giovedì 19 novembre 2015

Riservare per sé, è privare gli altri di Isabelle Rivière




Tutta la miseria umana è intessuta d'avarizia: la miseria dei corpi con il rifiuto di cedere il proprio; la miseria delle anime, con il rifiuto di dare il proprio tempo e il proprio cuore. Tutte le sofferenze acute o nascoste, tutte le amarezze, le umiliazioni, gli affanni, gli odi, le angosce di questo mondo, sono una fame inappagata. Fame di pane, fame di aiuto, fame d'amore. Dal bambino che singhiozza perché la mamma innervosita lo ha schiaffeggiato senza motivo, al nonno troppo anziano che i nipoti ormai dimenticano di abbracciare; dalla giovinetta sgraziata che resta dimenticata nel suo angolo, alla sposa che il marito ormai non guarda più, alla moglie abbandonata che si getta nel fiume; dall'amico il cui amico ha mancato volutamente all'appuntamento, al giovane ventenne che muore, solo, di notte nel suo letto d'ospedale, mentre l'infermiera prende il caffé in cucina; dal bambino della Assistenza Pubblica sino all'uomo che sta per essere ghigliottinato, tutti hanno sofferto per la mancanza, per l'insufficienza d'amore.
Ognuno aveva diritto a un po' della vita e del cuore d'un altro, che l'altro gli ha negato. Ognuno, per vivere, aveva bisogno di ciò che un altro ha riservato per sé, che gli era inutile e che si è rovinato per mancanza d'uso.
Si accusa Dio della sofferenza umana, si nega la sua bontà perché si vedono pianger gli uomini, si brandisce contro di lui il famoso «problema del male» come vessillo di ribellione - e non si vuoi riconoscere che egli ci ha dato tutto il necessario per costruire la nostra felicità, terrena ed eterna, contemporaneamente alla felicità di altre creature: tutta una vita da sfruttare per tale finalità, e questo cuore infaticabile per amare. Non ci si vuole accorgere che il male non esiste in sé, che non è l'invenzione di qualche malvagio, insinuatosi nella nostra vita per farci soffrire, ma è unicamente il nostro rifiuto di utilizzare ciò che possediamo, il rifiuto di rispondere allorché siamo chiamati, la nostra carenza, la nostra deficienza, una parsimonia di noi stessi tanto stupida e criminale quanto quella del mendico che muore d'inedia sul saccone intessuto d'oro.
Ma, almeno, questi non fa torto che a sé; mentre noi, in realtà, lasciamo nell'abbandono tutti coloro che han bisogno di noi, per quella meschinità tirchia e degna di disprezzo di non averne a sufficienza neppure per noi... Come ci si tranquillizza con poca spesa quando si fa qualcosa per gli altri! Quanto vicina è la barriera oltre la quale si drizza, senza possibilità di replica, la frase: «Ma che posso fare, di più?» Quando si è lasciata cadere una discreta elemosina a un mendicante, avendo cura di non incontrarci col suo sguardo, per paura di scoprirvi quale granello di sabbia sia quella moneta nell'abisso delle sue necessità, ci si allontana gonfi di soddisfazione, incantati nel constatarci sì generosi. Ma che è mai questo, confrontato con l'obbligo di tutte le ore che abbiamo contratto dalla nostra nascita nei confronti di tutti i nostri fratelli? E chi con l'elemosina non ha dato anche il suo cuore, quand'anche avesse gettato milioni nel berretto bisunto, non avrebbe dato che del vento.


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