I
primi anni
Argigliano è un piccolo paese della Lunigiana, terra dell’alta Toscana, nascosto tra boschi di castagni, colli di vitigni ed uliveti. Questo piccolo villaggio sorge in una vallata ai piedi del monte Pisanino avvolto alle spalle dall’imponenza delle vette dell’Appennino mentre il degradare delle colline va scendendo verso il Tirreno in lembi di pianure coltivate a grano. E’ in questo minuscolo paesino, a quel tempo un villaggio di una trentina di famiglie, che l’1 settembre del 1642 nacque Francesco Paoli. Francesco era il primo di sette fratelli nati dal matrimonio di Angelo con Santa Morelli, una coppia di contadini stimati dalla piccola società in cui vivevano per la loro onestà e per la loro fede semplice e forte. La condizione economica della famiglia non era ricca ma il lavoro di babbo Angelo ed i pochi beni posseduti, permettevano alla numerosa famiglia di godere di una vita abbastanza agiata. Il loro primo figlio ricorderà più volte e con gratitudine, l’educazione cristiana impartita dai genitori che spronavano i loro figli all’esercizio delle virtù cristiane, ad avere orrore del peccato ed a ricordarsi dei poveri che molte venivano soccorsi dai coniugi Paoli. La generosità di papà Angelo era così grande al punto che portò la sua famiglia in ristrettezze economiche quando questi si fece garante di un amico presso un creditore. Non potendo l’amico pagare il suo debito, il creditore non lo condonò ma volle essere pagato dal suo garante. Il debito portò la famiglia Paoli quasi in povertà, ma Angelo, lavorando con notevole sforzo e sacrificio, riuscì a sanare nel tempo l’indigenza procurata senza far mai mancare alla sua famiglia il necessario per vivere.
Argigliano è un piccolo paese della Lunigiana, terra dell’alta Toscana, nascosto tra boschi di castagni, colli di vitigni ed uliveti. Questo piccolo villaggio sorge in una vallata ai piedi del monte Pisanino avvolto alle spalle dall’imponenza delle vette dell’Appennino mentre il degradare delle colline va scendendo verso il Tirreno in lembi di pianure coltivate a grano. E’ in questo minuscolo paesino, a quel tempo un villaggio di una trentina di famiglie, che l’1 settembre del 1642 nacque Francesco Paoli. Francesco era il primo di sette fratelli nati dal matrimonio di Angelo con Santa Morelli, una coppia di contadini stimati dalla piccola società in cui vivevano per la loro onestà e per la loro fede semplice e forte. La condizione economica della famiglia non era ricca ma il lavoro di babbo Angelo ed i pochi beni posseduti, permettevano alla numerosa famiglia di godere di una vita abbastanza agiata. Il loro primo figlio ricorderà più volte e con gratitudine, l’educazione cristiana impartita dai genitori che spronavano i loro figli all’esercizio delle virtù cristiane, ad avere orrore del peccato ed a ricordarsi dei poveri che molte venivano soccorsi dai coniugi Paoli. La generosità di papà Angelo era così grande al punto che portò la sua famiglia in ristrettezze economiche quando questi si fece garante di un amico presso un creditore. Non potendo l’amico pagare il suo debito, il creditore non lo condonò ma volle essere pagato dal suo garante. Il debito portò la famiglia Paoli quasi in povertà, ma Angelo, lavorando con notevole sforzo e sacrificio, riuscì a sanare nel tempo l’indigenza procurata senza far mai mancare alla sua famiglia il necessario per vivere.
E’ in questo contesto familiare di fede
semplice e vissuta nei segni della solidarietà e della benevolenza
che il piccolo Francesco si affacciò alla vita e visse gli anni
della sua infanzia e della sua giovinezza. L’esempio ricevuto in
famiglia portò ben presto il fanciullo ad agire alla maniera dei
genitori, al punto che il suo amore verso gli indigenti gli valse di
essere chiamato dai suoi stessi paesani “padre dei poveri”, un
vezzeggiativo riconoscente ed ammirato che inconsapevolmente
risuonava come la profezia di un titolo che, non più una ristretta
cerchia di paesani, ma l’intera Roma un giorno avrebbe accreditato
al nostro piccolo Francesco quando, ormai adulto, sarebbe diventato
padre Angelo. La bellezza della natura rigogliosa che circondava il
paese natio affascinava il piccolo Francesco che amava ritirarsi in
luoghi solitari per immergersi nella preghiera. Il suo animo di
fanciullo conquistato da Cristo, lo portava ad agire come un piccolo
catechista in mezzo ai suoi compagni, riprendendoli quando usavano un
linguaggio scurrile, invitandoli a sospendere i giochi al suono della
campana della chiesa dell’Assunta per recarsi alle funzioni,
animandoli ad essere devoti all’Eucarestia, accompagnandoli presso
qualche “maestà” (le piccole edicole mariane che costellavano
le vie e le campagne intorno al paese) per recitare qualche
preghiera, oppure istruendoli, per come poteva sapere a quella
giovanissima età, alle verità della fede. Il suo operato
catechistico non sempre riscuoteva successi, infatti non erano rare
le volte in cui veniva piantato in asso e apostrofato dai suoi amici
come “beghino”. Francesco cresceva così, forte anche se con un
fisico non eccessivamente robusto, operoso nella sua famiglia nella
quale provvedeva ad accudire i fratelli e l’anziana nonna nelle
lunghe ore di assenza dei genitori intenti a lavorare nei campi,
attivo nella sua parrocchia occupandosi del decoro della chiesa,
libero come ogni ragazzo di campagna che vive i suoi giochi nella
piazza del villaggio o giù per i pendii ed i sentieri erbosi a fare
innocenti scorrerie con la banda vociante dei suoi amici, spensierato
e vivace ma con Gesù nel cuore.
