giovedì 22 ottobre 2015

Seguito alla guarigione del cieco Bartimeo. Una domanda imbarazzante: come mai molti ammalati vorrebbero guarire, chiedono di guarire, ma non vengono guariti?


 Una domanda imbarazzante

Dopo aver riflettuto sulla guarigione di Bartimeo qualcuno potrebbe porsi la domanda: come mai molti ammalati vorrebbero guarire, chiedono di guarire, ma non vengono guariti?
Rispondere ad una simile domanda non è semplice. La difficoltà deriva dal fatto che noi non sappiamo qual è il vero bene di una persona, quale percorso è richiesto per la purificazione della sua anima, quanto matura è la sua fede, qual è il disegno di Dio su di lei e su quanti stanno attorno a lei. Proviamo tuttavia a cercare alcune ragioni di carattere generale, anche se, per domande come questa, è inevitabile procedere a tentoni.
Un caso possibile è quello in cui il nostro vero bene deve passare attraverso la malattia; non è raro infatti il caso in cui la malattia del corpo diventa uno strumento per vere e proprie guarigioni dell'anima; lo vediamo in certe persone la cui natura orgogliosa, autoritaria, inquieta... dopo lunghe e penose malattie diventa umile, dolce, serena, sottomessa alla volontà di Dio, attenta alle necessità del prossimo.

Un altro caso è quello di coloro che sono talmente presi dalle attività di questo mondo, da non pensare mai che un giorno dovranno lasciarlo; in questi casi la malattia può costituire un potente richiamo a considerare la vita e la morte nella giusta prospettiva, a rivedere la propria scala di valori, a porsi veramente le domande fondamentali sul senso della propria esistenza.
Casi simili possono presentarsi con infinite varianti e sfumature, ma in tutti ciò che si richiede non è di pregare per la guarigione del corpo, ma di passare attraverso la malattia del corpo per guarire nell'anima. La perplessità della nostra intelligenza di fronte al problema della malattia è forse dovuta a questo fatto: noi siamo molto più scossi e scioccati dalle malattie del corpo che non da quelle dell'anima, se sapessimo apprezzare e desiderare di più la salute e la vera vita dell'anima non avremmo così paura della malattia del corpo, anzi, ringrazieremmo il Signore che, a volte, dalla malattia riesce a far sorgere veri e propri capolavori, e se il capolavoro non sorge bisognava comunque tentare di farlo sorgere.
Un altro caso possibile è quando ci si rivolge a Dio non avendo le dovute disposizioni, ossia ci si rivolge a Lui pretendendo che esaudisca assolutamente le nostre richieste. Si soffre il disagio della malattia, si crede che Dio potrebbe guarirla, ma non si riesce a capire perché non lo faccia. In realtà, ciò che non si capisce in questo caso, è che Dio non è qualcuno il cui compito principale sia quello di eliminare i nostri disagi o risolvere i nostri problemi, ma è qualcuno che ci ama e si aspetta di essere riamato; il nostro compito è quindi quello di scoprire ed accettare ciò che Lui vuole fare della nostra vita, ogni altra preoccupazione è decisamente secondaria rispetto all'importanza di instaurare con Lui un corretto rapporto d'amore. Quello che spesso è pressoché inesistente è un sincero desiderio di amare Dio, mentre è molto forte la preoccupazione di evitare i disagi e gli impedimenti che la malattia comporta, ecco il motivo per cui chiediamo a Dio la guarigione.
L'esempio di come pregare quando si è nel dolore ci è dato da Gesù agonizzante nell'orto degli ulivi. In quel momento di grandi sofferenze, Gesù a più riprese prega di venir liberato dai dolori che Lo opprimono, ma sempre la sua preghiera si sottomette alla volontà del Padre. Dice Gesù nella sua angoscia: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! (Mt 26, 39-44).
