé, non è attrezzato per amare gli altri. C’è gente che davanti a una ciambella guarda subito al buco e non guarda alla ciambella. Il pessimista si amareggia la vita, si priva spesso delle soddisfazioni più belle. Ma ciò che è peggio, non amando se stesso non è in grado di partire nell’amare gli altri. Quando non amiamo noi stessi, ci riempiamo la vita di compensazioni, spesso molto meschine. Per esempio...
1. Diventiamo ipercritici verso gli altri. La vecchia suocera che brontola di tutto e di tutti è l’esempio tipico della creatura che non ama se stessa. Veder tutto nero negli altri, aver pretese senza fine, spesso è indice che le insoddisfazioni non sono tanto negli altri, ma in noi stessi.
2. Il superlavoro, lo strafare, può essere una fuga tipica da se stessi, un segno che non si ama se stessi: nello sfogo della superattività si cerca di colmare il vuoto di sé.
3. Le maschere a cui ricorre una persona quando non ama se stessa hanno del ridicolo: si fa il duro o si fa l’eroe, si fa il menefreghista o si fa il condiscendente a oltranza.
4. La ricerca continua di approvazione è un altra fuga: si è assetati del buon giudizio altrui, si è continuamente crucciati di ciò che pensano o dicono gli altri di noi.
5. Il sospetto continuo nei riguardi del nostro prossimo è sovente un altro tipo di fuga.
6. Così l’eccessiva timidezza che blocca ogni passo, che paralizza ogni iniziativa, che è sempre sul chi vive.
7. Il disprezzo di se stessi, l’odio di sé, è il segnale più grave di un’affannosa fuga da se stessi. In conclusione, l’infelicità che si procura chi non ama se stesso esige che il problema venga affrontato con decisione e buona volontà. È troppo il male che viene su chi parte male, è necessario documentarsi sulle conseguenze che ne derivano, e correre ai ripari.
Dicono gli esperti
Giova molto sentire la voce degli esperti, la voce dei grandi conoscitori dell’uomo. Le loro ricerche sulla psiche umana avallano quello che stiamo dicendo sull’accettazione e sull’amore a noi stessi.
°Ecco un’affermazione molto sintomatica di Carl Jung: «L’accettazione di se stessi è l’essenza di tutti i problemi della vita. La nevrosi è lo spezzamento di se stesso: tutto ciò che accentua questa rottura rende il paziente peggiore, tutto ciò che mitiga la rottura tende a guarire il paziente».
°John Powell arriva ad affermare nella sua esperienza di psicologo: «Tutte le nevrosi e i mali morali hanno questa causa comune: l’assenza di vero amore a se stessi».
°Eric Fromm non esita a descrivere così la catastrofe dell’egoismo: «L’egoismo ha le sue radici nella mancanza di amore a se stessi. La persona egoista è sempre insoddisfatta... In fondo è gente che non accetta se stessa, che non ama se stessa».
°Ecco il giudizio di uno psichiatra che dedica tutta la sua vita agli individui dissociati: «il nostro principale lavoro è aiutare i pazienti a trovare ciò che c’è di bene in se stessi: di qui comincia sempre il miglioramento».
°Robert Felix, direttore dell’Istituto Nazionale di Salute Mentale negli Stati Uniti, propone al nevrotico questa meta: «Devo imparare a godere di essere me stesso, a non voler essere nessun altro, a essere solo me stesso». Può bastare questo campionario di esperti. La tragedia che incombe su chi non accetta e non ama se stesso, deve aprire gli occhi sulla nostra responsabilità e sul nostro bisogno di agire.
Quattro tappe di crescita
Venendo al concreto, lo psicologo John Powell propone queste quattro tappe di crescita nell’amore a se stesso.
1. Accettarsi. Ognuno di noi è un progetto meraviglioso di Dio. Niente è a caso nella nostra storia. Dio ha cominciato il ricamo della nostra vita ben prima della nostra nascita. Un mezzo che può portarci a un’accettazione piena di noi stessi è l’abitudine al ringraziamento. Fare l’occhio ai doni di Dio. Allenarsi alla gratitudine. Il tornare a commuoverci per i doni incessanti di Dio, lascia un segno profondo in noi. È un metodo facile di riflessione alla portata di tutti: basta educarci a mai lasciare cadere la meraviglia e la gratitudine. «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente!». La Vergine Maria, che non ha avuto complessi riguardo ai suoi doni mirabili, è l’esempio e lo stimolo della nostra gratitudine a Dio.
2. Dopo l’accettazione di sé, viene la stima di sé. «Ti ringrazio perché mi hai fatto come un prodigio», dice il salmista (Salmo 138). Il profeta Isaia mette sulle labbra di Dio queste parole commoventi: «Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima, e io ti amo» (Is 43,4). Dunque accettarsi è poco. Occorre un passo avanti, la stima. Ma come è possibile, quando siamo frustrati dai nostri limiti? Come è possibile, quando siamo scoraggiati per la nostra debolezza? In realtà non esiste un limite umano che sia soltanto negatività. Ogni limite ha un risvolto positivo che, ben considerato, ci compensa. Non esiste un limite esclusivamente negativo: c’è sempre il verso della medaglia che, soppesato bene e considerato con intelligenza, ci rende accettabile il limite. Ecco un monito importante di Richard Bach: «Cavilla sui tuoi limiti, ed essi ti apparterranno».
