Il
mondo moderno ha perso il senso del peccato. L'uomo sembra che non
abbia più altra libertà che quella di seguire spontaneamente la sua
natura. Non so se ha acquistato l'innocenza dell'animale: è certo
che nessuno, praticamente, nel mondo di oggi sente vivo il bisogno di
una liberazione da se stesso. L'uomo si è accettato qual è, e per
la sua bruttura non rimprovera più alcuno, nemmeno Dio, perché come
ha perso il senso del peccato, così ha perso il senso di Dio. L'uomo
è solo in un mondo vuoto e non vi è legge che egli debba
realizzare. Forse mai l'umanità si è trovata a un tale abisso di
perversione morale, forse mai l'umanità è caduta così in basso:
non perché oggi si commettano maggiori peccati di ieri, ma perché
oggi non si sa, non si avverte, non si ha più coscienza nemmeno del
male nel quale siamo impastati. L'uomo si accetta così come è e non
aspetta nessuna redenzione, e non crede più in alcuna salvezza. È
pauroso il senso della vita che è proprio dell'uomo di oggi. Si
identifica la materia allo spirito e Dio al mondo; e non vi è più
luce di libertà, non vi è più luce di bellezza spirituale per
l'uomo.
Il paralitico del quale si parla nel Vangelo di Matteo (Mt 9, 1-8) viene portato dinanzi a Gesù e non chiede la salvezza dal suo peccato: sembra che non ne senta il bisogno. Solo il dolore, la menomazione fisica gli fa sentire il bisogno di una liberazione. Solo questa menomazione, senza dargli speranza nella guarigione, gliela fa comunque desiderare egli permette di accedere al Divin Maestro perché, se Egli può veramente qualcosa, manifesti il suo potere e lo guarisca.
Forse solo questo può avvicinare a Dio noi uomini moderni: il dolore, la malattia; o forse anche la malattia e il dolore non si traducono nemmeno più per l'uomo in un grido di pietà, in una implorazione di aiuto; forse l'uomo come una bestia ferita aspetta soltanto la morte. Non lo so. È vero questo: che il mondo sembra deserto da Dio, è vuoto. E non sono meno vuote le anime che credono di credere, e non sono meno vuote le anime che fanno professione di vita religiosa, e non sono meno vuote le anime che pensano di essere vicine a Dio.
Mi diceva un sacerdote che l'esperienza più terribile del suo sacerdozio (era un cappellano di ospedale) è stata quella dell'assoluta impermeabilità dell'uomo a Dio e alla grazia, anche di fronte alla morte. Sono molti gli uomini che non si scuotono più nemmeno per la loro malattia, nemmeno per l'imminenza della morte: è un atto puramente fisico, biologico, si deve subire. L'uomo è ritornato ad essere meno assai di quello che è stato sempre, anche fuori dal Cristianesimo, anche in opposizione al Cristianesimo: nemmeno più uno spirito, nemmeno più un'anima, nessuna luce spirituale lo visita più. Un certo stoicismo, che è peggiore di ogni peccato, sembra che sia il carattere proprio dell'uomo moderno. Stoicismo che non è l'antico stoicismo: è un'assoluta impermeabilità a tutti i valori. Si accetta la vita così com'è e non si fa più differenza fra il bene e il male, perché non vi è più differenza per l'uomo, dal momento che questo non si impone più nulla, non sceglie più nulla. Si è ridotto davvero all'innocenza dell'animale. Com'era più cristiano, ci sembra, anche l'assassino e il libertino di qualche secolo fa! Il gusto che provava lo scrittore nel descrivere il male, cercando di sollecitare anche gli altri a cadervi è in fondo una testimonianza più alta di quanto non sia per esempio la letteratura moderna, in cui tutto è impassibile, tutto è divenuto una cosa. Le perversioni peggiori a cui l'uomo può abbandonarsi vengono descritte con un tono di impassibilità che fa paura. Credo che nemmeno il demonio sia giunto a tale totale assenza di luce spirituale.
Quello che distingue l'uomo è soprattutto questo: che egli non è un animale che vive, che si lascia vivere. Quello che distingue il cristiano, o piuttosto qualunque uomo religioso, è il senso di un rapporto con Dio, o col mistero se non vogliamo dire Dio; senso di un rapporto che dà all'anima la coscienza viva, dolorosa di un'impotenza, di una colpa, di un peccato e di una condanna.
Quello che distingue l'anima religiosa è il senso del peccato. L'uomo non potrebbe mai vivere dinanzi a Dio senza avere questa coscienza: la coscienza di una sproporzione infinita fra la sua povertà e la santità infinita di Dio. Ma anche più che la sproporzione, il senso di una opposizione radicale: volere o non volere, l'uomo sente sempre che Dio, prima di essere l'Amore che chiama, prima di essere la gioia che inebria, è veramente un fuoco che brucia. Il paralitico almeno desiderava la sua guarigione: ecco il primo appigli che dette quell'anima alla grazia divina. C'era almeno il desiderio in lui di star meglio; c'era dunque un essere e un voler essere qualche altra cosa. Eccoci all'uomo. È qui. Nel fatto che almeno pienamente non si accetta così com'è e vorrebbe essere altrimenti di quello che è, o almeno desidera di essere diverso. E basta questo perché la grazia trovi un punto in cui innestarsi, e basta questo perché Dio trovi una porta da cui entrare nel cuore dell'uomo.
Io non so se noi abbiamo veramente coscienza del nostro peccato così com'è; io non so se ci sentiamo dinanzi alla santità infinita di Dio come lordura, così come diceva San Paolo, come immondezza, come sudiciume, come sentiva San Paolo della Croce, ma almeno potremmo sentire che persiste nell'intimo un desiderio vivo di essere diversi da quelli che siamo, e magari nemmeno sul piano spirituale, anche sul piano puramente fisico: più giovani, più sicuri di una nostra santità... non so, qualche cosa onde noi comunque sentiamo qualche desiderio, ci offriamo così a Uno che può ascoltarci. Almeno questo, dunque, si impone per noi: che non siamo contenti di noi stessi, che desideriamo di essere diversi da quello che siamo. Allora Dio può avvicinarsi alla nostra anima, allora Dio può avere un rapporto con noi; allora la nostra vita è già una preghiera.
Ma, in fondo, chiedere la giovinezza o la santità non è un rimedio ai nostri mali, perché in questo caso ci sembra veramente più logico colui che in uno stoicismo cieco, opaco, accetta anche la morte perché è della natura dell'uomo morire, perché è risibile che l'uomo, una volta vecchio, voglia ritornare giovane o, essendo nato, non voglia morire. Desiderare una guarigione, desiderare uno star meglio sul piano puramente fisico, come poteva sentire il paralitico, non è davvero il rimedio ai nostri mali, anche se questo desiderio viene esaudito. Qualche cosa dunque noi dobbiamo chiedere, dobbiamo implorare; la nostra anima deve vivere però un desiderio più profondo. La fiducia, la speranza, la libertà interiore, l'aprirsi e il dilatarsi finalmente in una certa pace non può derivare dall'essere guariti. Nostro Signore lo dice: "Abbi fiducia figliolo: i tuoi peccati ti sono rimessi". La fiducia, la libertà interiore, l'aprirsi dell'anima nella pace, può derivare soltanto dalla remissione di un nostro peccato. È giusto dunque che l'anima, se vuol essere salvata, prima di tutto abbia coscienza di questo suo peccato, perché altrimenti desidera e non sa cosa desidera, aspira a qualcosa e non sa a cosa aspira.
Si diceva che basta anche desiderare di essere già più giovani per dare a Dio l'appiglio per entrare nel nostro cuore. Dio non entra donandoci la giovinezza o la guarigione: quando Dio entra dà all'uomo la coscienza di quello che veramente è il suo male: il suo peccato. Il peccatore chiede una cosa e Dio gliene dà un'altra; chiede la sua guarigione, perché di essere peccatore non sa, ma Dio, che attraverso questa preghiera di guarigione ha potuto introdursi nell'anima sua, ora dà all'anima la coscienza di quello che è veramente il suo male e lo risana: "Confide, fili,remittuntur tibi peccata tua". La nostra fiducia, libertà e pace interiore derivano dalla remissione dei peccati e da nessun altra cosa che da questo.
L'uomo moderno ha perso questa fiducia, questa libertà, questo senso di pace perché ancora, non solo, non ha coscienza dei propri peccati ma, non avendo questa coscienza, non può aver nemmeno questa remissione, non può essere perdonato. E il Signore è venuto quaggiù sulla terra per questo: perdonarci i nostri peccati. La nostra salvezza dipende da questo semplice atto divino: il perdono dei nostri peccati.
C'è il senso di una sproporzione spaventosa fra quello che io sono, fra le possibilità di azione che mi sono date quaggiù e quello che mi è stato promesso: l'eternità. È mai possibile per l'uomo credere davvero che Dio sarà la sua vita? È mai possibile che l'uomo creda questo e non senta che è irrimediabilmente perduto? Che cosa può offrire l'uomo per questa sua salvezza, per meritare questa grandezza? Che proporzione c'è fra questi due giorni di vita, fra le mie virtù, se pure ne ho, e questa santità, e questa vita divina?
Io mi vedo domani dopo la morte; e se mi vedo dopo la morte, fermandomi in me, non posso vedere che il mio inferno, la mia condanna, non posso aspettarmi null'altro. Tutte le virtù dei santi, davvero, come diceva Isaia, non sono che lordura, tanto più la mia vita. Che proporzione può esserci fra quello che offro a Dio e quello che spero di ricevere? Fra quello che è la mia vita e quello che Egli mi promette? È proprio questa visione della nostra eternità, così imminente per ciascuno di noi, che dà un senso di terrore all'anima. Tu senti di precipitare nel vuoto, senti di cadere davvero nell'inferno: che cosa hai mai da offrire a Dio per meritare la salvezza, se la tua salvezza è questa vita divina?
Allora senti il tuo peccato, allora hai coscienza della tua indegnità, e tu fuggi da Dio, e non puoi fuggire da Lui: tu neghi Dio, perché fuggire Dio non vuol dire proprio nulla per l'anima; tu sai che ogni fuga è impossibile. L'unica cosa che potrebbe salvarti sarebbe il fatto che Dio non fosse. E la tua salvezza in questo caso sarebbe il nulla; ed è il nulla che l'uomo moderno vuole. La fuga da Dio di Caino si è tramutata per l'uomo nella negazione di Dio, perché l'uomo non potrebbe mai fuggire questo Dio al quale deve rispondere di sé.
Come saremo salvi? In che cosa possiamo avere fiducia? Nel perdono: nel perdono di Dio, in una misericordia infinita alla quale dobbiamo abbandonarci. L'unica proporzione che si crea fra l'anima e Dio è precisamente quella che opera l'atto del nostro abbandono totale alla misericordia di Dio: un atto di abbandono che è come il precipitare nella morte. Non sono le tue opere, è questo abbandono che veramente ti salva, perché in questo abbandono ti raggiunge il perdono, la misericordia infinita.
Non vi è dunque una proporzione tra te e Dio, ma fra Dio e Dio, fra quel Dio al quale hai dato la possibilità di vivere in te e quel Dio che un giorno ti giudicherà. La tua fede infatti, non potendo essere che assoluta, lascia a Dio di vivere in te così come Egli è: misericordia gratuita ed immensa. E la proporzione allora è stabilita: non dalle tue opere, ma dal suo perdono, non dai tuoi meriti, ma dalla sua misericordia.
Ma perché questa proporzione possa essere stabilita dalla misericordia divina, tu devi avere coscienza della impossibilità di essere santo; devi avere coscienza di un tuo peccato che tutto ti contamina. Cosa sei mai davanti al Signore?
Ho letto (credevo mio dovere leggerlo) Sartre. Che terribile cosa! Non tanto per quello che scrive e per il modo con cui scrive - questa impassibilità onde non esiste più né male né bene - no, che cosa terribile sentire che io sono veramente solidale con quegli uomini che lui descrive. Non c'è nulla che io senta del tutto estraneo a me. La peggiore perversione umana mi è possibile. E in che misura, se mi è veramente possibile, non è anche reale? Io mi sento un lebbroso peggio di qualsiasi lebbroso. Io non so se vi è un peccato solo in questo mondo di cui io non sia colpevole; non so se vi è un peccato di cui non sia responsabile davanti al Signore. Io sento che la mia salvezza esige da parte di Dio la misericordia che Egli deve avere per tutto l'universo, perché in me vi sono tutti i possibili peccati che sono stati commessi e che si commetteranno. E non vi è in me nessuna possibilità di sottrarmi a ogni caduta. Non posso dire che se anche io realmente non sono caduto (e non so nemmeno questo) o non cadrò non vi sia in me una reale possibilità di cadere. Forse me ne è mancata l'occasione; forse la mia vita si è svolta in tal modo che senza nessun mio merito io sono andato per una strada mentre altri sono andati per un'altra: l'educazione che ho ricevuto, l'ambiente nel quale sono vissuto, le situazioni concrete nelle quali mi sono trovato, tutto questo ha fatto sì che io non sia caduto; ma fino a che punto posso giustificarmi di fronte a Dio volendo apparire meno colpevole di altri che, essendosi trovati in altre situazioni, avendo ricevuto un'altra educazione, hanno vissuto quello che io avrei vissuto?
E ho sentito che davvero ogni uomo è tutta l'umanità. Io non posso salvarmi se nella mia salvezza tutta l'umanità non è salva, perché veramente non sono solidale con gli altri soltanto per un atto di mia volontà, ma sono solidale per la mia natura di uomo e come uomo non sono in nulla disuguale dagli altri.
E ho pensato: Gesù medesimo se ha redento tutta l'umanità è perché ha salvato Se stesso, come dice la Lettera agli Ebrei: Egli rivolse la sua preghiera con grande clamore e lacrime a Dio che poteva salvarlo dalla morte. Forse Egli mi ha salvato perché ha salvato Se stesso. Egli è veramente l'Uomo. Io non potrò mai essere redento se non in Lui; in me veramente il peccato non potrà mai essere pienamente vinto, mai pienamente trasceso; porterò fino alla morte un'umanità che è complice più o meno di tutti i peccati del mondo, porterò fino alla morte un'umanità che è contaminata da tutti gli orrori. Forse posso essere salvato solo nel Cristo. Egli è l'unico Uomo in cui l'umanità è stata salvata, e salva anche me.
Ma sento allora che non posso essere salvato in Lui se non nella misura che io sono realmente compreso, cosciente, che la mia salvezza è impossibile, che un Altro deve operarla, che in un Altro io sono salvo. Come ho capito la grandezza religiosa di Lutero! Oh, certo, ha delle gravi responsabilità nei confronti della cristianità, ma che anima religiosamente grande! Egli ha avuto più di noi il senso reale di quella che è la nostra miseria, del nostro peccato che ci contamina fin nelle radice dell'essere, e ha sentito che solo l'abbandono a un Dio che si è fatto uomo, perché in questa sua umanità potesse salvare tutti noi, solo questo abbandono a Dio nella sua morte poteva salvarci.
