mercoledì 22 luglio 2015

Giacomo Lebreton - Tema : Sofferenza



La sofferenza rimane uno dei più oscuri enigmi dell'esistenza umana. La sua realtà colpisce tutti gli uomini: nessuno vi sfugge. Se lo spettacolo del creato apre lo sguardo dell'anima sull'esistenza di Dio, la sua sapienza, la sua bontà e la sua provvidenza, la sofferenza che popola il mondo sembra offuscare quest'immagine. Certuni possono addirittura esser tentati di negare l'esistenza di Dio: «Se Dio esiste, perchè tanto male nel mondo?» Infatti, come mai la nostra vita sulla terra è talmente piena di dolori e di conflitti? Conflitti fra l'anima che è immortale, ed il corpo, straziato dalla malattia e dalla morte; fra la ragione e le passioni, che ci trascinano in direzioni contrarie; conflitti fra l'uomo e l'universo, l'uomo che lavora tutti i giorni per trarre di che nutrirsi da quella terra, che, troppo spesso, lo contraccambia con carestie e catastrofi. Perchè tante pene?
«Al centro di ogni dolore che colpisce l'uomo, ed altresì alla base del mondo delle sofferenze, appare inevitabilmente la domanda: Perchè?» (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, dell'11 febbraio 1984, sul «Senso cristiano della sofferenza», 9).
Armonia meravigliosa
La Rivelazione ci insegna che Dio, all'origine, non ha creato l'uomo in tale stato drammatico. Non gli ha dato soltanto la qualità di uomo, di «animale ragionevole», lo ha, subito, fissato in uno stato di santità, l'ha rivestito della propria grazia, è andato ad «abitare in lui». Questo esprime il versetto della Genesi: Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza (Gen. 1, 26). I Padri della Chiesa hanno visto nell'espressione a sua somiglianza un'allusione alla grazia santificante che rendeva l'uomo partecipe della natura divina, «simile a Dio». La grazia conferita ad Adamo aveva la particolarità di estendere la propria influenza sulla totalità dell'essere umano, corpo ed anima, attraverso effetti di potenza che ci sono ormai ignoti. L'anima dominava pienamente il corpo, premunendolo contro la sofferenza e la morte; la ragione, scevra di concupiscenza, governava perfettamente le passioni; infine, l'uomo regnava veramente sul mondo, la terra era per lui un giardino di delizie, un paradiso, senza fatica penosa nè lotta contro la natura.

Tale armonia meravigliosa che regnava allora, costituiva quel che viene chiamato «lo stato di giustizia originale». Doveva essere la sorte dell'uomo, finchè rimaneva nell'amicizia divina. Ahimè! come ci fa conoscere la Sacra Scrittura, l'uomo, tentato dal diavolo, ha perso la grazia che lo legava a Dio. Con questo peccato, ha preferito se stesso a Dio, e perciò ha disprezzato il suo Creatore, si è ribellato contro di Lui, rifiutando lo stato di creatura, e cercando di «divinizzarsi», non secondo il disegno di Dio, bensì «contro» Dio: Diventerete come Dio (Gen. 3, 5), aveva detto il serpente tentatore.
Adamo perde la grazia, e con essa la felice esistenza nel paradiso terrestre: morirà: 'Conoscerai la morte'; dovrà lottare contro le passioni, che lo spingono al male (concupiscenza); il lavoro sarà penoso per lui: Sia maledetta la terra per causa tua (Gen. 3, 37 e 17). A causa del peccato, dirà San Paolo, la morte è entrata nel mondo (Rom. 5, 12), e con la morte tutta la coorte delle sofferenze che gravano tutti i giorni sull'umanità. Se Dio ha permesso la caduta di Adamo, con tutte le conseguenze tragiche che ha comportato, se l'ha tollerata come si tollera un'offesa, è stato per rispettare la libertà dell'uomo. Ma all'offesa fatta al suo amore, Dio ha risposto con un amore ancora più grande: offre il perdono e promette un Redentore. Più ancora, fa, in un certo modo, causa comune con l'uomo fin nelle sofferenze.
Compassione molto partecipe
Nell'Antico Testamento, Dio testimonia spesso la sua compassione e la sua tenerezza per l'uomo che soffre. Ma la venuta del Salvatore sulla terra rivela in modo più straziante la solidarietà di Dio con l'umanità che soffre. Il Vangelo ci mostra Gesù che fa continuamente sue le miserie dei suoi contemporanei. La sofferenza lo commuove, lo intenerisce, lo sconvolge, talvolta fino alle lacrime. Senza curarsi delle usanze, lo si vede andare incontro ai lebbrosi, gli intoccabili dell'epoca, per introdurre le dita nelle loro piaghe e sanarle. La sofferenza dei cuori gli ispira una compassione profonda, come nella scena della vedova di Naim, che piangeva la morte dell'unico figlio. Attira tutti coloro che soffrono sul suo Cuore aperto a tutti i dolori: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, ed io vi darò riposo! (Matt. 11, 28).