3. Anche la stima non basta, occorre l’entusiasmo: essere degli entusiasti di se stessi. Normalmente non lo siamo finché non abbiamo molto lottato per esprimere la nostra gratitudine a Dio.
L’entusiasmo di noi stessi nasce dalla riflessione, dal confronto calmo con chi ha meno di noi. L’entusiasmo di essere se stessi è un’abitudine di fede che si acquista con la riflessione e la preghiera. 4. Da ultimo, la gioia di essere quel che siamo. È una tappa che esige il suo tempo, ma la persona che si allena seriamente alla gratitudine arriva anche lì.
E a questo punto c’è la libertà.
Abbiamo bisogno di approvazione
Non è sufficiente la nostra buona volontà per coltivare l’accettazione e la stima di noi stessi. Dov’è che noi cogliamo la stima di noi stessi? Il bambino la coglie negli occhi di sua madre, lo scolaro la coglie nell’approvazione del suo maestro, il giovane la coglie nell’accettazione dei suoi coetanei. Sono gli altri che ci fan crescere nella stima di noi stessi. Abbiamo estremo bisogno di approvazione. Abbiamo estremo bisogno di far contenti, di rispondere alle aspettative degli altri, di vedere che siamo utili, che gli altri sono contenti di noi. Ne ha bisogno il bambino, ne ha bisogno l’adulto, ne hanno bisogno tutti. Dice John Powell: «Siamo come specchi l’uno per l’altro... Nessuno sa stimarsi se non percepisce stima negli occhi dell’altro». Dice Victor Frankl: «La stima di noi stessi è sempre riflessa nella stima delle persone che ci amano e che noi amiamo». Perciò una delle leggi più importanti della vita con gli altri è questa: esprimere in modo schietto la propria stima a ogni fratello e a ogni sorella». Non dobbiamo essere trascurati in questo dovere: ogni occasione che la vita ci porge per esprimere la nostra stima va sfruttata per il bene dei fratelli, del nostro gruppo.
Perché non sottolineare con schiettezza e gratitudine
un lavoro ben eseguito?
un servizio avuto?
una delicatezza di carità che si è vista?
un sacrificio notato?
una gioia ricevuta? una testimonianza che ci ha colpito?
Sono queste le soddisfazioni uniche che spesso abbiamo: vedere gli altri contenti. Non priviamo nessuno di questa gioia legittima, così importante per lo sviluppo della personalità.
L’ALTRA CONDIZIONE: AMARE IL PROSSIMO
Come deve essere l’amore? Quali sono le caratteristiche essenziali dell’amore? Gesù ha sintetizzato tutto dicendo: «Amatevi come io vi ho amato». La meta dell’amore è imitare l’amore di Cristo. Ma forse è bene scendere a maggiori particolari in questo problema. Che cosa risulta veramente essenziale all’amore? Quali sono i suoi segni autentici? Vediamoli.
Amare non è un semplice sentire
Non è semplice emozione. È una cosa più consistente delle emozioni. Al limite si potrebbe anche sentire poco o sentire niente, e tuttavia amare intensamente.
Amare non è sentire, ma è dare. Sentire è passività, l’amore invece è piena attività, è donazione.
I sentimenti vanno e vengono, spesso sono anche incontrollabili. L’amore invece, siccome parte dal più profondo di noi stessi, è sempre sotto controllo. Le sue radici sono nella nostra intelligenza e nella nostra volontà, partono cioè dalla parte più ricca di noi stessi. Amare è una decisione
Il sentimento può essere irrazionale, l’amore mai: parte sempre da una decisione ben cosciente. Il sentimento non è sempre provocato da noi, l’amore lo è sempre, perché comporta un moto intimo della nostra volontà. E consolante questo. Non possiamo mai dire di non essere capaci di amare, perché l’amore parte sempre dalla volontà. Si fanno grandi confusioni parlando di amore. Lo si confonde perfino col ricevere, con l’ottenere, col godere. No, dice Eric Fromm: «L’amore è prima di tutto un dare, non un ricevere». Si capisce che l’amore scatena amore. Chi ama è amato. Chi ama riceve. Ma chi ama autenticamente non pensa affatto al guadagno, al ricevere. L’amore comporta decisioni senza numero
Non si ama una volta per tutte. Non si ama con una decisione sola. Appena si comincia ad amare nasce una situazione nuova, e una situazione nuova comporta decisioni nuove.
I bisogni di un fratello non sono mai finiti, perché la vita è un intreccio di bisogni sempre nuovi: l’amore quindi comporta decisioni sempre nuove.
I bisogni non sono capricci, sono bisogni: spesso questi sono confusi, ed esigono una chiarificazione che nemmeno l’interessato, qualche volta, sa dare. Ma l’amore rende l’occhio acuto per puntare sui bisogni veri del fratello
e sul discernere ciò che è più utile per lui.
L’amore vero è incondizionato
Se amiamo sotto condizione non amiamo affatto. Se amiamo solo se l’altro contraccambia, se amiamo se l’altro risponde, se amiamo se l’altro riconosce, se amiamo perché l’altro cambi e si modifichi, siamo impigliati nell’amore condizionato, non siamo al vero amore: c’è interesse. Non siamo al vero amore: c’è strumentalizzazione. Non siamo all’amore autentico. Anche i genitori spesso amano così, sotto condizione. Ma Dio non ci ama così. Dobbiamo capirlo. Dobbiamo imitare l’amore di Dio che ama sempre, che ama senza attendere, che ama senza porre condizioni.