Questo non implica certo che io possa compiacermi del mio peccato, perché fintanto che io non riconosco il mio peccato o mi compiaccio del mio peccato, io non mi abbandono a Dio, non chiedo la sua salvezza, non mi rifugio nel suo amore, non imploro la sua misericordia. Ma non potrò essere salvo nella misura che veramente sono compreso di questo mio peccato, che realmente sono cosciente della mia impossibilità di salvarmi, che realmente sono cosciente che il peccato mi intride tutto, che non vi è nessuna parte sana in me. Come debbo sentirlo per rifugiarmi in Lui, perché Egli mi prenda, mi carichi sopra di Sé, povero lebbroso che Egli trascina all'ospizio! Come dobbiamo sentire tutto questo!
Fra poco noi morremo. Questa scena sparirà, cadrà e ci troveremo dinanzi al Volto di Dio. Se Dio non ha preso posto nella nostra anima in questa vita presente in un perdono non meritato, ma appunto per questo più pieno, che cosa presenteremo a Dio? Quale difesa potremmo opporre alla sua presenza?
Oh, lo so, ci sembra impossibile la nostra salvezza, ed anche in qualche modo impossibile l'essere perdonati così per nulla. La resistenza che oppongono i farisei e gli scribi al perdono del Cristo è la resistenza che oppone il mondo moderno al messaggio cristiano. L'uomo non vuol credere all'amore di Dio, si rifiuta di pensare che l'amore di Dio giunga a tanto. Siamo di orrore a noi stessi, veramente, quanto più ci conosciamo, tanto più ci rendiamo conto di non riuscire a vivere nemmeno con noi stessi. Chi ci libererà da noi stessi? Non dal nostro corpo di morte, come diceva San Paolo, ma dalla nostra stessa anima. Non ci sopportiamo più. Come è possibile che Dio, mentre facciamo orrore a noi stessi, mentre viviamo l'inferno per esser legati a questa lordura, non solo ci sopporti , ma ci ami? Come possibile che Dio realmente si doni? Supera ogni capacità di immaginazione, ogni nostro pensiero.
Per questo il mondo moderno non crede più. Chi potrebbe credere senza un miracolo di Dio? È un miracolo credere, credere che Dio sia qui e mi dica: "Confida figliolo, i tuoi peccati ti sono rimessi". È vero? Può essere vero?
Non dico solo Sartre, ma tutti i filosofi e i letterati moderni mi riderebbero dietro con riso beffardo: non credono che l'uomo possa cambiare. L'uomo è un animale; ed essi accettano la vita così com'è: non vi è male, non vi è bene. Non c'è più libertà, tutto è opaco. L'uomo è quello che è: non ha più spirito, non ha più anima.
Possiamo davvero credere che Dio ci ami e che possiamo essere diversi da quello che siamo e possiamo essere salvati? Possiamo crederlo? Ecco quello che fa il nostro cristianesimo: se possiamo credere questo, siamo cristiani, se non possiamo crederlo non siamo cristiani. Essere cristiani vuol dire essere santi, non vuol dire esser già liberati, già luminosi; vuol dire poter credere che la salvezza è possibile, poter credere che Dio realmente ci possa amare. E se Dio ci può amare allora è segno davvero che noi possiamo essere cambiati, possiamo veramente sperare di essere diversi.
E noi dobbiamo crederlo: possiamo e dobbiamo crederlo. Il messaggio cristiano è tutto qui. Oh, lo so, mi sento solidale con tutto il peccato umano, mi sento responsabile di tutti i peccati. Come capisco ora certe pagine di San Gregorio, il grande poeta armano del IX secolo! Quando lo lessi la prima volta rimasi spaventato: quest'uomo si confessava di stupri, di violenze, di tutti i peccati del mondo, e su tutti i peccati implorava la misericordia di Dio. Come lo capisco, oggi! Allora mi spaventai, oggi mi sento con lui.
Quello che mi fa cristiano non è sentirmi peccatore soltanto, è il fatto che nel mio peccato io mi volgo a Uno perché abbia pietà di me e veramente mi salvi, e veramente mi sollevi da questo pozzo nel quale sono caduto, sono immerso: mi sollevi nella luce, mi trasformi in Sé.
Ecco il messaggio della salvezza: Ecce nunc dies salutis. È tutto qui il Cristianesimo. La salvezza è possibile. L'uomo può essere veramente redento purché implori il perdono. Il perdono viene dato gratuitamente a colui che, cosciente del suo peccato, si affida alla misericordia infinita di Dio. Ma per far questo bisogna essere coscienti del nostro peccato; e tanto più grande sarà la misericordia divina quanto più grande sarà la coscienza del nostro peccato. Perché giustamente Dio ti colma di Sé nella misura che offri a Lui una capacità più grande, e la capacità che offri a Dio è la coscienza di essere tu colpevole di tutto l'umano peccato. Non vi è nulla che ritengo alieno da me: Nihil umano a me alienum puto. Veramente solo questa coscienza di un peccato che ci rende solidali con tutti - con gli assassini, con le prostitute - solo questa solidarietà che ci fa sentire fratelli a chi è caduto più in basso, perché in nulla migliori di loro, solo questo può anche colmarci di una misericordia realmente infinita.
Io
ho sempre manifestato, ma senza giustificarla mai pienamente, la mia
opposizione al pensiero di Teilhard de Chardin. Mi sembra che sia
importante giustificare questo mio atteggiamento perché non sembri
gratuito.
Prescindo dal voler ora presentare in modo oggettivo questo modello; non voglio fare l'analisi di un pensiero che ha indubbiamente una solidità, una sua bellezza, una sua suggestività e proprio per questo ha avuto anche tanta eco nel mondo moderno. Vorrei rilevare i punti deboli di un sistema che, pur avendo le migliori intenzioni di presentarsi come una giustificazione apologetica del Cristianesimo in un dialogo col mondo per superare la frattura che dalla Scolastica in poi si è compiuta fra la cultura moderna e il pensiero cristiano, presenta tuttavia dei punti deboli che potrebbero operare (e già di fatto la operano) una grave rovina nelle anime stesse.
Identificare tutta la realtà a un modo di evoluzione non rende giustizia piena della dualità fra il Creatore e la creatura (perciò gia nell'origine), nel suo fine. Di per sé un sistema come quello di Teilhard de Chardin, anche se mai lo dice, porta a una confusione della creazione con la creatura, della creatura col Creatore. Di fatto, il sistema teilhardiano difficilmente si concilia col mistero della creazione così come la Chiesa lo insegna. D'altra parte l'evoluzione cosi come la presenta Teilhard de Chardin implica due gravissimi pericoli per il pensiero cristiano:
- la continuità fra la natura e lo spirito. Con questa continuità non è più giustificata, anzi si deve escludere, l'immortalità dell'anima e anche la vita futura;
- la continuità fra ordine di natura e ordine di grazia; e questo è ancora più grave: ne va di mezzo addirittura non solo la Rivelazione, il Cristianesimo come tale, ma ogni religione, in quanto ogni religione rivelata implica il superamento di uno stato di creatura.
D'altra parte, l'identificazione di tutta la realtà a un movimento evoluzionistico esclude per sé, necessariamente, la libertà. Tutto diviene determinismo biologico. Ora giustamente, come diceva il Grelot, bisogna domandare a Teilhard de Chardin se l'ambiguità anche del processo della storia rimane fino all'ultimo momento. Perché se non rimanesse l'ambiguità del processo della storia come tale fino all'ultimo istante, la mia libertà se ne va. Noi cristiani non possiamo assolutamente rinunciare alla dualità assoluta tra la creatura e il Creatore e alla distinzione fra ordine di natura e ordine di grazia. E nemmeno possiamo rinunciare, in quanto cristiani, ala certezza, alla fede, che già tutto è compiuto, che veramente il Verbo divino si è incarnato, e perciò non vi è più evoluzione in senso oggettivo. Tutto è definitivamente acquistato per sempre nella presenza di un Dio fatto Uomo. Ci può essere un processo soggettivo, come insegna la teologia, dei fedeli nella fede e anche dei singoli popoli nella presenza immutabile del Cristo; ma non vi è un atto, nemmeno l'atto di tutta la creazione insieme, che può andare oltre l'atto della Morte di Croce. L'atto della Morte di Croce è al termine di tutti i processi: non dei processi che si possono compiere soltanto qui sulla terra, ma anche dei processi angelici. Nessun atto può andare oltre l'atto di un Dio che muore, oltre l'atto di un Dio che si dona, che si comunica al mondo nella sua Morte di Croce e nella sua risurrezione gloriosa.
Oltre il Cristo non si va. Quando si parla di storia della Chiesa bisogna intendersi bene sul significato di questa parola, perché per storia della Chiesa si intende il processo dei singoli popoli o delle singole anime in una partecipazione al mistero di Cristo, ma non c'è qualche cosa che dobbiamo aspettare oltre la morte e la risurrezione di Gesù. Si deve aspettare soltanto che i singoli uomini partecipino sempre di più a questa morte, vivano sempre di più questa risurrezione; ma non c'è nulla di più. Perciò il punto omega non si trova al termine: è già presente.
Quello che diceva in Newman è una delle intuizioni più grandi e anche più semplici del Cristianesimo, e se si abbandona quella si abbandona il Cristianesimo stesso: cioè la fine si accompagna al processo. Non siamo come l'Ebraismo. Per Israele veramente tutto era da attendere; noi invece non attendiamo altro che la manifestazione, non la realtà. Nulla di nuovo avverrà mai più sopra la terra, nei cieli, nel Paradiso. Dio si è fatto uomo, Dio si è comunicato al mondo. Dopo l'Incarnazione è stupido pensare che possa avvenire qualcosa di più grande di questo fatto: che Dio, sostanzialmente, nella sua Persona, si è unito per sempre alla natura creata.
Noi viviamo del ricordo. Che cos'è la Messa, che precisamente fa presente il Mistero? Il ricordo. Un ricordo che fa presente, ma un ricordo. Non si va verso l'avvenire, ci si ancora sempre al passato. È il passato che è sempre presente per noi. Quanto più realizzeremo la fede cristiana, tanto più è questo passato che noi vivremo come presente, che sarà la nostra presenza stessa. Che cosa diciamo durante la Messa? "Fate questo in memoria di me". Memoria: ricordo. Non ci sono più staccature da quell'atto. Quell'atto pone fine a ogni processo sul piano oggettivo (non sul piano soggettivo). Ma allora non c'è nulla da attendere da un punto omega che sarà fra diecimila anni. Diecimila anni non portano nulla di nuovo. Ci sarà una partecipazione più universale da parte dei popoli a questo atto, se ci sarà: perché anche questo dipende da un consenso, che rimane libero per tutta l'umanità, perché tutta l'umanità non è che la somma di tutte le libertà individuali, perciò la storia ha sempre, necessariamente, un carattere di ambiguità. Se tu le togli questo carattere e la trasformi in un processo evoluzionistico, l'uomo diviene un puro animale: non si passa mai il carattere della pura biologia, non si passa mai al piano dello spirito. Il piano dello spirito porta per sé necessariamente il carattere dell'ambiguità perché è libertà, e la libertà non è determinismo.
Questo è anche l'errore del marxismo, e in questo Teilhard de Chardin segue veramente la dialettica marxista. Anche il marxismo descrive la storia futura. Ma la storia futura la conosce soltanto Dio. Questo ha sempre insegnato il Cristianesimo: che la storia di domani può dircela soltanto Dio, nessun uomo. Perché l'uomo, se dovesse conoscere la storia, la conoscerebbe in quanto vi è una necessità che conduce gli eventi. La libertà è imprevedibile. Dio solo, perché è al di sopra della libertà umana, nella sua onnicomprensione, può prevedere quello che la libertà umana può compiere. Ecco perché la profezia: la profezia è propria soltanto di Dio; i marxisti non possono fare profezie, e nemmeno Teilhard de Chardin. Quello che avverrà domani lo sa Dio solo, perché tutto dipende dalla libertà degli uomini.
Noi dobbiamo mantenere questo senso di mistero, di dramma che è inerente alla nostra condizione umana. Il voler subito tutto comporre ha sempre il carattere di una gnosi e trasforma la teologia, che essenzialmente mistero ed esige la nostra adorazione, in un processo sistematico di pensiero: tutto è composto, tutto è già in ordine, tutto è già sistemato. Ma tu, pover'uomo vuoi comprendere la realtà? La tua povera intelligenza può mai avere la capacità di chiudere il reale? Tu fai parte del reale, non lo puoi chiudere in te. Tu ne fai parte, non sei un tutto che lo abbracci. E se non puoi abbracciare la realtà creata, tanto meno puoi abbracciare la realtà increata che è Dio.
Ecco quello che mi mette in grave sospetto verso Teilhard de Chardin, nonostante che capisca quanto sia grande e quanto bene possa aver fatto per un dialogo fra la cultura moderna e il Cristianesimo. Però avverto i pericoli, che sono gravissimi. E sono pericoli in atto. Per tanti cristiani di oggi il primo comandamento non esiste più, per loro praticamente il primo comandamento è quello di amare gli uomini, perché Dio diventa un mito. È soltanto un'idea-forza per impegnarci al servizio degli altri. E la preghiera non ha più senso: la preghiera in concreto è un impegno per il miglioramento della condizione umana. Ma dove si va a finire di questo passo?
Per loro Dio è al termine di un processo. Tu non scavalchi mai un processo, mentre l'atto dell'uomo scavalca tutto il processo nell'atto di fede; nell'atto di fede io vado sempre al di là di tutta la storia di tutta la creazione: raggiungo l'Immenso, raggiungo Colui che è puro spirito e non fa parte di un'evoluzione. Il Cristo non fa parte di un'evoluzione, la chiude: Consummatum est. E non è l'omega, termine ultimo di un processo umano: Lui è venuto quando gli è piaciuto. È venuto duemila anni fa, e non prima, e non dopo; e non c'è nessuna cosa che sul piano creato abbia preparato la sua venuta. È novità assoluta. Da una semplice donna, in un semplice paese di questo mondo, il più disprezzato di tutti i paesi, è nato: ed era Figlio di Dio. È nato e nella sua nascita veramente Dio e l'uomo si univano, per sempre. Chi l'ha preparata? È forse un fatto biologico questo? E chi potrebbe incatenare Dio? Se non si può determinare l'uomo perché l'uomo è libero, quanto meno si può determinare Dio, pura libertà? La libertà di questo Dio lascia sconcertati anche noi: ma perché non è nato a Roma? Perché non è stato imperatore romano, perché non è stato Alessandro il Macedone? È stato un pover'uomo... ed era Figlio di Dio. Ma non si pensa mai questo? Trovate qualche parentela fra un discorso tutto sistemato per benino e questa contingenza, l'atto di un Dio che è assolutamente libero, che è entrato in un momento qualunque del tempo nel processo stesso del tempo? Non alla fine del tempo, perché il tempo ha continuato; però avendo un altro contenuto, dopo la sua venuta: la fine, ora, si accompagna al processo stesso del tempo, il processo si accompagna alla fine. La fine è presente.
