Arrivò
in canonica lo Smilzo, un giovane ex partigiano che faceva da
portaordini a Peppone quando Peppone lavorava in montagna, e adesso
l'avevano assunto come messo in Comune. Aveva una gran lettera di
lusso, in carta a mano con stampa in gotico e l'intestazione del
Partito. «La Signoria Vostra è invitata a onorare della Sua
presenza la cerimonia a sfondo sociale che si svolgerà domattina
alle ore 10 in Piazza della Libertà. Il Segretario della Sezione
compagno Bottazzi Sindaco Giuseppe.» Don Camillo guardò in faccia
lo Smilzo. «Di' al signor compagno Peppone sindaco Giuseppe che io
non ho nessuna voglia di venire a sentire le solite stupidaggini
contro la reazione e i capitalisti. Le so già a memoria.»«No»
spiegò lo Smilzo «niente discorsi politici. Roba di patriottismo,
a sfondo sociale. Se dite di no significa che non capite niente della
democrazia.» Don Camillo approvò gravemente tentennando il capo.
«Se le cose stanno così» esclamò «non parlo più.» «Bene.
Dice il capo che veniate in divisa con gli arnesi.» «Gli arnesi?»
«Sì, la secchia e il pennello: c'è da benedire roba.» Lo Smilzo
parlava in questo modo a don Camillo appunto in quanto era lo Smilzo,
uno cioè che, per la sua taglia speciale e per la sua sveltezza
diabolica, in montagna poteva passare tra palla e palla senza
scalfirsi. Così, quando il grosso libro lanciato da don Camillo
arrivò nel punto dove c'era la testa dello Smilzo, lo Smilzo era
già fuori dalla canonica e pigiava sui pedali della sua bicicletta.
Don Camillo si alzò, raccolse il libro e andò a sfogare il suo
risentimento col Cristo dell'altare.«Gesù» disse «possibile che
non si riesca a sapere cosa combineranno domani quelli là? Non ho
mai visto una cosa tanto misteriosa. Cosa vorranno dire tutti quei
preparativi? Quelle fronde che stanno piantando tutto attorno al
prato che sta fra la farmacia e la casa dei Baghetti? Che razza di
diavoleria è quella?» «Figlio mio, se fosse una diavoleria per
prima cosa non la farebbero all'aperto e secondariamente non ti
chiamerebbero per benedirla. Abbi pazienza fino a domani.»
Don
Camillo, la sera, andò a dare un'occhiata, ma non c'erano altro che
fronde e festoni attorno al prato e nessuno riusciva a capire
niente.Quando la mattina partì seguito da due chierichetti, gli
tremavano le gambe. Sentiva che c'era sotto qualcosa che non
funzionava. C'era sotto il tradimento. Ritornò un'ora dopo
disfatto, con la febbre addosso. «Cos'è successo?» gli chiese il
Cristo dell'altare. «Una cosa da far drizzare i capelli» balbettò
don Camillo. «Una cosa orrenda. Banda, inno di Garibaldi, discorso
di Peppone e posa della prima pietra della "Casa del Popolo".
E io ho dovuto benedire la prima pietra. Peppone schiattava di
soddisfazione. Quel farabutto mi ha invitato a dire due parole e
così ho dovuto fare anche il discorsetto di circostanza perché
è, sì, una roba del partito ma il mascalzone l'ha presentata come
opera pubblica.» Don Camillo passeggiò in su e in giù per la
chiesa deserta. Poi si fermò davanti al Cristo. «Uno scherzo»
esclamò. «Sale di ritrovo e di lettura, biblioteca, palestra,
ambulatorio e teatro. Un grattacielo di due piani, con annesso campo
sportivo e gioco delle bocce. Il tutto per la miserabile somma di
dieci milioni.» «Non è caro, dato i prezzi attuali» osservò il
Cristo. Don Camillo si accasciò su una panca. «Gesù» sospirò
dolorosamente «perché mi avete fatto questo dispetto?» «Don
Camillo, tu sragioni!» «No: non sragiono. Sono dieci anni che Vi
prego in ginocchio di farmi trovare un po' di quattrini per
impiantare una bibliotechina, una sala di ritrovo per i ragazzi, un
campo di gioco per i bambini, con la giostra e l'altalena e magari
una piccola piscinetta come c'è a Castellina. Sono dieci anni che
mi arrabatto facendo complimenti a degli sporcaccioni di spilorci
proprietari che prenderei volentieri a sberle tutte le volte che li
incontro; avrò combinato duecento lotterie, avrò bussato a
duemila porte e non sono riuscito a niente. Arriva un pezzo di
farabutto scomunicato ed ecco dieci milioni piovergli in tasca dal
cielo.» Il Cristo scosse il capo. «Non gli sono piovuti dal cielo»
rispose. «Se li è trovati in terra. Io non c'entro, don Camillo.
