domenica 29 novembre 2015

Beata Maria Maddalena dell'Incarnazione (Caterina Sordini) - Porto Santo Stefano, Grosseto, 17 aprile 1770 - Roma, 29 novembre 1824



LA PREPARAZIONE REMOTA DEL DONO INFANZIA E ADOLESCENZA DI CATERINA: I LUOGHI, LA FAMIGLIA, GLI EVENTI
Circostanze particolari hanno forgiato in Caterina Sordini quelle doti umane e spirituali che la resero poi idonea al compito che l’attendeva. Caterina nacque a Porto Santo Stefano, nei Presidi di Toscana, il 16 aprile 1770, lunedì dell’Angelo, quartogenita dei coniugi Lorenzo e Teresa. Il territorio dei Presidi ebbe una storia particolare perché se dal punto di vista geografico apparteneva alla Toscana, dal punto di vista politico era annesso al Regno di Napoli. Ancor oggi i santostefanesi ricordano con fierezza le loro origini partenopee. Porto Santo Stefano si popolò di fatto grazie al continuo afflusso di famiglie provenienti da Napoli e dall’Isola d’Elba. I genitori di Caterina ne sono un esempio. Il padre Lorenzo era nativo di Porto Longone, l’odierna Porto Azzurro, nell’Isola d’Elba, mentre la madre, Teresa Movizzo, era oriunda di Napoli. Caterina avrà in sé il temperamento appassionato e intraprendente dei napoletani e lo spirito contemplativo, innamorato del silenzio e della bellezza, tipico degli isolani. Il padre fu uomo di grande pietà verso Dio e verso gli uomini, alla sua morte sarà rimpianto come il Padre dei poveri, fu lui a seminare nel cuore dei figli il gusto per la preghiera adorante. 

Egli, infatti, quale facoltoso commerciante di coralli s’addossava, specie nei giorni di Carnevale, le spese necessarie per le candele da consumare durante l’Esposizione prolungata del Santissimo Sacramento. Diventerà famosa una frase pronunciata dalla piccola Caterina che, in giorno di Carnevale, uscendo di Chiesa dopo esservi rimasta in adorazione con il Padre ebbe a dire: «Babbo mio, perché non è sempre giovedì grasso?». Dentro a un mondo stordito da un Carnevale goliardico, che avrebbe perso presto le sue maschere ritrovandosi senza identità, Caterina già avvertiva il suo ruolo: quello di mantenersi ancorata a un centro, un punto fisso che non muti, l’Eucaristia, Presenza viva e operante del Signore Gesù. L’immagine è parabola del tempo di Caterina, ma non solo, lo è forse anche del nostro. L’educazione alla pietà dei coniugi Sordini fu soda ed equilibrata, senza eccessi e senza bigottismi, tanto che i loro nove figli (tre dei quali morirono giovanissimi) poterono esprimersi in un clima di libertà e fiducia. Lo dimostrano alcuni episodi dell’infanzia di Caterina che ci forniscono il ritratto di una bimba ricca di candore e semplicità, ma anche vivacissima e indipendente. A tre anni, ad esempio, nel corso di una gita sull’Argentario si allontanò senza imbarazzo, né 15 ripensamenti dai genitori intenti a dialogare con un padre passionista, non la ritrovarono che in tarda serata placidamente rifugiata dentro al bosco tutta intenta a giocare con le cerase marine che aveva gelosamente raccolto. O ancora in età scolare quando, ignorando il divieto della madre, s’arrampicò fin sul bordo del caminetto per prendere una grossa pigna da portare a scuola (da una vicina di casa come allora si usava). Fuggendo per non essere scoperta precipitò lungo le scale ferendosi l’occhio gravemente con un ago della pigna. Immobilizzata nel letto per evitare di toccarsi l’occhio ferito, lasciò sbigottito il dottore quando riuscendo a liberare una mano si estrasse dall’occhio un frammento  legnoso che le si era conficcato durante la caduta.Quel che più sorprese il buon medico fu che nonostante la gravità dell’incidente la vista non fu per nulla compromessa. Profezia di quello sguardo altro che le sarà dato come dono, uno sguardo che fisso sull’Eucaristia sarà capace di vedere il mondo nella luce di Dio. Da adolescente Caterina si acquietò, divenne una fanciulla assennata, spigliata e disponibile nei lavori di casa, molto pia e capace di lunghe preghiere che non mancavano di tocco mistico. Il padre si preoccupò di trovarle un buon partito per