Io non so che farmene del Cristianesimo se debbo pensare che i miei pronipoti saranno più grandi di me perché più vicini al punto omega. No, io sono più vicino di loro se vivo con maggiore fede la presenza del Cristo che è qui, se vivo oggi la mia comunione col Cristo, che è comunione con Dio. Come un atto comune, un momento qualsiasi della storia è divenuto il momento dell'Incarnazione divina, così un momento qualunque della mia vita può essere l'incontro definitivo con Dio: la mia morte, ma anche il momento che vivo qui ora. La mia vita non si iscrive in un processo, perché se si iscrivesse in un processo anch'io sarei mangiato dal tempo, sarei digerito dalle generazioni umane, anch'io non sarei più: acqua che passa. E invece sono eterno come Dio, perché tocco Dio, posso toccare Dio in ogni momento del mio processo.
Il pensiero cristiano, che implica il mistero di un Dio che ci supera, è molto più lineare di quanto possa essere il pensiero di ogni filosofo o di ogni scienziato o anche di ogni teologo il quale non voglia rispettare la Parola di Dio e non voglia lasciarsi giudicare da questa, ma predicare questa Parola scegliendo dai misteri cristiani quello che gli fa comodo e cercando di sistemarlo alla meglio in un processo o in un sistema chiuso. Non vi è sistema chiuso: sei tu chiuso in un sistema, sei tu chiuso in una realtà, la realtà creata, della quale fai parte, la realtà di un mistero che già ti prende.
Tutto questo mi sembra molto importante, perché questa incomprensione della preghiera che c'è oggi (sapete che non pregano più né i preti, né i seminaristi, né le anime religiose?), questa mancanza del senso di Dio, questo fatto che manca il senso del peccato, tutto deriva da una stessa origine: dal trascurare non solo la discontinuità fra ordine di natura e ordine di grazia, ma anche la discontinuità fra la natura e lo spirito. Diventa un fatto puramente biologico anche quello che fino a dieci anni fa sembrava un fatto puramente spirituale; e allora si passa, con l'impassibilità pura di uno che giudica le cose sul piano puramente oggettivo, quasi non lo toccassero più, dalle espressioni che sembrano manifestazione di una esperienza mistica alla descrizione delle cose più turpi con un senso di distacco, perché non c'è più nulla di morale né in quello né in quell'altro.
Prescindo dal voler ora presentare in modo oggettivo questo modello; non voglio fare l'analisi di un pensiero che ha indubbiamente una solidità, una sua bellezza, una sua suggestività e proprio per questo ha avuto anche tanta eco nel mondo moderno. Vorrei rilevare i punti deboli di un sistema che, pur avendo le migliori intenzioni di presentarsi come una giustificazione apologetica del Cristianesimo in un dialogo col mondo per superare la frattura che dalla Scolastica in poi si è compiuta fra la cultura moderna e il pensiero cristiano, presenta tuttavia dei punti deboli che potrebbero operare (e già di fatto la operano) una grave rovina nelle anime stesse.
Identificare tutta la realtà a un modo di evoluzione non rende giustizia piena della dualità fra il Creatore e la creatura (perciò gia nell'origine), nel suo fine. Di per sé un sistema come quello di Teilhard de Chardin, anche se mai lo dice, porta a una confusione della creazione con la creatura, della creatura col Creatore. Di fatto, il sistema teilhardiano difficilmente si concilia col mistero della creazione così come la Chiesa lo insegna. D'altra parte l'evoluzione cosi come la presenta Teilhard de Chardin implica due gravissimi pericoli per il pensiero cristiano:
- la continuità fra la natura e lo spirito. Con questa continuità non è più giustificata, anzi si deve escludere, l'immortalità dell'anima e anche la vita futura;
- la continuità fra ordine di natura e ordine di grazia; e questo è ancora più grave: ne va di mezzo addirittura non solo la Rivelazione, il Cristianesimo come tale, ma ogni religione, in quanto ogni religione rivelata implica il superamento di uno stato di creatura.
D'altra parte, l'identificazione di tutta la realtà a un movimento evoluzionistico esclude per sé, necessariamente, la libertà. Tutto diviene determinismo biologico. Ora giustamente, come diceva il Grelot, bisogna domandare a Teilhard de Chardin se l'ambiguità anche del processo della storia rimane fino all'ultimo momento. Perché se non rimanesse l'ambiguità del processo della storia come tale fino all'ultimo istante, la mia libertà se ne va. Noi cristiani non possiamo assolutamente rinunciare alla dualità assoluta tra la creatura e il Creatore e alla distinzione fra ordine di natura e ordine di grazia. E nemmeno possiamo rinunciare, in quanto cristiani, ala certezza, alla fede, che già tutto è compiuto, che veramente il Verbo divino si è incarnato, e perciò non vi è più evoluzione in senso oggettivo. Tutto è definitivamente acquistato per sempre nella presenza di un Dio fatto Uomo. Ci può essere un processo soggettivo, come insegna la teologia, dei fedeli nella fede e anche dei singoli popoli nella presenza immutabile del Cristo; ma non vi è un atto, nemmeno l'atto di tutta la creazione insieme, che può andare oltre l'atto della Morte di Croce. L'atto della Morte di Croce è al termine di tutti i processi: non dei processi che si possono compiere soltanto qui sulla terra, ma anche dei processi angelici. Nessun atto può andare oltre l'atto di un Dio che muore, oltre l'atto di un Dio che si dona, che si comunica al mondo nella sua Morte di Croce e nella sua risurrezione gloriosa.
Oltre il Cristo non si va. Quando si parla di storia della Chiesa bisogna intendersi bene sul significato di questa parola, perché per storia della Chiesa si intende il processo dei singoli popoli o delle singole anime in una partecipazione al mistero di Cristo, ma non c'è qualche cosa che dobbiamo aspettare oltre la morte e la risurrezione di Gesù. Si deve aspettare soltanto che i singoli uomini partecipino sempre di più a questa morte, vivano sempre di più questa risurrezione; ma non c'è nulla di più. Perciò il punto omega non si trova al termine: è già presente.
Quello che diceva in Newman è una delle intuizioni più grandi e anche più semplici del Cristianesimo, e se si abbandona quella si abbandona il Cristianesimo stesso: cioè la fine si accompagna al processo. Non siamo come l'Ebraismo. Per Israele veramente tutto era da attendere; noi invece non attendiamo altro che la manifestazione, non la realtà. Nulla di nuovo avverrà mai più sopra la terra, nei cieli, nel Paradiso. Dio si è fatto uomo, Dio si è comunicato al mondo. Dopo l'Incarnazione è stupido pensare che possa avvenire qualcosa di più grande di questo fatto: che Dio, sostanzialmente, nella sua Persona, si è unito per sempre alla natura creata.
Noi viviamo del ricordo. Che cos'è la Messa, che precisamente fa presente il Mistero? Il ricordo. Un ricordo che fa presente, ma un ricordo. Non si va verso l'avvenire, ci si ancora sempre al passato. È il passato che è sempre presente per noi. Quanto più realizzeremo la fede cristiana, tanto più è questo passato che noi vivremo come presente, che sarà la nostra presenza stessa. Che cosa diciamo durante la Messa? "Fate questo in memoria di me". Memoria: ricordo. Non ci sono più staccature da quell'atto. Quell'atto pone fine a ogni processo sul piano oggettivo (non sul piano soggettivo). Ma allora non c'è nulla da attendere da un punto omega che sarà fra diecimila anni. Diecimila anni non portano nulla di nuovo. Ci sarà una partecipazione più universale da parte dei popoli a questo atto, se ci sarà: perché anche questo dipende da un consenso, che rimane libero per tutta l'umanità, perché tutta l'umanità non è che la somma di tutte le libertà individuali, perciò la storia ha sempre, necessariamente, un carattere di ambiguità. Se tu le togli questo carattere e la trasformi in un processo evoluzionistico, l'uomo diviene un puro animale: non si passa mai il carattere della pura biologia, non si passa mai al piano dello spirito. Il piano dello spirito porta per sé necessariamente il carattere dell'ambiguità perché è libertà, e la libertà non è determinismo.
Questo è anche l'errore del marxismo, e in questo Teilhard de Chardin segue veramente la dialettica marxista. Anche il marxismo descrive la storia futura. Ma la storia futura la conosce soltanto Dio. Questo ha sempre insegnato il Cristianesimo: che la storia di domani può dircela soltanto Dio, nessun uomo. Perché l'uomo, se dovesse conoscere la storia, la conoscerebbe in quanto vi è una necessità che conduce gli eventi. La libertà è imprevedibile. Dio solo, perché è al di sopra della libertà umana, nella sua onnicomprensione, può prevedere quello che la libertà umana può compiere. Ecco perché la profezia: la profezia è propria soltanto di Dio; i marxisti non possono fare profezie, e nemmeno Teilhard de Chardin. Quello che avverrà domani lo sa Dio solo, perché tutto dipende dalla libertà degli uomini.
Noi dobbiamo mantenere questo senso di mistero, di dramma che è inerente alla nostra condizione umana. Il voler subito tutto comporre ha sempre il carattere di una gnosi e trasforma la teologia, che essenzialmente mistero ed esige la nostra adorazione, in un processo sistematico di pensiero: tutto è composto, tutto è già in ordine, tutto è già sistemato. Ma tu, pover'uomo vuoi comprendere la realtà? La tua povera intelligenza può mai avere la capacità di chiudere il reale? Tu fai parte del reale, non lo puoi chiudere in te. Tu ne fai parte, non sei un tutto che lo abbracci. E se non puoi abbracciare la realtà creata, tanto meno puoi abbracciare la realtà increata che è Dio.
Ecco quello che mi mette in grave sospetto verso Teilhard de Chardin, nonostante che capisca quanto sia grande e quanto bene possa aver fatto per un dialogo fra la cultura moderna e il Cristianesimo. Però avverto i pericoli, che sono gravissimi. E sono pericoli in atto. Per tanti cristiani di oggi il primo comandamento non esiste più, per loro praticamente il primo comandamento è quello di amare gli uomini, perché Dio diventa un mito. È soltanto un'idea-forza per impegnarci al servizio degli altri. E la preghiera non ha più senso: la preghiera in concreto è un impegno per il miglioramento della condizione umana. Ma dove si va a finire di questo passo?
Per loro Dio è al termine di un processo. Tu non scavalchi mai un processo, mentre l'atto dell'uomo scavalca tutto il processo nell'atto di fede; nell'atto di fede io vado sempre al di là di tutta la storia di tutta la creazione: raggiungo l'Immenso, raggiungo Colui che è puro spirito e non fa parte di un'evoluzione. Il Cristo non fa parte di un'evoluzione, la chiude: Consummatum est. E non è l'omega, termine ultimo di un processo umano: Lui è venuto quando gli è piaciuto. È venuto duemila anni fa, e non prima, e non dopo; e non c'è nessuna cosa che sul piano creato abbia preparato la sua venuta. È novità assoluta. Da una semplice donna, in un semplice paese di questo mondo, il più disprezzato di tutti i paesi, è nato: ed era Figlio di Dio. È nato e nella sua nascita veramente Dio e l'uomo si univano, per sempre. Chi l'ha preparata? È forse un fatto biologico questo? E chi potrebbe incatenare Dio? Se non si può determinare l'uomo perché l'uomo è libero, quanto meno si può determinare Dio, pura libertà? La libertà di questo Dio lascia sconcertati anche noi: ma perché non è nato a Roma? Perché non è stato imperatore romano, perché non è stato Alessandro il Macedone? È stato un pover'uomo... ed era Figlio di Dio. Ma non si pensa mai questo? Trovate qualche parentela fra un discorso tutto sistemato per benino e questa contingenza, l'atto di un Dio che è assolutamente libero, che è entrato in un momento qualunque del tempo nel processo stesso del tempo? Non alla fine del tempo, perché il tempo ha continuato; però avendo un altro contenuto, dopo la sua venuta: la fine, ora, si accompagna al processo stesso del tempo, il processo si accompagna alla fine. La fine è presente.
Io non so che farmene del Cristianesimo se debbo pensare che i miei pronipoti saranno più grandi di me perché più vicini al punto omega. No, io sono più vicino di loro se vivo con maggiore fede la presenza del Cristo che è qui, se vivo oggi la mia comunione col Cristo, che è comunione con Dio. Come un atto comune, un momento qualsiasi della storia è divenuto il momento dell'Incarnazione divina, così un momento qualunque della mia vita può essere l'incontro definitivo con Dio: la mia morte, ma anche il momento che vivo qui ora. La mia vita non si iscrive in un processo, perché se si iscrivesse in un processo anch'io sarei mangiato dal tempo, sarei digerito dalle generazioni umane, anch'io non sarei più: acqua che passa. E invece sono eterno come Dio, perché tocco Dio, posso toccare Dio in ogni momento del mio processo.
Il pensiero cristiano, che implica il mistero di un Dio che ci supera, è molto più lineare di quanto possa essere il pensiero di ogni filosofo o di ogni scienziato o anche di ogni teologo il quale non voglia rispettare la Parola di Dio e non voglia lasciarsi giudicare da questa, ma predicare questa Parola scegliendo dai misteri cristiani quello che gli fa comodo e cercando di sistemarlo alla meglio in un processo o in un sistema chiuso. Non vi è sistema chiuso: sei tu chiuso in un sistema, sei tu chiuso in una realtà, la realtà creata, della quale fai parte, la realtà di un mistero che già ti prende.
Tutto questo mi sembra molto importante, perché questa incomprensione della preghiera che c'è oggi (sapete che non pregano più né i preti, né i seminaristi, né le anime religiose?), questa mancanza del senso di Dio, questo fatto che manca il senso del peccato, tutto deriva da una stessa origine: dal trascurare non solo la discontinuità fra ordine di natura e ordine di grazia, ma anche la discontinuità fra la natura e lo spirito. Diventa un fatto puramente biologico anche quello che fino a dieci anni fa sembrava un fatto puramente spirituale; e allora si passa, con l'impassibilità pura di uno che giudica le cose sul piano puramente oggettivo, quasi non lo toccassero più, dalle espressioni che sembrano manifestazione di una esperienza mistica alla descrizione delle cose più turpi con un senso di distacco, perché non c'è più nulla di morale né in quello né in quell'altro.
Il
mondo moderno non soltanto ha perso Dio, ma ha perso anche l'uomo.
L'uomo piano piano si riduce a puro animale. Nemmeno i greci erano
giunti a tanto, perché almeno, per loro, anche se non esisteva Dio,
esisteva lo spirito; mentre oggi quanti credono veramente
nell'immortalità? Non vogliono dirlo, non vogliono porsi il problema
per non dover rispondere, ma io credo che la maggior parte non ci
creda più. Anche fra i cristiani la maggior parte arriva a dire:
"Eh, se c'è qualcosa si vedrà!".
Questo vuol dire che non soltanto non si crede più in Dio, ma non si crede neanche nell'uomo. L'uomo stesso si è ridotto a un puro prodotto biologico, animale.