Ma Dio ha voluto andare oltre: facendosi uomo, è entrato lui pure a far parte del numero dei sofferenti. Gesù ha voluto nascere in una stalla miserabile; ha lavorato duramente per guadagnarsi il pane quotidiano; ha saputo cosa fosse la fame, la sete, la stanchezza dei lunghi percorsi a piedi (ved. Giov. 4, 6); per tre anni, non avrà dimora, e nemmeno una pietra dove posare il capo (ved. Matt. 8, 20); ha sofferto per l'incomprensione degli uomini, il loro scherno; lo si è trattato di uomo dedito al vino ed ai piaceri della tavola. La realtà e la profondità del suo timore della sofferenza si manifestano particolarmente nella preghiera al Getsemani: Dio mio, se è possibile, allontana da me questo calice! Nella Passione, il dolore fisico ed il dolore morale raggiungono il parossismo. Infine, Nostro Signore ha voluto unirsi all'uomo fin nel mistero della morte. Chiunque soffre può dire, di fronte al Crocifisso: «Anche Lui ha conosciuto questa prova».
Ma se Gesù è passato per il baratro della sofferenza, è stato per trasfigurarla e darle una dimensione affatto nuova: essa è ormai unita all'amore. Se, in sè, rimane un gran male, la sofferenza è diventata la base più solida del bene definitivo dell'uomo, vale a dire dell'eterna salvezza. Essa ci permette di essere associati a Gesù nell'opera della Redenzione. Conseguenza del peccato, diventa, grazie alla potenza di Dio, il mezzo della nostra rinascita morale.
Mistero pasquale
«Senza la Pasqua, il mondo è senza speranza. Grazie alla Pasqua, la vita assume il suo vero senso... Ho vissuto nella mia carne e nel mio cuore il mistero della Passione e della Risurrezione... Siamo tutti chiamati a morire ed a risuscitare tutti i giorni». Colui che pronuncia queste parole si chiama Giacomo Lebreton. È privo della vista ed i suoi avambracci sono amputati delle mani, dal novembre del 1942.
Era nel deserto libico. In un plotone di spahi a riposo, Giacomo, accovacciato davanti ad una cassa di granate, prende uno dopo l'altro gli esplosivi per disinnescarli. «Lavoravo, chiacchierando con i commilitoni, racconterà più tardi. Uno di loro, a mia insaputa, afferra una granata e la innesca. Poi, spaventato, me la tende. La afferro macchinalmente, ma capisco subito: sta per esplodere. Devo lanciarla immediatamente! Ma accanto a me ci sono i commilitoni, e rischio di ammazzarli... Improvvisamente, un formidabile colpo di gong. Sono immerso nelle tenebre. Provo a parlare, ma non ci riesco. Mi vedo già morto».
Figlio di un ufficiale di marina, Giacomo Lebreton ha lasciato il castello familiare di Kerval, vicino a Brest, nel giugno del 1940, a 18 anni, per raggiungere le Forze Francesi Libere a Londra. Quindi, dopo un lungo periplo nel Medio Oriente, si è trovato in Libia, di fronte alle truppe del generale tedesco Rommel. Affronta la morte per la prima volta: le granate scoppiano da tutte le parti. Molti sono i morti intorno a lui. Pone a se stesso il problema di Dio: «In casa, poi a scuola, avevo avuto un'educazione cristiana. Bruscamente, a 18 anni, ero passato da una vita protetta ad una vita assolutamente indipendente. Un po' alla volta, la mia fede si è indebolita, ho cessato di esser praticante. Ma, di fronte al pericolo, mi ponevo la questione fondamentale: «Dio esiste? Chi è? Dopo la morte, è il buco nero?»... La risposta a queste domande mi sarebbe stata data in modo inaspettato, attraverso l'esplosione della granata».
Dopo le prime cure nell'ospedale da campo, Giacomo Lebreton viene trasferito in un ospedale di Damasco. Per due o tre settimane, rimane immerso in un vero torpore. Sospetta naturalmente gravi lesioni oculari, ma ritiene di poter ricuperare la vista fra sei mesi o, al massimo, un anno. Il tempo aggiusterà tutto. Ignora, invece, quel che si nasconde sotto le enormi bende che gli fasciano le estremità degli avambracci: «Sentivo ancora le mani, come se fossero rimaste contratte sulla granata: è la ben nota illusione degli amputati. Quando scoprii la verità, mi ribellai... In Libia, avevo visto un giorno volatilizzarsi ventun commilitoni, a seguito di una terribile esplosione; mi ero detto: «La morte, nel pieno della battaglia, non è nulla, non la si vede arrivare. Quel che temo più di tutto, è la perdita di un braccio o di una gamba. Non potrei sopportarlo...» Ed ora, mi ritrovavo cieco e monco delle due mani: una quadruplice amputazione. A 21 anni! Come poteva Dio permettere una simile prova?»