La
chiamata
A
dodici anni la sofferenza visitava la vita del piccolo Francesco e
spezzava la sua spensieratezza. La mamma moriva, così come le fonti
ci raccontano, accogliendo la morte con spirito di fede pur
consapevole di lasciare sette figli tutti in giovanissima età. Cosa
abbia provato e vissuto il giovane Francesco possiamo solo
immaginarlo, quello che ci viene detto è che intensificò la sua
vita di preghiera e di dedizione agli altri, specie ai poveri. E’
probabile che il grande amore verso la Madre di Gesù, che lui amò
sempre teneramente, abbia avuto nel dolore della perdita della madre
la radice della sua intensità. Privo della presenza fisica della
madre, Maria diventava la Madre sua che con la sua guida ed il suo
amore avrebbe provveduto a lui ed ai suoi fratellini. Quanto in
Francesco era andato maturando attraverso gli eventi della sua
giovane esistenza, fu reso manifesto a diciotto anni, quando egli
chiese al padre di accompagnarlo presso monsignor Prospero Spinola,
vescovo di Sarzana, per chiedere di essere ammesso alla vita
ecclesiastica e ricevere la tonsura. Nella quaresima del 1660
Francesco diventava chierico, riceveva gli ordini minori rimanendo
però in famiglia così come la prassi vocazionale del tempo
prevedeva. Con quel rito Francesco era ormai incardinato al clero
diocesano, poteva assistere alle funzioni religiose in abito e cotta,
doveva sottostare al vescovo in obbedienza alla sue direttive ed era
tenuto a condurre vita da giovane celibe. Pur essendo ormai un
chierico ed avendo in qualche modo già realizzato le sue
aspirazioni vocazionali, Francesco sentiva in cuor suo la chiamata ad
una vita di maggiore preghiera e penitenza, per tal motivo chiese al
padre il permesso di poter entrare tra i frati Carmelitani del vicino
convento di Fivizzano. Conosceva anche gli agostiniani, ma optò per
il Carmelo per via della devozione alla Vergine Maria propria della
famiglia carmelitana, devozione, come già detto, da lui coltivata
fin dall’infanzia portando lo Scapolare del Carmine e compiendo
piccoli pellegrinaggi di preghiera presso le edicole mariane
disseminate intorno al paese (tra di esse ve ne era una dedicata alla
Madonna del Carmine). Ancora oggi, in quelli che furono i luoghi
della prima giovinezza di padre Angelo, la sua gente conserva la
memoria di quei posti dove il piccolo Francesco amava recarsi e
sostare in preghiera, soprattutto quelle edicole poste ai bordi della
strada che da Argigliano va verso Minucciano, paesino dove
adolescente Francesco si recava insieme al fratello Tommaso, per
ricevere la sua prima istruzione elementare che gli veniva impartita
dal Vicario Parrocchiale di quel luogo. Il 27 novembre del 1660
Francesco entrava come postulante presso il convento del Carmine di
Fivizzano insieme al fratello Tommaso (anche questi diverrà
religioso carmelitano). La comunità dovette essere così ben
impressionata dalle intenzioni e dallo spessore umano e spirituale
dei due giovani, al punto che appena tre giorni dopo il loro ingresso
al Carmelo, i due fratelli Paoli iniziavano il loro noviziato a
Siena. Francesco ricevette l’abito e da quel momento divenne per
sempre frà Angelo Paoli.
Verso il sacerdozio
Diventato novizio, fra Angelo cominciò a vivere quanto era previsto dalla prassi formativa del tempo. Secondo i dettami delle Costituzioni dell’Ordine allora vigenti, il novizio doveva condurre vita appartata, dedita allo studio della spiritualità dell’Ordine e di altre letture spirituali, doveva temprarsi in un atteggiamento di modestia e mitezza, doveva essere libero da dissolutezze, pudico nell’aspetto e nei gesti. Dopo un anno di vita fedele a questo regime, fra Angelo il 18 dicembre del 1661, professava i suoi voti solenni di povertà, castità ed obbedienza. Dopo la professione religiosa, il giovane religioso lasciava Siena per recarsi presso il convento del Carmine di Pisa, a quel tempo designato come casa di Studi Generali dell’Ordine. Presso questo convento fra Angelo iniziò i suoi studi di filosofia. Quando era diciottenne aveva ricevuto i due ordini minori dell’ostariato e del lettorato, durante i suoi cinque anni di studi filosofici, precisamente il 29 dicembre del 1669, il giovane religioso ricevette gli ultimi due ordini minori, ovvero sia l’esorcistato e l’accolitato. Nel dicembre dell’anno successivo, fra Angelo ricevette il primo ordine maggiore, quello del suddiaconato, ed il 19 dicembre del 1666 venne ordinato diacono. Ormai i suoi studi filosofici volgevano al termine, bisognava iniziare quelli teologici per poter accedere al sacerdozio. Nel gennaio del 1667 fra Angelo veniva trasferito presso il convento del Carmine di Firenze, anche questo designato come Studio Generale dell’Ordine, per avviarsi allo studio della Teologia sotto la guida di un dotto e saggio maestro quale era il padre Giovanni di Ventaja, spagnolo della provincia religiosa dell’Andalusia. In una data a noi sconosciuta, sicuramente intorno agli ultimi giorni di dicembre o dei primi di gennaio del 1667, fra Angelo veniva ordinato sacerdote nella chiesa del Carmine di Firenze, “cantando” la sua prima messa solenne in occasione della festa di sant’Andrea Corsini. Nel convento di Firenze, padre Angelo visse per sette anni continuando i suoi studi ma rifiutando di accedere (a differenza del fratello Tommaso), ai gradi accademici che avrebbero fatto di lui un maestro di Teologia. La vita di preghiera infondeva in lui uno straordinario spirito di intelligenza della cose divine, ma questo non lo faceva sentire esente dal dovere di applicarsi con dedizione allo studio dei testi teologici. Il rifiuto di accedere ai gradi accademici superiori fermandosi a quello di lettore, non fu certo dettato da incapacità o demotivazione allo studio, egli stesso infatti lo motivò dicendo che “sentiva di essere chiamato da Dio a servire il prossimo”.
Verso il sacerdozio
Diventato novizio, fra Angelo cominciò a vivere quanto era previsto dalla prassi formativa del tempo. Secondo i dettami delle Costituzioni dell’Ordine allora vigenti, il novizio doveva condurre vita appartata, dedita allo studio della spiritualità dell’Ordine e di altre letture spirituali, doveva temprarsi in un atteggiamento di modestia e mitezza, doveva essere libero da dissolutezze, pudico nell’aspetto e nei gesti. Dopo un anno di vita fedele a questo regime, fra Angelo il 18 dicembre del 1661, professava i suoi voti solenni di povertà, castità ed obbedienza. Dopo la professione religiosa, il giovane religioso lasciava Siena per recarsi presso il convento del Carmine di Pisa, a quel tempo designato come casa di Studi Generali dell’Ordine. Presso questo convento fra Angelo iniziò i suoi studi di filosofia. Quando era diciottenne aveva ricevuto i due ordini minori dell’ostariato e del lettorato, durante i suoi cinque anni di studi filosofici, precisamente il 29 dicembre del 1669, il giovane religioso ricevette gli ultimi due ordini minori, ovvero sia l’esorcistato e l’accolitato. Nel dicembre dell’anno successivo, fra Angelo ricevette il primo ordine maggiore, quello del suddiaconato, ed il 19 dicembre del 1666 venne ordinato diacono. Ormai i suoi studi filosofici volgevano al termine, bisognava iniziare quelli teologici per poter accedere al sacerdozio. Nel gennaio del 1667 fra Angelo veniva trasferito presso il convento del Carmine di Firenze, anche questo designato come Studio Generale dell’Ordine, per avviarsi allo studio della Teologia sotto la guida di un dotto e saggio maestro quale era il padre Giovanni di Ventaja, spagnolo della provincia religiosa dell’Andalusia. In una data a noi sconosciuta, sicuramente intorno agli ultimi giorni di dicembre o dei primi di gennaio del 1667, fra Angelo veniva ordinato sacerdote nella chiesa del Carmine di Firenze, “cantando” la sua prima messa solenne in occasione della festa di sant’Andrea Corsini. Nel convento di Firenze, padre Angelo visse per sette anni continuando i suoi studi ma rifiutando di accedere (a differenza del fratello Tommaso), ai gradi accademici che avrebbero fatto di lui un maestro di Teologia. La vita di preghiera infondeva in lui uno straordinario spirito di intelligenza della cose divine, ma questo non lo faceva sentire esente dal dovere di applicarsi con dedizione allo studio dei testi teologici. Il rifiuto di accedere ai gradi accademici superiori fermandosi a quello di lettore, non fu certo dettato da incapacità o demotivazione allo studio, egli stesso infatti lo motivò dicendo che “sentiva di essere chiamato da Dio a servire il prossimo”.