È frutto della sua iniziativa personale.» Don Camillo allargò le
braccia. «Allora la cosa è semplice: significa che io sono un
povero stupido.» Don Camillo andò a camminare ruggendo nel suo
camerone in canonica. Escluse il fatto che Peppone si fosse procurato
i dieci milioni assaltando la gente per la strada o scassinando la
cassaforte di una banca."Quello, nei giorni della Liberazione,
quando è arrivato giù dalla montagna e sembrava che dovesse
esserci la rivoluzione proletaria da un momento all'altro, ha
sfruttato la fifa di quei vigliacchi di signori e ha spillato loro
quattrini." Poi pensò che, in quei giorni, di signori non ce
n'era uno in paese, mentre invece c'era un reparto inglese arrivato
assieme agli uomini di Peppone. Gli inglesi si erano insediati nelle
case dei signori, prendendo il posto dei crucchi i quali, essendo
stati fermi in paese un bel pezzo, avevano ripulito razionalmente le
case dei signori di tutte le cose migliori. Quindi non c'era neppure
da pensare che Peppone si fosse procurato i dieci milioni razziando
nelle case. Forse i soldi venivano dalla Russia? Si mise a ridere:
figuriamoci se i russi hanno in mente Peppone. «Gesù» andò a
implorare alla fine don Camillo «non puoi dirmi dove Peppone ha
trovato i quattrini?» «Don Camillo» rispose sorridendo il Cristo
«mi prendi forse per un agente investigativo? Perché chiedere a
Dio quale sia la verità, quando la verità è dentro di te?
Cercala, don Camillo. Intanto, per distrarti un po', perché non fai
un giretto fino alla città?» La sera dopo, ritornando dalla gita
in città, don Camillo si presentò al Cristo in uno stato di
impressionante agitazione. «Che ti succede, don Camillo?» «Una
cosa pazzesca!» esclamò don Camillo ansimando. «Ho incontrato un
morto! A faccia a faccia, nella strada!» «Don Camillo, calmati e
ragiona: di solito i morti che si incontrano a faccia a faccia, nella
strada, sono dei vivi.» «Lo escludo» gridò don Camillo. «Quello
è un morto-morto, perché l'ho portato io stesso al cimitero.»
«Se è così» rispose il Cristo «non dico più niente. Sarà
un fantasma.» Don Camillo alzò le spalle. «Ma no! I fantasmi
esistono soltanto nella fantasia delle donnette stupide!» «E
allora?»«Già» borbottò don Camillo. «Anche questo è vero.»
Don Camillo raccolse le idee. Il morto era un giovanotto magro, uno
non del paese, che era sceso giù dai monti assieme agli uomini di
Peppone. Era ferito alla testa e malconcio e lo avevano sistemato al
pianterreno della villa Docchi, che era stata la sede del comando
crucco, e che ora era diventata la sede del comando inglese. Nella
stanza attigua a quella del malato, Peppone aveva sistemato il suo
ufficio-comando. Don Camillo ricordava benissimo: la villa era
circondata da tre ordini di sentinelle inglesi e non entrava né
usciva una mosca, perché vicino si combatteva ancora e gli inglesi
ci tengono particolarmente alla propria pelle. Ciò era successo la
mattina; la notte stessa il giovanotto ferito era morto: Peppone
mandò a chiamare don Camillo verso la mezzanotte, ma quando don
Camillo arrivò, il ragazzo era già freddo. Gli inglesi non
volevano morti in casa e, verso il mezzogiorno, la bara contenente il
povero ragazzo usciva dalla villa portata a braccia da Peppone e dai
suoi tre più fidi e coperta di un drappo tricolore: un reparto
armato di inglesi, bontà loro, aveva reso gli onori. Don Camillo
ricordava che la cerimonia funebre era stata commoventissima: tutto
il paese dietro al feretro posto su un affusto da cannone.
E
il discorso al cimitero, prima che la bara venisse calata nella
fossa, l'aveva fatto proprio lui, don Camillo, e la gente piangeva.
Anche Peppone, che era in prima fila, singhiozzava. "Quando mi
ci metto, io so parlare!" si compiacque don Camillo rievocando
questo episodio. Poi riprese il filo logico del suo discorso e
concluse: "E con tutto questo io sono pronto a giurare che il
giovanotto magro che ho incontrato oggi in città è quello che ho
portato alla sepoltura". Sospirò. "Così è la vita."
