domenica 19 giugno 2016

Non giudicate, affinché non siate giudicati di San GIOVANNI CRISOSTOMO - Discorso ventitreesimo – Mt. 7, 1-20


Mt. 7, 1-20

1. – Ma come? Non dovremo, dunque, rimproverare chi pecca? Anche Paolo ci vieta di farlo, o meglio ce lo vieta Gesù Cristo per mezzo di Paolo, con queste parole: «Tu poi perché giudichi il tuo fratello?» {600}. «E chi sei tu che ti fai giudice del servo di un altro?» {601}. E ancora: «Perciò non giudicate di nulla prima del tempo, finché non venga il Signore» {602}. Ma perché, poi, in un’altra circostanza lo stesso Apostolo aggiunge: «Riprendi, correggi, esorta»? {603} E altrove ripete: «Quelli che peccano, riprendili alla presenza di tutti» {604}. E Cristo dice a Pietro: «Se il fratello tuo ha peccato contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo. Se poi non ascolta, prendi con te un’altra persona; se neppure così dà ascolto, dillo alla Chiesa» {605}. Perché Cristo invita tante persone, non soltanto a rimproverare, ma anche a punire coloro che peccano? Egli ordina, infatti, di considerare il peccatore ostinato, che non dà ascolto a nessuno, come il gentile e il pubblicano {606}. E perché ha dato anche le chiavi del cielo ai suoi apostoli? Se essi non possono giudicare, non hanno nessuna autorità su alcuno e, perciò, invano hanno ricevuto il potere di legare e di sciogliere. E d’altra parte se ciò prevalesse, la libertà cioè di peccare senza che nessuno ci rimproveri, tutto precipiterebbe in rovina, sia nella Chiesa, come nelle città e nelle famiglie. Se il padrone non giudicasse il suo servo, e la padrona la sua domestica, il padre il proprio figlio e l’amico il suo amico, la malvagità di certo aumenterebbe. E non soltanto l’amico deve giudicare l’amico, ma noi dobbiamo giudicare anche i nemici, poiché non facendolo non potremo mai sciogliere ed eliminare l’inimicizia esistente fra loro e noi, e tutto sarebbe sconvolto.
Qual è dunque il senso preciso di queste parole del Vangelo? Esaminiamole con cura, in modo che nessuno sia tentato di vedere in questo comando, che costituisce un rimedio di salvezza e di pace, uno strumento di sovversione e di turbamento. Soprattutto attraverso le parole che seguono, Cristo dimostra la forza e l’efficacia di questo precetto: «Perché – egli chiede – osservi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non badi alla trave che è nell’occhio tuo?». Può darsi che questa spiegazione appaia ancora oscura a molti spiriti pigri: io cercherò per questo di chiarirla, prendendo in esame il discorso. Mi sembra dunque che Cristo non vieti in senso assoluto di giudicare qualsiasi peccato, che non neghi questo diritto genericamente a tutti, ma a coloro che, pieni di un’infinità di vizi, condannano insolentemente gli altri per lievi colpe. E a me pare che qui egli voglia riferirsi anche ai giudei, che erano severi censori delle più piccole colpe del prossimo, mentre essi non si accorgevano di essere colpevoli di peccati ben più gravi. Questa stessa cosa, infatti, Cristo ripete verso la fine del Vangelo, rimproverando i giudei: «Affastellano carichi gravi e difficili a portarsi, e li impongono sulle spalle degli altri; ma essi non vogliono smuoverli con un dito» {607}. E ancora: «Voi pagate la decima della menta, dell’aneto e del comino, e avete tralasciato le cose più gravi della legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà» {608}. Contro questi stessi giudei – mi sembra – Cristo parla ora con forza, reprimendo in anticipo le accuse che essi lanceranno contro i suoi discepoli. I farisei, infatti, li accusarono di peccato per delle cose che non erano affatto peccati, come il non osservare il sabato, mangiare senza lavarsi le mani e sedersi alla stessa mensa con i pubblicani; il che fu stigmatizzato altrove: «Col filtro togliete il moscerino e ingoiate il cammello» {609}. Ma Cristo stabilisce qui, contro tali giudizi, una legge comune e valida per tutti.


Anche Paolo non vietava ai Corinzi di giudicare genericamente, ma proibiva soltanto di giudicare chi era loro preposto e li guidava, e su questioni ancora incerte e non chiare. Non vietava loro di correggere i peccatori. Il divieto che egli formulava non si rivolgeva a tutti indistintamente, ma solo a quei discepoli che osavano giudicare e condannare  i loro maestri, e a coloro che, colpevoli di mille colpe, ardivano lanciare accuse atroci contro persone innocenti.
È proprio questo che Gesù Cristo vuol far capire qui, ma con queste altre parole incute pure un grande timore e minaccia l’inevitabile supplizio: Poiché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati {610}. Non è vostro fratello – egli dice – che voi condannate, ma voi stessi; siete voi che vi preparate un temibile tribunale, davanti al quale dovrete rendere conto rigoroso del vostro comportamento. Come Dio ci perdonerà i nostri peccati nella misura in cui avremo giudicato gli altri. Non dobbiamo, quindi, né ingiuriare, né insultare coloro che peccano, ma dobbiamo avvertirli. Non bisogna dirne male e diffamarli, ma consigliarli. Dobbiamo correggerli con amore e non insorgere contro di loro con arroganza. Se trattate il vostro prossimo senza rispetto e senza pietà quando dovrete decidere dei suoi errori e determinare le sue colpe, non sarà lui, ma voi a essere condannati all’estremo supplizio.
 
