La
sofferenza rimane uno dei più oscuri enigmi dell'esistenza umana. La
sua realtà colpisce tutti gli uomini: nessuno vi sfugge. Se lo
spettacolo del creato apre lo sguardo dell'anima sull'esistenza di
Dio, la sua sapienza, la sua bontà e la sua provvidenza, la
sofferenza che popola il mondo sembra offuscare quest'immagine.
Certuni possono addirittura esser tentati di negare l'esistenza di
Dio: «Se Dio esiste, perchè tanto male nel mondo?» Infatti, come
mai la nostra vita sulla terra è talmente piena di dolori e di
conflitti? Conflitti fra l'anima che è immortale, ed il corpo,
straziato dalla malattia e dalla morte; fra la ragione e le passioni,
che ci trascinano in direzioni contrarie; conflitti fra l'uomo e
l'universo, l'uomo che lavora tutti i giorni per trarre di che
nutrirsi da quella terra, che, troppo spesso, lo contraccambia con
carestie e catastrofi. Perchè tante pene?
«Al
centro di ogni dolore che colpisce l'uomo, ed altresì alla base del
mondo delle sofferenze, appare inevitabilmente la domanda: Perchè?»
(Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Salvifici doloris,
dell'11 febbraio 1984, sul «Senso cristiano della sofferenza», 9).
Armonia
meravigliosa
La
Rivelazione ci insegna che Dio, all'origine, non ha creato l'uomo in
tale stato drammatico. Non gli ha dato soltanto la qualità di uomo,
di «animale ragionevole», lo ha, subito, fissato in uno stato di
santità, l'ha rivestito della propria grazia, è andato ad «abitare
in lui». Questo esprime il versetto della Genesi: Dio ha creato
l'uomo a sua immagine e somiglianza (Gen. 1, 26). I Padri della
Chiesa hanno visto nell'espressione a sua somiglianza
un'allusione alla grazia santificante che rendeva l'uomo partecipe
della natura divina, «simile a Dio». La grazia conferita ad Adamo
aveva la particolarità di estendere la propria influenza sulla
totalità dell'essere umano, corpo ed anima, attraverso effetti di
potenza che ci sono ormai ignoti. L'anima dominava pienamente il
corpo, premunendolo contro la sofferenza e la morte; la ragione,
scevra di concupiscenza, governava perfettamente le passioni; infine,
l'uomo regnava veramente sul mondo, la terra era per lui un giardino
di delizie, un paradiso, senza fatica penosa nè lotta contro la
natura.
Tale
armonia meravigliosa che regnava allora, costituiva quel che viene
chiamato «lo stato di giustizia originale». Doveva essere la sorte
dell'uomo, finchè rimaneva nell'amicizia divina. Ahimè! come ci fa
conoscere la Sacra Scrittura, l'uomo, tentato dal diavolo, ha perso
la grazia che lo legava a Dio. Con questo peccato, ha preferito se
stesso a Dio, e perciò ha disprezzato il suo Creatore, si è
ribellato contro di Lui, rifiutando lo stato di creatura, e cercando
di «divinizzarsi», non secondo il disegno di Dio, bensì «contro»
Dio: Diventerete come Dio (Gen. 3, 5), aveva detto il serpente
tentatore.
Adamo
perde la grazia, e con essa la felice esistenza nel paradiso
terrestre: morirà: 'Conoscerai la morte'; dovrà lottare contro le
passioni, che lo spingono al male (concupiscenza); il lavoro sarà
penoso per lui: Sia maledetta la terra per causa tua (Gen. 3,
37 e 17). A causa del peccato, dirà San Paolo, la morte è
entrata nel mondo (Rom. 5, 12), e con la morte tutta la coorte
delle sofferenze che gravano tutti i giorni sull'umanità. Se Dio ha
permesso la caduta di Adamo, con tutte le conseguenze tragiche che ha
comportato, se l'ha tollerata come si tollera un'offesa, è stato per
rispettare la libertà dell'uomo. Ma all'offesa fatta al suo amore,
Dio ha risposto con un amore ancora più grande: offre il perdono e
promette un Redentore. Più ancora, fa, in un certo modo, causa
comune con l'uomo fin nelle sofferenze.