accasarla e scelse un bravo giovane di Sorrento, esperto commerciante marittimo. Sulle prime Caterina oppose un rifiuto, poi però aderì di buon grado al volere paterno. Un viaggio di Alfonso a Costantinopoli ritardò le trattative di matrimonio ma, come pegno di nozze prima di partire, il giovane diede a Caterina un cofanetto di gioielli. Piacque tanto il dono alla giovane che appena poté, senza dir nulla a quelli di casa, indossò le perle e si recò in chiesa mettendosi in bella vista per farsi ammirare. La vide anche il padre che la rimproverò rimandandola a casa. Caterina, una volta raggiunta la sua camera, indugiò ancora un poco allo specchio, ma accade l’inaudito: nello specchio, invece della sua bella immagine, vide riflessa l’immagine di Gesù Crocifisso col capo chino che le disse: «Perché lasci me per una povera creatura?». La visione è suggestiva: Caterina innamorata della bellezza rimirava il suo volto, ma in quello specchio vide riflessa la sua vera identità, il volto di quell’Altro che ella stessa avrebbe un giorno rivelato al mondo. Per un attimo Caterina rappresentò quell’umanità che correndo verso la bellezza effimera avrebbe perso di vista la Bellezza vera quella capace di salvare il mondo. Da quest’evento maturò in Caterina la decisione di abbracciare la vita religiosa.
L’ANNUNCIO DEL DONO VITA FRANCESCANA, IL LUME
Caterina entrò nel Monastero delle Terziarie Francescane di Ischia di Castro nello Stato Pontificio, il febbraio 1788. Vi entrò letteralmente con un balzo, lasciando il padre, che l’aveva accompagnata fin lassù con la segreta speranza che fosse solo una visita di piacere, attonito e affranto. Sei mesi dopo Caterina faceva la vestizione prendendo il nome di sr. Maria Maddalena dell’Incarnazione. Iniziò così l’anno 1789, anno che segnerà l’esplodere della rivoluzione francese: un evento spartiacque per la storia di questi ultimi secoli. Il seme della secolarizzazione e dell’ateismo era già stato gettato nel rinascimento, ma solo con l’illuminismo e, soprattutto, con la rivoluzione francese cominciò a germogliare e a diffondersi nel mondo. Anche Dio, però, aveva in serbo il suo seme e lo gettò nel cuore di questa giovane ed umile novizia. Venne il giovedì grasso di quello stesso 1789 e sr. Maria Maddalena attendeva al refettorio, sua mansione in Monastero. Passò la superiora e le chiese se avesse già fatto colazione; alla sua risposta negativa la esortò a prendere del pane. Come Caterina portò il pane alla bocca andò in estasi ed ecco, al posto della parete uno squarcio d’azzurro la investì: figure misteriose in abito bianco e rosso cantavano le lodi del Divin Sacramento e una voce, quella di Gesù stesso, le fece intendere tutto ciò che sarebbe accaduto. Caterina vide le sofferenze della Chiesa, del Vicario di Cristo, vide il disperdersi delle coscienze e vide che tutto questo avrebbe trovato un rimedio se l’uomo si fosse mantenuto ancorato a un centro, alla radice stessa della Fede Cristiana, l’Eucaristia: «Voglio sulla terra un coro di angeli che mi lodino e che attirino molti al mio divin cuore, che qui, nel Sacramento, batte d’amore per loro». Il Padre di tutti i Lumi si degnò, come disse lei stessa più tardi, di farle capire che doveva essere Madre di una nuova Fondazione che, interamente dedita a Dio, avrebbe dato frutti di salvezza in tutto il mondo. Se nella visione allo specchio Caterina contemplò la sua vera identità, qui dentro all’annullarsi di questa parete ella vide l’identità della Chiesa. Una Chiesa che può essere missionaria solo quando sta inginocchiata davanti al Mistero che le dà origine. Anche i semi di Dio però hanno bisogno di marcire per fiorire e dar frutto, quello consegnato a sr. Maria Maddalena rimase sepolto per 19 anni nel Monastero di Ischia irrorato e concimato dalle sofferenze patite, dalle tentazioni, dalla penuria in cui versava il Monastero, dalla continua visione interiore dell’Eucaristia, dall’attesa che Dio rivelasse il tempo e il momento per realizzare il suo progetto. Quando nel 1802, dopo sei scrutini andati a vuoto, il capitolo