Vi posso sembrare un po' duro, ma non lo sono, perché i risultati di una certa concezione sono paurosi; e potrebbero essere ancora più paurosi se noi non ci rendessimo conto di tutto questo per riaffermare non quei principi filosofici, ma quei principi di fede dai quali il nostro Cristianesimo dipende o cade; e non soltanto il nostro Cristianesimo, ma la nostra nobiltà di creature razionali, di uomini cioè che trascendono il mondo. Perché Dio trascende anche il mondo, ma l'uomo già di per sé trascende ogni processo biologico, trascende la creazione fisica: egli è spirito. Dobbiamo rendercene conto.
Per questo l'uomo vale sempre più non soltanto di tutti i processi biologici e storici, ma di tutte le manifestazioni puramente esteriori e visibili, anche della Chiesa stessa in quanto visibile. Io valgo di più di tutta la Chiesa: non della Chiesa Corpo Mistico, non della Chiesa Comunione dei Santi, ma della Chiesa fatta di Cardinali, di Vescovi, fatta di San Pietro... queste sono tutte cose esteriori. La mia comunione col Cristo e anche coi Santi della Chiesa stessa è immensamente superiore, perché questo qui è un piano storico che ancora non è definitivo, che è ancora segno. Siamo ancora sul piano profetico, sul piano significativo, non sul piano definitivo dell'essere, mentre per quanto riguarda la persona umana, già la persona umana realizza questa trascendenza del visibile, del fisico, dello storico: la persona umana in un atto di fede giunge a Dio; la persona umana, anche senza l'atto di fede, nella sua vita spirituale già vive una libertà spirituale onde si libera dalla legge necessitante propria del determinismo delle cose fisiche.
Dobbiamo rendercene conto: un uomo solo vale più di tutti i movimenti politici, un uomo solo vale più di tutto uno Stato. Certo, qui il problema si fa complesso, perché lo Stato è anche la somma delle persone; però la persona realizza se stessa più nella sua intimità che nei rapporti sociali. I rapporti sociali obbediscono alla sociologia, a qualche cosa che è ancora deterministico. L'atto interiore dell'uomo è sempre l'atto più alto. Ecco perché la vita contemplativa è sempre il massimo vertice dell'attività umana.
Nell'atto esteriore l'uomo si aliena sempre a se stesso. Sant'Agostino diceva: In teipsum rede: in interiore homine inhabitat veritas. Se l'uomo è alienato lo è perché dopo il peccato originale è stato cacciato dal Paradiso Terrestre, cioè è stato cacciato nella socialità, nella storia, secondo il pensiero dei Padri, è stato cacciato in un mondo fisico facendone parte. Il suo mondo vero non lo possiede più: si trova in regione dissimilitudinis che è la storia, è il mondo fisico, è il mondo politico, è questo mondo, che traduce soltanto imperfettamente la mia vita interiore e molto spesso, più che tradurla la tradisce. Noi siamo stati traditi nel nostro medesimo amore anche nel rapporto che abbiamo gli uni con gli altri: amandoci non ci possiamo amare. Ci amiamo, e nella misura che manifestiamo l'amore si tradisce l'amore.
Pensavo in questi giorni all'amore sensibile, all'amore carnale. È chiaro che se ci si ama, ci si dona l'uno all'altro, ci si deve donare l'uno all'altro. L'amore esige una risposta; anche Dio la esige. Se è vero amore implica l'unità, e l'unità implica il dono reciproco. D'altra parte l'uomo, se è uomo, non è solamente spirito, è anche carne, dunque l'amore sensibile, l'amore carnale, dovrebbe essere il massimo dell'amore. Perché allora c'è l'ambiguità di questo amore che è invece peccato? È chiaro: perché il corpo ci aliena. Non è il vero corpo. Il mio atto d'amore, la mia comunione, implica il dono del corpo, ma non implica questa alienazione che invece oggi noi viviamo sul piano fisico e sul piano sensibile.
Quando si vive questa comunione di amore? Nella Comunione. Nella Comunione Dio mi dona Se stesso nel suo Corpo e io mi dono a Lui nel mio corpo, ma non c'è nessuna ambiguità, perché è il corpo glorioso. In questo mio corpo che non è un corpo glorioso io vivo necessariamente una mia alienazione, il mio corpo mi tradisce, tradisce la mia vita spirituale, non è strumento della mia vita spirituale. Nell'amare, nel dono di me stesso, io perdo me stesso, perdo la mia anima invece di conquistarla. Invece nella vita futura saremo non soltanto un solo spirito, ma un solo corpo. Unità anche fisica oltre che spirituale. Ma non ci sarà alienazione, non ci sarà nessuna umiliazione: sarà la piena manifestazione e la piena perfezione di un amore che esige ed opera la perfetta unità.
Non trovo che di per sé non ci sia nulla di male nell'amore sensibile. l'amore sensibile è l'amore. Non per nulla ci si deve amare e troviamo una difficoltà ad amarci proprio nella nostra costituzione presente. Per questo l'amore esige la morte: esige il superamento di una condizione terrestre nella quale l'amore ci è imposto e non lo possiamo vivere fino in fondo.
Questa mia presa di posizione non è quella di un conservatore o di un progressista, ma quella di un cristiano. Un cristiano che vuol continuare a credere in Dio, vuol continuare a credere nel Cristo, nell'Incarnazione, nella Morte di Croce, nella Risurrezione, che vuol continuare a credere, e non ammette un post-cristianesimo, perché sarebbe un cadere nell'inferno: ci sarebbe un post-Dio , e dopo Dio che cosa ci può essere se non il nulla? Ammesso che ci sia un post-cristianesimo, l'uomo sarebbe veramente solo, in una solitudine immensa, perché per lui Dio non ci sarebbe più.
Questo vuol dire che non soltanto non si crede più in Dio, ma non si crede neanche nell'uomo. L'uomo stesso si è ridotto a un puro prodotto biologico, animale.
Vi posso sembrare un po' duro, ma non lo sono, perché i risultati di una certa concezione sono paurosi; e potrebbero essere ancora più paurosi se noi non ci rendessimo conto di tutto questo per riaffermare non quei principi filosofici, ma quei principi di fede dai quali il nostro Cristianesimo dipende o cade; e non soltanto il nostro Cristianesimo, ma la nostra nobiltà di creature razionali, di uomini cioè che trascendono il mondo. Perché Dio trascende anche il mondo, ma l'uomo già di per sé trascende ogni processo biologico, trascende la creazione fisica: egli è spirito. Dobbiamo rendercene conto.
Per questo l'uomo vale sempre più non soltanto di tutti i processi biologici e storici, ma di tutte le manifestazioni puramente esteriori e visibili, anche della Chiesa stessa in quanto visibile. Io valgo di più di tutta la Chiesa: non della Chiesa Corpo Mistico, non della Chiesa Comunione dei Santi, ma della Chiesa fatta di Cardinali, di Vescovi, fatta di San Pietro... queste sono tutte cose esteriori. La mia comunione col Cristo e anche coi Santi della Chiesa stessa è immensamente superiore, perché questo qui è un piano storico che ancora non è definitivo, che è ancora segno. Siamo ancora sul piano profetico, sul piano significativo, non sul piano definitivo dell'essere, mentre per quanto riguarda la persona umana, già la persona umana realizza questa trascendenza del visibile, del fisico, dello storico: la persona umana in un atto di fede giunge a Dio; la persona umana, anche senza l'atto di fede, nella sua vita spirituale già vive una libertà spirituale onde si libera dalla legge necessitante propria del determinismo delle cose fisiche.
Dobbiamo rendercene conto: un uomo solo vale più di tutti i movimenti politici, un uomo solo vale più di tutto uno Stato. Certo, qui il problema si fa complesso, perché lo Stato è anche la somma delle persone; però la persona realizza se stessa più nella sua intimità che nei rapporti sociali. I rapporti sociali obbediscono alla sociologia, a qualche cosa che è ancora deterministico. L'atto interiore dell'uomo è sempre l'atto più alto. Ecco perché la vita contemplativa è sempre il massimo vertice dell'attività umana.
Nell'atto esteriore l'uomo si aliena sempre a se stesso. Sant'Agostino diceva: In teipsum rede: in interiore homine inhabitat veritas. Se l'uomo è alienato lo è perché dopo il peccato originale è stato cacciato dal Paradiso Terrestre, cioè è stato cacciato nella socialità, nella storia, secondo il pensiero dei Padri, è stato cacciato in un mondo fisico facendone parte. Il suo mondo vero non lo possiede più: si trova in regione dissimilitudinis che è la storia, è il mondo fisico, è il mondo politico, è questo mondo, che traduce soltanto imperfettamente la mia vita interiore e molto spesso, più che tradurla la tradisce. Noi siamo stati traditi nel nostro medesimo amore anche nel rapporto che abbiamo gli uni con gli altri: amandoci non ci possiamo amare. Ci amiamo, e nella misura che manifestiamo l'amore si tradisce l'amore.
Pensavo in questi giorni all'amore sensibile, all'amore carnale. È chiaro che se ci si ama, ci si dona l'uno all'altro, ci si deve donare l'uno all'altro. L'amore esige una risposta; anche Dio la esige. Se è vero amore implica l'unità, e l'unità implica il dono reciproco. D'altra parte l'uomo, se è uomo, non è solamente spirito, è anche carne, dunque l'amore sensibile, l'amore carnale, dovrebbe essere il massimo dell'amore. Perché allora c'è l'ambiguità di questo amore che è invece peccato? È chiaro: perché il corpo ci aliena. Non è il vero corpo. Il mio atto d'amore, la mia comunione, implica il dono del corpo, ma non implica questa alienazione che invece oggi noi viviamo sul piano fisico e sul piano sensibile.
Quando si vive questa comunione di amore? Nella Comunione. Nella Comunione Dio mi dona Se stesso nel suo Corpo e io mi dono a Lui nel mio corpo, ma non c'è nessuna ambiguità, perché è il corpo glorioso. In questo mio corpo che non è un corpo glorioso io vivo necessariamente una mia alienazione, il mio corpo mi tradisce, tradisce la mia vita spirituale, non è strumento della mia vita spirituale. Nell'amare, nel dono di me stesso, io perdo me stesso, perdo la mia anima invece di conquistarla. Invece nella vita futura saremo non soltanto un solo spirito, ma un solo corpo. Unità anche fisica oltre che spirituale. Ma non ci sarà alienazione, non ci sarà nessuna umiliazione: sarà la piena manifestazione e la piena perfezione di un amore che esige ed opera la perfetta unità.
Non trovo che di per sé non ci sia nulla di male nell'amore sensibile. l'amore sensibile è l'amore. Non per nulla ci si deve amare e troviamo una difficoltà ad amarci proprio nella nostra costituzione presente. Per questo l'amore esige la morte: esige il superamento di una condizione terrestre nella quale l'amore ci è imposto e non lo possiamo vivere fino in fondo.
Questa mia presa di posizione non è quella di un conservatore o di un progressista, ma quella di un cristiano. Un cristiano che vuol continuare a credere in Dio, vuol continuare a credere nel Cristo, nell'Incarnazione, nella Morte di Croce, nella Risurrezione, che vuol continuare a credere, e non ammette un post-cristianesimo, perché sarebbe un cadere nell'inferno: ci sarebbe un post-Dio , e dopo Dio che cosa ci può essere se non il nulla? Ammesso che ci sia un post-cristianesimo, l'uomo sarebbe veramente solo, in una solitudine immensa, perché per lui Dio non ci sarebbe più.
L'uomo
realizza totalmente se stesso nella sua comunione con Dio. E questo è
proprio dell'uomo. Tutta la tradizione ce lo insegna, e non soltanto
la tradizione religiosa, ma anche quella culturale dell'Occidente:
l'uomo è un microcosmo. In lui veramente tutta la creazione si
riassume perché attraverso di lui tutta la creazione deve essere
salvata. Ma come può l'uomo salvare tutta la creazione?
Fino alla fine del 1800 si poteva pensare che l'uomo fosse un essere che quasi totalmente emergeva nella luce: soltanto qualche piccolo angolo dell'essere suo rimaneva nell'ombra, ma tutto l'essere umano era un essere di luce, un essere cioè pienamente cosciente di sé, pienamente responsabile dei suoi atti. Nel 1900, prima Freud e poi Jung ci hanno insegnato che in realtà quello che dobbiamo pensare dell'uomo è il contrario. Ed è vero quello che essi ci dicono, almeno riguardo a questo: che cioè l'uomo si trova in massima parte sommerso nell'inconscio e nel subconscio; tutte le sue azioni hanno un carattere, direi, non libero, ma determinato e dall'ereditarietà e dal temperamento e da fattori biologici e fisici. Tutto è quasi sommerso nell'animalità, se vogliamo usare questo termine. soltanto il vertice della sua anima emerge, e la fatica che l'uomo deve compiere perché tutto quello che è inconscio divenga pura luce, pura coscienza, pura responsabilità, è quello che lo realizza. Vivere, per noi, vuol dire divenire uomini; e divenire uomini significa emergere da questa melma, da questa ombra, emergere da questo fango, risalire. Però il salire nella luce è un'impresa gigantesca. Non ci rendiamo conto di quanto siamo giocati dai nostri istinti, di quanto siamo in qualche modo determinati (in qualche modo, non totalmente) dalla nostra educazione, dall'ambiente nel quale viviamo, dai nostri antenati, dal nostro temperamento, dalla nostra salute e dai nostri atti precedenti.
L'emersione del nostro spirito da questo mare impone all'anima uno sforzo gigantesco. E molto spesso l'uomo non lo fa. Si deve dire, al contrario, che in massima parte gli uomini continuano a vivere quasi sommersi.
Il cammino dell'uomo per essere uomo è in gran parte anche il cammino dell'uomo per essere figlio di Dio. L'emersione dell'uomo verso la sua umanità e l'emersione dell'uomo verso la sua vocazione soprannaturale, in qualche modo, almeno per un certo tratto, vanno di pari passo. Coincidono. Si può dire a questo proposito che la vita religiosa sia uno dei mezzi più universali di promozione umana. Fino ad oggi - e sarà così fino alla fine del mondo - in massima parte gli uomini diverranno uomini non attraverso la filosofia o la psicologia o la medicina o la psichiatria, ma soltanto attraverso la religione. E probabilmente la massima parte delle malattie si potrebbe guarire proprio attraverso un processo religioso, proprio perché un processo religioso non soltanto avvicina l'uomo a Dio, ma porta l'uomo ad essere uomo.
La promozione dell'uomo da animale a uomo, fino ad un certo punto del cammino va di pari passo con la promozione dell'uomo dall'essere di natura alla grazia. D'altra parte dobbiamo anche renderci conto che gli altri strumenti che l'uomo può usare per divenire uomo sono sempre strumenti inefficaci. Cioè, lo psicanalista, lo psicologo, ecc. non avranno mai l'efficacia che ha un sacerdote. Perché? Perché l'uomo nel suo mistero non è comprensibile e non è compreso che nel piano religioso. Gli altri piani - cultura, sanità mentale, sanità fisica - riguardano soltanto un settore della sua vita. La sanità totale dell'uomo non può essere realizzata che in un processo onde egli risponde alla sua vocazione prima, alla sua vocazione essenziale, che è una vocazione religiosa.