Compassione
molto partecipe
Nell'Antico
Testamento, Dio testimonia spesso la sua compassione e la sua
tenerezza per l'uomo che soffre. Ma la venuta del Salvatore sulla
terra rivela in modo più straziante la solidarietà di Dio con
l'umanità che soffre. Il Vangelo ci mostra Gesù che fa
continuamente sue le miserie dei suoi contemporanei. La sofferenza lo
commuove, lo intenerisce, lo sconvolge, talvolta fino alle lacrime.
Senza curarsi delle usanze, lo si vede andare incontro ai lebbrosi,
gli intoccabili dell'epoca, per introdurre le dita nelle loro piaghe
e sanarle. La sofferenza dei cuori gli ispira una compassione
profonda, come nella scena della vedova di Naim, che piangeva la
morte dell'unico figlio. Attira tutti coloro che soffrono sul suo
Cuore aperto a tutti i dolori: Venite a me, voi tutti che siete
affaticati e stanchi, ed io vi darò riposo! (Matt. 11, 28).
Ma
Dio ha voluto andare oltre: facendosi uomo, è entrato lui pure a far
parte del numero dei sofferenti. Gesù ha voluto nascere in una
stalla miserabile; ha lavorato duramente per guadagnarsi il pane
quotidiano; ha saputo cosa fosse la fame, la sete, la stanchezza dei
lunghi percorsi a piedi (ved. Giov. 4, 6); per tre anni, non avrà
dimora, e nemmeno una pietra dove posare il capo (ved. Matt. 8, 20);
ha sofferto per l'incomprensione degli uomini, il loro scherno; lo si
è trattato di uomo dedito al vino ed ai piaceri della tavola. La
realtà e la profondità del suo timore della sofferenza si
manifestano particolarmente nella preghiera al Getsemani: Dio mio,
se è possibile, allontana da me questo calice! Nella Passione,
il dolore fisico ed il dolore morale raggiungono il parossismo.
Infine, Nostro Signore ha voluto unirsi all'uomo fin nel mistero
della morte. Chiunque soffre può dire, di fronte al Crocifisso:
«Anche Lui ha conosciuto questa prova».
Ma
se Gesù è passato per il baratro della sofferenza, è stato per
trasfigurarla e darle una dimensione affatto nuova: essa è ormai
unita all'amore. Se, in sè, rimane un gran male, la sofferenza è
diventata la base più solida del bene definitivo dell'uomo, vale a
dire dell'eterna salvezza. Essa ci permette di essere associati a
Gesù nell'opera della Redenzione. Conseguenza del peccato, diventa,
grazie alla potenza di Dio, il mezzo della nostra rinascita morale.
Mistero
pasquale
«Senza
la Pasqua, il mondo è senza speranza. Grazie alla Pasqua, la vita
assume il suo vero senso... Ho vissuto nella mia carne e nel mio
cuore il mistero della Passione e della Risurrezione... Siamo tutti
chiamati a morire ed a risuscitare tutti i giorni». Colui che
pronuncia queste parole si chiama Giacomo Lebreton. È privo della
vista ed i suoi avambracci sono amputati delle mani, dal novembre del
1942.
Era
nel deserto libico. In un plotone di spahi a riposo, Giacomo,
accovacciato davanti ad una cassa di granate, prende uno dopo l'altro
gli esplosivi per disinnescarli. «Lavoravo, chiacchierando con i
commilitoni, racconterà più tardi. Uno di loro, a mia insaputa,
afferra una granata e la innesca. Poi, spaventato, me la tende. La
afferro macchinalmente, ma capisco subito: sta per esplodere. Devo
lanciarla immediatamente! Ma accanto a me ci sono i commilitoni, e
rischio di ammazzarli... Improvvisamente, un formidabile colpo di
gong. Sono immerso nelle tenebre. Provo a parlare, ma non ci riesco.