elettivo la nominò inaspettatamente Badessa, sr. Maria Maddalena era talmente impreparata che, in qualità di sacrestana, si precipitò a suonare - secondo l’usanza - la campana a distesa. Poco dopo la sua elezione avvennero fatti prodigiosi che resero la Madre famosa fra il popolo. In particolare il 16 giugno, giorno del Corpus Domini, non c’era in tutto il paese di Ischia un sacco di farina. Al forno del Monastero tutte le massaie andavano a cuocere il pane, ma in quel giovedì di giugno le sorelle converse addette alla cottura del pane avevano solo un pugno di farina; Madre Maria Maddalena benedicendo la farina ordinò loro di gettarla nella solita quantità d’acqua. Sotto i loro occhi, mentre mescolavano incredule, la farina si rapprese, ed esse poterono impastare il pane che durò miracolosamente fino al 29 giugno festa dei Santi Pietro e Paolo.  Una sorta di miracolo Eucaristico (documentato da Atti di Curia e intervento del Vescovo diocesano), che già indicava la missione profetica di questa giovane Madre: dispensare alla gente il pane del Cielo. Sotto l’Abbadessato della Madre il Monastero fiorì. Grazie alla sua affabilità e alla sua sapienza spirituale molti la cercavano per consigli e preghiere, lasciando spesso abbondanti elemosine. Per cercare fondi scrisse anche al Re Carlo Emanuele IV, il quale dopo essersi recato a farle visita in Monastero le elargì cospicua offerta divenendole amico e ammiratore sincero. La persona che Dio però aveva destinato  per aiutare la Madre nella Fondazione dell’Opera fu un giovane prete ischiano, don Giovanni Antonio Baldeschi, a lui la Madre confidò il disegno di Dio e fu lui, attraverso il fratello, don Mario Baldeschi minutante di Pio VII, a reperire, nella persona del marchese Negrete ambasciatore di Carlo IV di Spagna a Lisbona, un benefattore per la nuova fondazione. Una volta raggiunta la cifra necessaria e avuta l’approvazione di Pio VII per la santa Opera ecco che il 31 maggio 1807, Madre Maria Maddalena con sr. Maria Clotilde (che la coadiuverà nella fondazione prendendo il nome di sr. Maria Giuseppa dei Sacri Cuori), sr. Marianna delle Sante Piaghe (che sarà una presenza discreta e fedele all’interno dell’Opera), alcune ragazze e padre Baldeschi partirono alla volta di Roma.
IL COMPIMENTO DEL DONO GLI INIZI DELLA FONDAZIONE, LE PERSECUZIONI, LO STABILIMENTO DELL’ORDINE
Roma in quegli anni era in fermento: i francesi l’avevano occupata nel 1798 deportando Pio VI, che morirà in Francia un anno dopo, ma  fu liberata nello stesso 1799 dai Napoletani. Il nuovo papa, Pio VII, si affretterà a tornarvi firmando un concordato con Napoleone nel 1801. Intanto però i Giacobini avevano conquistato molti al loro ideale all’interno della città eterna, cosicché il 2 febbraio del 1808 senza alcuna fatica i francesi entrarono in Roma occupandola di nuovo. Proprio in quello stesso 2 febbraio 1808, mentre tutti gli Ordini religiosi vivevano una pagina difficile della loro storia che si concluse con la soppressione, la piccola comunità di Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento riceveva l’approvazione pontificia. Per un misterioso disegno del Cielo la vita della Madre, s’intrecciò con quella di Napoleone. Basterebbe considerare le date che hanno sigillato il corso della vita di entrambe: Napoleone nasce nel 1769 e muore nel 1825; Madre Maria Maddalena, nasce nel 1770 e muore nel 1824. Accanto all’artefice di una rivoluzione che fu veramente epocale, la prov22 videnza mise un angelo che operò un’altra rivoluzione: quella che matura nel segreto delle coscienze, guidate e sorrette dalla luce della Eucaristia. La vicinanza della Madre con il temuto Condottiero corso non fu ipotetica, sr. Maria Maddalena mantenne una assidua e segreta corrispondenza (si scrivevano lettere con latte d’asina affinché fossero illeggibili ad altri) con Letizia Bonaparte, madre di Napoleone inoltre, numerose furono le profezie sugli esiti della vita dell’Imperatore. Sarà proprio a causa di tali profezie che ella dovrà molto soffrire. La Madre era tenuta in grande