Si può dire dunque che di fatto, tranne pochissime eccezioni, gli uomini sono realizzati in una vita religiosa. E quello che dico, in fondo, trova una giustificazione nella teologia, la quale insegna che il peccato originale ha disgregato e la grazia, prima ancora di divinizzarci, ci risana; la grazia prima ancora che elevarci a Dio ci rifà uomini, ci ristabilisce in una perfetta sanità e unità.
Il nostro cammino verso Dio va di pari passo col nostro cammino ad essere veramente uomini che cosa vuol dire essere uomini? Vuol dire che sempre più lo spirito umano investe dall'intimo tutta la natura umana, anche corporea, in tal modo che non sfugga più alla coscienza e alla responsabilità dell'uomo nessuna sua attività, ma ogni suo atto sia penetrato di spirito, cioè in ogni suo atto l'uomo sia cosciente e pienamente responsabile: cosa che non avviene quasi mai. Su milioni di atti che compiamo ogni giorno solo poche migliaia sono atti umani e di questi pochissimi sono atti squisitamente religiosi. Quando sarà che tutti questi milioni di atti dell'uomo saranno atti umani? E qui bisogna che spieghi che cosa intendo per atto dell'uomo e che cosa per atto umano.
Atto dell'uomo è qualunque atto che compia un uomo, anche se lo compie dormendo, anche se lo compie inconsapevolmente; sono quegli atti che si possono compiere per puro automatismo, per pura abitudine, senza che l'anima veramente rifletta sull'atto, veramente lo voglia, veramente sia libera e si determini a compierlo. Quanti atti compio mentre parlo, con le mani, col viso, con la bocca con gli occhi! Ma di quanti sono consapevole? Di quanti sono perfettamente libero e cosciente? Gli atti dunque di cui non ho piena coscienza e piena responsabilità sono atti dell'uomo perché sono atti compiuti da un uomo, ma non sono atti umani perché non sono investiti, trasfigurati dall'intimo da questa responsabilità piena che è propria dell'uomo come spirito. L'uomo è veramente uomo quando tutte le sue attività promanano da lui non come animale, dalle sue potenze soltanto animali, ma anche in quanto è lo spirito suo che le dirige, che le vuole e dà loro un contenuto. Per questo tanto più l'uomo è uomo quanto più è responsabile di tutti gli atti che compie.
Per la massima parte gli uomini sono portati via, così, dai loro istinti; non si impegnano mai, non riflettono, non c'è mai in loro un esercizio di volontà vera. Quanti sono gli uomini che si lasciano vivere in questo modo! E non fanno del male: la vita animale non è una vita peccaminosa, è vita animale. Il peccato implica la vita umana perché per fare un peccato ci vuole la piena coscienza di quello che si fa. Ci può essere la responsabilità in radice, ma fino ad un certo punto, perché se uno rimane sempre un bambino sul piano morale, non acquista nemmeno il senso di una sua responsabilità di essere promosso ad essere uomo.
In fondo è così per la massima parte degli uomini; non è che non compiano mai un atto umano: prima o poi lo compiono, ed è quello che li salva o li perde; ma in massima parte gli uomini rimangono bambini. E vanno in Paradiso, magari attraverso il Purgatorio, ma ci vanno. Ma quanto più l'uomo diviene uomo, tanto più diviene consapevole dei suoi atti, e tanto più cresce il rischio della sua salvezza, ma cresce anche la possibilità di una sua santificazione. La santità è il puro consumare di tutto l'uomo in una vita spirituale pura. Ecco la preghiera pura. È l'uomo che consuma tutto senza più nessuna opacità, senza più nessuna passività nei confronti del temperamento, dell'ereditarietà, degli automatismi animali dell'essere. Di tutto quello che fa è pienamente cosciente, egli ha piena padronanza di sé. È la piena libertà che l'uomo ha conquistato. E proprio per questo la perfezione umana si unisce alla perfezione della santità e si può unire alla perversione totale.
In Solov'ëv l'Anticristo è un uomo perfetto: proprio perché l'uomo è perfetto può essere anche perfettamente demonio. La vita spirituale più intensa, più alta è quella che rende possibile la vita di santità più luminosa come la vita di perversione più assoluta.
Essendo allora pienamente responsabile e cosciente di sé, l'uomo ha la libertà di ordinarsi pienamente a Dio o a se stesso, di donarsi all'amore divino o di rifiutarsi a questo amore nell'orgoglio che lo chiude in se stesso. Cioè il crescere in questa vita spirituale porta sempre con sé un rischio, rischio che diviene sempre più grave via via che scegliamo. L'ambiguità della vita umana è tutta qui. Per coloro che vivono una vita animale c'è meno rischio perché c'è meno possibilità di andare a destra o a sinistra: tutto è pura passività. In questa passività però Dio ha innestato la sua grazia: infatti i bambini hanno ricevuto il Battesimo e si salvano anche se sono incapaci di atti umani. E questi bambini che rimangono bambini anche da grandi, vanno in Paradiso lo stesso. Per questo c'è da pensare che la massima parte degli uomini si salvi. Invece per coloro che emergono il pericolo cresce, come cresce però anche la possibilità di una santificazione, di una trasfigurazione in Dio.
La vita spirituale totale l'uomo non può viverla che in Dio, perché l'intelligenza e la volontà non possono essere attuate che da Dio stesso: da Dio come somma verità l'intelligenza; da Dio come supremo bene la volontà. Di qui deriva che in fondo, l'atto supremo dell'essere, l'uomo non lo può compiere senza la grazia. Fino ad un certo punto, dunque, può giungere a sottrarsi a Dio: quando fosse pienamente attuato in tutte le sue possibilità umane, non potrebbe essere attuato che da Dio. E l'atto supremo dell'essere umano, allora, non potrà essere che preghiera, cioè adesione a Dio come verità e come bene.
Questa adesione a Dio come bene e come verità è l'atto di contemplazione pura, quello che l'Oriente chiama la preghiera pura. Che non è - si badi bene - una conoscenza di Dio razionale, successiva, attraverso un ragionamento: è pura intuizione. E non è nemmeno adesione della volontà a Dio attraverso uno sforzo: è, si direbbe, quasi pura identificazione con questo bene divino. Tanto la volontà divina si unisce al bene sommo che la conformità della volontà creata con la volontà increata diviene quasi assoluta. Si tratta di conformità e non di identità, perché rimane sempre una conformità, cioè un aderire. Può essere conformità assoluta, ma è conformità, non identità. La creatura rimane creatura e Dio rimane Creatore.
Ora, il cammino della vita spirituale è un cammino pericoloso, un cammino di supremo rischio. Ma è un cammino che porta l'essere umano sempre più ad attuarsi in una vita che è auto-coscienza, che è libertà. Voi vedete anche in San Paolo, nella Lettera ai Romani, che quello che distingue la vita religiosa di Israele nei confronti del Cristianesimo è il fatto che noi non siamo sotto la legge: la legge del cristiano è la libertà. E anche il Concilio Ecumenica Vaticano II nei suoi decreti ha dimostrato una fiducia estrema nell'uomo. Finora si vedeva l'uomo ancora, in qualche modo, sotto l'Antico Testamento: l'Indice, ecc. Certe cose dimostrano che eravamo sotto tutela.
Ora non siamo più sotto tutela e gli uomini non sanno più cosa fare. Non siamo abituati alla libertà. La vita cristiana esige sempre un esercizio di maggiore libertà. A un certo momento quello che è legge deve finire. Via via che l'uomo diviene uomo egli è chiamato ad agire secondo la propria coscienza. L'obbedienza a Dio è obbedire a noi stessi nella misura appunto che noi procediamo. In Paradiso l'amore abolisce la legge, ma anche quaggiù l'uomo che diviene uomo deve essere capace da se stesso di "prendere il giogo della legge", come dicevano gli antichi Israeliti. Gli uomini stessi devono rendersi conto di quello che può imporre una vita religiosa, nei confronti di Dio e degli uomini. Cosicché le prescrizioni della Chiesa diverranno sempre più rispettose del nostro essere umano. Però tutto questo ci lascia un po' perplessi e sconcertati. È come uno che è abituato ad essere sorretto dalla mano della mamma e deve camminare da solo: incespica e cade. Però, camminare da solo, anche se cade, è sempre meglio che andare portato dalla mano della mamma. E questo avverrà sempre di più.
L'uomo che diviene uomo non è più sotto la legge e agisce sempre più con piena coscienza. Deve essere adulto. Deve saper da sé cosa Dio gli chiede e in che modo rispondere a Dio. E la risposta dell'uomo sarà sempre diversa. Fino ad oggi, proprio perché eravamo bambini, il fare il venerdì voleva dire per tutti una medesima cosa. Ed era una cosa stupida, perché per uno il mangiar pesce poteva essere davvero una mortificazione, mentre per un altro poteva essere un pranzo prelibato. L'uomo deve fare da sé perché se subentra una legge tu scagli sul legislatore la tua responsabilità e ti attieni soltanto ad un'obbedienza passiva. Invece ora per ciascuno si impone una cosa diversa. Per uno il fare il venerdì vorrà dire non andare al cinema, per un altro portare il cilicio: per ognuno una cosa diversa perché in ognuno la legge divina nel cuore agisce in modo diverso secondo il grado di grazia che l'uomo ha raggiunto. Quale legge può essere valevole per tutti dal momento che siamo tutti diversi? Si deve rispondere a Dio e Dio non parla lo stesso linguaggio a due anime.
Ecco la libertà dell'anima, il crescere dell'anima. Com'è faticoso però! È faticoso essere uomini. E sarà sempre più faticoso essere cristiani. Finora consisteva nell'andar a Messa la domenica, nel far la Comunione per Pasqua, ed era tutto a posto. Quando avevi osservato i precetti della Chiesa e Comandamenti di Dio eri a posto. Ma i Comandamenti non sono la vita cristiana: sono soltanto la condizione per vivere. Perché sono un non-fare, ma cosa devi fare non te lo dicono. E invece il Cristianesimo è un fare, la legge cristiana è tutta positiva: è amare. Sicché non può consistere nel non fare. E nessuno può parlare un linguaggio uguale all'altro, per nessuno vale la legge che vale per l'altro. La legge rimane interiore. Tu certo non puoi rubare, non puoi fornicare, ma quando hai fatto questo hai obbedito ai Comandamenti di Dio? No, perché il comandamento di Dio è positivo: consiste nell'amare. Cosa vuol dire per te amare Dio, amare il prossimo? Tu solo lo sai, nella misura che sei diventato uomo, nella misura che sei cristiano.
Questo per quanto riguarda i Comandamenti di Dio. Per quanto riguarda i precetti della Chiesa è lo stesso; saranno tolti tutti, probabilmente, con l'andar del tempo, perché l'uomo diviene uomo, cioè non è più sotto tutela, non è più sotto la legge, è sotto la libertà. Cosa vorrà dire questo? Che impresa! È più facile, più sicuro, siamo più garantiti se c'è un altro che risponde per noi. Ma è giusto che un altro risponda per noi? Non è giusto che la Chiesa risponda per noi. Ognuno deve prendere il proprio peso e andare avanti.
Pensate un po' come erano buffe le cose nei tempi passati: un qualunque studente di liceo andava in Curia e si faceva dare il permesso di leggere i libri proibiti e ne leggeva fin che voleva. San Pietro Canisio, il più grande Dottore della Chiesa contro i protestanti, non ha mai avuto il permesso di leggere i libri proibiti! E l'uomo si sentiva sicuro perché la Chiesa si assumeva le responsabilità per il liceale e non le assumeva per quell'altro a cui non dava il permesso. Ora ciascuno deve rispondere da se stesso.
"Ma non sappiamo allora quando si fa peccato e quando non si fa peccato!". Precisamente. È questo che vuol dire essere uomini. Perché nessuno te lo può dire dal di fuori, devi essere tu a saperlo nella misura che tu ti opponi alla legge divina che vive nel tuo cuore, che tu senti di andare contro quello che Dio ti suggerisce.
Ecco perché mentre i cristiani mediocri esaminano la loro coscienza alla luce di un libretto nel quale c'è scritto: "Ho ascoltato la Messa tutte le domeniche? Ho fatto vigilia al venerdì?" il santo invece si mette di fronte a Dio, vede la sua anima alla luce di Dio; e quello che per un semplice cristiano può sembrare soltanto uno scrupolo diviene per il santo un peccato enorme. Chi può giudicare? Ognuno è giudicato solo da Dio. E l'anima deve mettersi nella luce di Dio per subire questo giudizio.
È un'impresa difficile essere cristiani, estremamente difficile! Quanto era meglio se la Chiesa ci trattava un po' più come bambini! Invece non siamo più bambini. Già il Concilio ci ha un po' sconcertato con le sue riforme, ma probabilmente, quanto più si va avanti più sarà così, tanto più il Papa assisterà senza intervenire. Già ora c'è questo smarrimento delle coscienze perché si è data una maggiore libertà agli uomini, non perché la esercitino nei confronti di Dio, ma perché se ne servano proprio per legarsi a Dio, per rispondere a Lui.
Non so se gli uomini sono abbastanza maturi per accettare questa libertà. Avete presente il "Grande Inquisitore" nei Fratelli Karamazoff? Ivan si ribella contro Dio perché Dio ha imposto all'uomo un carico che l'uomo non sopporta.quale? quello della libertà.
"Noi - dice l'Inquisitore al Cristo che gli appare - finalmente abbiamo corretto l'opera tua. Tu avevi addossato all'uomo il peso terribile della sua libertà, ma noi glielo abbiamo tolto. Noi gli provvediamo il pane, gli provvediamo tutto, e gli diciamo: Fai così! E l'uomo si sente sicuro e ci ringrazia e dice: Oh Santa Chiesa di Dio quanto sei bella!".
Quante sono le anime che si sentivano tranquille di essere cristiane perché osservavano il venerdì! Ora i cristiani non possono più sentirsi tranquilli. È il peso della nostra libertà che dobbiamo portare. Il crescere nella vita cristiana implica sempre uno spazio maggiore di libertà. Il santo può arrivare veramente come Sant'Antonio Abate, a non fare più la Pasqua, a non ascoltare più la Messa... Non credo che noi arriveremo a questo... comunque, è vero che quanto più progrediamo tanto più il peso della nostra libertà diventerà grave, cioè tanto più dovremo assumerci in pieno, personalmente, la responsabilità di ogni nostra azione, nei confronti dei fratelli, nei confronti della Chiesa, nei confronti di Dio.
Pensate cosa ha chiesto Dio a una bambino come Santa Giovanna d'Arco! Di andar contro i vescovi, di essere ferma per essere fedele a Dio contro tutti i vescovi, gli inquisitori, i sacerdoti... Un momento di debolezza l'ha avuto, e ha firmato, ma poi ha ritrattato la sua firma, e per questo è santa: perché ha accettato di morire come eretica, come scomunicata, come strega, come perversa. L'uomo deve rispondere soltanto a Dio. Certo che Dio non lo metterà mai contro la Chiesa: anche Giovanna d'Arco non va contro la Chiesa di Roma, e infatti la malvagità dei suoi giudici è stata quella di non aver voluto accettare il suo ricorso alla suprema sede.