L’amore dura sempre
Chi ama mettendo limiti di tempo non ama affatto. Se due giovani dicono: «Ti amo finché sei giovane, finché sei simpatico, finché hai salute, finché non mi pesi...», il loro amore è illusorio. L’amore vero resiste al tempo, non pone limiti nemmeno al tempo.
L’amore trasmette auto-fiducia
L’amore vero comunica fiducia nelle proprie forze. L’amore vero non si sostituisce all’individuo, ma lo valorizza. L’amore vero non porge la pappa fatta, ma la pappa da fare. L’amore vero non rende tutto facile all’altro, ma gli dà la gioia di rendergli possibile ciò che sembrava impossibile. L’amore vero comunica forza, non debolezza: sostituirsi all’altro è sempre un indebolire l’altro, infondere auto-fiducia è sempre trasmettere forza.
L’amore vero non è possessivo
Non è possessivo perché non cerca i propri interessi, ma bada soprattutto a difendere gli interessi del fratello. Quando l’amore è possessivo è amore inquinato, è amore egoistico: il fratello ha il diritto di essere se stesso, libero nel rispondere o nel rifiutare amore. L’amore vero non è mai geloso.
CHE COSA INTENDERE PER DIALOGO?
La parola «dialogo» può avere parecchi significati e sfumature varie. È indispensabile chiarire. Anzitutto, diciamo che cosa non è sul piano spirituale.
Che cosa non è dialogo
Naturalmente non prendiamo neppure in considerazione certe strumentalizzazioni del dialogo, sul tipo del consiglio ironico: «Assumi un’aria saputa, bofonchia qualcosa, e non dire nulla: la parola ci è stata data per nascondere il pensiero». Qui siamo semplicemente fuori e contro le leggi della natura umana. Ma sul piano spirituale dobbiamo fare ancora altre distinzioni ed esclusioni. Sul piano spirituale non intendiamo per dialogo:
- un semplice discorso cordiale,
- una discussione rispettosa e aperta,
- una tavola rotonda ben avviata,
- un dibattito costruttivo,
- una specie di trattativa piena di buona volontà, tra due parti in tensione.
Anche se questo può intendersi come un segno di dialogo, per noi il dialogo non sta ancora qui, è una realtà più profonda. Due parti in tensione, è naturale che si ricompongano nel dialogo; ma noi riteniamo che l’intesa vera non parte dalle semplici parole, ha radici più profonde.
Allora, dialogo che cosa è?
Sul piano spirituale chiamiamo dialogo soprattutto ciò che crea il cosiddetto dialogo; in una parola usiamo questo termine per specificare l’anima del dialogo. Potremmo tentare questa definizione:
Dialogo, per noi, è comunicare l’intimo di noi stessi al fine di offrire al fratello il meglio di noi stessi, e avviare così un’apertura vicendevole e profonda, che costruisce l’amore.
Non è dunque un semplice confidarsi, nè tanto meno uno sfogarsi nel fratello.
In parole semplici il dialogo potrebbe definirsi: la volontà di comunione profonda.
In parole più povere: la volontà di fondere i cuori senza secondi fini.
PRIMO PASSO AL DIALOGO: DOMINARE LE EMOZIONI
Il mondo delle emozioni è il mondo della nostra psiche, è un mondo complesso e interessante. Le emozioni sono una componente importantissima del nostro essere, ma non la parte più profonda. La parte più profonda di noi è costituita da quella realtà interiore che normalmente chiamiamo: intelligenza - volontà - amore. Ed è importante saper distinguere il campo emozionale da questa realtà intima che regge il mondo interiore.
Noi non siamo le nostre emozioni.
Noi siamo di più delle emozioni.
Noi siamo oltre le nostre emozioni.
Le emozioni non hanno responsabilità morale: sono indice della nostra realtà, ma non sono ancora la nostra realtà più vera. Nel rapporto con gli altri, il nostro mondo emozionale è il primo interessato.
È sempre nella sfera emozionale che avvengono le rotture con gli altri, ed è appunto dalla sfera emozionale che deve partire ricostruire l’amore. La sfera emozionale è quella zona di noi dove soffriamo le reazioni più abituali: gli urti con gli altri, le ferite all’orgoglio, l’egoismo, le invidie, le paure, i risentimenti, i complessi di colpa, i complessi di inferiorità, le stizze, le piccole vendette, le reazioni di violenza ecc. Perciò dobbiamo ricordare bene che il mondo delle emozioni non è propriamente la zona intima di noi dove noi amiamo. È la zona delle reazioni, non dell’amore. Ma quando si infrange l’amore, è sempre nella sfera emozionale che comincia la rottura. Poi si razionalizzano a poco a poco le emozioni, e alla fine nasce la barriera quasi invalicabile con i nostri fratelli. Ora è dalle emozioni che dobbiamo partire, se vogliamo ricostruire l’unità infranta. È la via più facile.
Partire dalle emozioni per ricostruire l’unità
L’amore non sta nelle mie emozioni. L’amore vero c’è quando ho il coraggio di aprire il mondo delle mie emozioni al fratello. Solo così riallaccio i legami profondi con lui e mi rinnovo nell’amore, perché aprirgli il mio mondo emotivo significa dargli la massima fiducia, e dar fiducia è già un grande atto d’amore. Dice John Powell: «Le mie emozioni sono la chiave per entrare in me; solo dando questa chiave io posso dare me stesso».