stima da Pio VII, le sue previsioni puntualmente si avveravano: il Signore le rivelò il giorno e l’ora in cui i francesi progettavano di rapire il Papa, tanto che Pio VII accolse il giacobino, che forzava la finestra degli appartamenti pontifici al Quirinale, con la valigia in mano. Com’era da prevedersi la Madre fu ritenuta una spia e deportata prima a Porto Santo Stefano - grazie all’intervento di suo fratello Giovanni, sindaco di quella città - poi a Firenze. I suoi scritti, saccheggiati, vennero letti per scherno nelle bettole romane e la Madre fu soprannominata «Flaminia», con ironico riferimento a una famosa cortigiana locale. A Firenze però la provvidenza le preparò un luogo dove poter raccogliersi e scrivere indisturbata tutto quello che il suo animo le dettava circa la Nuova Opera. Riuscì anche a mantenere un carteggio continuo con il confessore Baldeschi che l’aiutava a mettere a punto le sue intuizioni spirituali. Tale corrispondenza non è ancora stata ritrovata, ma l’esito di questo scambio continuo è oggi registrato in un Direttorio datato 1814 che la Madre fece stampare non appena poté rientrare a Roma.Ed è proprio questo rientro che fa riflettere. Roma nel 1814 era tutt’altro che tranquilla, inoltre la Madre a Firenze si era vista circondata da alcune giovani determinate a seguirla fino in fondo, delle altre portate da Ischia - salvo le fedelissime sr. Maria Giuseppa e sr. Marianna - non ne era rimasta neppure una: perché rischiare e tornare nella Capitale? Perché non incominciare l’opera lì a Firenze e poi, eventualmente in un secondo tempo tornare a Roma? No, l’imperativo era chiaro: tutto doveva ripartire dal centro della Cristianità. Era Roma l’obiettivo di Dio, Roma cuore della Chiesa, Roma città simbolo per i cristiani e per quel mondo «laico» che Napoleone incarnava. A Roma doveva essere innalzato il vessillo della Pace, a Roma doveva trionfare quella Presenza di Cristo nell’Eucaristia che avrebbe ricapitolato la storia delle coscienze e dei popoli. Così tornò a Roma prima di Pio VII, stampò il Direttorio, rifece le Costituzioni che dovevano regolare la vita monastica e claustrale della comunità e progettò l’abito delle adoratrici che volle disegnato con tale cura da incaricare un rinomato sarto del luogo, certo Giovanni Passinati. Pio VII stesso fu invitato al Monastero per valutare la bellezza di quell’abito che non somigliava in nulla al frusto saio francescano, ma era abito da sposa, degno della corte di un Re. Non dovevano esserci risparmi per la lode al Signore, non dovevano esserci scrupoli quando si trattava di comparire alla Presenza di Dio. La Madre non seguì la regola di San Francesco che pure aveva vissuta per 19 anni a Ischia di Castro e scelse la regola di Sant’Agostino, ritenendola più adatta per l’Ordine nascente. La comunità nascente si rivelò fin dall’inizio un centro di attrazione. Il canto delle monache attirava i passanti, i quali spesso, all’udirlo e vedendo risplendere nel centro della chiesa Gesù Sacramentato, mutavano vita e costumi. La Madre non si contentò di organizzare i turni di adorazione, ma volle che le monache leggessero dopo lunghi intervalli di silenzio, a voce alta, degli Atti - che possediamo ancora oggi - perché il popolo ne rimanesse edificato e si nutrisse alla sorgente sempre viva della tradizione della Chiesa. Ma neppure questo le bastò, anche quanti erano fuori, del tutto dimentichi di Dio dovevano essere invitati, dovevano in qualche modo essere richiamati a ciò che conta, ai valori eterni che solo rendono preziosi quelli temporali. Così introdusse tre tocchi di campana per segnalare il cambio del turno di adorazione delle monache. Un suono, quello delle campane, che infastidiva i più, poiché erano molti, tra i romani, quelli che alla morte di Pio VI si erano associati ai francesi gridando: «È morto il papa Pio VI e ultimo!». Alle sue figlie insegnò ad essere tutte di Dio per amare i fratelli nella libertà, insegnò a guardare la vita e le situazioni dal punto di vista di quel Gesù assiso che adoravano: loro stesse dovevano