Così dovremmo pregare anche noi, ma prima di giungere a una tale perfezione la nostra preghiera ha di solito un percorso più inquieto e ribelle. Il libro dei salmi, quello di Giobbe, i lamenti dei profeti, contengono formidabili esempi di preghiere tormentate, proteste e ribellioni; potremmo però dire che sono tormenti, proteste e ribellioni secondo il volere di Dio, non perché la protesta e la ribellione siano la perfezione della preghiera, ma perché sono momenti attraverso i quali normalmente si passa per giungere ad una più profonda conoscenza e a un più profondo amore di Lui.
Insegnamento da una novella di Andersen
C'è una novella di Andersen che può aiutarci a comprendere la necessità di rinunciare alle nostre proteste per abbandonarci completamente alla volontà di Dio. Eccone il riassunto.
Da tre giorni una madre veglia il suo bambino gravemente ammalato. Un vecchio bussa alla sua porta e chiede di ripararsi un poco dal gelido inverno, la donna lo accoglie, gli prepara qualche cosa di caldo e gli partecipa il suo dolore; vorrebbe essere rassicurata nei suoi timori e chiede: Il Signore non vorrà riprenderselo! Non credi, vero, che lo perderò! Poi stremata dalla stanchezza si addormenta. Quando si riprende, il vecchio e il bambino sono spariti. Disperata, esce alla loro ricerca. Chiede agli uni e agli altri se li hanno visti e dove siano andati. Viene così a sapere che il vecchio altri non era che la morte in persona. Ma il suo amore di madre la spinge ad affrontare qualunque sacrificio, a superare qualsiasi prova pur di raggiungere il vecchio e chiedergli che gli restituisca il suo bambino.
Fu così che dopo tanto vagare e tanto patire giunse in un luogo "dov'era una strana dimora", qui incontra una vecchia becchina che stava lì a custodire la grande serra della morte. La vecchia le chiede: Come sei venuta fin qui, chi ti ha aiutata? - Il Signore mi ha aiutata…Lui è misericordioso, e anche tu lo sarai! Dove posso trovare il mio bambino? La vecchia le spiega che nel giardino da lei custodito ci sono molti alberi e fiori, ogni uomo ha il suo albero di vita o il suo fiore, a seconda della conformazione di ognuno… in ogni pianta e in ogni fiore c'è un cuore che batte, quando un fiore o un albero appassiscono il vecchio li prende e li trapianta nel grande giardino del Paradiso, nella terra sconosciuta, il suo bambino però lei non sa quale sia.
La madre allora si mette ad ascoltare il battito del cuore dei fiorellini per cercare di riconoscere quello del suo bambino. Dopo molto cercare riesce a trovarlo. Decide allora di aspettare la morte per impedirle di strappare il fiore del suo bambino. Quando il vecchio arriva le chiede: Come hai potuto trovare la strada per venire fin qui? Come hai fatto ad arrivare prima di me? - Sono una madre! Disse lei - Non puoi nulla contro di me! Disse la morte - Ma lo può Dio! Rispose lei - Io non faccio che la sua volontà! Disse la morte. Io sono il giardiniere! Io prendo le sue piante e i suoi fiori per trapiantarli nel grande giardino del Paradiso, nella terra sconosciuta, ma come poi crescano, e come sia il luogo, non oso dirtelo! - Ridammi il mio bambino! Diceva la madre, piangendo e implorando. D'un tratto afferrò con entrambe le mani due bei fiori e gridò alla morte: Ti strappo tutti i fiori, perché sono disperata! - Non toccare! Disse la morte. Dici che sei tanto infelice, ed ora vuoi che un'altra madre diventi infelice come te! - Un'altra madre! Disse la povera donna, e ritrasse subito le mani dai fiori.
Poi il vecchio la invitò a guardare in un pozzo dicendole che mentre lui avrebbe pronunciato il nome dei fiori che lei voleva strappare, avrebbe visto il futuro di quelle due vite umane, avrebbe visto quello che voleva scompigliare e distruggere. La madre guardò nel pozzo: era una gioia contemplare come l'uno dei fiori diventava una benedizione per il mondo, e come ne spirava felicità e letizia. Guardò poi la vita dell'altro fiore, ma non vide che dolore e miseria, orrore e infelicità.