E lo stesso accadde con Tommaso Moro: contro tutti i teologi e contro tutti i vescovi di Inghilterra, lui, laico, si assume la sua responsabilità, e non solo muore, ma manda sul lastrico la sua famiglia (aveva 14 figli). La fedeltà a Dio, alla propria coscienza!
Essere cristiani vuol dire questo; vuol dire crescere nella libertà interiore, crescere nel senso di responsabilità nei confronti dei nostri atti: responsabilità nostra nei confronti di Dio, della Chiesa, degli uomini. Non ti puoi riposare. Una certa tutela si ammette sempre, per gli uomini quaggiù: la tutela suprema sarà Roma; ma tu puoi anche affrontare la scomunica semplice per seguire la tua coscienza. La scomunica maggiore no, secondo i teologi, perché lì interviene lo Spirito Santo, che fa coincidere la suprema tua libertà con l'autorità. Cioè, l'uomo non elimina mai la tutela della legge, la tutela di un'obbedienza suprema: l'obbedienza al vertice. Può esserti chiesto veramente di assumerti la tua responsabilità nei confronti di tutto e di tutti. Libertà che cresce, senso di responsabilità che cresce nell'anima. Ecco tutta la vita spirituale.
Non siamo davanti che a Dio solo. Non siamo di fronte ad un legislatore che parla dal di fuori: siamo di fronte a Dio, ma Dio ci parla nel più intimo di noi stessi. Mai - notatelo bene, mai - la Chiesa sostituisce questo foro interno in cui Dio parla a ciascuno. Noi dobbiamo credere che in suprema istanza il foro della coscienza coinciderà sempre con la Chiesa visibile, ma mai la Chiesa visibile potrà sostituire il foro interno. Ecco il senso della dichiarazione della libertà data dal Concilio Vaticano II, che del resto è giustificata già da un grande teologo, che pure sembra così contrario a questo pensiero: San Roberto Bellarmino; che cioè l'uomo deve, per essere ubbidiente a Dio, lasciare anche la Chiesa se questo è nella sua coscienza.
Perché in ultima istanza l'uomo si trova davanti a Dio e il suo atto deve essere maturato soltanto in rapporto a Dio che gli parla dentro. Noi sappiamo che per i cattolici questo coinciderà sempre con la Chiesa visibile, ma alcune volte soltanto con l'autorità suprema, e forse neanche con questa, nel senso che questa autorità suprema ci lascerà nel silenzio, non vorrà intervenire. Può darsi che per obbedire a Dio tu debba, non ribellarti al tuo vescovo, ma sfuggire alla sua autorità, come hanno dovuto fare certe fondatrici di ordini religiosi.
Per questo non si può mai giudicare, perché noi possiamo giudicare in base a delle norme oggettive, in base ad un codice, ma come si fa a giudicare in base ad una legge che è Dio stesso vivente nel cuore e che può vivere più in te che in me, più in me che in te?
Che cosa grande la vita spirituale! Ogni anima ha un destino unico, ogni anima è sola davanti a Dio. E questo è importantissimo per noi; perché voi credete di aver fatto tutto quando avete adempiuto al regolamento... ma non è nulla di tutto questo. È una premessa, una condizione per vivere, come i Comandamenti di Dio. Bisogna leggere la Sacra Scrittura, dire l'Ufficio, ecc., ma come tu devi dire l'Ufficio, come devi leggere la Sacra Scrittura e ascoltare Dio attraverso questa lettura, tu solo lo sai; come devi rispondere a Dio che ti sollecita intimamente, tu solo lo sai, e nessuno può intervenire a rassicurarti, a dire "va bene così", perché può darsi che non vada assolutamente bene così, anche se tu fai tutto, anche se agli altri puoi apparire come un modello. Tu solo lo sai,, se ti poni di fronte a Dio, se ascolti Dio che ti parla nel cuore.
È importante per la nostra vita spirituale renderci conto che non si può mai trasformare la vita religiosa in una morale. La vita religiosa è un rapporto con Dio, con un Dio vivente, e questo rapporto tende a divenire sempre più intimo, più profondo, e non può divenire né più intimo né più profondo se non ti trasporta da una vita animale a una vita umana, da una vita umana a una vita angelica, cioè puramente spirituale, in cui tutta la vita è pura coscienza, pura libertà, puro senso di responsabilità interiore.
Quanto più l'anima vive un rapporto con Dio che è somma libertà, tanto più diviene anch'essa libertà. Ed ecco perché per il santo non vi è più legge, come dice San Paolo e ripete San Giovanni della Croce; ecco perché per il santo non vi è altra legge che la sua libertà, dal momento che nel santo non vive più che l'amore. Amore che implica il superamento di ogni passività, perché è nell'amore che l'anima vive e realizza totalmente se stessa. Non subisce nulla: si dona. È l'amore che ci realizza. Per questo, se la legge dell'uomo è soltanto l'amore, l'uomo ora non è più sotto nessuna legge: deve soltanto amare, cioè deve aprirsi come un fiore si apre alla luce; deve gettare profumo come un fiore che per il fatto che si apre alla luce manda profumo. Così il santo.
È pura spontaneità animale? No. Vedete, gli estremi si congiungono: c'è la vita puramente animale dell'uomo che non è emerso a nessuna vita spirituale, e questa è puramente vita istintiva; gli uomini che rimangono bambini fino alla morte. Il santo ugualmente vive la pura libertà, ma non è la libertà animale, non l'innocenza dell'animale: è l'innocenza di un amore che è aldilà di ogni legge. Non vive più nemmeno il libero arbitrio perché non ha più da scegliere. Pura effusione di luce, tutta la vita non è che dono di sé. Non tare nulla a sé: pura effusione, puro dono. Egli non vive che la libertà stessa di Dio. Dio non ha legge: Egli è l'Amore; e il santo ugualmente non conosce più legge: ama. È superato il libero arbitrio, che importa una scelta; è superato nella pienezza di una libertà che implica di per sé il superamento di ogni opacità e di ogni possibilità di scelta. È un'adesione pura, totale dell'essere a Dio, come quella dei santi nel Cielo.
Ma anche se l'uomo non giunge mai a questo, quaggiù sulla terra, però sempre più si avvicina. Ed ecco perché San Francesco scrive a frate Leone: "Se tu vuoi venire e vuoi la mia obbedienza per venire, vieni". Cioè il santo non deve fare che la sua volontà perché la sua volontà, ora, è perfettamente conforme alla volontà divina; non ha altra cosa che la realizzi se non la sua adesione a questa volontà.
Fino alla fine del 1800 si poteva pensare che l'uomo fosse un essere che quasi totalmente emergeva nella luce: soltanto qualche piccolo angolo dell'essere suo rimaneva nell'ombra, ma tutto l'essere umano era un essere di luce, un essere cioè pienamente cosciente di sé, pienamente responsabile dei suoi atti. Nel 1900, prima Freud e poi Jung ci hanno insegnato che in realtà quello che dobbiamo pensare dell'uomo è il contrario. Ed è vero quello che essi ci dicono, almeno riguardo a questo: che cioè l'uomo si trova in massima parte sommerso nell'inconscio e nel subconscio; tutte le sue azioni hanno un carattere, direi, non libero, ma determinato e dall'ereditarietà e dal temperamento e da fattori biologici e fisici. Tutto è quasi sommerso nell'animalità, se vogliamo usare questo termine. soltanto il vertice della sua anima emerge, e la fatica che l'uomo deve compiere perché tutto quello che è inconscio divenga pura luce, pura coscienza, pura responsabilità, è quello che lo realizza. Vivere, per noi, vuol dire divenire uomini; e divenire uomini significa emergere da questa melma, da questa ombra, emergere da questo fango, risalire. Però il salire nella luce è un'impresa gigantesca. Non ci rendiamo conto di quanto siamo giocati dai nostri istinti, di quanto siamo in qualche modo determinati (in qualche modo, non totalmente) dalla nostra educazione, dall'ambiente nel quale viviamo, dai nostri antenati, dal nostro temperamento, dalla nostra salute e dai nostri atti precedenti.
L'emersione del nostro spirito da questo mare impone all'anima uno sforzo gigantesco. E molto spesso l'uomo non lo fa. Si deve dire, al contrario, che in massima parte gli uomini continuano a vivere quasi sommersi.
Il cammino dell'uomo per essere uomo è in gran parte anche il cammino dell'uomo per essere figlio di Dio. L'emersione dell'uomo verso la sua umanità e l'emersione dell'uomo verso la sua vocazione soprannaturale, in qualche modo, almeno per un certo tratto, vanno di pari passo. Coincidono. Si può dire a questo proposito che la vita religiosa sia uno dei mezzi più universali di promozione umana. Fino ad oggi - e sarà così fino alla fine del mondo - in massima parte gli uomini diverranno uomini non attraverso la filosofia o la psicologia o la medicina o la psichiatria, ma soltanto attraverso la religione. E probabilmente la massima parte delle malattie si potrebbe guarire proprio attraverso un processo religioso, proprio perché un processo religioso non soltanto avvicina l'uomo a Dio, ma porta l'uomo ad essere uomo.
La promozione dell'uomo da animale a uomo, fino ad un certo punto del cammino va di pari passo con la promozione dell'uomo dall'essere di natura alla grazia. D'altra parte dobbiamo anche renderci conto che gli altri strumenti che l'uomo può usare per divenire uomo sono sempre strumenti inefficaci. Cioè, lo psicanalista, lo psicologo, ecc. non avranno mai l'efficacia che ha un sacerdote. Perché? Perché l'uomo nel suo mistero non è comprensibile e non è compreso che nel piano religioso. Gli altri piani - cultura, sanità mentale, sanità fisica - riguardano soltanto un settore della sua vita. La sanità totale dell'uomo non può essere realizzata che in un processo onde egli risponde alla sua vocazione prima, alla sua vocazione essenziale, che è una vocazione religiosa.
Si può dire dunque che di fatto, tranne pochissime eccezioni, gli uomini sono realizzati in una vita religiosa. E quello che dico, in fondo, trova una giustificazione nella teologia, la quale insegna che il peccato originale ha disgregato e la grazia, prima ancora di divinizzarci, ci risana; la grazia prima ancora che elevarci a Dio ci rifà uomini, ci ristabilisce in una perfetta sanità e unità.
Il nostro cammino verso Dio va di pari passo col nostro cammino ad essere veramente uomini che cosa vuol dire essere uomini? Vuol dire che sempre più lo spirito umano investe dall'intimo tutta la natura umana, anche corporea, in tal modo che non sfugga più alla coscienza e alla responsabilità dell'uomo nessuna sua attività, ma ogni suo atto sia penetrato di spirito, cioè in ogni suo atto l'uomo sia cosciente e pienamente responsabile: cosa che non avviene quasi mai. Su milioni di atti che compiamo ogni giorno solo poche migliaia sono atti umani e di questi pochissimi sono atti squisitamente religiosi. Quando sarà che tutti questi milioni di atti dell'uomo saranno atti umani? E qui bisogna che spieghi che cosa intendo per atto dell'uomo e che cosa per atto umano.
Atto dell'uomo è qualunque atto che compia un uomo, anche se lo compie dormendo, anche se lo compie inconsapevolmente; sono quegli atti che si possono compiere per puro automatismo, per pura abitudine, senza che l'anima veramente rifletta sull'atto, veramente lo voglia, veramente sia libera e si determini a compierlo. Quanti atti compio mentre parlo, con le mani, col viso, con la bocca con gli occhi! Ma di quanti sono consapevole? Di quanti sono perfettamente libero e cosciente? Gli atti dunque di cui non ho piena coscienza e piena responsabilità sono atti dell'uomo perché sono atti compiuti da un uomo, ma non sono atti umani perché non sono investiti, trasfigurati dall'intimo da questa responsabilità piena che è propria dell'uomo come spirito. L'uomo è veramente uomo quando tutte le sue attività promanano da lui non come animale, dalle sue potenze soltanto animali, ma anche in quanto è lo spirito suo che le dirige, che le vuole e dà loro un contenuto. Per questo tanto più l'uomo è uomo quanto più è responsabile di tutti gli atti che compie.
Per la massima parte gli uomini sono portati via, così, dai loro istinti; non si impegnano mai, non riflettono, non c'è mai in loro un esercizio di volontà vera. Quanti sono gli uomini che si lasciano vivere in questo modo! E non fanno del male: la vita animale non è una vita peccaminosa, è vita animale. Il peccato implica la vita umana perché per fare un peccato ci vuole la piena coscienza di quello che si fa. Ci può essere la responsabilità in radice, ma fino ad un certo punto, perché se uno rimane sempre un bambino sul piano morale, non acquista nemmeno il senso di una sua responsabilità di essere promosso ad essere uomo.
In fondo è così per la massima parte degli uomini; non è che non compiano mai un atto umano: prima o poi lo compiono, ed è quello che li salva o li perde; ma in massima parte gli uomini rimangono bambini. E vanno in Paradiso, magari attraverso il Purgatorio, ma ci vanno. Ma quanto più l'uomo diviene uomo, tanto più diviene consapevole dei suoi atti, e tanto più cresce il rischio della sua salvezza, ma cresce anche la possibilità di una sua santificazione. La santità è il puro consumare di tutto l'uomo in una vita spirituale pura. Ecco la preghiera pura. È l'uomo che consuma tutto senza più nessuna opacità, senza più nessuna passività nei confronti del temperamento, dell'ereditarietà, degli automatismi animali dell'essere. Di tutto quello che fa è pienamente cosciente, egli ha piena padronanza di sé. È la piena libertà che l'uomo ha conquistato. E proprio per questo la perfezione umana si unisce alla perfezione della santità e si può unire alla perversione totale.
In Solov'ëv l'Anticristo è un uomo perfetto: proprio perché l'uomo è perfetto può essere anche perfettamente demonio. La vita spirituale più intensa, più alta è quella che rende possibile la vita di santità più luminosa come la vita di perversione più assoluta.
Essendo allora pienamente responsabile e cosciente di sé, l'uomo ha la libertà di ordinarsi pienamente a Dio o a se stesso, di donarsi all'amore divino o di rifiutarsi a questo amore nell'orgoglio che lo chiude in se stesso. Cioè il crescere in questa vita spirituale porta sempre con sé un rischio, rischio che diviene sempre più grave via via che scegliamo. L'ambiguità della vita umana è tutta qui. Per coloro che vivono una vita animale c'è meno rischio perché c'è meno possibilità di andare a destra o a sinistra: tutto è pura passività. In questa passività però Dio ha innestato la sua grazia: infatti i bambini hanno ricevuto il Battesimo e si salvano anche se sono incapaci di atti umani. E questi bambini che rimangono bambini anche da grandi, vanno in Paradiso lo stesso. Per questo c'è da pensare che la massima parte degli uomini si salvi. Invece per coloro che emergono il pericolo cresce, come cresce però anche la possibilità di una santificazione, di una trasfigurazione in Dio.