essere il segno vivo di quella Presenza Eucaristica che così spesso gli uomini faticano a riconoscere e a capire. Non è qui il luogo per narrare gli episodi più significativi che ci permettono di comprovare queste affermazioni. Ci bastino questi: in un tempo in cui le ruote dei Monasteri erano guardate con sospetto perché fonte di dissipazione per le monache (basterebbe citare qualche sermone di San Leonardo da Porto Maurizio per rendercene conto), tanta era l’ansia missionaria della Madre che esortava le sorelle rotare a fingere di acquistare utensili dagli ebrei di passaggio  per parlare loro di Cristo e della bellezza della fede cristiana. Ancora: un giorno Giovanni Sordini, fratello della Madre, venuto a Roma per partecipare a una solenne liturgia fu colto al piede destro da risipola che gli impediva di camminare, la sorella - saputolo - gli assicurò la sua preghiera. Il fratello guarì immediatamente e tornando dalla funzione si recò al Monastero per ringraziare la sorella. Dopo aver suonato alla porta si sentì rispondere dalla portinaia che la Madre non poteva accedere al parlatorio perché immobilizzata a letto dalla risipola. Madre Maria Maddalena comunicò alle sue Figlie e a quanti beneficiavano dei suoi consigli un profondo senso ecclesiale, ella seppe dire cose nuove con le parole eterne della Chiesa. Il suo cuore davanti al Signore si dilatava verso orizzonti infiniti pregando non solo per la Chiesa, il Papa, i ministri di Dio e i peccatori, ma anche per i politici, i cristiani di altre confessioni di fede, gli ebrei, i mussulmani, gli atei e persino i maghi. Niente doveva essere escluso alla presenza del Sacramento di unità di tutto il genere umano. Non per nulla la Madre consacrò il suo Ordine - fra l’altro l’ultimo approvato dalla Chiesa come tale - all’Addolorata, la Vergine a cui Pio VII aveva affidato le sorti della Chiesa sotto Napoleone, la Vergine cui viene annunciata una nuova Maternità: quella dei figli del Suo Figlio. Dando alle sue figlie, come Madre, l’Addolorata, Madre Maria Maddalena le legava indissolubilmente al mistero della Croce come mistero di un dolore che è dolore di parto, promessa di vita e di fecondità.
IL DONO FRUTTIFICA ALLA MORTE DELLA MADRE, L’ESPANSIONE DELL’ORDINE, RIFLESSIONI CONCLUSIVE
La Madre morì il 29 novembre del 1824, morì durante la recita del rosario e nella certezza dell’incontro con lo Sposo. A piangerla non c’erano solo le monache di Roma e le sue antiche sorelle d’Ischia ma c’erano anche i molti sacerdoti ch’ella aveva aiutato, i molti laici, specie della nobiltà, ch’ella aveva sorretto con il suo sostegno spirituale. Un anno dopo la sua morte c’erano già regolari iscrizioni di laici alla Pia Unione, associazione di fedeli che s’impegnava con le monache a ruotare in turno davanti a Gesù Eucaristia. Il sogno della Madre si era avverato. In breve tempo, anche le altre due principali città d’Italia, Napoli e Torino, vollero un Monastero di Adoratrici. Il primo fu fondato nel 1828 da M. Maria Giuseppa dei Sacri Cuori, l’inseparabile  compagna della Madre. Grazie alla generosità di una nobile proprio al centro di Napoli, vicino al Duomo, nel Monastero di S. Giuseppe de Ruffi nacque una nuova comunità di Adoratrici. Qui, tra gli anni 1835-36, la Pia Unione conosce una pagina gloriosa: per la prima volta riceve l’approvazione ufficiale 28 della Santa Sede, gli adoratori assumono delle vesti particolari ed entrano in possesso dei locali adiacenti alla Chiesa del Monastero stesso. Il secondo, richiesto dal ministro degli esteri del Re Carlo Alberto, conte Solaro della Margherita, fu fondato nel 1839 ad opera di Madre Maria Cherubina, nipote della Fondatrice. Nove anni più tardi anche qui, si sviluppò una Pia Associazione di Adoratori del SS.mo Sacramento. Queste prime fondazioni come le altre che via via si moltiplicheranno fino a raggiungere il centinaio, avranno in comune una storia travagliata di persecuzioni e di ostacoli. Il destino dell’opera dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento, sembra segnato da una nota