L’istante in cui comunico le mie emozioni, qualcosa cambia nell’altro. E qualcosa di grande cambia in me. Si chiude una porta alle mie spalle e si apre un mondo nuovo. Anzi, finché non ho il coraggio di compiere questo passo, spesso l’altro proietta in me le sue emozioni negative.
Quando invece apro il mio intimo, do fiducia, spalanco le porte al fratello, il fratello mi conosce in modo nuovo, e io entro in uno stato particolare di schiettezza, di fiducia, che è il primo passo verso la mia donazione a lui.
È più facile sacrificarsi per il fratello che dargli il cuore. È più facile fare grandi rinunce che fondere i cuori. Ma è da quella strada stretta che passa l’amore.
È questa la strada vera del dialogo. Ed è attraverso quella strada stretta che io posso capire l’affermazione: il dialogo compie miracoli. Quando entro in vero dialogo col fratello, quando riesco a comunicare la mia realtà emotiva, quando la confidenza è piena, allora il ponte è gettato: io non sono più io, e il fratello è veramente fratello. Però la comunicazione del mio intimo dev’essere limpida, senza secondi fini, dev’essere un atto vero di fiducia, non uno sfogo, non un catturare il fratello o il suo amore.
Le emozioni represse
Spesso non si dà importanza a un fatto psicologico gravissimo: la superficialità del nostro comportamento verso le nostre emozioni. Con tutta naturalezza noi reprimiamo le emozioni che ci disturbano di più, ma l’emozione repressa non muore affatto in noi. Anche se noi preferiamo non pensarci, un’emozione repressa non si estingue affatto, ma comincia a influenzare in modo negativo la nostra personalità e la nostra condotta. Per esempio: una stizza, un’invidia, un malanimo represso, lasciano dentro di noi una scoria di malessere che ci influenza nei pensieri, nelle parole, nelle azioni. Quando ci accorgiamo che con una certa persona noi non siamo più come prima, in realtà che cosa è successo? Probabilmente quella persona ci ha urtati: noi abbiamo fatto finta di niente, come se nulla fosse accaduto, ma in realtà qualcosa dentro di noi è rimasto, e tenta di venire a galla ogni volta che pensiamo a quella persona, o la incontriamo, o ci parlano di lei. L’emozione repressa fa scattare i nostri giudizi, le nostre parole, prima che ce ne accorgiamo. Sarebbe molto più semplice scaricare l’emozione. Cioè guardarla in faccia, soppesarla davanti alla nostra riflessione, o meglio ancora davanti a Dio nella preghiera, o trovare una persona adatta a cui comunicare l’emozione. Un’emozione comunicata è sempre ben orientata, e qualche volta diventa un’emozione guarita.
Maschere, sempre maschere
Ogni volta che dormiamo di fronte a un’emozione, o giochiamo a mosca cieca cercando di ignorarla, perdiamo sempre più il contatto con noi stessi, e indossiamo una maschera che di solito ci è molto nociva. Il peggio è che spesso, senza nemmeno accorgerci, noi proiettiamo le nostre emozioni negative sugli altri.
Ve la prendete con i nervi degli altri, con la loro mancanza di pazienza e di comprensione? Quasi sempre è perché voi siete delle persone irritate, senza pazienza. Voi avete represso la vostra irritazione, e ora la proiettate sugli altri; siete voi i nervosi, i violenti, le persone senza pazienza, non gli altri.
Siete sospettosi degli altri? La causa non sarà la vostra invidia repressa?
Giudicate con facilità gli altri? La causa non sarà che voi non accettate i vostri limiti, le vostre sconfitte? Se foste più sereni con voi stessi, non proiettereste la vostra amarezza sugli altri giudicandoli senza pietà.
Io non sono le mie emozioni
La responsabilità morale delle emozioni va molto considerata. Spesso noi ci sentiamo colpevoli delle nostre emozioni: è un grave errore, che rende molto difficile il nostro comportamento. No! Noi siamo superiori alle nostre emozioni. La nostra vera responsabilità morale non sta nel provare certe emozioni, ma piuttosto nell’essere tenaci a reprimerle, ignorarle o proiettarle sul prossimo. Le emozioni, in sé, non hanno responsabilità morale: sono indici morali, ma non hanno colpevolezza morale. Sento un’invidia? Non devo ancora sentirmi in colpa. Devo dire con chiarezza a me stesso: «Sento invidia, ma non lo voglio, mi dispiace. Voglio bene a quella persona. Sento invidia, ma non approvo questo sentimento». Se poi riesco a confidarmi a qualcuno che mi ama, io ne divento immunizzato, superiore a quella meschinità, dominatore di essa. L’emozione non influenza più, con troppa facilità, i miei atti, i miei pensieri, le mie parole.
SECONDO PASSO: DOMINARE LA LINGUA
Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana (Gc 1, 26). Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo (Gc 3, 2).
Se uno non frena la lingua...
La lingua facile è un’ipocrisia religiosa. Il pensiero dell’autore sacro sembra chiaro: la lingua cattiva è segno di assenza di religione. Noi diremmo:
è il segno che la vita spirituale è tramontata.
Non è solo un’ipocrisia di fronte a Dio, è anche un’ipocrisia di fronte agli uomini: la lingua cattiva non parla di fronte alla persona interessata, parla quasi sempre alle sue spalle. La lingua incontrollata, cattiva, abitua alla grossolanità, perché abitua alla sporcizia interiore. La lingua cattiva inquina sempre l’ambiente, perché iniettando veleno, crea divisioni. O presto o tardi qualcosa trapela. E allora crea le ruggini, i sospetti, inquina e fa scadere il clima del nostro stare con gli altri.