2. – Vedete come sono lievi questi due comandi di Gesù, e come essi costruiscono una sorgente di grandi beni per coloro che li praticano e, per conseguenza, di mali per quanti li trascurano? Chi perdona suo fratello, libera se medesimo da ogni accusa, prima ancora che suo fratello, senza che gli costi alcun sacrificio. Chi giudica le colpe degli altri con moderazione e con indulgenza, accumula in tal modo per se stesso un grande tesoro di misericordia. Qualcuno potrebbe dirmi a questo punto: Ma se un uomo cade nella fornicazione, non gli si dovrà dunque dire che la fornicazione è un male e non si dovrà correggerlo con energia per il suo peccato? Correggilo, certo, però non come se tu fossi un nemico che chiede giustizia, ma comportandoti come un medico che prepara il rimedio per guarire il malato. Cristo non ti disse di non impedire al prossimo di peccare, ma ti ordinò di non giudicare, cioè di non diventare un giudice aspro e severo. Inoltre egli non parla qui, come ho già cercato di chiarire, dei grandi peccati, dei delitti gravissimi, ma di quelle colpe che paiono tali e non lo sono.
Ecco infatti che dice: Perché osservi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello? {611} Questa è una colpa in cui cadono tuttora molti uomini. Se vedono un religioso che ha un abito in più, subito gli rinfacciano la regola di povertà che il Signore ha dato; ma non tengono conto che essi rubano a più non posso e ogni giorno accumulano ingiuste ricchezze. E se vedono che prende un po’ di cibo, subito assumono il ruolo di severi accusatori, essi che passano tutta la loro vita negli eccessi del bere e del mangiare. Non si accorgono che così facendo attirano sul loro capo, oltre a quanto meritato per i loro delitti, un fuoco ancora più intenso, e che, giudicando gli altri in tal modo, privano se stessi di ogni scusa e attenuante. Tu infatti, avendo così giudicato il tuo prossimo, hai per primo stabilito la norma secondo la quale Dio deve esaminare con rigore il tuo comportamento. Non lamentarti, quindi, se un giorno riceverai il trattamento che tu stesso ti sei procurato.
Ipocrita! Prima togli la trave dall’occhio tuo {612}. Cristo vuol manifestare con queste parole quanto è irritato contro coloro che si comportano in quel modo. Tutte le volte, infatti, che vuol dimostrare che un peccato è grave, che esso suscita la collera divina e che quindi Dio lo punirà severamente, comincia sempre con parole di aspra condanna. E, come si rivolgerà poi, sdegnato, a quel servitore che esigeva con tanta crudeltà cento denari: «Servitore malvagio, io ti ho condonato tutto il debito» {613}, così qui comincia la sua apostrofe, esclamando: «ipocrita!». Tale sentenza è pronunciata non per chi è misericordioso, ma per chi è disumano. Quest’uomo sembra all’esterno un amico, ma agisce come un nemico pieno di malvagità, attribuendo falsi oltraggi e crimini al suo prossimo, e assumendo con violenza, arbitrariamente, il ruolo di maestro, mentre non merita neppure il rango di discepolo. Ecco perché il Signore lo chiama ipocrita. Come puoi, infatti, tu che sei un censore così rigoroso degli altri, tanto da vederne anche le più lievi mancanze, essere poi così negligente quando si tratta delle tue ben più gravi colpe, al punto da trascurare anche quelle gravi? «Prima togli la trave dall’occhio tuo».
Come si può costatare, egli non vieta quindi in senso assoluto di giudicare: ci ordina però di togliere prima la trave dal nostro occhio, e poi di correggere gli sbagli del nostro fratello. È evidente, infatti, che ognuno di noi conosce meglio le sue condizioni che quelle degli altri; è certo, inoltre, che ognuno di noi vede meglio le cose più grandi che quelle più piccole e ama più se stesso che il prossimo. Se per sollecitudine tu fai questo, abbi cura dapprima di te stesso, là dove è più visibile e più grande il peccato. Se invece tu trascuri te stesso, è evidente che tu giudichi tuo fratello non tanto perché egli ti stia a cuore, ma perché hai avversione per lui e vuoi disonorarlo. Se è necessario che nostro fratello sia giudicato, non spetta a noi farlo, ma a qualche altro che sia del tutto esente dalle colpe che vogliamo segnalare. Orbene, dato che Cristo qui istituiva i punti più elevati della virtù cristiana, perché nessuno potesse obiettargli che era facile filosofare a parole, e volendo dimostrare il suo pieno diritto a parlare e che egli era esente da colpe, avendo sempre compiuto tutto perfettamente, si serve appunto di questo paragone che abbiamo ora letto. Egli stesso, infatti, più tardi avrebbe giudicato dicendo: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti!» {614}. Ma egli poteva farlo in tutta giustizia, poiché non era colpevole di quelle cose che rimproverava. Egli non toglieva una pagliuzza, né aveva una trave nell’occhio; ma essendo puro e esente da tutte quelle colpe, cercava di correggere e difetti e gli errori di tutti. Nessuno, infatti, deve condannare gli alti, se egli stesso è colpevole dei peccati che rimprovera.
Perché ti meravigli che Gesù abbia istituito questa legge, quando il ladrone, mentre era appeso alla croce, lo comprese e disse all’altro ladrone: «Neppure tu temi Dio, dal momento che subiamo la stessa condanna?» {615}: con queste parole il ladrone espresse lo stesso pensiero che Gesù cristo espone qui.
Tu invece, non solo non togli la trave che è nel tuo occhio, ma neppure riesci a vederla; mentre non solo vedi la pagliuzza nell’occhio del fratello, ma l’esamini e pretendi di toglierla. Rassomigli a un uomo affetto da idropisia o da qualche altro grave male incurabile, che trascura la sua malattia, e condanna invece suo fratello perché non si preoccupa di curare un suo male leggero. È già una sciagura non rendersi conto delle proprie colpe: ma è incomparabilmente più grave giudicare gli altri, mentre noi portiamo, senza avvertire il minimo dolore, addirittura delle travi nei nostri occhi. E il peccato è assai più pesante di una trave.
 