ricorrente: essa si sviluppa in contesti politici e sociali spesso difficili, dove maggiore è contrasto, dove il relativismo favorisce l’annebbiarsi delle coscienze. Due esempi per tutti, anche se la storia di ogni Monastero meriterebbe di essere raccontata: le fondazioni di Monza e del Messico, le quali conoscono analogie impressionanti con la vita e l’opera di Madre Maria Maddalena. Nella laboriosa cittadina posta nel cuore della Brianza, proprio nel 1808, anno in cui Madre Maria Maddalena riceveva la prima approvazione dell’Istituto, nasce Ancilla Ghezzi, fanciulla che fin dalla più tenera età ebbe un contatto assiduo e particolare col divino. Fu il Signore stesso ad indicare ad Ancilla il desiderio di avere un coro di Angeli che lo adorassero giorno e notte nel cuore della città, facendole conoscere l’esistenza dell’Ordine della Sordini. E proprio come quest’ultima, Ancilla fondò il suo Monastero mentre più feroce era la soppressione degli Istituti a causa dei disordini del Risorgimento. Con le prime compagne abitò inizialmente presso il Carrobiolo poi, nel 1855 la comunità ormai numerosa si trasferì nel Monastero di Santa Maddalena, vicino al Duomo. Nel 1857 Ancilla si recò nel Monastero di Roma con altre tre sorelle e trascorse un periodo di formazione per ritornare poi a Monza con l’incarico di Vicaria e Maestra delle Novizie. Nel 1859 la chiesa delle Adoratrici venne finalmente aperta al pubblico. Nel 1863 Ancilla, ormai Madre Maria Serafina della Croce, assunse l’incarico di Superiora che occupò fino alla morte, avvenuta nel 1876. Fu una donna grandemente innamorata di Gesù e nel contempo di senso pratico vivissimo. Attorno alla sua persona e alla comunità stessa si creò un vero Movimento spirituale che coinvolse sacerdoti, religiosi e laici. A Monza la Pia Unione sorse fin dal 1862 e fu fiorente per lungo tempo. Da qualche anno è partita una nuova esperienza che rifacendosi all’eredità di Madre Maria Maddalena e Madre Maria Serafina si propone di diffondere nel mondo le grazie che, come da sorgente, sgorgano dall’Eucaristia, in particolare il dono dell’unità e della Pace. Si tratta della comunità degli Adoratori Missionari dell’Unità denominata anche Rete di Luce. In Messico il Signore scelse una monaca di Santa Brigida, Madre Loreto del Santissimo, per diffondere l’Ordine, la quale ignara dell’esistenza della Fondazione italiana cercò come realizzare il volere del Cielo. Da Roma la Congregazione dei Vescovi e Religiosi inviò le Costituzioni delle Adoratrici di Madre Maria Maddalena che ella abbracciò con viva fede dando inizio nel 1879 a questo nuovo sviluppo dell’Ordine. Madre Loreto morì Brigidina quasi lasciando a Madre Maria Maddalena l’intero merito della Fondazione. In Messico i Monasteri, che oggi sono più di settanta, conobbero il loro primo sviluppo proprio negli anni in cui infuriava la persecuzione, gli anni dei Cristeros messicani, in cui accanto al sorgere di quello che sarà il primo Stato laico del Mondo la fede si radicherà grazie al sangue dei martiri. Dalla comunità di Torino si svilupparono i  Monasteri di Vigevano e di Bassano del Grappa. Le monache Adoratrici giunsero a Vigevano nello stesso anno in cui a Monza moriva Madre Serafina della Croce, il 1876, furono ivi chiamate dal vescovo mons. Pietro de Gaudenzi. La comunità crebbe in tal misura che, nel 1912, si rese necessario il trasferimento in un secondo Monastero, quello attuale progettato con l’annessa Chiesa da una suora della comunità: l’architetto sr. Maria del Sacro Cuore Vittadini. Qui l’Ordine conosce un risvolto del tutto particolare: da un gruppo di donne impegnate assiduamente nella preghiera di adorazione Eucaristica e seguite dall’allora Superiora Madre Maria Eucaristica, nasce un Istituto di consacrazione laicale: le Adoratrici Eucaristiche secolari. Il contatto assiduo con l’Eucaristia le conduce a spendersi senza sosta nei servizi resi alla parrocchia portando la comunione ai malati, insegnando catechismo e offrendo sostegno laddove più urgente è la necessità. L’Istituto secolare è