Mi vedo già morto».
Figlio
di un ufficiale di marina, Giacomo Lebreton ha lasciato il castello
familiare di Kerval, vicino a Brest, nel giugno del 1940, a 18 anni,
per raggiungere le Forze Francesi Libere a Londra. Quindi, dopo un
lungo periplo nel Medio Oriente, si è trovato in Libia, di fronte
alle truppe del generale tedesco Rommel. Affronta la morte per la
prima volta: le granate scoppiano da tutte le parti. Molti sono i
morti intorno a lui. Pone a se stesso il problema di Dio: «In casa,
poi a scuola, avevo avuto un'educazione cristiana. Bruscamente, a 18
anni, ero passato da una vita protetta ad una vita assolutamente
indipendente. Un po' alla volta, la mia fede si è indebolita, ho
cessato di esser praticante. Ma, di fronte al pericolo, mi ponevo la
questione fondamentale: «Dio esiste? Chi è? Dopo la morte, è il
buco nero?»... La risposta a queste domande mi sarebbe stata data in
modo inaspettato, attraverso l'esplosione della granata».
Dopo
le prime cure nell'ospedale da campo, Giacomo Lebreton viene
trasferito in un ospedale di Damasco. Per due o tre settimane, rimane
immerso in un vero torpore. Sospetta naturalmente gravi lesioni
oculari, ma ritiene di poter ricuperare la vista fra sei mesi o, al
massimo, un anno. Il tempo aggiusterà tutto. Ignora, invece, quel
che si nasconde sotto le enormi bende che gli fasciano le estremità
degli avambracci: «Sentivo ancora le mani, come se fossero rimaste
contratte sulla granata: è la ben nota illusione degli amputati.
Quando scoprii la verità, mi ribellai... In Libia, avevo visto un
giorno volatilizzarsi ventun commilitoni, a seguito di una terribile
esplosione; mi ero detto: «La morte, nel pieno della battaglia, non
è nulla, non la si vede arrivare. Quel che temo più di tutto, è la
perdita di un braccio o di una gamba. Non potrei sopportarlo...» Ed
ora, mi ritrovavo cieco e monco delle due mani: una quadruplice
amputazione. A 21 anni! Come poteva Dio permettere una simile prova?»
«Accettare»
per non «subire» più
Tuttavia,
una suora, francescana missionaria di Maria, che Giacomo aveva
incontrato nel corso di un primo soggiorno a Damasco, seppe che egli
era degente in ospedale. Andò a trovarlo regolarmente. «Mi parlava
di Giobbe, che non malediceva Dio. Mi citava le parole del Vangelo:
Se il chicco di grano non muore nella terra, non dà frutto».
L'ammalato sente che tali verità gli penetrano nell'anima. Riprende
a pregare e ad accostarsi ai sacramenti. Accetta perfino di
comunicarsi due volte alla settimana, in seguito, tutti i giorni.
Scopre allora l'amore che ha spinto Gesù, «l'uomo dei dolori», a
morire per noi sulla Croce. Sente una forza misteriosa che lo
avvicina a Cristo. Grazie al vigore della fede ritrovata, vede un
valore redentore celato nelle sue sofferenze. Allora, appoggiandosi
sulla forza divina e non sulla propria debolezza, offre eroicamente a
Dio gli occhi e le mani. Decide di non «subire» più la sua prova,
ma di «accettarla». «L'accettazione è una vittoria. Prima di
essere ferito, conoscevo il riso, ma non la gioia, la vera gioia.
Ebbene, ho pianto di gioia sul letto di degenza. Ho perfino detto
alla suora infermiera: «Non ci ho rimesso!»»