3. – Il Signore ordina insomma, con questo precetto, che chi è carico di colpe non deve ergersi a giudice severo degli altri, soprattutto quando le colpe di costoro sono trascurabili. Non è che vieti genericamente di giudicare e di correggere, ma ci proibisce di trascurare le nostre colpe e di balzar su ad accusare con rigore gli altri. Agire così non può che aumentare la nostra malvagità, rendendoci doppiamente colpevoli. Chi per abitudine trascura le proprie colpe, benché siano grandi, e si preoccupa, invece, di ricercare e di sindacare con asprezza quelle degli altri, anche se sono piccole e lievi, si danneggia in due modi: prima perché trascura e minimizza i propri peccati, poi perché attira inimicizia e odio su tutti con i suoi giudizi insolenti, e ogni giorno diventa sempre più disumano e crudele.
Dopo aver tolto di mezzo questi mali con quest’ottima legge, aggiunge un altro comando: Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci  {616}. Eppure, - qualcuno potrebbe dirmi, - più avanti egli comanda: «Ciò che io vi dico all’orecchio, predicatelo sopra i tetti» {617}. Ebbene, il primo di questi comandi non contraddice il secondo, perché questo non ordina affatto agli apostoli di predicare indifferentemente a tutti, ma di parlare apertamente a coloro che devono essere istruiti. Qui, dicendo «cani», allude a quanti vivono in un’empietà incurabile e che non danno alcuna speranza di cambiare e divenire migliori. Con la parola «porci», invece, indica coloro che sono continuamente sprofondati nella vita dissoluta. Dichiara insomma che tutti costoro sono indegni di ascoltare la verità. Paolo esprime lo stesso pensiero dicendo: «L’uomo animale non percepisce le cose dello Spirito; per lui non sono che stoltezza» {618}. E in molte altre circostanze, l’Apostolo dimostra che la corruzione della vita rende gli uomini incapaci di intendere gli insegnamenti più elevati e perfetti. Ecco perché Cristo comanda di non aprir loro le porte: perché essi diventano ancora più insolenti dopo aver appreso i misteri divini. Chi ha spirito sapiente e intelligente, ammira e venera queste verità non appena gli vengono rivelate: coloro, invece, che sono insensibili e rozzi le rispettano di più quando le ignorano. A quelli quindi che per la loro natura non possono intenderle, è meglio non dirle, in modo che così almeno essi siano indotti al rispetto. Un porco non sa che cos’è una perla. Siccome non può conoscerla, è molto meglio che neppure la veda, a evitare che calpesti una cosa di cui ignora la preziosità. Coloro che sono in questo stato, diventano ancor più colpevoli e si trovano così più danneggiati, se si tenta di istruirli. Essi infatti finiscono col profanare le cose sacre, di cui non intendono la santità, e questa conoscenza che cerchiamo di dar loro servirà soltanto a renderli più feroci e ad armare contro di noi la loro insolenza.
Proprio questo vuol dire Cristo con le parole: Affinché non le calpestino, e non si rivoltino a dilaniarvi {619}. Eppure, voi potreste dirmi, - le verità del Vangelo dovevano essere tanto potenti da restare incorrotte e tali da non dare occasione a quelli di usarle conto di noi. Ma quest’occasione non viene certo dalle cose sante, sebbene da coloro che sono come porci: succede la stessa cosa a una perla calpestata, la quale è così trattata non perché spregevole ma perché è caduta tra i porci. E Gesù con efficacia dice: «e non si rivoltino a dilaniarvi». Costoro infatti simulano di essere umili per apprendere i nostri misteri,e, quando li hanno appresi, divengono di colpo del tutto diversi. Ci canzonano con beffe e derisioni, quasi fossimo degli illusi e ingannati. Ecco perché Paolo dice a Timoteo: «Anche tu guardati da quello, perché si è fortemente opposto alla nostra predicazione» {620}. , e ancora: «Anche da costoro tieniti lontano» {621}. E a Tito l’Apostolo dice: «Evita l’eretico, dopo averlo avvertito una o due volte» {622}. Non sono dunque le nostre verità che pongono loro le armi in mano: ma essi stessi, stolti e insensati, si rivoltano con tanta maggiore insolenza contro di noi. Per questo è molto più vantaggioso che rimangano nell’ignoranza di quelle verità: così almeno non le disprezzeranno. Se invece vengono a conoscerle, ne deriva un duplice male: prima di tutto perché essi non ne ricaveranno alcun frutto e poi perché diverranno anche peggiori di prima e causeranno mille guai. Ci ascoltino ora coloro che parlano inopportunamente e senza veli con tutti, e che finiscono col far disprezzare le cose più sacre. Quando noi chiudiamo le nostre porte prima di celebrare i misteri, ed escludiamo i non iniziati, non perché riconosciamo in ciò che si compie qualcosa che è degno di disprezzo, ma perché molti sono ancora troppo impreparati per poter partecipare a questi sacramenti. Cristo stesso, del resto, per darci un esempio di questo modo di comportarsi, ha parlato spesso ai giudei sotto forma di parabole, perché essi pur guardando non vedevano; e Paolo ci ordina di sapere con esattezza come si deve rispondere a ciascuno {623}.
Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto {624}. Cristo aveva ordinato cose tanto grandi e alte, che potevano lasciar stupiti e senza parole; aveva comandato di essere al di sopra di ogni passione, aveva innalzato sino al cielo e aveva esortato a farsi simili, nella misura del possibile, non agli angeli e agli arcangeli, ma a Dio stesso, Signore dell’universo; egli, inoltre, voleva che non solo i suoi discepoli praticassero questo, ma che essi istruissero anche gli altri, li correggessero, e distinguessero i cattivi dai buoni, i cani da quelli che non lo erano (molte cose, infatti, sono occulte nell’uomo), affinché non si dicesse poi che quanto egli esige è troppo duro e insopportabile. Più tardi, infatti, Pietro avrebbe detto: «E chi dunque potrà salvarsi?» {625}, e anche gli altri suoi discepoli nello stesso passo: «Se tale è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene ammogliarsi» {626}.
 
4. – Cristo, per evitare che anche ora si dica questo, avendo già fatto constatare in precedenza, attraverso molti ragionamenti tra loro concatenati e adatti a convincere, che i suoi precetti sono facili ed agevoli da compiere, insiste ancora su questo concetto e promette, a coronamento di ciò che ha detto appunto sulla facilità di attuare i suoi comandi, un conforto non ottenuto con sforzi e fatiche: l’aiuto, cioè, meritato con le assidue preghiere, cui egli esorta. Non dovete – dice in altre parole – contentarvi dei vostri sforzi, ma dovete anche implorare l’aiuto divino, che vi verrà concesso senza alcun dubbio e sarà sempre da presso, vi assisterà e conforterà nelle vostre battaglie, e vi renderà tutto facile. Per questo ordina di «chiedere», e promette di esaudirci. Solo che non comanda semplicemente di chiedere, ma vuole che le nostre preghiere siano ferventi e perseveranti: ecco il senso della parola «cercate». Chi cerca una cosa, bandisce tutte le altre dal suo animo, si occupa soltanto di quanto cerca, e non pensa a nessuno dei presenti. Ben comprendono quanto dico coloro che hanno perduto il loro denaro o i loro schiavi e li stanno cercando. Con l’altra parola «picchiate», Cristo vuol sottolineare la forza e la veemenza con cui dobbiamo accostarci a Dio e quale dev’essere l’ardore della nostra anima. Non abbatterti, o uomo, - sembra dire il Signore, - e non mostrare minor zelo per la virtù di quanto ne dimostri nel cercare denaro. Spesso cercando la ricchezza non la trovi e, malgrado questa incertezza, metti in moto ogni mezzo per farne ricerca. Qui, invece, ti è stata fatta la promessa che otterrai sicuramente quanto cerchi: eppure non mostri neanche la minima parte dell’ardore che hai nella ricerca delle ricchezze. E qualora non ottenessi subito quanto cerchi, non scoraggiarti. Proprio per questo Gesù dice «picchiate», in modo da farvi capire che, se non viene aperta la porta al primo colpo, dovete tuttavia rimanere là.
E se non volete credere a me, credete almeno all’esempio che Cristo riporta qui: E chi di voi al figliolo che gli chiede pane darà una pietra? {627} Se voi chiedete con troppa insistenza agli uomini, finite col sembrare molesti e importuni; se con Dio, invece, non vi mostrate insistenti, allora veramente provocate il suo sdegno. Se restate fermi a chiedere, anche se non vi accorderà subito quanto gli chiedete, siate comunque certi che l’otterrete. Egli tiene chiusa la sua porta solo per indurvi a bussare; e per questo non vi esaudisce immediatamente, perché vuole che voi continuiate a chiedere. Siate dunque fermi e perseveranti nella preghiera, e sarete senza fallo esauditi. Proprio perché voi non diciate: Ma se io prego e non ottengo niente?, Cristo ha pronunziato per voi questa parabola, a mo’ di fortezza contro le obiezioni, dimostrando il suo pensiero con nuove argomentazioni e stillando nell’animo degli uomini un’assoluta fiducia nell’efficacia della preghiera continua e nella bontà divina, attraverso esempi umani. E nello stesso tempo vi insegna, non soltanto che dovete pregare, ma anche che cosa dovete chiedere con la preghiera: «E chi di voi al figliolo che gli chiede un pane porgerà una pietra?». In altri termini, egli dice che se non sarete esauditi nella vostra preghiera, sarà perché avrete chiesto «una pietra» invece di chiedere «un pane». Anche se siamo figli, questo non basta per farci ottenere tutto quanto desideriamo; anzi, proprio il fatto di essere figli ci impedisce di essere esauditi, se chiediamo cose indegne della nostra condizione. Non chiedete i beni del mondo, ma tutti i doni spirituali, e li otterrete. Ricordatevi con quanta immediatezza Salomone ottenne ciò che domandò, poiché le sue richieste erano giuste e sagge {628}. Sono dunque necessarie due condizioni perché la nostra preghiera sia esaudita: primo, chiedere con ardore; secondo, chiedere ciò che è conveniente. Anche voi, - dice Gesù, - sebbene siate padri, tuttavia attendete che i vostri figli vi facciano presente quanto desiderano. E se vi chiedono qualcosa che può loro nuocere, voi glielo negate; quando invece le loro richieste sono utili, li accontentate volentieri. Tenendo sempre presente questo esempio, non allontanatevi finché non avete ottenuto ciò che desiderate; non ve ne andate fintanto che non avete trovato; non cessate di sollecitare fintanto che non vi sarà aperto. Se vi accingete a pregare con questa disposizione d’animo, dicendo: - Se non ottengo ciò che domando, non me ne vado, - sarete senza dubbio esauditi, se ciò che chiedete è degno di colui che pregate, e vantaggioso per voi stessi. Che cosa, dunque, dovete chiedere nelle vostre preghiere? Dovete domandare tutte le grazie spirituali; dopo aver perdonato chi vi ha offeso, dovete allora avvicinarvi a Dio chiedendo di perdonare a voi; dovete, senza ira e senza liti, alzare al cielo mani pure {629}. Se preghiamo così, saremo sempre esauditi. Ma, oggigiorno, la nostra preghiera fa ridere ed è più degna di persone ubriache che di uomini sobri, padroni della loro mente. Come mai, - qualcuno mi dice, - anche se chiedo cose spirituali, non le ottengo ugualmente? La risposta è facile: Non hai bussato con sufficiente violenza, o ti sei reso indegno di riceverle, o te ne sei andato via subito, senza insistere. E perché – un altro mi chiede ancora – Cristo non ha detto ciò che dobbiamo chiedere? Ma sì, egli ha già spiegato tutto e vi ha chiarito ormai per quali motivi dovete avvicinarvi a Dio e pregarlo. Smettete dunque di dire: Mi sono accostato, ma non ho ottenuto niente. Non è colpa di Dio se non siete stati esauditi. L’amore che egli nutre per voi è tale che supera quello di tutti i padri, quanto la bontà sta al di sopra della malvagità.
Se dunque voi, pur essendo cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli?{630} Gesù Cristo non ci chiama «cattivi» per disonorare la nostra natura, né per mostrare che il genere umano è cattivo di per sé. Vuole soltanto sottolineare che, a confronto della bontà di Dio, l’affetto dei padri per i loro figli può essere chiamato cattiveria, tanto grande è l’amore di Dio per noi.
 