La
chiamata nella chiamata
Quale
fosse la chiamata che Dio suggeriva al suo cuore, padre Angelo la
scoprì lasciandosi accompagnare dallo Spirito attraverso gli eventi
della vita. Nel convento di Firenze, il giovane frate aveva
rinunciato agli studi per dedicarsi a quei servizi umili spesso
destinati ai fratelli laici: la confezione delle tonache per i frati
e la cura dei religiosi malati. Le mortificazioni e le penitenze alle
quali sottoponeva il suo corpo, i digiuni e la privazione del sonno
nelle lunghe preghiere notturne, cominciarono a minare il suo fisico.
L’andatura divenne stanca, il viso pallido, il corpo emaciato. Il
medico della comunità ordinò che il religioso tornasse in
famiglia per un periodo di riposo, nella speranza che l’aria natìa
e le cure familiari ne ristabilissero il fisico. Il suo rientro in
famiglia avvenne proprio in occasione della festa patronale
dell’Assunta. In quella occasione le famiglie secondo l’uso
popolare, preparavano cibo in abbondanza per accogliere i pellegrini
che dai paesi vicini venivano a Fivizzano per la festa. Si racconta
che padre Angelo prese tutte le vettovaglie preparate dai suoi e
recatosi presso i poveri, li distribuì senza curarsi delle proteste
dei familiari. Desideroso di sottrarsi alla vita familiare che gli
ruotava intorno riempiendolo di cure e di attenzioni, nell’intento
di riprendere la vita di preghiera e di unione con Dio che aveva
vissuto in convento e che forse gli veniva in qualche modo resa
difficile da condurre nell’affollata casa paterna, padre Angelo di
tanto in tanto lasciava Argigliano arrampicandosi per i sentieri
tortuosi delle sue montagne fino a raggiungere il Romitorio di san
Pellegrino. Queste escursioni gli permisero di venire a conoscenza
con una forma di povertà prima a lui sconosciuta: quella dei
pastori disseminati per i monti, segregati da ogni forma di vita
sociale e dimenticati da qualsiasi attenzione pastorale. Di solito il
giovane frate, quando il crepuscolo calava sui monti, rientrava a
casa di babbo Angelo, ma una sera non fece ritorno. Aveva deciso di
vivere in mezzo ai pastori dimorando in una capanna simile a quella
dei guardiani di pecore. Le sue giornate le trascorreva condividendo
la vita dei pastori, stando a contatto con loro, ascoltando le loro
storie, conoscendo da vicino le loro fatiche, assaporando il
sacrificio del loro lavoro. Aveva costruito delle croci rudimentali
presso le quali la sera convocava quelli che furono i primi figli
della sua paternità pastorale. Quando le pecore erano ormai adunate
negli ovili, padre Angelo si circondava dei suoi nuovi amici
insegnando loro a pregare ed impartendo qualche nozione di
catechismo. Il padre del carmelitano, preoccupato per la sorte del
figlio, venne poco dopo a cercarlo supplicandolo di rientrare a casa.
Era rientrato in famiglia per riposare, ma la vita in montagna, lo
scarso cibo (si nutriva di erbe cotte ed un po’ di formaggio) ed il
rigore delle sue penitenze che non aveva smesso di praticare, non
avevano certo migliorato le sue condizioni di salute.
I
familiari lo pregarono perciò di recarsi a Pistoia presso un cugino
farmacista che con le sue conoscenze ed i suoi rimedi, avrebbe
aiutato il parente a recuperare nuovo vigore. Ma anche in quella
città padre Angelo non si dette tregua nella sua ricerca dei
poveri. Si recava presso l’ospedale per servire i malati ed essendo
privo di mezzi, si metteva addirittura a chiedere l’elemosina per
poter racimolare qualche spicciolo e comprare ciò che poteva
giovare a qualche derelitto. Il fuoco dell’amore per gli indigenti
e gli ultimi ardeva cresceva ogni giorno nel cuore di padre Angelo
che avanzava nel percorso della vita diventato sempre più “padre
Carità”. Viandante dell’obbedienza Il periodo che va dal 1675
al 1687 vede il nostro padre Angelo trasferirsi dietro richiesta dei
superiori, in diversi conventi della Toscana fino all’approdo
definitivo al convento di San Martino ai Monti a Roma. Ogni
trasferimento corrispondeva per il carmelitano ad un nuovo incarico e
dovunque andava l’umile frate trovava modo di esercitare il suo
ministero della carità e della premura verso gli ultimi. Dopo i
mesi trascorsi a Pistoia, padre Angelo fu trasferito a Firenze per
ricoprire l’incarico di maestro dei novizi. Il suo metodo educativo
era prima di tutto quello dell’esempio ed i suoi novizi percepivano
di avere come loro educatore un uomo singolare animato dal soffio
della santità. L’obiettivo della sua azione formativa era
duplice: forza interiore e amore apostolico. Formava i suoi giovani
alla preghiera, alla compostezza dei modi, all’autocontrollo del
carattere ed al dominio delle passioni. Voleva che essi diventassero
uomini di preghiera e disposti al sacrificio. Il suo tratto era
amabile, non incuteva paura, riconosceva e premiava i successi dei
suoi novizi, correggeva ed impartiva con fermezza paterna regole e
disciplina. Il clima che faceva regnare in noviziato era lieto, non
voleva che ci fosse pesantezza e malinconia, e spesso proprio per
tenere desto l’animo dei suoi giovani, organizzava delle escursioni
all’aperto, specie verso le montagne da lui amate fin dalla sua
infanzia. In quelle gite amava giocare con i suoi ragazzi,
permettendo loro di prenderlo in giro bonariamente. In tutto questo
padre Angelo si mostrava come un educatore esperto che a seconda
delle circostanze, sapeva assumere le giuste distanze rispetto dai
suoi educandi: ora era energico ed assertivo, ora era amabile e
vicino, ora era lieto e giocoso. Potremmo dire che sapeva avere il
comportamento giusto al momento giusto.
I
suoi novizi dovevano anche essere uomini generosi e capaci di amare
Cristo nel prossimo e nel povero. Per tal motivo spesso li conduceva
all’ospedale di Santa Maria Nuova per assistere i malati e prestare
i servizi più umili. Non impartiva richieste ai suoi novizi: lui
per primo mostrava come dovevano essere serviti i malati più poveri
e come dovevano essere compiuti i servizi più riluttanti. La sua
abilità educativa traspariva anche quando gli fu chiesto di
assumere il servizio parrocchiale. Nell’autunno del 1676 padre
Angelo infatti lasciava Firenze per ricoprire l’incarico di parroco
a Corniola, un piccolo villaggio vicino ad Empoli. La situazione
umana e pastorale in quel minuscolo borgo, non era semplice. La gente
era piuttosto chiusa e rozza, ma con pazienza il nuovo parroco
portava avanti il suo operato e conquistava i cuori. Il primo atto
del suo ministero fu quello di cercare due pini per farne una grande
croce da piantare su di un colle ben visibile dal vicino paesino.