L'uno e l'altro sono volontà di Dio! Disse la morte. La madre gli chiese quale di essi fosse il fiore della sventura, e quale il fiore della grazia. Non te lo dico! Disse la morte. Ma sappi che uno dei fiori era la vita del tuo bambino, era la futura sorte del tuo bambino quella che hai visto! -. La madre gridò spaventata: Salva il mio bambino da tutta quella miseria! Portalo via, piuttosto! Portalo nel Regno di Dio, dimentica le mie lacrime, dimentica le mie preghiere e tutto quello che ho detto e fatto! - Non ti capisco! Disse la morte. Vuoi che ti renda il bambino, o vuoi che lo porti nel paese che ti è sconosciuto? -. La madre cadde in ginocchio, torcendosi le mani e pregando il Signore: Non ascoltare se prego contro la tua volontà, che è la migliore! Non ascoltare! Non ascoltare! E la morte se ne andò col bambino nel paese sconosciuto.
Questo racconto può aiutarci a pregare meglio quando diciamo: Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, perché ci suggerisce l'idea che molte nostre fatiche, molte nostre ricerche, molti nostri desideri e preghiere ci procurerebbero cose contrarie al nostro vero bene o al bene delle persone che amiamo; noi non lo vediamo e non lo comprendiamo, ma Dio che vede e comprende non ce le concede, anche a costo di essere considerato duro e insensibile.
Il dolore e l'espiazione dei peccati
L'aspetto che ci conviene considerare a questo punto è la relazione esistente fra la malattia e l'espiazione dei peccati; a questo scopo è opportuno riflettere un poco sui termini "peccato" ed "espiazione".
La prima cosa da tener presente è che si ha possibilità di peccato lì dove c'è un rapporto d'amore; qualcuno diceva che per comprendere il peccato bisogna comprendere l'amore. Quando uno stona nel suonare il violino o sbaglia a fare un conto, non commette un peccato, ma commette un errore, in questi casi infatti non si è coinvolti in un rapporto d'amore, non c'è una persona di fronte ad un'altra persona, ma solo una persona di fronte al compito che deve svolgere. La cosa è diversa quando ci troviamo di fronte a qualcuno che ci vuole bene, in questo caso commettere un errore significa offendere o ferire quella persona nel suo amore, ossia commettere un peccato; un peccato è poi una cosa tanto grave perché l'amore è la cosa più bella e più preziosa che ci sia.
Conviene ancora considerare come a determinare la gravità di un peccato intervengano due fattori: la purezza dell'amore che si offende e la consapevolezza di colui che offende. Un peccato è tanto più grave quanto più l'amore che si offende è grande e puro; un atto di indelicatezza verso una persona che incontriamo occasionalmente è grave, ma la gravità di questa indelicatezza aumenta se è compiuta nei confronti di un fidanzato, di una moglie, di un amico o di Dio, perché in questi casi non si offende solo la loro persona, ma anche il loro amore, e più l'amore è forte e puro più è grave. Il salmo 54 (13-14) descrive molto bene questa dolorosa esperienza dicendo: Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia... Quando è un amico ad offenderci la sofferenza che si prova è molto più grande!
L'altro fattore che determina la gravità di un peccato è il nostro grado di consapevolezza o di lucidità nel momento in cui offendiamo l'amore: maggiore è la consapevolezza, maggiore è la gravità, ma qui entra in gioco il segreto del cuore di ognuno che solo Dio conosce. Possiamo tuttavia dire che, in generale, ognuno di noi quando offende l'infinita delicatezza e l'infinita bellezza dell'amore è in parte consapevole e in parte inconsapevole; nella misura in cui siamo consapevoli meritiamo il castigo e nella misura in cui non lo siamo meritiamo il perdono. Nel primo caso il Signore ci dice: Lontano da me maledetti…(Mt 25, 41), mentre nel secondo, per ottenerci la misericordia del Padre, prega: Perdonali, perché non sanno quello che fanno (Lc 23, 34).