5. – Vedete quale ineffabile argomento, quale nuovo motivo di fiducia, capace di rassicurare anche l’uomo più scoraggiato, riportandolo a migliori speranze? Gesù qui ci mostra l’infinito amore che Dio ha per noi, attraverso l’esempio dei padri terreni; prima lo aveva manifestato parlando dei doni più grandi che ci ha fatti, di lui come creatore della nostra anima e del nostro corpo. Tuttavia Cristo non rivela ancora la più grande prova dell’amore di Dio, il colmo dei suoi doni, né parla della sua venuta, della sua presenza visibile quaggiù. Come potrà, infatti, colui che per noi ha abbandonato suo Figlio alla morte, non darci anche tutto il resto?Ma Cristo non era stato ancora crocifisso e non poteva ancora rivelarci tale verità. Lo fa però Paolo, dicendo: «Lui che nemmeno risparmiò suo Figlio, ma lo diede a morte per tutti noi, come non ci accorderà ogni altra cosa con lui?» {631}. Il Salvatore, invece, parla ancora ai suoi ascoltatori prendendo spunto dalle realtà umane. Egli, inoltre, insegna che non si deve unicamente confidare nella preghiera, trascurando i propri doveri, e che non si deve neppure confidare soltanto nelle buone azioni e sullo sforzo personale; dobbiamo invece implorare l’aiuto di Dio e apportare contemporaneamente il contributo della nostra attività: perciò, continuamente, egli mantiene unite queste due cose.
Ecco perché, dopo aver dato tanti avvertimenti, esorta anche alla preghiera; e dopo aver insegnato a pregare, egli dà ulteriori istruzioni per la vita, per le opere. Torna ancora una volta a sottolineare la necessità della preghiera continua, incessante, dicendo: «chiedete, cercate, picchiate», e conclude con un nuovo invito alla necessità di essere anche zelanti in opere buone, dicendo: Dunque, tutto quanto voi volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo ad essi {632}. Fa così una specie di riassunto di quanto ha detto sinora, mostrando che tutta la virtù può essere condensata in pochissime parole, facili da realizzare e comprensibili da parte di tutti. Non dice semplicemente «tutto quanto voi volete», ma aggiunge «dunque». Non senza ragione egli dichiara: «Dunque, tutto quanto voi volete»; ma, sottolineando questa parola, è come se dicesse: Se volete essere esauditi, oltre agli altri precetti che vi ho dati, praticate anche questo che vi do ora, cioè di fare agli altri tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi. Vedete come ha messo in evidenza anche in questa occasione la necessità di accompagnare la preghiera con un comportamento perfetto? Non dice, tuttavia, di fare al prossimo quanto vogliamo che Dio faccia per noi. Se si fosse espresso così, noi potevamo pensare di esserne incapaci, in quanto lui è Dio, ma noi siamo uomini. Cristo ci ha invitato a comportarci con i nostri fratelli, che sono uomini come noi, nel modo in cui vogliamo che essi si comportino nei nostri confronti.
Può esserci un precetto più leggero e più giusto di questo? Ed egli ne fa un grandissimo elogio, prima ancora di parlare delle ricompense che esso ci varrà. Sta in questo la legge e i profeti {633}. Queste parole mostrano chiaramente che la virtù è secondo la nostra natura, e che da noi stessi sappiamo quanto dobbiamo fare, e non possiamo quindi giustificarci con la nostra ignoranza.
Entrate per la porta stretta: perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che vi entrano. Ma quanto è stretta la porta e quanto angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono coloro che la trovano! {634}. Ma più avanti dirà: «Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero» {635}; e questa stessa realtà egli vuol fare intendere in ciò che ha detto adesso. Ma come, allora, può parlare qui di «porta stretta» e di «via angusta»? Se osservate più attentamente le sue parole, vi renderete conto che anche qui Gesù dimostra che la via, pur essendo angusta, è assai dolce, facile e lieve. Ma, - mi domanderete, - come si può entrare facilmente in una porta stretta, e si può agevolmente camminare per una via angusta? Ma perché si tratta di una «via» e di una «porta», così come anche le altre, pur essendo larghe e spaziose, sono pur esse soltanto una porta e una via. Non c’è niente di stabile in esse: tutte le realtà della vita vi passano, quelle tristi e quelle gioiose. Ma non è solo questo che rende facile la virtù: è anche il fine che la rende più facile. Non è soltanto perché le fatiche e i sudori passano, ma anche a motivo del buon fine cui si giunge, cioè la vita, che si ha consolazione nella lotta. Così, la breve durata delle sofferenze, l’eternità del premio, il fatto che i dolori precedono e conducono alla felicità eterna: ecco, tutte queste cose procurano una grandissima consolazione. In questo senso anche Paolo chiama «lievi» le sofferenze, non considerandole in se stesse, ma in rapporto alla disposizione d’animo di coloro che le subiscono, e per la speranza dei beni futuri. «Invero il lieve peso della nostra tribolazione dell’attimo presente prepara a noi oltre ogni misura un peso eterno di gloria, non mirando noi alle cose visibili, ma alle cose invisibili» {636}. Se sembrano leggeri e sopportabili i flutti e le tempeste ai marinai, le stragi e le ferite ai soldati, i rigori dell’inverno agli agricoltori, i colpi più violenti ai pugili, a causa della ricompensa che ne sperano (anche se queste ricompense sono vane e passeggere), tanto più noi dovremo essere insensibili ai mali di questa vita, quando ci è promesso il cielo con i suoi beni ineffabili e i premi eterni.
 