La lingua incontrollata, cattiva, non è capace di vita spirituale profonda: sembra che dissecchi la vita spirituale alla sua radice. La lingua incontrollata, cattiva, raccoglie ciò che semina: una persona dalla lingua facile non attira le simpatie di nessuno. Si teme e si diffida di una persona che non controlla la sua lingua.
Per guarire bisogna essere scrupolosi nel reagire. Non si deve dormire su questa mancanza: occorre pentirsi e riparare! E questa la cosa più urgente. Confidare a qualche vero amico, schiettamente, la mancanza, poi riparare nel modo più intelligente possibile. Normalmente, non è bene riparare con la persona interessata: aggraverebbe il disagio. È bene invece riparare davanti a Dio, e poi fare di nascosto qualcosa per la persona colpita, rettificando come è possibile la maldicenza fatta.
Non sottovalutare il peccato. Se fossimo ben convinti della gravità di questo peccato, non vi cadremmo con tanta facilità. La lingua cattiva è un difetto così grave, che non può essere preso alla leggera. Se si ricade con frequenza, è perché si gioca col perdono. A questa piaga bisogna reagire con la fortezza dello Spirito Santo.
È interessante l’osservazione di san Giacomo: «Chi non frena la lingua inganna il suo cuore, la sua religione è vana». E come dire: sei superficiale nel parlare degli altri? Sei un illuso! Inganni la tua capacità di capire (la tua intelligenza). Il tuo rapporto con Dio è falso, hai svuotato il tuo rapporto, perché Dio non sopporta questo disordine, l’armonia con Dio è infranta! Lottiamo con tutte le forze fino a giungere alla delicatezza di coscienza, fino ad avere paura del minimo danno fatto con le nostre parole.
Volete sapere come fa un gruppo cristiano a sfasciarsi? Parte dall’assenza di preghiera, poi slitta sull’assenza di carità: nasce la comunità del pettegolezzo, nascono le divisioni, le gelosie, i rancori, le ruggini che bloccano tutti gli ingranaggi. Un gruppo cristiano senza la carità è uno scandalo, bisognerebbe distruggerlo.
E quando vi imbattete in un cristiano che non cade mai in mancanze di lingua, state ben attenti: siete davanti a un profeta!
E quando vi imbattete in uno dalla lingua lunga, buttatevi in ginocchio e implorate dallo Spirito che vi tenga una mano sul capo, non vi lasci cadere, non permetta che arriviate a quel punto, al fallimento della vostra vita spirituale.
Ma se uno non manca nel parlare...
Il problema-lingua è un problema vitale che tocca tutti, peccatori e santi, interessa e coinvolge tutti. È un problema che deve destare il massimo interesse, perché investe il settore più delicato della nostra vita di relazione. Chi dicesse: «È un argomento che non mi riguarda», sarebbe certamente un superficiale. Il problema-lingua è un problema-indice per la crescita o per il deterioramento della nostra carità, per la formazione del nostro cuore. Sistemata la lingua, si potrebbe quasi dire che è sistemata la nostra carità.
Partiamo da una situazione molto concreta: quando siamo feriti. Quando si è feriti, c’è da aspettarselo: la nostra lingua si scatena, parte a sorpresa. Quando si è feriti è urgente tenere sotto controllo la zona più delicata di noi stessi: la zona pensieri, il settore giudizi, perché di lì parte la nostra reazione. Quasi sempre il processo di deterioramento della nostra carità avviene così, nella nostra debolezza reagiamo così: il cuore accumula e fomenta giudizi cattivi, poi la lingua parte. Quando si è feriti, anche se non lo vogliamo, lo spirito di vendetta si risveglia e si scatena, anche in chi è ben ferrato nella carità e nel suo autocontrollo. Il serpe della vendetta morde a sorpresa. Non basta allora mettersi sul chi vive, mettersi sulla difensiva. Il metodo migliore è rispondere al nostro cuore riempiendolo di bontà.
La miglior medicina del cuore ferito è cambiare il male col bene. Chi si mette solo sulle difensive, in realtà non si difende da nulla. Siamo così sottilmente orgogliosi che, se toccati nel vivo, partono anche i santi. Fortunato chi è realista e conosce se stesso. Bisognerebbe, con la lingua, fare un patto a lunga scadenza. Per esempio, sottoporre la lingua a un esame clinico prolungato, fino a sensibilizzarci molto al problema: controllare e segnare, per esempio, per un bel periodo ogni giorno, se la lingua ha peccato.
Quando si è feriti, bisogna ammetterlo: siamo deboli, la nostra forza di resistenza è compromessa. Quando si è feriti, la persona che ci ha amareggiati diventa il centro della nostra malizia, e la lingua, appena può, risponde. Quando si è feriti, allora i difetti del nostro oppositore entrano continuamente nel mirino della nostra attenzione, e la lingua ci riserva delle brutte sorprese. Quando si è feriti, se non ci mettiamo subito in stato di allarme, la nostra facoltà di giudizio si scatena, e ci può far commettere anche gravi ingiustizie. Quando si è feriti, spesso si diventa meschini. La reazione migliore non è tanto difenderci, ma affrontare la nostra debolezza medicandola di bontà. Bisogna: riempire il cuore di bontà, pregare subito e molto per la persona che ci ha ferito,fare un patto spietato di silenzio con la nostra lingua, rispondere col bene al male.