Stando così le cose, la nostra preoccupazione principale dovrebbe essere quella di cercare di capire sempre meglio il mistero della vita e dell'amore; dovremmo fare tutto il possibile per non correre il rischio di offendere Colui che ci ama con un amore infinito e perfetto, dovremmo fare tutto il possibile per non offendere coloro che sono stati pensati per vivere d'amore, ossia noi stessi ed i nostri fratelli. Sempre potremo dire: "Io non sapevo che fosse così grave, se avessi saputo…", ma alla domanda: "Che cosa hai fatto per cercare di sapere? Quanto impegno hai messo per renderti conto di come stavano le cose?" Non è detto che sempre potremo rispondere con sincerità: "Ho fatto tutto quello che era in mio potere". Comprendere pienamente i misteri dell'amore e della vita è un compito superiore alle nostre forze, ma fare qualche sforzo per cercare di comprendere non lo è.
Le precedenti considerazioni possono aiutarci a capire la necessità di espiare i peccati. Incominciamo col pensare che cosa accadrebbe se non ci fosse questa necessità: accadrebbe una cosa terribile e rivoltante che renderebbe senza senso tutte le nostre azioni, infatti, offendere o non offendere qualcuno nel suo amore sarebbe completamente indifferente, vivere o non vivere secondo la legge dell'amore non avrebbe alcuna conseguenza, i buoni non otterrebbero alcun premio per l'impegno sostenuto nel diventare tali e per i cattivi non ci sarebbe alcun castigo. Un sistema di questo genere sarebbe assurdo. Allora, la necessità di espiare i peccati deriva dal fatto che non deve essere indifferente offendere o non offendere qualcuno nel suo amore; vivere secondo la legge dell'amore deve avere certe conseguenze, non vivere secondo questa legge deve averne altre. Quando si offende l'amore ci deve quindi essere un dolore conseguente e proporzionato a questa offesa. Ora, noi viviamo e siamo solidali con un mondo in cui l'impegno per cercare di amare Dio e l'impegno per amarci gli uni gli altri non è che abbondi, ma questo è un disordine e un'ingiustizia che non possono essere senza conseguenze; e le conseguenze sono le ingiustizie, i disordini e le tribolazioni che affliggono normalmente la nostra vita sulla terra.
Proviamo a fare qualche esempio: se non c'è in noi la preoccupazione di alimentare l'amore di Dio, mentre è molto forte quella di alimentare l'amore per ogni forma di piacere o soddisfazione sensibile, a lungo andare dovremo fare i conti con le conseguenze di questo disordine; così, chi esagera nel bere dovrà soffrire prima o poi varie malattie e disturbi che derivano direttamente da questo disordine, allo stesso modo non sarà esente da varie malattie chi esagera nel mangiare o nella ricerca dei piaceri sessuali. Chi esagera nel lavoro, chi è imprudente nel guidare, chi mette a repentaglio la propria vita nella ricerca di sensazioni estreme, andrà probabilmente incontro a malattie o incidenti che in molti casi procureranno la morte a sé e ad altri.
Le malattie e le tribolazioni che seguono ai nostri disordini sono tuttavia una misericordia del Signore che cerca in questo modo di scuoterci e di farci riflettere; la malattia infatti, con il linguaggio del dolore, ci dice inequivocabilmente che un qualche ordine o una qualche legge sono stati violati. C.S. Lewis diceva che Dio sussurra nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze, ma grida nelle nostre sofferenze; il dolore è il suo megafono per svegliare un mondo sordo.
Non possiamo quindi violare o ignorare gli ordini e le leggi di Dio senza patirne giustamente le conseguenze. Chiedere di guarire in questi casi, sarebbe come chiedere l'autorizzazione a fare quello che si vuole senza essere raggiunti dalle conseguenze dolorose dei nostri atti disordinati. L'atto disordinato per eccellenza è fondamentalmente quello di non interessarsi di Dio, la conseguenza di questo disordine sarà il non poter ricevere quegli aiuti senza i quali non è possibile che la vita dell'uomo funzioni correttamente, sarà allora inevitabile che, presto o tardi, tribolazioni e malattie si presentino con il loro assortito campionario di sofferenze.