6. – Ebbene, se dopo tutto questo qualcuno continua a ritenere faticosa e dura questa via, ciò deriva esclusivamente dalla sua indolenza e dalla sua mancanza di coraggio.
Osservate infatti come Cristo rende questa via facile, ordinandoci di non aver a che fare né coi cani né coi porci, di guardarci dai falsi profeti, di tenerci sempre pronti al combattimento. È un eccellente modo di rendere facile questa via, dire che essa è «angusta», perché ciò significa invitare coloro che vi si incamminano a tenersi sempre vigilanti. Quando Paolo dice che «non abbiamo noi da lottare contro la carne e il sangue» {637}, non vuole scoraggiare ma, al contrario, vuole sollevare l’animo di coloro che lottano; per svegliare dal torpore coloro che camminano su questa via, dice che essa è aspra e faticosa. Non si serve solo di questo avvertimento per metterli in guardia, ma aggiunge anche che questa strada è piena di nemici che tentano con ogni mezzo di coglierli di sorpresa, e, ciò che è più temibile, essi non assaltano apertamente, ma di nascosto. Proprio questo fanno i falsi profeti. Non ci si deve tuttavia preoccupare – sembra dire il Signore – delle difficoltà di cui questa via è irta: dobbiamo soprattutto considerare la meta cui conduce; né, d’altra parte, dobbiamo pensare che l’altra è larga, ma piuttosto tenere lo sguardo fisso al luogo dove essa porta. Tutte queste parole egli dice per incoraggiarci, come fa altrove quando dichiara: «Il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti se ne impadroniscono» {638}. Quando l’atleta vede che chi presiede la gara ammira la fatica del combattimento, si fa più coraggioso. Non lasciamoci dunque abbattere, quando siamo colpiti da molte sciagure. È vero che la via è angusta e la porta è stretta, ma non così la città per dove siamo incamminati. Perciò se qui non dobbiamo attenderci riposo, là, invece, non abbiamo da temere tristezza, né miseria. Il Signore, dicendo che sono pochi coloro che trovano questa via, mette in rilievo ancora una volta la pigrizia di molti. Insegna con queste parole, a coloro che l’ascoltano,  a non fermarsi a guardare gli apparenti felici successi dei molti, ma ad ammirare invece gli sforzi di quei pochi che avanzano sulla via stretta. La maggior parte degli uomini – aggiunge – non solo non cammina su questa via, ma neppure la trova, mostrando così un accecamento che confina con la follia. Ma non dobbiamo lasciarci influenzare né turbare dalla moltitudine. Mettiamo invece tutto il nostro zelo nell’imitare il piccolo numero di quelli che marciano sulla via stretta, e, raccogliendoci e mettendoci insieme da ogni parte, avviamoci coraggiosamente per questo cammino. Infatti, non solo questa via è stretta, ma ci sono molti che cercano di fermarci sulla soglia.
Ecco perché Cristo dice: Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi in veste d’agnello, ma dentro sono lupi rapaci {639}. Dopo averci avvertiti di guardarci dai cani e dai porci, ora ci mette in guardia  contro un altro genere di insidia e di assalto, ancor più temibile del precedente. Quei nemici che ha nominato prima sono visibili e tutti sanno riconoscerli; questi invece sono occulti e se ne stanno nascosti. Perciò ci invita a tenerci lontani dai primi e smascherare i secondi, raccomandandoci di considerarli attentamente perché è impossibile riconoscerli al primo contatto. Ecco, dice perentoriamente «guardatevi»: per renderci più attenti nel riconoscerli. C’era però da evitare che – sentendo che si doveva camminare per una via stretta e angusta, una via opposta a quella su cui si avviano i più, e che ci si doveva guardare non solo da cani e porci, ma anche da belve più pericolose, come i lupi – gli ascoltatori si scoraggiassero e si perdessero d’animo per le innumerevoli difficoltà, proprio nel momento di imboccare questa strada angusta: e perciò a questo punto Cristo ricorda che cosa è accaduto al tempo dei loro antenati, nominando i «falsi profeti». Anche l’antichità ha infatti conosciuto simili prove. Non turbatevi, dunque, sembra dire il Signore: non accadrà niente di nuovo, niente di strano. In ogni epoca il diavolo ha fatto tutto quanto ha potuto per sostituire la menzogna alla verità.
Qui, con le parole «falsi profeti», non mi pare che abbia voluto indicare gli eretici. Credo piuttosto che abbia voluto intendere quelle persone che, pur avendo una vita corrotta, si circondano di un’apparenza di virtù, e che molti di solito chiamano con l’appellativo di impostori. Per questo egli aggiunge: Dai loro frutti voi li riconoscerete {640}. Spesso gli eretici conducono una vita morigerata, ma costoro non sono mai onesti. E se voi mi dite che essi riescono a fingere d’esserlo, vi assicuro che facilmente si scopriranno. La natura della strada che Cristo comanda di percorrere è dura e faticosa, mentre gli ipocriti fuggono le fatiche, simulandole soltanto. Ecco perché non è difficile smascherarli. Così il Signore, dopo aver detto che solo pochi troveranno la via stretta della virtù, distingue nuovamente costoro da quelli che non la trovano pur fingendo di trovarla e seguirla, ordinandoci di non tener conto di coloro che hanno l’apparenza della virtù, ma solo di quelli che camminano veramente per quella via. Ma perché – voi mi direte – non ci fa vedere con chiarezza chi sono queste persone, invece di obbligarci a riconoscerle da noi stessi? Non lo fa per indurci a vigilare e a combattere continuamente, a mantenerci in guardia non solo contro i nemici visibili e dichiarati, ma anche contro quelli che si nascondono e si tengono al coperto. È di questi ultimi che Paolo parla, quando dice: «con parlare soave e carezzevole seducono i cuori dei semplici» {641}. Non turbiamoci se vediamo anche oggi persone di questo genere. Anche questo, infatti, Cristo ha già predetto.
 