attualmente presente, oltre che a Vigevano e a Bassano del Grappa, in Spagna, a Barcellona, e in Messico. Da Vigevano nacquero anche altri due Cenacoli Eucaristici, il Monastero di Mantenga di Varallo e quello di Feriolo di Baveno, sorsero quasi come profezia del dilagare dell’abbandono che stava subendo il tabernacolo. La loro esperienza pur essendosi umanamente chiusa a causa delle mancate vocazioni rimane aperta come domanda a tutti quanti non si danno pace finché tutti non abbiamo sperimentato quanta luce porta nella vita l’esperienza della Presenza costante del Signore in mezzo ai suoi. Il Monastero di Vigevano conta, infine, diversi Adoratori laici che attingendo alla fonte del carisma diffondono nella loro diocesi l’amore e la venerazione alla Presenza Reale del Signore Gesù nell’Eucaristia. Dalla comunità di Monza sorsero i Monasteri di: Seregno, Genova e Innsbruck. Da Napoli, Castellammare e da Castellammare, Cagliari, quest’ultimo grazie a sr. Maria Modestina una suora proveniente da Genova. Da Cagliari infine nacque Oristano. Ultimo della lista italiana fu Ischia, dove le sorelle francescane, avendo mantenuta viva la memoria di Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione chiesero ed ottennero, nel 1973, di entrare a far parte dell’Ordine.
 In Europa l’Ordine si sviluppò, oltre al già menzionato Innsbruck in Austria, anche in  Spagna.Il primo Monastero spagnolo fu quello di Vich. Qui un giovane sacerdote ebbe l’ispirazione di indirizzare un gruppo di giovani, desiderose di consacrarsi a Dio, verso una vita monastica e contemplativa, dedita all’Adorazione del Santissimo Sacramento. Quando domandò l’approvazione in Vaticano si sentì rispondere che esisteva già l’Istituto dell’Adorazione Perpetua. Due giovani allora partirono da Vich alla volta di Roma per ricevere nel Monastero delle Adoratrici un’adeguata formazione. Tornate a Vich diedero inizio alla giovane comunità di Adoratrci che, in un primo tempo per necessità economiche, dovette accollarsi la gestione di un collegio. Poi però, spronate da papa Leone XIII, le monache si dedicarono completamente all’Adorazione perpetua, confidando nella Provvidenza. Anche in Spagna fu dopo la guerra civile del 1937 (con la relativa persecuzione che vide le sorelle di Vich riparare in Italia) che l’Ordine si diffue. Nel giro di pochi anni sorsero, infatti, i Monasteri di Berga (1940) e di Barcellona (1952).
Dal Messico si diffuse negli Stati Uniti e in Alaska. Mentre in Cile la Fondazione avvenne nel 1885 per desiderio del Vescovo di Santiago e una Suora del Buon Pastore guidata a distanza dalle Madri di Roma. Altro prezioso frutto lo si ebbe in Kenia, a Karjma, dove la Fondazione nasce grazie all’infaticabile opera di una sorella del Monastero di Vigevano sr. Maria Diletta Manera, biografa della Madre Fondatrice, recentemente scomparsa, coaudiuvata da altre sorelle provenienti da Seregno, Monza e poi Bassano del Grappa. Anche a Karjma vi è un notevole sviluppo dell’area laica dell’Ordine. Il centinaio di Monasteri di Madre Maria Maddalena sono oggi un fermento vivo nelle città e nel mondo. Con la loro vita dimostrano l’intimo connubio tra contemplazione e missione. La loro clausura papale dice al mondo efficientista quanto povere siano le opere dell’Uomo senza Dio, quanto sia limitato il cuore umano di fronte alle grandi domande dell’esistenza, ma la loro presenza dentro il cuore delle città, dentro al turbinio della vita quotidiana dice che sopra ogni ferita umana Dio versa l’olio della speranza, che dentro al buio del dolore e della perdita di senso della vita, la luce di Cristo continua a risplendere. Le comunità di Madre Maria Maddalena sono come città poste sul monte pronte all’accoglienza e attente alle nuove povertà, quelle dell’anima, mentre i laici che attingono alla loro spiritualità sono mandati nel mondo come sacramento di quella Presenza che è Farmaco d’immortalità per un uomo che, creato per l’eternità, soffre la diuturna sperimentazione del male e della morte.



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