Bisogna inoltre considerare che normalmente non si soffre solo a causa dei propri peccati, ma anche per quelli delle persone che ci circondano. Un ragazzo che si suicida, ad esempio, coinvolge nel suo dramma: genitori, fratelli, amici, conoscenti... Questo dovrebbe richiamare la nostra attenzione su un fatto a cui poco si pensa, vale a dire che l'effetto di ogni azione, anche minima, non si arresta solo alla persona che la compie, ma estende il suo influsso su un gran numero di altre; non è poi in nostro potere sapere fin dove questo influsso si estenda. Nel giorno del giudizio saremo sorpresi di vedere fin dove sono giunti gli influssi buoni o cattivi delle nostre azioni.
È importante osservare a questo punto un fatto sorprendente: generalmente colui che viola la legge dell'amore non ne subisce immediatamente le conseguenze dolorose, anzi, vi trova piacere e gratificazione, accade tuttavia che da qualche parte ci siano degli innocenti che soffrono proprio per queste trasgressioni. Ad esempio, chi non si cura affatto di santificare la domenica e le altre feste comandate, si sentirà libero in questi giorni di fare quello che gli pare senza provare la minima sofferenza o il minimo turbamento. Tuttavia, ci sarà da qualche parte un amico, una madre, un monaco, un cristiano...i quali, a causa dell'amore di Dio e del prossimo che li abita, non potranno non dispiacersi e soffrire nel vedere l'offesa recata a Dio da questi comportamenti, non potranno non temere per le inevitabili tribolazioni che questi peccati causeranno a chi li commette. Un giorno che San Francesco piangeva gli fu chiesto: Perché piangi, e lui rispose: Perché l'Amore non è amato.
Le cose dette ci fanno forse intravedere come qualsiasi offesa all'amore debba essere espiata, ogni debito debba essere pagato, per ogni disordine ci deve essere qualcuno che si assume il compito di riordinare la casa. Evidentemente, Colui che più ha espiato per le trasgressioni contro la legge dell'amore è Gesù nella sua passione e morte. I Vangeli e la sindone di Torino, mostrandoci Gesù ferito e sanguinante dalla testa ai piedi, ci suggeriscono che ogni offesa all'amore ha avuto una ripercussione dolorosa sul suo corpo e nella sua Persona.
Dalle cose dette possiamo ricavare che le nostre tribolazioni e le nostre sofferenze possono avere due componenti: una componente dovuta alla necessità di espiare i nostri peccati e una componente dovuta alla necessità di espiare i peccati delle persone che ci circondano. Questo ci mostra ancora come la vita di ognuno, oltre che dalle proprie azioni, sia anche condizionata dalle azioni buone o cattive delle persone che stanno attorno a noi. San Paolo ci esorta allora a portare gli uni i pesi degli altri per adempiere in questo modo la legge di Cristo (Gal 6, 2). Se durante la vita presente ci è soprattutto chiesto di portare i pesi gli uni degli altri, è perché in quella futura, quando tutti saremo pienamente abitati dallo Spirito dell'amore, ci sarà dato di godere gli uni della gioia degli altri, dei loro meriti e delle loro glorie.
A proposito delle componenti delle nostre sofferenze, è difficile sapere in che misura soffriamo a causa dei nostri peccati, e in che misura soffriamo per quelli degli altri, possiamo però dire che più saremo purificati dal fuoco dell'amore di Dio più saremo disposti ad accettare la sofferenza, e il motivo è il seguente: più si comprende la bellezza, la delicatezza e la profondità dell'amore di Dio e del prossimo, più si comprende anche la necessità di riparare per ogni offesa che l'amore subisce, sia che questa sia stata provocata da noi o da altri. La conferma la possiamo avere dalle dichiarazioni di tutti i santi i quali, più procedono sulla via della santità più dichiarano di essere dei grandi peccatori e più sono disposti a fare penitenza non solo per i loro peccati, ma anche per il gran numero di quelli che si commettono nel mondo.