7. – E ammirate la sua mansuetudine. Egli non ci ha invitato a punirli, ma ci ha detto di stare attenti per non essere da loro corrotti e per non cadere, incauti e non vigilanti, nei loro tranelli.
Poi, perché nessuno dica che è impossibile riconoscere queste persone, si serve, a mo’ di argomentazione, di un esempio tratto dalla vita dell’uomo: Si raccoglie forse uva dai spini, o fichi da triboli? Dunque, ogni albero buono produce frutti buoni, mentre un albero cattivo produce frutti cattivi. Non può un albero buono produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni {642}. È come se dicesse: Questi falsi profeti non hanno niente di mite né di tenero; hanno soltanto la pelle d’agnello: ecco perché è facile riconoscerli. E per non lasciarvi il minimo dubbio su questo caso espone, a confronto, quei fatti che non possono accadere diversamente, essendo sottoposti alla necessità delle leggi naturali. Lo stesso concetto esprime Paolo, dicendo: «La sapienza della carne è morte: non si assoggetta alla legge di Dio, anzi neppure lo può fare» {643}. L’ultima frase di Cristo non è una superflua ripetizione di parole. Infatti qualcuno avrebbe potuto dire: È vero che un albero cattivo porta cattivi frutti, ma potrebbe portarne anche di buoni; perciò, potendo essere duplice il suo carico, sarebbe difficile riconoscere la natura dell’albero. Gesù previene questa obiezione, precisando che un albero cattivo può portare solo frutti cattivi e mai frutti buoni. La stessa cosa si può dire anche del contrario. Ma come, - voi mi direte, - non si è mai visto un uomo buono divenire cattivo e viceversa? Certo, la vita è piena di simili esempi. Cristo, qui, non afferma che un peccatore non può convertirsi, o che un giusto non può cadere nel peccato, ma dice soltanto che, finché un uomo resta nel peccato, non può dare buoni frutti. Senza dubbio un peccatore può cambiare e divenire virtuoso: ma è altrettanto certo che, finché resta nella colpa, non potrà produrre buoni frutti. Come si spiega allora – voi ribattete – che Davide ha prodotto un cattivo frutto, sebbene fosse buono? Vi rispondo che l’ha prodotto non mentre era buono, ma quando cambiò e divenne cattivo. Se fosse rimasto sempre buono qual era prima, non avrebbe certo portato quel frutto. Ma, poiché non stette incrollabile nella virtù, osò commettere quei peccati.
Cristo pronunzia queste parole anche per frenare la temerità degli impostori e per chiudere la bocca ai diffamatori. Siccome molti confondono i buoni con i cattivi, Gesù con tale affermazione toglie loro ogni giustificazione. Non potrete dire un giorno che vi siete sbagliati, che vi siete ingannati, perché io vi ho dato un mezzo sicuro per riconoscere gli uomini dalle opere, comandandovi cioè di osservare tutte le loro azioni per non sbagliare nel giudizio.
E dato che ordina non di punire costoro ma soltanto di star vigilanti, per consolare quanti fossero stati da loro offesi e per intimorire e convertire quegli ipocriti, mostra quale terribile vendetta questi debbono attendersi da lui: Ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco {644}. Torna poi a moderare l’asprezza di queste parole, aggiungendo: Dai loro frutti, dunque, li riconoscerete {645}, per dimostrare che non intende esclusivamente far minacce, ma vuol muovere il loro animo con i suoi avvertimenti e i suoi consigli. Mi sembra che qui egli si riferisca particolarmente ai giudei che producevano questi cattivi frutti. Ecco perché ricorda le parole di Giovanni Battista, rappresentando loro il supplizio con le medesime immagini. Anche il Battista, infatti,  aveva parlato ad essi della scure e dell’albero che sarà tagliato e gettato nel fuoco inestinguibile. Potrebbe sembrare che la pena di cui il Signore minaccia consista soltanto nell’unico male di essere bruciati eternamente. Ma chi riflette con maggiore attenzione, si accorge che la pena comprende un doppio supplizio. Colui che viene arso dal fuoco eterno è totalmente privato del regno di Dio, e questa privazione è una pena ben più grande di quelle fiamme inestinguibili. So bene che la maggior parte dei fedeli teme solo l’inferno ed è insensibile alla perdita del paradiso: io, invece, sono convinto che la perdita della gloria eterna è un male ben più orribile di tutti i supplizi dell’inferno. Ammetto, e non c’è da meravigliarsi, che questo concetto non si può dimostrare a parole: non conosciamo, infatti, la felicità di gioire con Dio, e quindi non possiamo ben comprendere l’infelicità e la miseria che deriva da quella perdita. Paolo, che aveva visto e sperimentato questi ineffabili beni, sapeva bene che la più tremenda di tutte le sciagure è decadere dalla grazia, dalla gloria di Cristo {646}. Quanto a noi, conosceremo questo, quando lo sperimenteremo.
 