Ogni sera padre Angelo si recava lì per pregare e pian piano la sua
gente cominciò a fargli corona unendosi alla sua preghiera. Ma il
nuovo parroco non dimenticava di cercare lui stesso il suo piccolo
gregge: visitava i malati, istruiva con la catechesi la gente,
celebrava ogni giorno l’Eucarestia, raggruppava intorno a sé i
fanciulli e sulle giovani generazioni riusciva ad avere un tale
fascino che spontaneamente, lo seguivano e lo accompagnavano nelle
sue uscite tanto da sembrare (come ricorderanno i suoi parrocchiani
anche a distanza di tempo) “una chioccia seguita dai suoi pulcini”.
L’esperienza parrocchiale di padre Angelo però, per volere dei
superiori, era destinata a durare solo pochi mesi perché già
nell’ottobre del 1677 veniva trasferito a Siena. Padre Angelo
conosceva la città perché in essa vi aveva dimorato al tempo del
suo noviziato. La ricordava come una città fiorente e bella nel suo
stile medioevale. Ma molte cose erano cambiate dal tempo del suo
noviziato: la carestia aveva accresciuto a dismisura il numero dei
poveri e degli accattoni. Il giovane carmelitano sentiva di dover
fare qualcosa e la fantasia della sua carità escogitò
l’allestimento di quella che noi oggi chiameremmo una mensa dei
poveri. Con l’aiuto dei suoi confratelli racimolava gli avanzi
della cucina del convento, l’orto dei frati o la campagna con le
sue verdure spontanee, gli offrivano un po’ di verdura così da
poter preparare ogni giorno una minestra sicuramente povera di
condimenti, ma calda e buona per la sopravvivenza dei tanti poveri
che chiedevano da mangiare. Tre anni dopo, nel 1680, padre Angelo
lasciava Siena per recarsi a Montecatini. Qui il suo compito
principale fu quello di maestro di grammatica: egli era un uomo
spinto da una grande carità ma anche una persona intelligente e
preparata, quindi ben capace di istruire i giovani chierici negli
studi propedeutici alla filosofia ed alla teologia.
A
Montecatini certo non mancavano i poveri ed anche qui il nostro amico
sapeva industriarsi per sfamarli, talvolta bussando in prima persona
alle porte di contadini per avere in dono qualcosa per preparare la
minestra per quanti avevano fame. Sicuramente a Montecatini padre
Angelo divenne presto un riferimento per gli abitanti e per i poveri
che accorrevano a lui. L’attaccamento della gente alla sua persona
dovette essere talmente forte se, quando l’obbedienza gli impose di
partire per Pisa, il nostro frate decise di partire di notte per
evitare resistenze o un sofferto commiato da parte del suo popolo.
Anche il trasferimento a Pisa era un ritorno in un convento ed in una
città dove egli vi aveva già vissuto, ed anche qui ben presto
intorno alla sua persona si radunarono poveri ed abbandonati. Il
ministero caritativo di Padre Angelo in questa città si colorava di
una novità. La fama della santità della sua persona e del suo
operato, avevano preceduto il suo arrivo a Pisa. Ed ecco che diversi
personaggi illustri, avendo sentito parlare di lui e desiderosi di
fare beneficenza, andavano a cercarlo dandogli cospicue somme di
danaro che lui provvedeva a spendere piuttosto velocemente per far
del bene. La sua difficoltà a tenere con sé del denaro era
proverbiale e spesso anche motivo di rimprovero. Era come se non
riuscisse a possedere nulla per sé, neppure i soldi necessari per i
viaggi, anzi accadeva sempre che all’inizio di ognuno dei suoi
spostamenti richiesti dall’obbedienza, si liberava presto dei soldi
ricevuti dai superiori e necessari per il cibo e per l’alloggio
durante il cammino che a volte poteva durare anche per dei giorni.
Dava tutto in elemosina perché non era difficile incontrare dei
poveri per via mentre per se puntava solo sulla fiducia nella
Provvidenza. I racconti sulla vita di padre Angelo e di come il
Signore ha provveduto per proteggerlo e talvolta anche per farlo
viaggiare privo di qualsiasi sicurezza (talvolta anche mal vestito
visto che regalava anche i panni che portava sotto la tonaca per
vestire i poveri ignudi) hanno dello straordinario se non del
miracoloso. La permanenza a Pisa durò solo pochi mesi. Nell’agosto
del 1682 padre Angelo è di nuovo in viaggio. Il nuovo provinciale
eletto in quell’anno gli chiedeva di recarsi a Fivizzano, il
convento del quale era figlio. Certamente la famiglia Paoli era stata
felice nell’apprendere la notizia del ritorno presso i luoghi natii
del loro congiunto, lo si può dedurre dal fatto che il fratello lo
raggiunse a Pisa per accompagnarlo verso la terra natale alla quale
molto probabilmente non vi faceva ritorno da più di sette anni .
Padre Angelo dimorò nel piccolo convento di Fivizzano per cinque
anni ricoprendo l’incarico di sacrista e di organista. Un animo
grande come quello suo, aperto all’urgenza della carità, non
poteva non amare anche la musica. Si era costruito un particolare
sgabello che gli permetteva di suonare l’organo in ginocchio
perché la musica per lui era uno strumento per elevare il cuore a
Dio e lodarne la Bellezza. Sicuramente padre Angelo era un amante del
bello e soprattutto un amante del volto di Dio. Il suo amore per la
natura, la sua attitudine a crearsi momenti di fuga su per le
montagne alla ricerca dei silenzi, dei suoni, dei colori e degli
orizzonti che esse regalano nei loro sentieri e dalle altezze delle
loro vette, la passione per il riverbero dei vortici d’aria nelle
canne dell’organo che salgono come note verso il cielo racchiudendo
i gemiti inesprimibile del cuore , il viso ferito da lebbra o scarno
di fame dei poveri e dei malati che incontrava, ci portano a sentire
la voce del cuore di Padre Angelo che pare dica incessantemente “il
tuo Volto Signore, io cerco!”. Nel gennaio del 1687 al priore del
convento di Fivizzano arrivava una lettera da parte del Priore
Generale. Il padre Paolo di Sant’Ignazio, da un anno superiore
Generale dell’Ordine, sulla scia del suo predecessore, il padre
Girolamo Ari, aveva istituito il convento di San Martino ai Monti
come Curia Generalizia desiderando perciò che la comunità in essa
dimorante vivesse l’osservanza perfetta. A tale scopo aveva
chiamato a Roma quei religiosi che per virtù e sapienza potevano
contribuire con la loro presenza a costituire una simile comunità
di osservanza.