L'amore
trasforma i cuori, e dà il suo pieno merito alla sofferenza
accettata. Secondo San Francesco di Sales: «L'amore divino, non solo
addolcisce quel che è amaro, ma trasforma la croce in letizia,
perchè Dio è Dio di letizia». Giacomo Lebreton ne ha fatto
l'esperienza. La gioia infusa nel cuore dalla grazia, anche in mezzo
a sofferenze, non è una gioia sensibile, ma un appagamento
tranquillo e misterioso, in quella fede che ha fatto dire a Santa
Teresa di Gesù Bambino: «Sulla terra, tutto mi stanca, tutto mi è
di peso... Non trovo che una gioia, quella di soffrire per Gesù, ma
questa gioia non risentita è al di sopra di qualsiasi gioia!»
(Lettera, 12 marzo 1889).
Ma
allorchè la sofferenza ci reca soltanto tristezza e sconforto,
ricordiamo queste altre parole della «piccola» Teresa: «Soffriamo,
se necessario, con amarezza, senza coraggio. Gesù ha pur sofferto
con tristezza: senza tristezza, l'anima soffrirebbe?... È
confortante pensare che Gesù, il Forte divino, ha conosciuto tutte
le nostre debolezze, che ha tremato alla vista del calice amaro, quel
calice che un tempo aveva desiderato tanto ardentemente» (Lettere,
26 aprile 1889 & 26 dicembre 1896). Così, quando soffriamo,
pensiamo che Gesù è presente, compassionevole, accanto a noi, per
aiutarci a portare l'odierna croce.
Amputati
di Dio
Giacomo
Lebreton ha avuto anche lui, letteralmente, la sua via di Damasco.
«Stranamente, faceva notare, è da Porta San Paolo che sono entrato
in quella città. San Paolo vi è giunto cieco, e vi ha ritrovato la
vista. Io, vi ho ritrovato una luce infinitamente più preziosa di
quella che ho perduto». Ogni anno, il 5 novembre, annuncerà ai suoi
amici: «Oggi, offro lo champagne – Perchè? – È l'anniversario
del giorno in cui sono diventato cieco!» Nella fede, riteneva
infatti che, secondo le sue proprie parole, «la sola infermità è
quella di essere amputati di Dio».
«Essere
amputati di Dio», ecco l'opera del peccato mortale. Il Catechismo
della Chiesa Cattolica ci insegna che «agli occhi della fede, nessun
male è più grave del peccato, e niente ha conseguenze peggiori per
gli stessi peccatori, per la Chiesa e per il mondo intero» (1488).
Nostro Signore ci ha avvertiti che è preferibile perdere le mani e
gli occhi, piuttosto che esser gettati nella fornace ardente, cioè
nell'inferno, dove ci porta il peccato, che ci distoglie da Dio (ved.
Matt. 5, 29-30). La perdita della vita eterna è, senza dubbio, la
massima sofferenza dell'uomo, poichè, perdendola, egli perde la
felicità perfetta cui Dio lo destinava. Gesù è venuto a liberarci
dalla sofferenza definitiva: la dannazione eterna. «L'unico Figlio è
stato dato all'umanità, prima di tutto, per proteggere l'uomo contro
quel male definitivo... La missione del Figlio unico consiste nel
vincere il peccato e la morte; il trionfo sul peccato, attraverso
l'obbedienza fino alla morte, ed il trionfo sulla morte, attraverso
la risurrezione» (Salvifici doloris, 14). Distruggendo il
peccato, Gesù ha distrutto il maggiore dei mali e, nello stesso
tempo, la radice di ogni sofferenza, poichè è a causa del peccato
che la sofferenza e la morte sono entrate nel mondo (ved. Rom. 5,
12). A tutti coloro che vogliono, è dunque concesso di ottenere la
remissione dei peccati e di partecipare ai frutti della Redenzione.
Tale beneficio ci viene principalmente dai sacramenti, canali della
grazia divina, che ci purifica, ci rende più forti e fa crescere la
nostra anima in santità. Inoltre, attraverso la preghiera e il
ricevimento degno dei sacramenti, la sopportazione paziente di ogni
sofferenza ci diventa possibile.