Quando si è feriti la lingua diventa malata. Allora? Allora la si mette in cura: la cura più efficace si chiama Eucaristia! A ogni Eucaristia consacrare la lingua perché non pecchi. Allora, quel che non arriva a fare la nostra vigilanza, arriva a farlo la vigilanza del Signore. Quando si ha la ferita bisogna assolutamente cicatrizzare la piaga, e la terapia che serve di più è l’Eucaristia.
DUE INSEGNAMENTI DEL SIGNORE
«Perché guardi la pagliuzza?»
«Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio, e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello» (Lc 6, 41-42).
La mania del dito puntato è una debolezza congenita che tutti ci portiamo addosso. È stato detto: «Più si giudica, e meno si ama» (Sébastien Chamfort). Il guaio è che se diventiamo troppo esperti nei difetti altrui, diventiamo ciechi nei confronti dei nostri difetti. Gesù disapprova questa mania, e dobbiamo farlo anche noi: chi si abitua al dito puntato non ha tempo per guarire dai suoi mali.
Giudicare è un autentico dono di Dio: ci è dato per il nostro progresso. Ma la mania del dito puntato è un regresso, è metterci al disopra degli altri, è farci giudici degli altri: questo il Signore non lo sopporta.
Togli prima la trave! Gesù ci insegna a non cacciare troppo il naso nei difetti altrui. «Togli la trave» significa: lo stesso difetto che hai visto nel fratello, probabilmente — se guardi bene — ce l’hai anche tu ed è molto ingrandito in te. Significa: pensa ai fatti tuoi, vaglia te stesso, e condannati con severità, cioè datti uno scrollone, così dopo sarai in grado di aiutare il tuo fratello a uscire dai suoi difetti.
Com’è sapiente la pedagogia di Gesù! Dice: vedi un fratello che ti sembra un po’ pigro nella preghiera? Invece di metterti subito a giudicarlo e a condannano, impegnati prima a esaminare la tua pigrizia nella preghiera, così diventi subito pieno di misericordia verso i difetti altrui.
Vedi un egoismo negli altri? Togli la trave, insegna Gesù, fa’ un po’ di inventario nei tuoi egoismi, e dopo sarai saggio a dare un consiglio al tuo fratello.
Vedi negli altri un dovere mal fatto? Togli la trave! Pensa quando anche tu tradisci i tuoi doveri apertamente o nascostamente, così ti fai esperto nel dare una mano al tuo fratello perché esca dai suoi guai.
A qualcuno è sfuggita una parola? Togli la trave! Pensa alla tua carità spesso a brandelli, così sarai pieno di pazienza verso la debolezza del tuo fratello. Gesù insegna: se guardassimo un po’ di più dentro di noi, non avremmo più voglia di guardare con troppa intensità nei difetti altrui.
«Ipocrita!», dice Gesù. Sì, è una falsità bella e buona ogni volta che puntiamo il dito, ogni volta che giudichiamo il fratello, perché è sempre un metterci al di sopra degli altri, è classificare, etichettare la debolezza altrui. Ipocrita! Cioè: commetti un falso, prima di tutto perché ti vai arrogando una facoltà che non possiedi. Come puoi metterti a giudicare il fratello, se non vedi dentro il fratello? Se non possiedi gli elementi per pesare la sua responsabilità? Ipocrita! Siamo tanto abituati a questa ipocrisia che non la avvertiamo neppure più. Ipocrita! È un problema di onestà, ci insegna Gesù, perché è impicciarci di cose che non ci riguardano, perché è pretendere di pulire gli altri mentre noi stessi siamo da pulire.
«La bontà è un contagio», diceva Giovanni Barra. Se noi ci vietiamo con severità di giudicare il prossimo, comunichiamo subito bontà intorno a noi. «La bontà è un contagio». Quando la lingua si fa attenta alla carità, si crea un clima di vigilanza anche negli altri. «La bontà è un contagio». Quando, davanti a un difetto ci mettiamo subito a esaminare i nostri difetti, allora l’umiltà diventa di casa nei nostri pensieri e nelle nostre parole, e noi diffondiamo bontà.
La diceria, il pettegolezzo è sempre «opera del diavolo», e collaborazione con la sua azione distruttrice. Diceva san Massimo, confessore (m. 622): «Gli uomini hanno cessato di piangere per i loro peccati e si sono arrogati il giudizio, che spetta solo al Figlio di Dio, come se loro fossero senza peccato». Il padre del deserto Doroteo di Gaza (m. 570) diceva che quando giudichiamo e puntiamo il dito contro un fratello, parlando male di lui «facciamo del male anche agli altri, perché mettiamo il peccato nel loro cuore, eseguiamo le opere del diavolo, senza alcuna preoccupazione».
Diceva san Bernardino da Siena (m. 1444): «La maldicenza dà la morte a tre persone nello stesso tempo: a colui che la fa, a colui che la patisce, e a colui che l’ascolta». Puntare il dito facendo maldicenza, ha notato san Giovanni Climaco (m. 649), «è una sottile malattia che vegeta come una grossa sanguisuga nel corpo dell’amore, è sporcizia e peso per il cuore». Fossimo almeno attenti a tenere per noi la sporcizia dei giudizi cattivi, e a non sporcare nessuno di quelli che vivono accanto a noi! Chi è incline al giudizio cattivo e a puntare il dito contro il fratello, dice Giovanni Climaco, «infetta la nostra resistenza al male», perché aiuta il dilagare del difetto di carità e di umiltà. Siamo responsabili di ogni calo di fervore tra gli altri. Chi intacca la carità, colpisce al cuore la comunità.