A
Fivizzano il priore non accolse con entusiasmo la richiesta del Padre
Generale, anzi provò a dissuaderlo dall’idea di volere con se a
Roma il padre Angelo. Nonostante le sue resistenze, così tenaci al
punto che il Priore Generale dovette ricorrere al Vescovo di Sarzana
perché intimasse al priore locale il dovere di obbedire, la lettera
di obbedienza, prima sconosciuta al padre Angelo, fu posta nelle sue
mani la sera del 12 marzo 1687, ed egli ricevendola “si
inginocchiò e la baciò con venerazione”. E’ probabile che si
sia messo in viaggio la notte stessa. Il giorno dopo arrivò ad
Argigliano a salutare la sua famiglia. La notizia che il loro amato
familiare doveva recarsi a Roma fu accolta con sofferenza, ma il
distacco, per quanto doloroso fosse sia per la famiglia che per lo
stesso padre Angelo, non impedì a questi di proseguire nel suo
cammino. Il vecchio padre lo accompagnò per un tratto di strada,
poi giunse il momento di salutarsi. Padre Angelo si inginocchiò
davanti all’anziano genitore chiedendogli la benedizione. Il padre
lo benedisse salutandolo tra le lacrime, conscio che sarebbe stata
l’ultima volta che vedeva il figlio su questa terra. Padre Angelo
salutò il padre, si voltò verso i suoi monti e guardò per una
ultima volta la sua piccola Argigliano. Non sarebbe mai più tornato
in quei luoghi. Ciò che stava accadendo non era solo un nuovo
trasferimento, ma la chiusura di un tempo della sua vita e l’aprirsi
di un nuovo tratto di strada sul sentiero dell’amore e della
fantasia di Dio.
A
Roma La città eterna che a quel tempo accolse padre Angelo Paoli,
contava circa centotrentamila abitanti. Sul soglio pontificio sedeva
il papa Innocenzo XI Odescalchi che aveva avviato una profonda
riforma nell’ambiente della curia romana e del clero, promuovendo
la moralità dei costumi e la formazione dei sacerdoti. Il papa, che
già da vescovo di Novara aveva avuto a cuore la catechesi, voleva
che tutto il clero e gli stessi cardinali si impegnassero per la
formazione religiosa del popolo.
I
parroci dovevano spiegare il Vangelo agli adulti, ogni domenica
pomeriggio si doveva tenere il catechismo per i bambini, per le
fanciulle povere si dovevano costituire scuole gratuite per la loro
istruzione. Infine il pontefice desiderava che negli ospedali si
avesse cura per l’assistenza spirituale dei malati perché non
mancasse loro il conforto dei sacramenti. Benedetto XI aveva anche
grandi aspettative nei confronti delle famiglie religiose presenti a
Roma, desiderando che esse fossero particolarmente fedeli al voto di
povertà ma anche alla loro moralità e vita spirituale. In questo
contesto romano, pervaso dall’azione riformatrice del pontefice,
che non toccava solo gli ambenti immediatamente clericali ma anche
quelli sociali, si inserì la presenza povera ed umile insieme
all’azione caritativa di padre Angelo.
Si
narra che il primo ad accogliere a Roma il nostro padre Angelo, fu un
malato di lebbra che incontrandolo al suo ingresso presso Porta del
Popolo, lo accostò per chiedergli l’elemosina. Il frate lo
abbracciò e toccando le sue piaghe le fece risanare. Per noi oggi
che prima di credere vogliamo la prova storica dei fatti, può
sembrare solo un tenero aneddoto da fioretti, vale però il racconto
di questo particolare ingresso di padre Angelo a Roma come simbolo di
quello che sarà la sua presenza ed il suo operato a Roma:
abbracciare con amore le povertà del cuore e del corpo degli uomini
ed impegnarsi a redimerle. All’inizio il suo compito nel convento
di San Martino fu quello di maestro dei novizi. Pur fedele a questo
impegno non rimase cieco e neppure inattivo dinanzi ai poveri che
dilagavano per le vie di Roma percorse dalle vistose carrozze dei
nobili esageratamente imbellettati nei costumi della moda del tempo.
I
biografi di padre Angelo raccontano di una esperienza che segnò
ancora più profondamente lo spirito del carmelitano ormai giunto
nel pieno della sua maturità. Amante come era della meditazione
della passione del Signore, soleva recarsi presso la Scala Santa dove
la memoria della sofferenza di Cristo lo scuoteva così intimamente
da indurlo al pianto. Nel lasciare quella chiesa gli veniva di fronte
l’ospedale di san Giovanni al Laterano. Forse memore delle visite
che faceva negli ospedali di Pistoia, di Siena e di Firenze, il
nostro buon frate entrò in quell’ospedale rimanendo colpito dal
fetore delle piaghe dei malati e dalle loro condizioni disperate. La
passione del Cristo meditata nei luoghi santi, la rivedeva ancora
viva e sofferta nella carne e nella umiliazione dei malati. Il Cristo
venerato nella preghiera si lasciava incontrare dal carmelitano nella
sofferenza dei ricoverati. L’esperienza avrà toccato così
profondamente padre Angelo da indurlo ad avanzare la richiesta di
essere sollevato dall’incarico di maestro dei novizi che già da
tre anni ricopriva con impegno. La domanda la presentò al Priore
Generale, lo stesso che lo aveva chiamato a Roma. Il padre Paolo di
sant’Ignazio, da uomo di fede quale era, capì che la richiesta di
quel frate era un carisma che Dio accendeva nell’umile confratello
che gli stava inginocchiato di fronte in attesa di una risposta ed
allo stesso tempo una chiamata che non poteva essere impedita.
Sollevato dall’incarico di maestro dei novizi e nominato sacrista
ed organista del convento, padre Angelo poteva avere molto tempo
libero a disposizione per occuparsi dei poveri. Il suo servizio
prevedeva prima di tutto l’accoglienza di gente affamata che ogni
giorno affollava il sagrato della chiesa di San Martino. La notizia
del suo servizio di dispensiere dei poveri infatti si propagò per
la città, al punto che tutti i giorni occorreva provvedere al pasto
di trecento persone. Nel suo servizio egli non era solo, lo aiutava
un giovane uomo, falegname del convento di san Martino, un certo
Massimo Maestri suo fido collaboratore che sarà anche uno dei
principali testimoni al processo di beatificazione. Insieme al
Maestri, c’era anche un prete diocesano, don Giovanni. Padre Angelo
era sostenuto anche dai suoi confratelli anche se non tutti
condividevano la sua opera. Vi era chi protestava contro di lui per
via degli schiamazzi e del disturbo che la folla dei poveri recava
alla vita del convento, perché non solo di giorno ma anche di notte
c’era gente che bussava chiedendo il soccorso di padre Angelo.
Qualche altro suo confratello lo accusava persino di essere un
religioso che non viveva lo spirito carmelitano che doveva invece
esprimersi solo nella ricerca della solitudine e nella continua
preghiera. Non mancava neppure qualche altro confratello che
rimproverava padre Angelo di essere un frate che non amava la
clausura conventuale o che addirittura fosse un folle e che la sua
carità fosse falsa. La carità di padre Angelo non sempre era
ricevuta con gioia dai suoi beneficati, talvolta la disperazione
rendeva quei disgraziati anche irosi e violenti e non mancavano le
volte in cui la loro rabbia si scagliava sul nostro frate, che si
vedeva ricompensare il suo servizio con qualche pane sbattuto in
faccia. Non gli mancò neppure l’esperienza del tradimento, quando
un suo collaboratore lo derubò dei soldi che erano stati raccolti
per provvedere a sfamare la folla di indigenti. Come reagiva padre
Angelo dinanzi a questi ostacoli? Con la mitezza. Il lungo lavoro
personale di preghiera e di ascesi avevano temprato nell’equilibrio
il suo carattere e lo avevano disposto ad un atteggiamento
incrollabile di fiducia e di benevolenza.