«Perchè
Dio permette la sofferenza?» veniva chiesto un giorno a Madre
Teresa. «È difficile da capire: è il mistero dell'amore di Dio;
per questo, non possiamo neppur capire perchè Gesù abbia sofferto
tanto, perchè sia dovuto passare per la solitudine del Getsemani e
la sofferenza della crocifissione. È il mistero del suo grande
amore. La sofferenza che vediamo ora, è come se Cristo rivivesse in
noi la sua Passione. – Come può essere ammirabile la sofferenza? –
Se viene accettata in senso buono, come proveniente dalla mano di
Dio, per la nostra santificazione, la purificazione dell'anima ed
altresì la riparazione dei peccati del mondo, allora essa porta la
pace ed è ammirabile. – Ma Dio, non è un Dio d'amore? – Dio non
ci dà la sofferenza per tormentarci, ma per attirarci a sè».
Un
servizio insostituibile
Lungi
dall'essere inutili, le persone che soffrono compiono un servizio
insostituibile. «La fede nella partecipazione alle sofferenze di
Cristo porta in sè la certezza
interiore
che l'uomo che soffre completa quel che manca alle prove di Cristo
e, nella prospettiva spirituale dell'opera della Redenzione, è
utile, come Cristo, alla salvezza dei fratelli e delle sorelle»
(Salvifici doloris, 27). Per questo, la Chiesa si inchina con
venerazione davanti a coloro che
soffrono:
vede in essi i principali continuatori dell'opera di Cristo
Salvatore. Santa Teresa di Gesù Bambino confidava, poco prima di
morire: «Non avrei mai creduto che fosse possibile soffrire tanto!
Non posso spiegarmi questo fatto che con il desiderio ardente che ho
provato di salvare anime» (30 settembre 1897).
La
Santissima Vergine Maria, indenne da qualsiasi macchia, è stata
associata molto intimamente all'opera della salvezza. «In Lei, le
innumerevoli ed intense sofferenze si accumularono con tanta coesione
e concatenazione che, oltre a mostrare la sua fede incrollabile,
hanno contribuito alla Redenzione di tutti. La salita al Calvario e
la presenza ai piedi della Croce sono state una partecipazione del
tutto particolare alla morte redentrice di suo Figlio. Così, Gesù
ha conferito a Maria una nuova maternità – spirituale ed
universale – nei riguardi di tutti gli uomini» (Salvifici
doloris, 25, 26). Per questo, chiunque ricorre a questa madre
tanto compassionevole e tanto tenera per coloro che soffrono, otterrà
da lei qualche grazia di consolazione.
Ma
è soprattutto in Cielo che raccoglieremo i frutti della nostra
pazienza nel portare la Croce. San Giovanni ci assicura, infatti,
nell'Apocalisse, che, in Cielo, Dio asciugherà ogni lacrima dai
nostri occhi, e che non vi sarà morte, nè lutto, nè grido, nè
pena (21, 4); e San Paolo scrive ai Romani: Penso che le
sofferenze del tempo presente non possano esser paragonate alla
gloria futura che si rivelerà in noi (8, 18). San Cipriano,
parlando di tale gloria del cielo, si esprime così: «Che gloria e
che felicità, quelle di essere ammessi a vedere Dio, di aver l'onore
di partecipare alla gioia della salvezza e della luce eterna insieme
con Cristo, il Signore nostro Dio, di godere unitamente ai giusti ed
agli amici di Dio, le gioie dell'immortalità raggiunta» (Epistola
56, 10, 1); e Sant'Agostino: «Che felicità, lì dove si attenderà
alle lodi di Dio, che sarà tutto in tutti! Egli sarà il fine di
tutti i nostri desideri, contemplato senza fine, amato senza
fastidio, lodato senza stanchezza. Lì, noi riposeremo, vedremo e
ameremo, ameremo e loderemo» (De civitate Dei, 22, c. 30, n.
1, 5).
È
la grazia che chiediamo a Nostra Signora ed a San Giuseppe di
accordare a Lei ed a tutti coloro che Le sono cari, vivi e defunti.
Dom
Antoine Marie osb
"Lettera mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia
(Website : www.clairval.com)"
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