La vita spirituale totale l'uomo non può viverla che in Dio, perché l'intelligenza e la volontà non possono essere attuate che da Dio stesso: da Dio come somma verità l'intelligenza; da Dio come supremo bene la volontà. Di qui deriva che in fondo, l'atto supremo dell'essere, l'uomo non lo può compiere senza la grazia. Fino ad un certo punto, dunque, può giungere a sottrarsi a Dio: quando fosse pienamente attuato in tutte le sue possibilità umane, non potrebbe essere attuato che da Dio. E l'atto supremo dell'essere umano, allora, non potrà essere che preghiera, cioè adesione a Dio come verità e come bene.
Questa adesione a Dio come bene e come verità è l'atto di contemplazione pura, quello che l'Oriente chiama la preghiera pura. Che non è - si badi bene - una conoscenza di Dio razionale, successiva, attraverso un ragionamento: è pura intuizione. E non è nemmeno adesione della volontà a Dio attraverso uno sforzo: è, si direbbe, quasi pura identificazione con questo bene divino. Tanto la volontà divina si unisce al bene sommo che la conformità della volontà creata con la volontà increata diviene quasi assoluta. Si tratta di conformità e non di identità, perché rimane sempre una conformità, cioè un aderire. Può essere conformità assoluta, ma è conformità, non identità. La creatura rimane creatura e Dio rimane Creatore.
Ora, il cammino della vita spirituale è un cammino pericoloso, un cammino di supremo rischio. Ma è un cammino che porta l'essere umano sempre più ad attuarsi in una vita che è auto-coscienza, che è libertà. Voi vedete anche in San Paolo, nella Lettera ai Romani, che quello che distingue la vita religiosa di Israele nei confronti del Cristianesimo è il fatto che noi non siamo sotto la legge: la legge del cristiano è la libertà. E anche il Concilio Ecumenica Vaticano II nei suoi decreti ha dimostrato una fiducia estrema nell'uomo. Finora si vedeva l'uomo ancora, in qualche modo, sotto l'Antico Testamento: l'Indice, ecc. Certe cose dimostrano che eravamo sotto tutela.
Ora non siamo più sotto tutela e gli uomini non sanno più cosa fare. Non siamo abituati alla libertà. La vita cristiana esige sempre un esercizio di maggiore libertà. A un certo momento quello che è legge deve finire. Via via che l'uomo diviene uomo egli è chiamato ad agire secondo la propria coscienza. L'obbedienza a Dio è obbedire a noi stessi nella misura appunto che noi procediamo. In Paradiso l'amore abolisce la legge, ma anche quaggiù l'uomo che diviene uomo deve essere capace da se stesso di "prendere il giogo della legge", come dicevano gli antichi Israeliti. Gli uomini stessi devono rendersi conto di quello che può imporre una vita religiosa, nei confronti di Dio e degli uomini. Cosicché le prescrizioni della Chiesa diverranno sempre più rispettose del nostro essere umano. Però tutto questo ci lascia un po' perplessi e sconcertati. È come uno che è abituato ad essere sorretto dalla mano della mamma e deve camminare da solo: incespica e cade. Però, camminare da solo, anche se cade, è sempre meglio che andare portato dalla mano della mamma. E questo avverrà sempre di più.
L'uomo che diviene uomo non è più sotto la legge e agisce sempre più con piena coscienza. Deve essere adulto. Deve saper da sé cosa Dio gli chiede e in che modo rispondere a Dio. E la risposta dell'uomo sarà sempre diversa. Fino ad oggi, proprio perché eravamo bambini, il fare il venerdì voleva dire per tutti una medesima cosa. Ed era una cosa stupida, perché per uno il mangiar pesce poteva essere davvero una mortificazione, mentre per un altro poteva essere un pranzo prelibato. L'uomo deve fare da sé perché se subentra una legge tu scagli sul legislatore la tua responsabilità e ti attieni soltanto ad un'obbedienza passiva. Invece ora per ciascuno si impone una cosa diversa. Per uno il fare il venerdì vorrà dire non andare al cinema, per un altro portare il cilicio: per ognuno una cosa diversa perché in ognuno la legge divina nel cuore agisce in modo diverso secondo il grado di grazia che l'uomo ha raggiunto. Quale legge può essere valevole per tutti dal momento che siamo tutti diversi? Si deve rispondere a Dio e Dio non parla lo stesso linguaggio a due anime.
Ecco la libertà dell'anima, il crescere dell'anima. Com'è faticoso però! È faticoso essere uomini. E sarà sempre più faticoso essere cristiani. Finora consisteva nell'andar a Messa la domenica, nel far la Comunione per Pasqua, ed era tutto a posto. Quando avevi osservato i precetti della Chiesa e Comandamenti di Dio eri a posto. Ma i Comandamenti non sono la vita cristiana: sono soltanto la condizione per vivere. Perché sono un non-fare, ma cosa devi fare non te lo dicono. E invece il Cristianesimo è un fare, la legge cristiana è tutta positiva: è amare. Sicché non può consistere nel non fare. E nessuno può parlare un linguaggio uguale all'altro, per nessuno vale la legge che vale per l'altro. La legge rimane interiore. Tu certo non puoi rubare, non puoi fornicare, ma quando hai fatto questo hai obbedito ai Comandamenti di Dio? No, perché il comandamento di Dio è positivo: consiste nell'amare. Cosa vuol dire per te amare Dio, amare il prossimo? Tu solo lo sai, nella misura che sei diventato uomo, nella misura che sei cristiano.
Questo per quanto riguarda i Comandamenti di Dio. Per quanto riguarda i precetti della Chiesa è lo stesso; saranno tolti tutti, probabilmente, con l'andar del tempo, perché l'uomo diviene uomo, cioè non è più sotto tutela, non è più sotto la legge, è sotto la libertà. Cosa vorrà dire questo? Che impresa! È più facile, più sicuro, siamo più garantiti se c'è un altro che risponde per noi. Ma è giusto che un altro risponda per noi? Non è giusto che la Chiesa risponda per noi. Ognuno deve prendere il proprio peso e andare avanti.
Pensate un po' come erano buffe le cose nei tempi passati: un qualunque studente di liceo andava in Curia e si faceva dare il permesso di leggere i libri proibiti e ne leggeva fin che voleva. San Pietro Canisio, il più grande Dottore della Chiesa contro i protestanti, non ha mai avuto il permesso di leggere i libri proibiti! E l'uomo si sentiva sicuro perché la Chiesa si assumeva le responsabilità per il liceale e non le assumeva per quell'altro a cui non dava il permesso. Ora ciascuno deve rispondere da se stesso.
"Ma non sappiamo allora quando si fa peccato e quando non si fa peccato!". Precisamente. È questo che vuol dire essere uomini. Perché nessuno te lo può dire dal di fuori, devi essere tu a saperlo nella misura che tu ti opponi alla legge divina che vive nel tuo cuore, che tu senti di andare contro quello che Dio ti suggerisce.
Ecco perché mentre i cristiani mediocri esaminano la loro coscienza alla luce di un libretto nel quale c'è scritto: "Ho ascoltato la Messa tutte le domeniche? Ho fatto vigilia al venerdì?" il santo invece si mette di fronte a Dio, vede la sua anima alla luce di Dio; e quello che per un semplice cristiano può sembrare soltanto uno scrupolo diviene per il santo un peccato enorme. Chi può giudicare? Ognuno è giudicato solo da Dio. E l'anima deve mettersi nella luce di Dio per subire questo giudizio.
È un'impresa difficile essere cristiani, estremamente difficile! Quanto era meglio se la Chiesa ci trattava un po' più come bambini! Invece non siamo più bambini. Già il Concilio ci ha un po' sconcertato con le sue riforme, ma probabilmente, quanto più si va avanti più sarà così, tanto più il Papa assisterà senza intervenire. Già ora c'è questo smarrimento delle coscienze perché si è data una maggiore libertà agli uomini, non perché la esercitino nei confronti di Dio, ma perché se ne servano proprio per legarsi a Dio, per rispondere a Lui.
Non so se gli uomini sono abbastanza maturi per accettare questa libertà. Avete presente il "Grande Inquisitore" nei Fratelli Karamazoff? Ivan si ribella contro Dio perché Dio ha imposto all'uomo un carico che l'uomo non sopporta.quale? quello della libertà.
"Noi - dice l'Inquisitore al Cristo che gli appare - finalmente abbiamo corretto l'opera tua. Tu avevi addossato all'uomo il peso terribile della sua libertà, ma noi glielo abbiamo tolto. Noi gli provvediamo il pane, gli provvediamo tutto, e gli diciamo: Fai così! E l'uomo si sente sicuro e ci ringrazia e dice: Oh Santa Chiesa di Dio quanto sei bella!".
Quante sono le anime che si sentivano tranquille di essere cristiane perché osservavano il venerdì! Ora i cristiani non possono più sentirsi tranquilli. È il peso della nostra libertà che dobbiamo portare. Il crescere nella vita cristiana implica sempre uno spazio maggiore di libertà. Il santo può arrivare veramente come Sant'Antonio Abate, a non fare più la Pasqua, a non ascoltare più la Messa... Non credo che noi arriveremo a questo... comunque, è vero che quanto più progrediamo tanto più il peso della nostra libertà diventerà grave, cioè tanto più dovremo assumerci in pieno, personalmente, la responsabilità di ogni nostra azione, nei confronti dei fratelli, nei confronti della Chiesa, nei confronti di Dio.
Pensate cosa ha chiesto Dio a una bambino come Santa Giovanna d'Arco! Di andar contro i vescovi, di essere ferma per essere fedele a Dio contro tutti i vescovi, gli inquisitori, i sacerdoti... Un momento di debolezza l'ha avuto, e ha firmato, ma poi ha ritrattato la sua firma, e per questo è santa: perché ha accettato di morire come eretica, come scomunicata, come strega, come perversa. L'uomo deve rispondere soltanto a Dio. Certo che Dio non lo metterà mai contro la Chiesa: anche Giovanna d'Arco non va contro la Chiesa di Roma, e infatti la malvagità dei suoi giudici è stata quella di non aver voluto accettare il suo ricorso alla suprema sede.
E lo stesso accadde con Tommaso Moro: contro tutti i teologi e contro tutti i vescovi di Inghilterra, lui, laico, si assume la sua responsabilità, e non solo muore, ma manda sul lastrico la sua famiglia (aveva 14 figli). La fedeltà a Dio, alla propria coscienza!
Essere cristiani vuol dire questo; vuol dire crescere nella libertà interiore, crescere nel senso di responsabilità nei confronti dei nostri atti: responsabilità nostra nei confronti di Dio, della Chiesa, degli uomini. Non ti puoi riposare. Una certa tutela si ammette sempre, per gli uomini quaggiù: la tutela suprema sarà Roma; ma tu puoi anche affrontare la scomunica semplice per seguire la tua coscienza. La scomunica maggiore no, secondo i teologi, perché lì interviene lo Spirito Santo, che fa coincidere la suprema tua libertà con l'autorità. Cioè, l'uomo non elimina mai la tutela della legge, la tutela di un'obbedienza suprema: l'obbedienza al vertice. Può esserti chiesto veramente di assumerti la tua responsabilità nei confronti di tutto e di tutti. Libertà che cresce, senso di responsabilità che cresce nell'anima. Ecco tutta la vita spirituale.
Non siamo davanti che a Dio solo. Non siamo di fronte ad un legislatore che parla dal di fuori: siamo di fronte a Dio, ma Dio ci parla nel più intimo di noi stessi. Mai - notatelo bene, mai - la Chiesa sostituisce questo foro interno in cui Dio parla a ciascuno. Noi dobbiamo credere che in suprema istanza il foro della coscienza coinciderà sempre con la Chiesa visibile, ma mai la Chiesa visibile potrà sostituire il foro interno. Ecco il senso della dichiarazione della libertà data dal Concilio Vaticano II, che del resto è giustificata già da un grande teologo, che pure sembra così contrario a questo pensiero: San Roberto Bellarmino; che cioè l'uomo deve, per essere ubbidiente a Dio, lasciare anche la Chiesa se questo è nella sua coscienza.
Perché in ultima istanza l'uomo si trova davanti a Dio e il suo atto deve essere maturato soltanto in rapporto a Dio che gli parla dentro. Noi sappiamo che per i cattolici questo coinciderà sempre con la Chiesa visibile, ma alcune volte soltanto con l'autorità suprema, e forse neanche con questa, nel senso che questa autorità suprema ci lascerà nel silenzio, non vorrà intervenire. Può darsi che per obbedire a Dio tu debba, non ribellarti al tuo vescovo, ma sfuggire alla sua autorità, come hanno dovuto fare certe fondatrici di ordini religiosi.
Per questo non si può mai giudicare, perché noi possiamo giudicare in base a delle norme oggettive, in base ad un codice, ma come si fa a giudicare in base ad una legge che è Dio stesso vivente nel cuore e che può vivere più in te che in me, più in me che in te?
Che cosa grande la vita spirituale! Ogni anima ha un destino unico, ogni anima è sola davanti a Dio. E questo è importantissimo per noi; perché voi credete di aver fatto tutto quando avete adempiuto al regolamento... ma non è nulla di tutto questo. È una premessa, una condizione per vivere, come i Comandamenti di Dio. Bisogna leggere la Sacra Scrittura, dire l'Ufficio, ecc., ma come tu devi dire l'Ufficio, come devi leggere la Sacra Scrittura e ascoltare Dio attraverso questa lettura, tu solo lo sai; come devi rispondere a Dio che ti sollecita intimamente, tu solo lo sai, e nessuno può intervenire a rassicurarti, a dire "va bene così", perché può darsi che non vada assolutamente bene così, anche se tu fai tutto, anche se agli altri puoi apparire come un modello. Tu solo lo sai,, se ti poni di fronte a Dio, se ascolti Dio che ti parla nel cuore.
È importante per la nostra vita spirituale renderci conto che non si può mai trasformare la vita religiosa in una morale. La vita religiosa è un rapporto con Dio, con un Dio vivente, e questo rapporto tende a divenire sempre più intimo, più profondo, e non può divenire né più intimo né più profondo se non ti trasporta da una vita animale a una vita umana, da una vita umana a una vita angelica, cioè puramente spirituale, in cui tutta la vita è pura coscienza, pura libertà, puro senso di responsabilità interiore.
Quanto più l'anima vive un rapporto con Dio che è somma libertà, tanto più diviene anch'essa libertà. Ed ecco perché per il santo non vi è più legge, come dice San Paolo e ripete San Giovanni della Croce; ecco perché per il santo non vi è altra legge che la sua libertà, dal momento che nel santo non vive più che l'amore. Amore che implica il superamento di ogni passività, perché è nell'amore che l'anima vive e realizza totalmente se stessa. Non subisce nulla: si dona. È l'amore che ci realizza. Per questo, se la legge dell'uomo è soltanto l'amore, l'uomo ora non è più sotto nessuna legge: deve soltanto amare, cioè deve aprirsi come un fiore si apre alla luce; deve gettare profumo come un fiore che per il fatto che si apre alla luce manda profumo. Così il santo.