Un
altro servizio che Padre Angelo compiva era quello dell’assistenza
domiciliare per venire incontro a famiglie vergognose di chiedere
pubblicamente l’elemosina oppure ai malati poveri e soli ed
inchiodati dalle infermità nei loro miseri giacigli. In questo gli
fu molto di aiuto la collaborazione di amici laici, specie quando per
la sua salute malferma gli fu imposto di non uscire dal convento dopo
il tramonto. Un altro luogo dove padre Angelo svolgeva il suo
apostolato di carità e di consolazione, erano le prigioni di via
Giulia. Nelle sue visite portava pane ed altri viveri, ma soprattutto
incontrava i detenuti esortandoli a vivere la loro detenzione come
tempo utile per il ravvedimento e per prepararsi ad impostare una
vita nuova una volta lasciato il carcere. Ma il servizio nel quale
egli infondeva tutto il suo amore di padre e di uomo innamorato di
Cristo, era quello che svolgeva in Ospedale come infermiere. Si
recava nelle ore di visita portando provviste per i malati che non
avevano nessuno che provvedesse a loro. Medicava le piaghe, lavava
e
puliva gli infermi, provvedeva anche ad incarichi disgustanti come
svuotare le latrine ed imboccare gli inabili. I malati erano “i
fratelli di Gesù” così come li chiamava lui, dei “dignitari
così importanti” che quando li serviva tutto diventava per lui
secondario ed anche le nobili principesse che gli chiedevano udienza,
dovevano attendere con pazienza il loro turno fino a che padre Angelo
non avesse concluso i suoi servizi destinati prima di tutto ai
poveri. L’aiuto che il padre Angelo prestava ai malati naturalmente
era anche quello spirituale: li ascoltava, li aiutava a dare un senso
cristiano alla loro sofferenza, li disponeva a ricevere i sacramenti
ed accompagnava verso Dio i moribondi rimanendo accanto a loro anche
per lunghe ore nella sofferenza dell’agonia. Desiderava che la
letizia non mancasse in quel luogo di dolore, per questo con l’aiuto
di alcuni giovani organizzava dei momenti di ricreazione con canti e
travestimenti burleschi dando un po’ di allegria per sollevare gli
infermi dalla loro tristezza. Lui stesso partecipava a queste feste
mascherate travestendosi e prendendo parte ai giochi organizzati dai
ragazzi. Altre volte, proprio per allietare i ricoverati del San
Giovanni, usava un organo che aveva procurato, suonando per loro
melodie che elevavano il cuore a Dio ed infondevano pace
nell’amarezza dell’infermità.
La sinfonia dell’amore
La fama di Padre Angelo cominciava a diffondersi in tutta Roma e non solo negli ambienti dei bisognosi. Anche i ricchi desideravano incontrarlo per presentare la povertà dei loro dubbi e le inquietudini della loro coscienza. Il carmelitano diventa così, da buon organista quale era, il compositore della sinfonia del servizio e della solidarietà. Nel suo servizio, come accennato poco sopra, era sostenuto da laici e da altri religiosi come il padre filippino Scotti ed il canonico Napoleone. Ma pian piano anche alcuni nobili si avvicinarono a Padre Angelo. All’inizio lo cercavano per incontrarlo, conoscerlo visto che tutti ne parlavano e parlargli, molte volte anche per elargire elemosine, ma lui li coinvolgeva attivamente nel servizio di assistenza che svolgeva, anzi diventava il punto di incontro tra due mondi separati e distanti: quello fastoso dei ricchi e quello amaro e desolato dei poveri. Molti nobili ricorrevano a padre Angelo per la direzione spirituale, alcuni nelle loro malattie volevano la sua presenza al loro capezzale. La principessa Altieri Pallavicini, sua figlia spirituale, ha attestato al processo di beatificazione di essere stata risanata dopo che i medici l’avevano data per spacciata proprio in seguito alla visita ed alla preghiera di padre Angelo presso il letto della sua agonia. Il giovane Marcello Crescenzi conobbe da piccolo il santo frate che lo guidava spiritualmente e che spesso lo conduceva con sé per il servizio agli infermi in ospedale. Questi diventerà cardinale e deporrà ai processi di beatificazione raccontando eventi straordinari di carità e guarigione avvenuti sotto i suoi occhi attraverso il servizio e la fede di padre Angelo. Padre Angelo era un taumaturgo ma non sempre le richieste di visite e preghiere per la guarigione di qualcuno venivano soddisfatte secondo l’intenzione di chi lo chiamava. Con dolce chiarezza, quando nel mistero della sua conoscenza sapeva che una persona malata e raccomandata alla sua intercessione non poteva guarire, preparava il moribondo ad accogliere la morte in comunione con Dio e disponeva i parenti a vivere il distacco nella fede. Erano tante le persone illustri della società romana che aiutavano con le loro offerte l’opera assistenziale di padre Angelo, come ad esempio Lelio Falconieri che a sua volta sarà assistito dal nostro carmelitano sino alla morte. Altro grande suo benefattore fu il conte Gallas, ambasciatore e poi futuro viceré di Napoli. Un altro suo collaboratore fu il cardinale Giuseppe Tommasi di Lampedusa, teatino e futuro santo. Quanti discorsi su Dio e sulla vita spirituale facevano questi due grandi uomini, camminando da San Martino all’ospedale di San Giovanni portando in mano canestri di pane e pentole di minestra! Tra le tante testimonianze e racconti delle relazioni che il frate carmelitano aveva con i nobili romani e come l’incontro con lui li introduceva in un modo nuovo di vivere, vale la pena ricordare quanto avvenne per il conte Piccaluca. Questi desiderava parlare con padre Angelo e sapendo di trovarlo all’Ospedale san Giovanni si recò in quel luogo per essere da lui ricevuto ed ascoltato. Giunto nella corsia, trovò padre Angelo intento a lavare un povero infermo divorato dalla cancrena. Il conte chiese di essere ascoltato ma il religioso gli fece sapere che prima di dargli ascolto doveva finire il servizio che stava compiendo. Lo spettacolo agli occhi del conte era edificante e disgustoso allo stesso tempo. Ad un certo punto padre Angelo chiese al conte di aiutarlo. Questi superata la riluttanza si accinse a farlo ma una terribile emicrania cominciò ad assalirlo. Finito il servizio potè finalmente essere ascoltato ma per tutta risposta ricevette l’invito a recarsi un’altra volta all’ospedale. Alla seconda visita si ripeteva la scena dei giorni innanzi e così pure la richiesta di aiuto, l’emicrania e l’invito a tornare. Nel corso della terza visita, mentre il conte aiutava padre Angelo nel servizio ai malati, l’emicrania sparì, anzi il contatto con i malati non solo non lo disgustava ma diventava per lui un’esperienza di sollievo e di dolcezza. Da quel momento non ci fu più bisogno di consigli e neppure di inviti da parte del padre Angelo perché il conte aveva scoperto un nuovo modo di vivere rendendosi servo del prossimo. Da quel giorno il conte di Piccaluca divenne figlio spirituale di padre Angelo, suo fedele collaboratore e continuatore insieme ad altri volontari e benefattori, dell’opera di carità del carmelitano. Questa storia, raccontata nei processi di beatificazione, ci permette di comprendere quanto padre Angelo aveva costruito intorno a sé, ossia una rete di servizi e di persone di ogni classe sociale, uniti, oltre le differenze, dall’intento di fare del bene, servendo il Cristo povero negli indigenti e negli ammalati. Una storia di trecento anni fa, ma attuale nella Chiesa di oggi che invita religiosi e laici e crescere nella collaborazione, inventando insieme strategie e segni per annunciare il Vangelo.