«Accettare» per non «subire» più
Tuttavia, una suora, francescana missionaria di Maria, che Giacomo aveva incontrato nel corso di un primo soggiorno a Damasco, seppe che egli era degente in ospedale. Andò a trovarlo regolarmente. «Mi parlava di Giobbe, che non malediceva Dio. Mi citava le parole del Vangelo: Se il chicco di grano non muore nella terra, non dà frutto». L'ammalato sente che tali verità gli penetrano nell'anima. Riprende a pregare e ad accostarsi ai sacramenti. Accetta perfino di comunicarsi due volte alla settimana, in seguito, tutti i giorni. Scopre allora l'amore che ha spinto Gesù, «l'uomo dei dolori», a morire per noi sulla Croce. Sente una forza misteriosa che lo avvicina a Cristo. Grazie al vigore della fede ritrovata, vede un valore redentore celato nelle sue sofferenze. Allora, appoggiandosi sulla forza divina e non sulla propria debolezza, offre eroicamente a Dio gli occhi e le mani. Decide di non «subire» più la sua prova, ma di «accettarla». «L'accettazione è una vittoria. Prima di essere ferito, conoscevo il riso, ma non la gioia, la vera gioia. Ebbene, ho pianto di gioia sul letto di degenza. Ho perfino detto alla suora infermiera: «Non ci ho rimesso!»»
L'amore trasforma i cuori, e dà il suo pieno merito alla sofferenza accettata. Secondo San Francesco di Sales: «L'amore divino, non solo addolcisce quel che è amaro, ma trasforma la croce in letizia, perchè Dio è Dio di letizia». Giacomo Lebreton ne ha fatto l'esperienza. La gioia infusa nel cuore dalla grazia, anche in mezzo a sofferenze, non è una gioia sensibile, ma un appagamento tranquillo e misterioso, in quella fede che ha fatto dire a Santa Teresa di Gesù Bambino: «Sulla terra, tutto mi stanca, tutto mi è di peso... Non trovo che una gioia, quella di soffrire per Gesù, ma questa gioia non risentita è al di sopra di qualsiasi gioia!» (Lettera, 12 marzo 1889).
Ma allorchè la sofferenza ci reca soltanto tristezza e sconforto, ricordiamo queste altre parole della «piccola» Teresa: «Soffriamo, se necessario, con amarezza, senza coraggio. Gesù ha pur sofferto con tristezza: senza tristezza, l'anima soffrirebbe?... È confortante pensare che Gesù, il Forte divino, ha conosciuto tutte le nostre debolezze, che ha tremato alla vista del calice amaro, quel calice che un tempo aveva desiderato tanto ardentemente» (Lettere, 26 aprile 1889 & 26 dicembre 1896). Così, quando soffriamo, pensiamo che Gesù è presente, compassionevole, accanto a noi, per aiutarci a portare l'odierna croce.
Amputati di Dio
Giacomo Lebreton ha avuto anche lui, letteralmente, la sua via di Damasco. «Stranamente, faceva notare, è da Porta San Paolo che sono entrato in quella città. San Paolo vi è giunto cieco, e vi ha ritrovato la vista. Io, vi ho ritrovato una luce infinitamente più preziosa di quella che ho perduto». Ogni anno, il 5 novembre, annuncerà ai suoi amici: «Oggi, offro lo champagne – Perchè? – È l'anniversario del giorno in cui sono diventato cieco!» Nella fede, riteneva infatti che, secondo le sue proprie parole, «la sola infermità è quella di essere amputati di Dio».
«Essere amputati di Dio», ecco l'opera del peccato mortale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci insegna che «agli occhi della fede, nessun male è più grave del peccato, e niente ha conseguenze peggiori per gli stessi peccatori, per la Chiesa e per il mondo intero» (1488). Nostro Signore ci ha avvertiti che è preferibile perdere le mani e gli occhi, piuttosto che esser gettati nella fornace ardente, cioè nell'inferno, dove ci porta il peccato, che ci distoglie da Dio (ved. Matt. 5, 29-30). La perdita della vita eterna è, senza dubbio, la massima sofferenza dell'uomo, poichè, perdendola, egli perde la felicità perfetta cui Dio lo destinava. Gesù è venuto a liberarci dalla sofferenza definitiva: la dannazione eterna. «L'unico Figlio è stato dato all'umanità, prima di tutto, per proteggere l'uomo contro quel male definitivo... La missione del Figlio unico consiste nel vincere il peccato e la morte; il trionfo sul peccato, attraverso l'obbedienza fino alla morte, ed il trionfo sulla morte, attraverso la risurrezione» (Salvifici doloris, 14). Distruggendo il peccato, Gesù ha distrutto il maggiore dei mali e, nello stesso tempo, la radice di ogni sofferenza, poichè è a causa del peccato che la sofferenza e la morte sono entrate nel mondo (ved. Rom. 5, 12). A tutti coloro che vogliono, è dunque concesso di ottenere la remissione dei peccati e di partecipare ai frutti della Redenzione. Tale beneficio ci viene principalmente dai sacramenti, canali della grazia divina, che ci purifica, ci rende più forti e fa crescere la nostra anima in santità. Inoltre, attraverso la preghiera e il ricevimento degno dei sacramenti, la sopportazione paziente di ogni sofferenza ci diventa possibile.