La sofferenza degli innocenti
Potremmo a questo punto tentare di riflettere su di un ultimo interrogativo, quello relativo alla sofferenza degli innocenti. Bisogna prima di tutto osservare che nessuno è completamente innocente, ogni uomo che viene all'esistenza è come se venisse immerso in un mondo di peccato, l'inevitabile conseguenza sarà quella di commettere prima o poi dei peccati. Ci sono tuttavia dei casi che suscitano una particolare impressione di ingiustizia, ad esempio quelli in cui la malattia, la sofferenza o la violenza travolgono i bambini prima che siano in grado di esercitare la loro libertà e perciò non si possono ritenere responsabili di peccato, per questo motivo non dovrebbero subirne le conseguenze dolorose.
Casi particolarmente pietosi sono quelli in cui la malattia priva una creatura delle sue capacità di intendere e di volere; di fronte a tali situazioni si rimane perplessi e sconcertati. Una prima insufficiente risposta potrebbe essere questa: una parte della loro sofferenza serve ad espiare i peccati che avrebbero sicuramente commesso se avessero avuto una salute ed una vita normali. Questa risposta non elimina tuttavia un'impressione di ingiustizia o di sproporzione per le sofferenze che queste creature devono sopportare. Penso allora che queste situazioni ci invitino a pensare alla vita di queste vittime non solo come un fatto privato, ma come facente parte di un disegno più grande, un disegno in cui entrano in gioco le vicende dell'intera umanità. Ora, l'umanità nel suo insieme è molto peccatrice, si compiono infatti in essa molte cose che gravemente offendono Dio e il prossimo. Possiamo inoltre constatare come spesso certe offese, certe resistenze alla grazia, la volontà di fare di testa propria su molti punti, non durino poco, ma continuino per anni ed anni, a volte fino alla morte, e questo non può essere senza conseguenze dolorose, qualcuno inevitabilmente soffrirà a causa di queste offese, e molto spesso a soffrire sono proprio coloro che meno lo meriterebbero. Il primo di questi è stato Gesù, poi coloro che in vario modo Gesù vuole associare alla sua passione redentrice.
È a questo proposito importante osservare che, sia la Chiesa di occidente sia quella di oriente, celebri la festa dei Santi Innocenti, mostrandoci così la dignità e la gloria a cui sono elevati coloro che, non per loro volontà, ma per volontà del Signore, sono stati chiamati a portare il peso di ingiuste sofferenze nell'estremo tentativo di richiamare alla giustizia coloro che giusti non sono. Celebrando la festa dei Santi Innocenti la Chiesa ci invita ancora a considerare come non sia la vita presente il tempo e il luogo in cui Dio ha deciso di dare a ciascuno la giusta ricompensa. La giustizia, che tutti desideriamo veder trionfare, deve attendere la conclusione della vicenda umana ed il grande giorno del giudizio, allora, veramente i buoni ed i malvagi avranno quanto si meritano, anzi, i buoni avranno molto di più di quanto avranno saputo sperare nei loro più arditi desideri. Ce lo assicura San Paolo dicendo: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano (1Cor 2, 9). Queste parole, insieme ad altre della Sacra Scrittura, suggeriscono inoltre che una risposta pienamente soddisfacente a quanti soffrono ingiustamente non può venire da un ragionamento, per quanto corretto, ma deve venire dall'incontro con una Persona, dall'incontro con un Volto, il Volto di Colui che, essendo l'Amore, ha il potere di placare ogni dolore, consolare ogni afflizione, asciugare ogni lacrima e ricompensare ogni sacrificio.
A Lui onore e gloria nei secoli.
Eugenio Pramotton dal sito http://www.medvan.it/

Articoli correlati per categorie



Nessun commento:

Posta un commento