La sinfonia dell’amore
La fama di Padre Angelo cominciava a diffondersi in tutta Roma e non solo negli ambienti dei bisognosi. Anche i ricchi desideravano incontrarlo per presentare la povertà dei loro dubbi e le inquietudini della loro coscienza. Il carmelitano diventa così, da buon organista quale era, il compositore della sinfonia del servizio e della solidarietà. Nel suo servizio, come accennato poco sopra, era sostenuto da laici e da altri religiosi come il padre filippino Scotti ed il canonico Napoleone. Ma pian piano anche alcuni nobili si avvicinarono a Padre Angelo. All’inizio lo cercavano per incontrarlo, conoscerlo visto che tutti ne parlavano e parlargli, molte volte anche per elargire elemosine, ma lui li coinvolgeva attivamente nel servizio di assistenza che svolgeva, anzi diventava il punto di incontro tra due mondi separati e distanti: quello fastoso dei ricchi e quello amaro e desolato dei poveri. Molti nobili ricorrevano a padre Angelo per la direzione spirituale, alcuni nelle loro malattie volevano la sua presenza al loro capezzale. La principessa Altieri Pallavicini, sua figlia spirituale, ha attestato al processo di beatificazione di essere stata risanata dopo che i medici l’avevano data per spacciata proprio in seguito alla visita ed alla preghiera di padre Angelo presso il letto della sua agonia. Il giovane Marcello Crescenzi conobbe da piccolo il santo frate che lo guidava spiritualmente e che spesso lo conduceva con sé per il servizio agli infermi in ospedale. Questi diventerà cardinale e deporrà ai processi di beatificazione raccontando eventi straordinari di carità e guarigione avvenuti sotto i suoi occhi attraverso il servizio e la fede di padre Angelo. Padre Angelo era un taumaturgo ma non sempre le richieste di visite e preghiere per la guarigione di qualcuno venivano soddisfatte secondo l’intenzione di chi lo chiamava. Con dolce chiarezza, quando nel mistero della sua conoscenza sapeva che una persona malata e raccomandata alla sua intercessione non poteva guarire, preparava il moribondo ad accogliere la morte in comunione con Dio e disponeva i parenti a vivere il distacco nella fede. Erano tante le persone illustri della società romana che aiutavano con le loro offerte l’opera assistenziale di padre Angelo, come ad esempio Lelio Falconieri che a sua volta sarà assistito dal nostro carmelitano sino alla morte. Altro grande suo benefattore fu il conte Gallas, ambasciatore e poi futuro viceré di Napoli. Un altro suo collaboratore fu il cardinale Giuseppe Tommasi di Lampedusa, teatino e futuro santo. Quanti discorsi su Dio e sulla vita spirituale facevano questi due grandi uomini, camminando da San Martino all’ospedale di San Giovanni portando in mano canestri di pane e pentole di minestra! Tra le tante testimonianze e racconti delle relazioni che il frate carmelitano aveva con i nobili romani e come l’incontro con lui li introduceva in un modo nuovo di vivere, vale la pena ricordare quanto avvenne per il conte Piccaluca. Questi desiderava parlare con padre Angelo e sapendo di trovarlo all’Ospedale san Giovanni si recò in quel luogo per essere da lui ricevuto ed ascoltato. Giunto nella corsia, trovò padre Angelo intento a lavare un povero infermo divorato dalla cancrena. Il conte chiese di essere ascoltato ma il religioso gli fece sapere che prima di dargli ascolto doveva finire il servizio che stava compiendo. Lo spettacolo agli occhi del conte era edificante e disgustoso allo stesso tempo. Ad un certo punto padre Angelo chiese al conte di aiutarlo. Questi superata la riluttanza si accinse a farlo ma una terribile emicrania cominciò ad assalirlo. Finito il servizio potè finalmente essere ascoltato ma per tutta risposta ricevette l’invito a recarsi un’altra volta all’ospedale. Alla seconda visita si ripeteva la scena dei giorni innanzi e così pure la richiesta di aiuto, l’emicrania e l’invito a tornare. Nel corso della terza visita, mentre il conte aiutava padre Angelo nel servizio ai malati, l’emicrania sparì, anzi il contatto con i malati non solo non lo disgustava ma diventava per lui un’esperienza di sollievo e di dolcezza. Da quel momento non ci fu più bisogno di consigli e neppure di inviti da parte del padre Angelo perché il conte aveva scoperto un nuovo modo di vivere rendendosi servo del prossimo. Da quel giorno il conte di Piccaluca divenne figlio spirituale di padre Angelo, suo fedele collaboratore e continuatore insieme ad altri volontari e benefattori, dell’opera di carità del carmelitano. Questa storia, raccontata nei processi di beatificazione, ci permette di comprendere quanto padre Angelo aveva costruito intorno a sé, ossia una rete di servizi e di persone di ogni classe sociale, uniti, oltre le differenze, dall’intento di fare del bene, servendo il Cristo povero negli indigenti e negli ammalati. Una storia di trecento anni fa, ma attuale nella Chiesa di oggi che invita religiosi e laici e crescere nella collaborazione, inventando insieme strategie e segni per annunciare il Vangelo.
Una
casa a porte aperte
Padre
Angelo nel condurre il suo servizio all’ospedale si accorgeva che i
malati una volta dimessi, pur essendo risanati versavano ancora in
uno stato di debolezza. Molti di loro non avevano un luogo familiare
dove poter trascorrere la convalescenza, ma il problema più
terribile era che il loro stato di debolezza, impediva di poter
riprendere un qualsiasi lavoro. Tanti convalescenti senza casa e
senza famiglia e soprattutto ancora impediti all’attività
lavorativa, erano perciò costretti a vivere di accattonaggio. Il
problema toccava profondamente padre Angelo perché la questione non
era solo sociale (i convalescenti inabili infatti andavano ad
incrementare il numero dei mendicanti che pullulavano per le vie di
Roma), ma anche umana, vista l’umiliazione vissuta da chi, dopo una
vita di lavoro, si vedeva costretto a mendicare per poter vivere nel
decorso della convalescenza. Padre Angelo cercava di provvedere a
queste persone “usando” le sue conoscenze, ossia chiedendo a
delle famiglie di accogliere qualche convalescente il tempo
necessario per la sua completa ripresa. Il numero dei dimessi però
era sempre superiore rispetto alle possibilità di accoglienza. Il
nostro carmelitano intuiva la necessità di creare un luogo che
fosse come una casa ed una grande famiglia, dove i convalescenti
potevano essere accolti ed accuditi con amore.