Non essere «Figli del tuono»
Entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverli... Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Ma Gesù si voltò e li rimproverò (Lc 9, 52-55).
La lingua tradisce! Come fare a tenerla a freno? Gli Apostoli conoscevano Gesù, sentivano i suoi discorsi, condividevano di sicuro la sua mentalità. Tutto questo non è bastato: nell’irritazione per l’affronto avuto, la lingua li ha portati via. Non facciamo gli ingenui! L’orgoglio ferito gioca sempre dei brutti scherzi. Il quadretto di Luca ha un particolare curioso: l’osservazione a Gesù gliel’hanno fatta alle spalle? Non hanno osato, a viso aperto, guardandolo negli occhi? Perché Luca dice: «Gesù si voltò», come una persona ferita alle spalle. Comunque siano andate quel giorno le cose, la mentalità dei due fratelli strideva con la mentalità di Cristo: la loro lingua partì con violenza, calpestando tutti gli insegnamenti del Maestro. L’episodio lasciò una traccia nella storia dei due discepoli dal sangue troppo caldo: infatti Marco afferma che Gesù, in ricordo dell’incidente, appioppò loro un nomignolo scherzoso: «I figli del tuono». Si vede che Gesù era abile a sfruttare tutti gli incidenti per la formazione alla carità dei suoi discepoli.

Tentiamo di studiare quali possono essere i rimedi alla lingua pronta. Prima di tutto c’è da tenere in conto la nostra fragilità: siamo deboli, cascano anche i santi. Se c’era un apostolo dal cuore buono e gentile era proprio Giovanni, e c’è cascato anche lui. Ecco, dunque, alcuni rimedi efficaci.
1. Medicare con prontezza la ferita con una disinfezione radicale. Chi è ferito, se ha la presenza di spirito di rispondere subito con una gentilezza, è come se operasse una disinfezione radicale, il male si arresta, non incancrenisce, non va più avanti. Medicare subito il male ricevuto con un atto buono, con un atto generoso, certo non lo sanno fare tutti, ma il pensarlo, il desiderarlo, è già cominciare la disinfezione, è già predisporne alla bontà il proprio cuore, è già mettere sul chi vive la propria lingua.
2. Vigilare sui momenti di stanchezza e sui momenti di grande dissipazione: sono quelli i momenti in cui non sappiamo controllarci, siamo più vulnerabili. Qualche volta basta un rimedio semplicissimo: una preghiera pronta per la persona che ci ha feriti. 3. Qualche volta è molto efficace l’atto di umiltà di chiedere un piccolo favore alla persona che ci ha feriti.
4. Qualche volta serve dire con umiltà, al momento giusto, alla persona interessata che siamo stati feriti. Una chiarificazione fatta con umiltà predispone noi e chi ci ha feriti a non allargare la ferita. 5. Confidare a qualche persona amica l’incidente avuto e l’umiliazione subita. Ma bisogna scegliere bene l’interlocutore: occorre una persona comprensiva che attenui la ferita, non una che l’aggravi. Spesso c’è chi sa far bene questa parte: sa buttare acqua sul fuoco, sa ridimensionare il malinteso. Esistono i costruttori di pace: è il momento giusto di cercarli.
6. Sovente ottiene un buon risultato il darci uno scrollone e tuffarci in un cruccio serio: certe piccinerie sono crucci di lusso, di gente che non ha problemi veri e perde tempo a inventarne. Voltiamoci indietro: ci sono, intorno a noi, certe sofferenze che schiacciano le persone e ci obbligano a passare sopra alle piccole ferite e ai nostri «problemi di lusso». Quando siamo deboli nella vigilanza è efficacissimo questo rimedio radicale: sottoporre per un certo periodo la propria lingua a un controllo spietato, segnando giorno per giorno le nostre mancanze. Aiuta a sensibilizzarci al problema della vigilanza, e rafforza la volontà.

E preghiamo che, a poco a poco, l’osservazione di Giacomo ai primi cristiani abbia, a motivo della nostra vigilanza, una smentita: «Ogni sorta di bestie è stata domata dall’uomo, ma la lingua nessun uomo la può domare» (Gc 3, 7). Quando Giacomo scrisse quella battuta dovette sorridere... E i primi cristiani hanno di sicuro drizzato le orecchie, come noi, alla sua osservazione bruciante, e avranno concluso, come noi, che il problema è urgente e grave, in tutti i gruppi umani e in tutti i tempi. Speriamo che qualche cristiano abbia risposto così: «Sì, nessuno è capace a domare la lingua, ma il Signore è capace! Confidiamo in lui!». Rispondiamo anche noi così.
LE LEGGI DEL DIALOGO
Tracciamo alcune leggi del dialogo allo scopo di comprenderlo e facilitarlo.
1. «Il dialogo non deve mai essere una ventilazione egocentrica» (John Powell). Intendiamo cioè dire: non è lecito usare il dialogo strumentalizzandolo. Il dialogo non va concepito come spalancare una finestra per far entrare un po’ di aria buona in un ambiente malsano. No! Il dialogo non deve avere intenti egoistici.
Il dialogo non è uno sfogo.
È sempre un atto di fiducia.
È l’amore che si incammina.