È pura spontaneità animale? No. Vedete, gli estremi si congiungono: c'è la vita puramente animale dell'uomo che non è emerso a nessuna vita spirituale, e questa è puramente vita istintiva; gli uomini che rimangono bambini fino alla morte. Il santo ugualmente vive la pura libertà, ma non è la libertà animale, non l'innocenza dell'animale: è l'innocenza di un amore che è aldilà di ogni legge. Non vive più nemmeno il libero arbitrio perché non ha più da scegliere. Pura effusione di luce, tutta la vita non è che dono di sé. Non tare nulla a sé: pura effusione, puro dono. Egli non vive che la libertà stessa di Dio. Dio non ha legge: Egli è l'Amore; e il santo ugualmente non conosce più legge: ama. È superato il libero arbitrio, che importa una scelta; è superato nella pienezza di una libertà che implica di per sé il superamento di ogni opacità e di ogni possibilità di scelta. È un'adesione pura, totale dell'essere a Dio, come quella dei santi nel Cielo.
Ma anche se l'uomo non giunge mai a questo, quaggiù sulla terra, però sempre più si avvicina. Ed ecco perché San Francesco scrive a frate Leone: "Se tu vuoi venire e vuoi la mia obbedienza per venire, vieni". Cioè il santo non deve fare che la sua volontà perché la sua volontà, ora, è perfettamente conforme alla volontà divina; non ha altra cosa che la realizzi se non la sua adesione a questa volontà.
Il
primo atto di Dio che si accosta all'uomo, il primo effetto della
grazia che lo raggiunge e lo tocca, è quello di dare all'uomo il
senso del proprio peccato. L'uomo senza la grazia non conosce nemmeno
se stesso, non sa nemmeno quale è il suo vero male.
Forse l'umanità non è giunta mai così in basso come oggi perché forse mai come oggi ha perduto il senso del proprio peccato. Non aveva il senso del proprio peccato nemmeno l'umanità al di fuori dell'Ebraismo e del Cristianesimo: c'era soltanto il senso di una colpa legale, non il vero senso del peccato, di una contaminazione interiore, di una opposizione a Dio. È stata la Redenzione del Cristo che ha dato agli uomini il senso di una loro colpa. E non è vero affatto che il dono della grazia implichi di per sé la diminuzione di questo senso; anzi, lo accresce. Quanto più uno è santo, tanto più si sente peccatore, perché nella luce divina tanto più realizza non solo la sproporzione che vi è fra la creatura e il Creatore, ma quella opposizione, sia pure istintiva, che vi è nella natura creata, dopo il primo peccato, nei confronti di Dio. Tutti noi, coma Adamo, come Caino, non facciamo che fuggire Dio. In ogni movimento che facciamo per avvicinarci a Lui noi siamo portati dalla grazia. Un movimento autonomo, nostro, è soltanto un movimento di fuga.
Ora di questo l'anima diviene cosciente quando si vede nella luce divina. Abitualmente cerca di nascondersi e di fuggire Dio, ma se Dio si avvicina a te, se tu veramente, mediante la grazia, sempre più vivi nella luce divina, allora ti accorgi che nel tuo fondo non sei che resistenza ed opposizione; nel tuo fondo allora tu senti quanto in te ripugna al Signore.
Può essere vero che un santo, proprio nella misura che è santo, non sia responsabile di questa opposizione, però il fatto di non esserne responsabile, non dice che egli non è cosciente di una sua opposizione istintiva. Può sembrare un gioco di parole questo: come può essere cosciente di una opposizione che è incosciente? È precisamente questo che il santo fa: non fa altro che un processo continuo di correzione a una natura che vorrebbe fuggire, che vuole sganciarsi da Dio, allontanarsi da Lui. È l'anima è cosciente di questo istinto che la porta ad allontanarsi da Dio, ad opporsi alla grazia.
Ma che cos'è questa opposizione alla grazia divina? È una opposizione (non diciamo altra parola, opposizione pura e semplice) che praticamente si esprime nella possibilità di ogni peccato.
Si diceva prima: se io mi salvo veramente, in me è salvata tutta l'umanità. Perché in me vi è tutta la possibilità dei peccati umani. L'opposizione istintiva alla grazia che vi è in ciascuno di noi è la possibilità che vi è in ciascuno di noi di ogni peccato. Non possiamo dire del tutto di essere senza responsabilità nei confronti di tutte le brutture del mondo. È vero che questa responsabilità non sarà piena, ma è vero anche che non siamo del tutto liberi da nessuna colpa, perché la natura dell'uomo è una, e quando l'uomo viene veramente salvato nelle sue radici, non viene salvata una persona, ma è salvata la natura, la quale è in tutti. La salvezza di una persona non può avvenire che nella salvezza di un'altra. Tu sei salvo, ma per te è redenta in qualche modo una natura che è comune a ciascuno. Sicché, in atto primo, tutti sono salvati.
Tutto questo vuol dire che tanto più ci avviciniamo al Signore, tanto più dobbiamo portare il peso di tutto il peccato e redimerlo in noi. "Non conoscerai i tuoi peccati che via via che Io li perdonerò", diceva Gesù a Pascal. Un'anima che sale verso il Signore diviene sempre più consapevole del carico immenso di peccato che grava sopra di lei. Uno che inizia il suo cammino crede che i suoi peccati siano "questo, questo e poi basta", ed è a posto. Ma quanto più vai avanti tanto più senti che l'essere a posto è un'impresa impossibile, perché i peccati crescono via via che son redenti: sempre più cresce la tua responsabilità nella misura che tu sempre meno aderisci al male.
E non è un fatto libero, questo; non dobbiamo credere che sia soltanto il gesto di un gran signore che per misericordia, come Nostro Signore, espia per gli altri, fa la vittima per tutti i peccatori del mondo. No, non è un gesto gratuito: è una necessità di natura. Tu non sei salvo se non salvi tutti; tu non ti redimi che vivendo, appunto, un peccato universale, che in te può essere rimasto come pura possibilità e in altri invece sarà fiorito e maturato in frutto; ma la pura possibilità che è in te non esclude davvero la necessità che Dio ti salvi anche da questa possibilità, che è una possibilità di reale caduta. Anche se non è avvenuta finora può avvenire domani.
Una salvezza insomma, implica il superamento di questa possibilità, oltre che della realtà del peccato; ed è precisamente nella misura che l'anima cresce che ella avverte questa possibilità, come qualche cosa che rende sempre non soltanto incerta la sua sorte, ma la mantiene in uno stato di insicurezza totale.
Se Dio si accosta a te ti dà la coscienza del tuo peccato; quanto più si avvicina a te, tanto più tu avrai coscienza di questo peccato, fintanto che ogni peccato non sarà distrutto non nella sua realtà soltanto, ma anche nella sua possibilità. E quando ogni peccato sarà redento e distrutto anche nella sua possibilità, non sarà distrutto soltanto in te, ma nella natura umana che viene redenta. Di tuta l'umanità, dunque, ti sei gravato le spalle.
Il cammino dell'anima verso Dio è il crescere della coscienza di un peccato dal quale Dio soltanto può salvarla. Cresce l'insicurezza nella misura in cui cresce la santità. Pur tuttavia, nel crescere dell'insicurezza cresce anche la fiducia e la speranza in Dio: sfiducia in noi stessi perché avvertiamo sempre più questa possibilità reale; fiducia in Dio perché sperimentiamo sempre più la sua grazia. Dio infatti ci fa conoscere i nostri peccati reali e possibili nella misura che ci salva. E dunque, nella misura che noi ci avviciniamo, questa coscienza di un peccato universale si fa profonda, dolorosa, terribile: ma si fa anche grande l'esperienza di un Dio che ti salva.
Così veramente la santità è grazia, una grazia che cresce. Ma che cosa si intende per una grazia che cresce? Si intende che cresce il senso della sua gratuità. Non il senso di un possesso, ma il senso di essere amati per nulla, il senso di una salvezza reale, ma tanto più reale quanto più da te è sperimentata come puramente gratuita e libera.
Tu cammini sull'acqua, tu rimani sospeso nel vuoto, anzi, sali senza sapere come, non avendo in te altra forza che quella di precipitare, eppure tu sali. Ed è impressionante il senso che ha l'anima del vuoto che la circonda via via che sale e che l'abisso si fa ancora più fondo. E l'attrazione al male la sentiamo come sempre più reale e sentiamo sempre più anche la misericordia di esserne salvati. Invece di cadere, ti senti sollevato.
Sperimenti la grazia come grazia e quanto più è grande tanto più è grazia!
Forse l'umanità non è giunta mai così in basso come oggi perché forse mai come oggi ha perduto il senso del proprio peccato. Non aveva il senso del proprio peccato nemmeno l'umanità al di fuori dell'Ebraismo e del Cristianesimo: c'era soltanto il senso di una colpa legale, non il vero senso del peccato, di una contaminazione interiore, di una opposizione a Dio. È stata la Redenzione del Cristo che ha dato agli uomini il senso di una loro colpa. E non è vero affatto che il dono della grazia implichi di per sé la diminuzione di questo senso; anzi, lo accresce. Quanto più uno è santo, tanto più si sente peccatore, perché nella luce divina tanto più realizza non solo la sproporzione che vi è fra la creatura e il Creatore, ma quella opposizione, sia pure istintiva, che vi è nella natura creata, dopo il primo peccato, nei confronti di Dio. Tutti noi, coma Adamo, come Caino, non facciamo che fuggire Dio. In ogni movimento che facciamo per avvicinarci a Lui noi siamo portati dalla grazia. Un movimento autonomo, nostro, è soltanto un movimento di fuga.
Ora di questo l'anima diviene cosciente quando si vede nella luce divina. Abitualmente cerca di nascondersi e di fuggire Dio, ma se Dio si avvicina a te, se tu veramente, mediante la grazia, sempre più vivi nella luce divina, allora ti accorgi che nel tuo fondo non sei che resistenza ed opposizione; nel tuo fondo allora tu senti quanto in te ripugna al Signore.
Può essere vero che un santo, proprio nella misura che è santo, non sia responsabile di questa opposizione, però il fatto di non esserne responsabile, non dice che egli non è cosciente di una sua opposizione istintiva. Può sembrare un gioco di parole questo: come può essere cosciente di una opposizione che è incosciente? È precisamente questo che il santo fa: non fa altro che un processo continuo di correzione a una natura che vorrebbe fuggire, che vuole sganciarsi da Dio, allontanarsi da Lui. È l'anima è cosciente di questo istinto che la porta ad allontanarsi da Dio, ad opporsi alla grazia.
Ma che cos'è questa opposizione alla grazia divina? È una opposizione (non diciamo altra parola, opposizione pura e semplice) che praticamente si esprime nella possibilità di ogni peccato.
Si diceva prima: se io mi salvo veramente, in me è salvata tutta l'umanità. Perché in me vi è tutta la possibilità dei peccati umani. L'opposizione istintiva alla grazia che vi è in ciascuno di noi è la possibilità che vi è in ciascuno di noi di ogni peccato. Non possiamo dire del tutto di essere senza responsabilità nei confronti di tutte le brutture del mondo. È vero che questa responsabilità non sarà piena, ma è vero anche che non siamo del tutto liberi da nessuna colpa, perché la natura dell'uomo è una, e quando l'uomo viene veramente salvato nelle sue radici, non viene salvata una persona, ma è salvata la natura, la quale è in tutti. La salvezza di una persona non può avvenire che nella salvezza di un'altra. Tu sei salvo, ma per te è redenta in qualche modo una natura che è comune a ciascuno. Sicché, in atto primo, tutti sono salvati.
Tutto questo vuol dire che tanto più ci avviciniamo al Signore, tanto più dobbiamo portare il peso di tutto il peccato e redimerlo in noi. "Non conoscerai i tuoi peccati che via via che Io li perdonerò", diceva Gesù a Pascal. Un'anima che sale verso il Signore diviene sempre più consapevole del carico immenso di peccato che grava sopra di lei. Uno che inizia il suo cammino crede che i suoi peccati siano "questo, questo e poi basta", ed è a posto. Ma quanto più vai avanti tanto più senti che l'essere a posto è un'impresa impossibile, perché i peccati crescono via via che son redenti: sempre più cresce la tua responsabilità nella misura che tu sempre meno aderisci al male.
E non è un fatto libero, questo; non dobbiamo credere che sia soltanto il gesto di un gran signore che per misericordia, come Nostro Signore, espia per gli altri, fa la vittima per tutti i peccatori del mondo. No, non è un gesto gratuito: è una necessità di natura. Tu non sei salvo se non salvi tutti; tu non ti redimi che vivendo, appunto, un peccato universale, che in te può essere rimasto come pura possibilità e in altri invece sarà fiorito e maturato in frutto; ma la pura possibilità che è in te non esclude davvero la necessità che Dio ti salvi anche da questa possibilità, che è una possibilità di reale caduta. Anche se non è avvenuta finora può avvenire domani.
Una salvezza insomma, implica il superamento di questa possibilità, oltre che della realtà del peccato; ed è precisamente nella misura che l'anima cresce che ella avverte questa possibilità, come qualche cosa che rende sempre non soltanto incerta la sua sorte, ma la mantiene in uno stato di insicurezza totale.
Se Dio si accosta a te ti dà la coscienza del tuo peccato; quanto più si avvicina a te, tanto più tu avrai coscienza di questo peccato, fintanto che ogni peccato non sarà distrutto non nella sua realtà soltanto, ma anche nella sua possibilità. E quando ogni peccato sarà redento e distrutto anche nella sua possibilità, non sarà distrutto soltanto in te, ma nella natura umana che viene redenta. Di tuta l'umanità, dunque, ti sei gravato le spalle.
Il cammino dell'anima verso Dio è il crescere della coscienza di un peccato dal quale Dio soltanto può salvarla. Cresce l'insicurezza nella misura in cui cresce la santità. Pur tuttavia, nel crescere dell'insicurezza cresce anche la fiducia e la speranza in Dio: sfiducia in noi stessi perché avvertiamo sempre più questa possibilità reale; fiducia in Dio perché sperimentiamo sempre più la sua grazia. Dio infatti ci fa conoscere i nostri peccati reali e possibili nella misura che ci salva. E dunque, nella misura che noi ci avviciniamo, questa coscienza di un peccato universale si fa profonda, dolorosa, terribile: ma si fa anche grande l'esperienza di un Dio che ti salva.
Così veramente la santità è grazia, una grazia che cresce. Ma che cosa si intende per una grazia che cresce? Si intende che cresce il senso della sua gratuità. Non il senso di un possesso, ma il senso di essere amati per nulla, il senso di una salvezza reale, ma tanto più reale quanto più da te è sperimentata come puramente gratuita e libera.
Tu cammini sull'acqua, tu rimani sospeso nel vuoto, anzi, sali senza sapere come, non avendo in te altra forza che quella di precipitare, eppure tu sali. Ed è impressionante il senso che ha l'anima del vuoto che la circonda via via che sale e che l'abisso si fa ancora più fondo. E l'attrazione al male la sentiamo come sempre più reale e sentiamo sempre più anche la misericordia di esserne salvati. Invece di cadere, ti senti sollevato.
Sperimenti la grazia come grazia e quanto più è grande tanto più è grazia!
U.S.F.P.V.
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