8. – Ma io ti prego, o Figlio unigenito di Dio: non permettere che noi subiamo questa pena e che facciamo la funesta esperienza di tale insopportabile supplizio.
È impossibile esprimere con chiarezza quale male e quale danno sia perdere i beni eterni. Tenterò comunque e mi sforzerò, per quanto posso, di darvene un’idea con qualche paragone. Immaginatevi un giovane meraviglioso che riesce a ottenere con il suo valore e la sua virtù il dominio di tutta la terra, che sia tanto giusto e la cui virtù abbia tanto fascino da attirarsi l’affetto di tutti e da farsi amare tanto quanto un figlio è amato dal padre. Pensate che cosa non farebbe il padre di un tal giovane pur di non essere privato della sua compagnia? Quale sofferenza piccola o grande non sarebbe disposto ad accettare volentieri pur di avere la gioia di vederlo e di godere della sua presenza? Riferiamo questa pallidissima idea alla gloria celeste. Nessun desiderio, nessuna attrazione d’amore, neppure quella che può avere un padre per un figlio immensamente amabile e virtuoso, può essere paragonato al desiderio di godere dei beni eterni, all’aspirazione di sciogliersi dal corpo per essere con Cristo {647}.
Terribile cosa è l’inferno e la sua pena. Tuttavia diecimila inferni messi insieme non sarebbero niente in confronto all’enorme sciagura di perdere il gaudio e la felicità di quella gloria, di divenire odiosi a Cristo, di sentirsi dire da lui: «Non vi conosco» {648}, e di essere accusati di averlo visto soffrire la fame e di non avergli dato da mangiare {649}. Preferiremmo essere trafitti da mille folgori, piuttosto che vedere Cristo distogliere da noi il suo volto o vedere il suo occhio, così sereno e tranquillo, gettarci sguardi che non potremo sostenere. Se quando io ero suo nemico e lo odiavo e lo fuggivo, egli mi ha cercato e inseguito, amandomi al punto di non risparmiare se stesso e di abbandonarsi alla morte, con quale occhio potrò alla fine guardarlo, io che, dopo tutto quell’amore, e quei doni,  non mi sono neppure degnato di dare un pezzo di pane a lui che era affamato?
Ma considerate ancora una volta la sua dolcezza: egli, infatti, non rammenta le grazie che vi ha fatte, e neppure l’ingratitudine con cui l’avete ripagato. Non dice: Tu hai osato disprezzare me che dal nulla ti ho tratto all’essere, che ti ho dato l’anima con un soffio del mio spirito, che ti ho fatto padrone di tutto quanto c’è nel mondo, che ho creato per te la terra, il cielo, il mare, l’aria, e tutto quanto esiste: tu hai osato disprezzarmi sino al punto di preferirmi il diavolo, e neppure dopo tale ingiuria io mi sono allontanato, anzi ho escogitato ancora nuove infinite grazie: per te ho scelto di diventare schiavo, per te sono stato schiaffeggiato, flagellato, ho sopportato sputi in faccia e sono stato ucciso; sono morto, soffrendo la più vergognosa delle morti; anche in cielo ho supplicato per te; ti ho donato lo Spirito, ti ho reso degno di entrare nel mio regno, ti ho promesso un destino glorioso, ho voluto essere tuo capo, e sono sposo, veste, casa, e radice, e cibo, e bevanda, e pastore, e re e fratello; ti ho scelto quale erede e coerede con me, conducendoti dalle tenebre a partecipare e a godere della luce. Pur potendo rimproverare tutto ciò e tante altre cose ancora, egli non dice nulla di tutto questo, ma nomina solo quel peccato.
Ed anche con le ultime parole rivolte ai reprobi, mostra il suo amore e conferma il desiderio che ha di te. Non dice, infatti: andate nel fuoco che è stato preparato per voi, ma dice: «nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo» {650}. Prima di pronunziare queste parole, mostra i peccati di cui quelli si sono resi colpevoli, e neppure sopporta di ricordarli tutti, ma solo pochi. E, prima di loro, chiama i giusti {651} per dimostrare anche qui l’equità del suo giudizio e della sua condanna.
Quale supplizio può essere paragonabile a queste parole! Se un uomo vede morir di fame chi lo ha beneficato, non lo trascura certamente, né lo disprezza; ma se avesse trascurato di soccorrerlo, arrossirebbe di vergogna se questo benefattore gli rimproverasse la sua ingratitudine. Preferirebbe, anzi, scomparire sotto terra, piuttosto che ascoltare dinanzi a due o tre dei suoi amici un simile rimprovero. Che diverremmo dunque noi, quando egli ci rivolgerà questo rimprovero al cospetto di tutto il mondo? La sua bontà è tanto grande che vorrebbe anche allora evitare di ricordarci queste cose, se non fosse indispensabile dimostrare a tutti che il giudizio è equo. Egli ricorda i nostri peccati non con l’intenzione d’insultarci, ma per testimoniare la propria giustizia e per dimostrare inoltre che la sua sentenza: «Andate via da me», è stata pronunciata con piena ragione, il che era già evidente dal numero infinito delle sue grazie ineffabili. Se volesse insultarci, ricorderebbe tutti i benefici di cui noi siamo stati oggetto, mentre egli manifesta soltanto ciò che egli ha sofferto.
 
9. – Dobbiamo dunque temere, o carissimi, di udire un giorno queste parole. La vita non è un gioco. O meglio, mentre questa vita presente è un gioco, quella futura non lo è certamente. Ma forse non è soltanto un gioco, è anche peggio di questo, perché non finisce nel riso ma in lacrime e in un gravissimo danno per coloro che non avranno voluto regolare la loro condotta, diligentemente, sulle leggi di Dio. Noi, infatti, prendiamo la vita come uno scherzo. Ditemi, quando costruiamo questi stupendi palazzi, in che cosa siamo diversi dai fanciulli che giocano costruendo case? Che differenza c’è tra loro che, per giocare, preparano colazioni e merende e noi che mangiamo senza moderazione? Non c’è nessuna differenza, se si toglie il fatto che i loro divertimenti sono innocenti, mentre i nostri giochi, colpevoli, saranno puniti con estremo rigore. E non dobbiamo stupirci se non vediamo ancora la vanità delle cose di cui ci occupiamo. Sta di fatto che non siamo ancora diventati uomini. Quando lo saremo, riconosceremo la puerilità di tutto quanto noi ora facciamo. Ora che siamo adulti, noi ridiamo dei fanciulli; ma quando eravamo bambini, i giochi infantili erano i nostri affari importanti. Quando ammucchiavamo insieme cocci e fango, non eravamo meno soddisfatti e fieri di quanto lo sono coloro che innalzano immensi edifici ed enormi complessi. Ma come quelle piccole costruzioni cadevano e sparivano ben presto e, anche se stavano in piedi, non ci servivano a niente, lo stesso si può dire dei superbi edifici che costruiamo da grandi. Sono indegni di chi è cittadino del cielo, che dovrebbe vergognarsi di vivere soddisfatto in simili case avendo una patria celeste. E come noi distruggiamo con i piedi questi castelli di fango costruiti dai bambini, così anche colui che è saggio abbatte con la sua mente tutti questi superbi palazzi innalzati dagli uomini. E come noi ridiamo, vedendo i fanciulli piangere sulla rovina dei loro piccoli castelli, così anche questi saggi, al vederci addolorati per la rovina dei nostri palazzi, non solo ridono ma versano anche lacrime, poiché essi soffrono alla vista della nostra miseria e del grande male che facciamo a noi stessi giocando con simili futilità. Cerchiamo, dunque, di diventare uomini: Fino a quando ci trascineremo per terra, riponendo la nostra orgogliosa e vana gioia nei sassi e nei legni? Fino a quando, insomma, giocheremo? E volesse il cielo che soltanto giocassimo; ma ora noi rischiamo di perdere anche la salvezza eterna, sacrificandola a queste vanità. E come i fanciulli sono puniti molto severamente, quando trascurano i loro studi per occuparsi di questi giochi, così anche noi saremo condannati all’estremo supplizio avendo consumato tutta l’energia e l’attività della nostra vita in vani giochi e non avendo nulla da offrire quando Dio ci chiamerà a render conto, attraverso le nostre opere, della scienza divina a noi insegnata e del nostro apprendimento spirituale. Nessuno allora potrà liberarci, né padre, né fratello, né chiunque altro. Tutte le nostre trascorse occupazioni svaniranno; ma le pene che esse hanno attirato sul nostro capo resteranno per l’eternità. Dio ci tratterà, insomma, come sono trattati questi fanciulli, quando i loro padri, irritati per la loro pigrizia, tolgono di mezzo i loro giocattoli infantili e li lasciano piangere, senza commuoversi alle loro lacrime.
Per farvi vedere che quanto sto dicendo corrisponde a verità, vediamo un po’ ciò che – mi pare – gli uomini desiderano più ardentemente: le ricchezze; cioè, immaginiamo che delle ricchezze siano qui in mezzo: opponiamo ad esse una virtù qualsiasi, a vostra scelta, e vedrete allora quanto poco quelle valgono. E non vi sto parlando ancora dell’avarizia, ma di ricchezze acquistate con mezzi giusti e legittimi. Immaginiamo due uomini, uno dei quali non pensa che ad aumentare i suoi beni materiali, attraversa mari, coltiva terre e traffica in molti altri modi. Naturalmente dubito che, così facendo, possa sempre guadagnare onestamente; ma voglio crederlo e suppongo che tutti i suoi guadagni siano leciti. Costui, dunque, acquista terre, schiavi e mille altre cose senza commettere mai alcuna ingiustizia. L’altro uomo che è ugualmente ricco e possiede tutti questi beni, vende le sue terre, le sue case, il suo vasellame d’oro e d’argento e ne dona il ricavato a chi ha bisogno; soccorre i poveri; assiste i malati e aiuta gli indigenti, sottrae alla prigione i debitori, libera coloro che sono condannati ai lavori forzati nelle miniere, strappa alla morte quelli che stanno per impiccarsi e dal supplizio i prigionieri, ridotti a questo punto dalla loro estrema povertà. Vi domando: quale di questi due uomini voi vorreste essere? Non vi parlo del loro futuro, ma vi invito a scegliere tenendo conto della loro diversa condizione in questa vita terrena. A quale di questi due vorreste assomigliare? A colui che accumula ricchezze o a colui che impiega le sue risorse per soccorrere gli sventurati? A colui che acquista campi, o a colui che fa di se stesso il porto e il rifugio per ogni uomo? A colui che vive circondato da molto oro, o a colui che è coronato da infinite lodi e benedizioni? Non è forse vero che il secondo di questi due uomini sembra un angelo disceso dal cielo per salvare gli uomini, mentre l’altro non sembra un uomo, ma un bambino, che raccoglie e ammucchia ogni cosa senza ragione e senza scopo? E se è una cosa estremamente ridicola e insensata impiegare tutta la vita per arricchirsi onestamente, non sarà forse il più misero e infelice di tutti gli uomini colui che, oltre tutto, si arricchisce ingiustamente? E se aggiungete, infine, che il frutto di questa vana fatica consisterà nell’aver guadagnato l’inferno e nell’aver perduto il regno dei cieli, che giustamente non lo compiangerà di continuo, sia durante la sua vita che dopo la sua morte?
 