2. Il dialogo non è una manipolazione. Non posso intendere il dialogo come uno strumento per catturare il prossimo: «Mi apro, e lo conquisto». No! Mi apro per esprimere la mia fiducia, ma non attendo nulla. Sono pronto ad accettare anche di essere incompreso: mi apro per il solo motivo che questo mette in moto il mio amore.
3. «I giudizi sono la morte del dialogo. Quando giudico mi faccio sempre superiore all’altro» (John Powell). Il giudizio è un sopruso. Il giudizio è un’illegalità. L’istante in cui mi ergo a giudice blocco il dialogo, alzo la barriera al dialogo. Chi si sente superiore schiaccia, nel suo intimo, il fratello. Come può pensare al dialogo?
4. Scopo del dialogo non è mai vincere o convincere, ma aprirmi al fratello, mettermi disarmato di fronte a lui. Se voglio vincere o convincere, ho già distrutto il dialogo prima di cominciare, perché ho già le mie posizioni, le mie barricate su cui difendermi. Qui non siamo al dialogo, siamo esattamente all’opposto. Scopo del dialogo è dare fiducia, è aprirmi accettando tutti i rischi, anche quello di non essere accolto. Ma l’aprirsi con schiettezza significa dare fiducia, quindi amare. E amare significa far nascere una situazione nuova in me e negli altri.
5. Nel dialogo si deve ascoltare, se occorre, fino a soffrire col fratello.
È l’ascolto affettuoso, pieno, che si investe dei problemi del fratello come dei propri, che conta di più. Quando si ascolta fino a soffrire, allora si ascolta veramente: allora il ponte è fatto, io do e ricevo, il fratello dà e riceve, il dialogo è veramente cominciato.
6. Ascoltare è tentare di raggiungere il tesoro nascosto nel cuore del fratello. Il fratello che apre il cuore sta porgendo il dono più prezioso di se stesso. In questo dono, spesso, c’è un aspetto nuovo del fratello: c’è il volto nascosto, c’è un tesoro. Quando si ascolta col desiderio di scoprire il tesoro nascosto nel cuore del fratello, allora si costruisce un legame che supera tutte le parole e che resiste a tutto, anche al tempo.
7. La regola completa dell’ascolto andrebbe formulata così: ascoltare più col cuore che con le orecchie. Ad ascoltare sono capaci tutti. Per educazione ascoltiamo anche le persone importune. Ma ascoltare col cuore è un’altra cosa: è volersi immedesimare nei problemi dell’altro, dimenticando completamente se stessi. Questo ascolto diventa così un ricevere profondo, perché prima è stato un dare profondo.
8. Quando l’apertura, nel dialogo, non sembra accolta, è importante chiedersi se era assolutamente onesta, senza secondi fini. Può crearsi una situazione difficile nel dialogo: il rifiuto cioè dell’ascolto profondo. Allora occorre pazienza, attendere continuando ad amare con assoluta generosità, non lasciarsi andare a giudicare il fratello. Anzi, prima devo giudicare con molta severità la mia apertura: devo esser sicuro di essere partito bene, senza secondi fini. Quando questo è accertato, devo solo pazientare e continuare ad amare con generosità.
9. Quando le mie emozioni riguardano il fratello (astio, antipatia, vendetta), è utile comunicarle con umiltà, accusando noi stessi e non il fratello. Il fratello non ne può nulla delle mie emozioni negative. Il fratello non deve mai essere giudicato: il giudizio negativo spezza il dialogo in partenza. Il giudizio deve colpire me e deve essere schietto e spiegato. Questa schiettezza guarisce me e rende attento il fratello per una collaborazione opportuna.
10. La parola magica del dialogo è: «Mi perdoni?». Le resistenze al dialogo sono quasi sempre conglobate nel nostro orgoglio. Nell’istante in cui chiediamo perdono diamo sempre un colpo deciso al nostro orgoglio, che è sempre il più importante intoppo al dialogo. Quando chiediamo perdono, gli orizzonti si aprono prima ancora che ci raggiunga la risposta del fratello. I principali ostacoli al dialogo sono spesso in noi, non nel fratello.
11. Occorre avere rispetto delle emozioni degli altri. Di fronte a un’emozione di un fratello, il mio debole è sempre giudicare quella reazione. No! Io non devo cercare le ragioni delle emozioni altrui, ma accettarle. L’istante in cui divento giudice delle emozioni del fratello, commetto un’ingiustizia che blocca il dialogo.
12. Le parole che bloccano ogni dialogo sono spesso due avverbi abbastanza frequenti: mai e sempre. Quando usiamo con troppa libertà questi due avverbi, noi mentiamo. Quando davanti a un comportamento che ci urta sbottiamo dicendo: «Tu sei sempre così... Tu non fai mai questo...», siamo ingiusti.
È vero che un fratello può mancare, ma un nostro giudizio che si formula in un mai e in un sempre blocca ogni fiducia nel fratello, è una porta che si sbatte in faccia al fratello.
13. Per imparare l’arte del dialogo devo anche imparare a comunicare le mie gioie. Anche le nostre gioie appartengono ai fratelli. Non possiamo goderle da egoisti senza spartirle con chi ci vive accanto. Se mi abituo a comunicare le gioie, divento più capace a comunicare le emozioni negative.
14. Il fondamento di ogni dialogo con gli uomini è la limpidezza con Dio. «Confessate i vostri peccati gli uni agli altri, pregate gli uni per gli altri, per essere guariti...» (Gc 5, 16).



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