Il giorno dopo don Camillo andò a trovare nella sua officina
Peppone che lavorava sdraiato sotto una automobile.«Buondì,
compagno sindaco. Sono venuto per dirti che da due giorni sto
ripensando alla descrizione della tua Casa del Popolo.» «Che ve ne
pare?» ghignò Peppone. «Magnifica. Mi ha fatto decidere a mettere
in piedi quel localetto con piscina, giardino, campo di giuochi,
teatrino eccetera che, come sai, ho in testa da tanti anni. Farò la
posa della prima pietra la domenica ventura. Ci terrei molto che
venissi anche tu, come sindaco.» Peppone uscì di sotto la vettura
e si pulì con la manica della tuta la faccia unta. «Volentieri:
cortesia per cortesia.» «Bene. Nel frattempo cerca di stringere un
tantino il progetto della tua casa. È troppo grossa, per il mio
temperamento.» Peppone lo guardò sbalordito. «Don Camillo, siete
svanito?» «Non più di quella volta quando ho fatto unafunzione
funebre con discorso patriottico a una cassa da morto che non doveva
essere chiusa bene perché ieri ho incontrato il cadavere a spasso
in città.»Peppone digrignò i denti. «Cosa vorreste insinuare?»
«Niente: che quella cassa alla quale gli inglesi hanno presentato le
armi e che io ho benedetto era piena di roba trovata da te nella
cantina della villa Docchi dove prima c'era il comando tedesco. E il
morto era vivo e nascosto in solaio.» «Ah!» urlò Peppone «Ci
siamo con la solita storia! Si tenta di infamare il movimento
partigiano!» «Lascia stare i partigiani, Peppone. A me non mi
freghi.»
E
se ne andò mentre Peppone profferiva oscure minacce. La sera stessa
don Camillo lo vide arrivare in canonica accompagnato dal Brusco e da
altri due pezzi grossi. Quelli stessi che avevano portato la bara.
«Lei» disse cupo Peppone «ha poco da insinuare. Era tutta roba
rubata dai tedeschi: argenteria, macchine fotografiche, strumenti,
oro eccetera. Se non la prendevamo noi la prendevano gli inglesi. Era
l'unico modo per farla uscire. Qui ho ricevute e testimonianze,
nessuno ha toccato una lira: dieci milioni sono stati ricavati e
dieci milioni saranno spesi per il popolo.» Il Brusco, che era
focoso, si mise a gridare che questa era la verità e che lui, caso
mai, sapeva benissimo come va trattata certa gente. «Anch'io»
rispose calmo don Camillo. E lasciò cadere il giornale che teneva
sciorinato davanti e allora si vide che, sotto l'ascella destra, don
Camillo teneva il famoso mitra che era stato un tempo di Peppone. Il
Brusco impallidì e fece un salto indietro e Peppone allargò le
braccia. «Don Camillo, non mi pare che sia il caso di litigare.»
«Neanche a me» rispose don Camillo. «Tanto più che sono
perfettamente d'accordo con voi: dieci milioni di ricavo e dieci
milioni debbono andare al popolo. Sei con la vostra Casa del Popolo e
quattro col mio ritrovo-giardino per i figli del popolo. Sinite
par-vulos venire ad me: io chiedo soltanto la mia spettanza.»I
quattro si consultarono a bassa voce, poi Peppone parlò. «Se non
aveste quel maledetto arnese fra le mani vi risponderei che questo è
il più vile ricatto dell'universo.»La domenica seguente il sindaco
Peppone presenziò con tutte le autorità alla posa della prima
pietra del ritrovo-giardino di don Camillo. E fece anche un
discorsetto. Però trovò modo di sussurrare a don Camillo: «Questa
prima pietra forse sarebbe stato meglio legarvela al collo e poi
buttarvi in Po». Don Camillo, la sera, andò a riferire al Cristo
dell'altare. «Cosa ne dite?» chiese alla fine. «Quel che ti ha
risposto Peppone: se tu non avessi quel maledetto arnese tra le mani,
direi che questo è il più vile ricatto del mondo.» «Ma io tra
le mani non ho che l'assegno che mi ha consegnato Peppone» protestò
don Camillo. «Appunto» sussurrò il Cristo. «Con questi quattro
milioni farai troppe cose buone e belle, don Camillo, perché io
possa maltrattarti.»Don Camillo si inchinò e andò a letto a
sognare un giardino pieno di bambini, un giardino con giostra e
altalena, e sull'altalena c'era il figlio più piccolo di Peppone
che cinguettava come un uccelletto.
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