10. – Osserviamo, ora, se volete, un’altra specie di virtù. Immaginiamo un uomo che dispone di potere sovrano, che comanda a tutti ed è circondato dal fasto di una grande dignità: un araldo lo precede in gran pompa, egli tiene in mano lo scettro, insegna del potere, i littori l’accompagnano, e una corte numerosa lo segue. Non vi pare, questo, essere grandi e felici? Ebbene, poniamo accanto a costui un altro uomo, paziente, mite, umile, generoso. Supponiamo che questo uomo sia ingiuriato e percosso e che egli sopporti con pazienza e serenità questi affronti, che, anzi, benedica coloro che lo maltrattano. Ditemi chi dei due vi sembra più degno di ammirazione, il superbo, colui che è gonfio e infiammato d’orgoglio o colui che è calmo e sereno? Non è forse vero che quest’ultimo assomiglia agli spiriti celesti che non sono turbati da nessuna passione, mentre l’altro sembra un mantice gonfiato, o un idropico oltremodo tumefatto? Non è forse vero che uno è simile a un medico spirituale, mentre l’altro assomigli a un bambino che si rende ridicolo, gonfiando per gioco le sue guance? Di che cosa dunque sei fiero, o uomo? Ti vanti perché sei portato in alto su un carro tirato da muli? Ma cos’è questo? Con i muli si trainano anche i carri carichi di tronchi d’albero e di pietre. Vai superbo perché sei magnificamente vestito? Ma guarda l’uomo adornato di virtù, in luogo di ricche vesti, e ti vedrai simile a fieno marcito; mentre l’uomo virtuoso rassomiglierà a un albero carico di meravigliosi frutti, che dà grande letizia a chi lo guarda. Tu porti attorno, con i tuoi abiti, un’esca per i vermi e le tigne, che, se ti aggrediscono, ti denuderanno in un istante d’ogni tuo ornamento. I più superbi abiti sono filati e tessuti di vermi; l’oro e l’argento vengono dalla terra e dalla polvere, e non possono che ritornare alla terra e a niente di più. Chi invece è adornato di virtù, ha un abito che né la tigna né la morte stessa possono corrompere: e molto giustamente. Le virtù dell’anima non hanno origine dalla terra, ma sono frutto dello Spirito: per questo non temono i vermi. Abiti siffatti si tessono in cielo, dove non esiste alcuna specie di corruzione.
Ed ora ditemi: che cosa è preferibile? Esser ricchi o esser poveri? Essere potenti o non avere onori? Vivere fra le delizie di una ricca mensa, o soffrire la fame? È evidente che desiderate vivere tra gli onori, nell’abbondanza e nella ricchezza. Ebbene, se realmente volete godere di questi beni, e non accontentarvi della loro apparenza, lasciate la terra e tutto quanto vi è quaggiù e trasferitevi in cielo. Tutte le cose, qui, non sono che ombra, mentre i beni celesti sono stabili, sicuri, immutabili. Scegliamo, dunque, questi beni, con la massima cura, se vogliamo essere liberati dal tumulto delle preoccupazioni terrene, e se desideriamo, navigando verso il tranquillo porto del cielo, giungervi carichi di molte ricchezze e dell’ineffabile tesoro accumulato con le vostre elemosine.
Voglia Dio che noi tutti vi arriviamo per mezzo della grazia e della misericordia di nostro Signore Gesù Cristo, a cui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen.
 
{599} Mt. 7, 1.
{600} Rm. 14, 10.
{601} Ibid. 14, 4.
{602} 1 Cor. 4, 5.
{603} 2 Tim. 4, 2.
{604} 1 Tim. 5, 20.
{605} Mt. 18, 15-17.
{606} Cf. Mt. 18, 17.
{607} Mt. 23, 4.
{608} Mt. 23, 23.
{609} Mt. 23, 24.
{610} Mt. 7, 2.
{611} Mt. 7, 3.
{612} Mt. 7, 5.
{613} Mt. 18, 32.
{614} Mt. 23, 14.
{615} Lc. 23, 40.
{616} Mt. 7, 6.
{617} Mt. 10, 27.
{618} 1 Cor. 2, 14.
{619} Mt. 7, 6.
{620} 2 Tim. 4, 15.
{621} Ibid. 3, 5.
{622} Tito 3, 10.
{623} Cf. Col. 4, 6.
{624} Mt. 7, 7.
{625} Mt. 19, 25.
{626} Mt. 19, 10.
{627} Mt. 7, 9.
{628} Cf. 1 Re, 3, 5 ss.
{629} Cf. 1 Tim. 2, 8.
{630} Mt. 7, 11.
{631} Rm. 8, 22.
{632} Mt. 7, 12.
{633} Ibid.
{634} Mt. 7, 13 - 14.
{635} Mt. 11, 30.
{636} 2 Co. 4, 17-18.
{637} Ef. 6, 12.
{638} Mt. 11, 12.
{639} Mt. 7, 15.
{640} Mt. 7, 16.
{641} Rm. 16, 18.
{642} Mt. 7, 16-18.
{643} Rm. 8, 6-7.
{644} Mt. 7, 19.
{645} Mt. 7, 20.
{646} Cf. Gal. 5, 4.
{647} Fil. 1, 23.
{648} Mt. 25, 12.
{649} Cf. Mt. 25, 4
{650} Mt. 25, 41.
{651} Cf. Mt, 25, 34 ss.


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