«Perchè Dio permette la sofferenza?» veniva chiesto un giorno a Madre Teresa. «È difficile da capire: è il mistero dell'amore di Dio; per questo, non possiamo neppur capire perchè Gesù abbia sofferto tanto, perchè sia dovuto passare per la solitudine del Getsemani e la sofferenza della crocifissione. È il mistero del suo grande amore. La sofferenza che vediamo ora, è come se Cristo rivivesse in noi la sua Passione. – Come può essere ammirabile la sofferenza? – Se viene accettata in senso buono, come proveniente dalla mano di Dio, per la nostra santificazione, la purificazione dell'anima ed altresì la riparazione dei peccati del mondo, allora essa porta la pace ed è ammirabile. – Ma Dio, non è un Dio d'amore? – Dio non ci dà la sofferenza per tormentarci, ma per attirarci a sè».
Un servizio insostituibile
Lungi dall'essere inutili, le persone che soffrono compiono un servizio insostituibile. «La fede nella partecipazione alle sofferenze di Cristo porta in sè la certezza
interiore che l'uomo che soffre completa quel che manca alle prove di Cristo e, nella prospettiva spirituale dell'opera della Redenzione, è utile, come Cristo, alla salvezza dei fratelli e delle sorelle» (Salvifici doloris, 27). Per questo, la Chiesa si inchina con venerazione davanti a coloro che
soffrono: vede in essi i principali continuatori dell'opera di Cristo Salvatore. Santa Teresa di Gesù Bambino confidava, poco prima di morire: «Non avrei mai creduto che fosse possibile soffrire tanto! Non posso spiegarmi questo fatto che con il desiderio ardente che ho provato di salvare anime» (30 settembre 1897).
La Santissima Vergine Maria, indenne da qualsiasi macchia, è stata associata molto intimamente all'opera della salvezza. «In Lei, le innumerevoli ed intense sofferenze si accumularono con tanta coesione e concatenazione che, oltre a mostrare la sua fede incrollabile, hanno contribuito alla Redenzione di tutti. La salita al Calvario e la presenza ai piedi della Croce sono state una partecipazione del tutto particolare alla morte redentrice di suo Figlio. Così, Gesù ha conferito a Maria una nuova maternità – spirituale ed universale – nei riguardi di tutti gli uomini» (Salvifici doloris, 25, 26). Per questo, chiunque ricorre a questa madre tanto compassionevole e tanto tenera per coloro che soffrono, otterrà da lei qualche grazia di consolazione.
Ma è soprattutto in Cielo che raccoglieremo i frutti della nostra pazienza nel portare la Croce. San Giovanni ci assicura, infatti, nell'Apocalisse, che, in Cielo, Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi, e che non vi sarà morte, nè lutto, nè grido, nè pena (21, 4); e San Paolo scrive ai Romani: Penso che le sofferenze del tempo presente non possano esser paragonate alla gloria futura che si rivelerà in noi (8, 18). San Cipriano, parlando di tale gloria del cielo, si esprime così: «Che gloria e che felicità, quelle di essere ammessi a vedere Dio, di aver l'onore di partecipare alla gioia della salvezza e della luce eterna insieme con Cristo, il Signore nostro Dio, di godere unitamente ai giusti ed agli amici di Dio, le gioie dell'immortalità raggiunta» (Epistola 56, 10, 1); e Sant'Agostino: «Che felicità, lì dove si attenderà alle lodi di Dio, che sarà tutto in tutti! Egli sarà il fine di tutti i nostri desideri, contemplato senza fine, amato senza fastidio, lodato senza stanchezza. Lì, noi riposeremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (De civitate Dei, 22, c. 30, n. 1, 5).
È la grazia che chiediamo a Nostra Signora ed a San Giuseppe di accordare a Lei ed a tutti coloro che Le sono cari, vivi e defunti.
Dom Antoine Marie osb
 
"Lettera mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia
(Website : www.clairval.com)"


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