La
sua idea era quella di creare un ospizio dove accogliere i bisognosi
ed assisterli con la carità sua e del gruppo di volontari che con
lui collaboravano all’ospedale San Giovanni. Quando padre Angelo
mise i suoi collaboratori al corrente dei suoi progetti, questi
provarono a dissuaderlo: l’opera era troppo grande per le sue
possibilità economiche. Ciò che i prudenti collaboratori avevano
dimenticato, era che il buon frate era sempre stato molto concreto e
pratico nell’organizzazione delle cose, ma in quanto a Provvidenza
la sua fiducia aveva sempre scavalcato ogni legittimo ostacolo ed
ogni oggettivo impedimento umano. La sua fiducia era piena, lo rivela
la risposta che diede ai suoi amici che lo sconsigliavano: “un
povero frate che ha fiducia in Dio, è più ricco di un banchiere”.
Sentiva che Dio gli suggeriva quel progetto e sapeva che sarebbe
stato Lui stesso a spianare la strada. Ed in effetti la Provvidenza
di Dio non tardò ad arrivare. Un mercante di grano, Girolamo Pigri,
sapendo dei progetti di padre Angelo, si fece avanti offrendogli
l’acquisto di una casa situata vicino alla chiesa di San Clemente
sullo stradone di San Giovanni. L’aiuto del cardinale Ottoboni,
permise al padre Angelo di pagare l’acquisto dell’immobile ed
anche di provvedere alle suppellettili necessarie per il servizio di
accoglienza. I canonici di Anagni, proprietari di un appezzamento di
terreno vicino alla casa appena acquistata, lo donarono al padre
carmelitano nel desiderio di voler contribuire anch’essi alla
nascente opera caritativa, unica e del tutto nuova a Roma. Il notaio
e tutti gli addetti pubblici alla redazione del contratto ed al
disbrigo delle pratiche, non vollero alcun compenso, altri
benefattori acquistarono viveri per i convalescenti da accogliere.
Non ultimo, il padre Angelo provvide all’acquisto di un organo: la
letizia non doveva mancare in quel luogo perché era convinto che la
musica ed il canto avrebbero aiutato anche la ripresa psicologica
degli ospiti. L’accoglienza era gratuita, la persona una volta
dimessa dall’ospedale, veniva accolta al Convalescenziario per
permetterne la ripresa totale. Per il ristabilimento fisico, il
nostro carmelitano aveva previsto che venissero serviti due pasti al
giorno a base di carne (che proveniva dalla macellazione delle
galline del pollaio che lo stesso padre Angelo aveva messo su per i
bisogni della casa), minestra ben condita e frutta sia a pranzo che a
cena. Un cappellano provvedeva alla cura spirituale degli ospiti, la
sera c’era la recita del rosario e la catechesi che molte volte era
lo stesso padre Angelo a tenere. Quando l’ospite era completamente
ristabilito si festeggiva la sua partenza. Il dimesso era condotto
dal nostro carmelitano a San Martino, si confessava, assisteva alla
Messa per ringraziare il Signore della guarigione, si fermava a
pranzo presso il convento e poi padre Angelo lo lasciava andare con
della biancheria nuova e qualche soldo in tasca utili per
ricominciare a vivere autonomamente. Possiamo intuire da quanto detto
sopra, che l’obiettivo del Convalescenziario organizzato da padre
Angelo, non era quello di una semplice assistenza in un tempo in cui
nessuna istituzione provvedeva alla piaga dell’accattonaggio, ma
era quello della educazione integrale della persona: la malattia
diventava per il malato una occasione di totale rinascita, di
evangelizzazione e di incontro con il Cristo.
L’Eucarestia
al centro della vita di preghiera
Nella
sua vita di preghiera, di veglie, di digiuni e di mortificazione, uno
spazio speciale occupava l’Eucarestia. Il sacerdozio fu vissuto da
lui con grande fervore: centro della sua giornata era sempre
l’Eucarestia. Vi premetteva una lunga preparazione, impiegando
anche parte della notte, ed altrettanto lungo era il ringraziamento.
Se qualcuno chiedeva di parlargli in quei momenti, egli pregava di
rispondere al visitatore: “E’ occupato con un gran personaggio
che è venuto a trovarlo”, e così evitava di interrompere il suo
raccoglimento con Gesù. Quando era maestro dei novizi, le
passeggiate che faceva con loro includevano sempre la visita al
Santissimo Sacramento, nelle chiese che incontravano, e la visita
agli ammalati. Nella Basilica di S. Martino ai Monti in Roma
l’esposizione solenne del Santissimo si teneva ogni domenica
pomeriggio (ricordiamo che a quel tempo non si celebrava la Messa
vespertina), e lui non mancava mai a queste ore di adorazione, anzi
alcuni testimoni al processo hanno fatto notare che quando pregava,
rimaneva immobile come una statua con gli occhi chiusi, ma davanti al
Santissimo esposto li teneva aperti e fissi sul pane eucaristico,
come se vedesse la realtà divina sotto le sacre specie (vien da
pensare al contadino del S. Curato d’Ars, che restava fisso per ore
a guardare l’eucarestia e, alla domanda di S. Giovanni M. Vianney,
rispose: “Io guardo Lui e Lui guarda me”). Delle volte, quando la
mattina apriva il portone a Massimo Maestri (il falegname del
convento, divenuto il suo fido assistente e poi testimone nel
processo) e costui gli domandava: “Padre Angelo, che avete fatto?
Avete passato tutta la notte nel coretto?” (il coretto è un
balconcino che da una sala del convento si affaccia dentro la chiesa
e da cui si può vedere la lampada accesa del Santissimo) P. Angelo
rispondeva: “Eh, caro Massimo, mi si è fatto giorno senza che me
ne sia accorto. Sarebbe un grande errore che, stando il Signore
esposto nella nostra chiesa, non ci fosse qualche sacerdote ad
adorarlo”. Come sacrista, era incaricato di accudire agli oggetti
sacri, tenerli in ordine, e questo per lui era un mezzo atto a
soddisfare la gran sete d’amore verso l’Eucarestia, che gli
bruciava dentro. Per lui i paramenti, gli arredi sacri erano gli
oggetti che sarebbero stati più vicini a Gesù Eucarestia, e li
considerava pertanto, nella sua tenerezza, come una corona umile e
sublime che ogni giorno veniva disposta intorno al miracolo
eucaristico. In punto di morte, dopo la confessione generale, chiese
a tutti di ritirarsi perché la mattina seguente doveva ricevere
Gesù Eucarestia. Rimase così in un raccoglimento profondo, fino
al mattino dopo, quando giunse finalmente l’ora di Viatico. Dopo
averlo ricevuto, l’amore proruppe liberamente dal suo cuore e i
presenti lo sentirono esclamare: “Ti ringrazio, Gesù, perché ti
sei degnato di visitarmi; perché sei entrato in un’anima
peccatrice come la mia”.
I
fioretti di Padre Angelo
Padre
Angelo era un uomo con una grande capacità organizzativa ed un
profondo senso della giustizia. La sua concretezza lo portava a
pagare entro i tempi pattuiti maestranze e fornitori ai quali si
rivolgeva per le opere di carità che lui realizzate, ma lo intimava
anche a rifiutare delle elemosine se la persona che le donava le
destinava ai poveri senza essersi prima curata di qualche familiare
che versava nell’indigenza. Una cosa simile successe quando padre
Angelo convinse un suo benefattore a cambiare la sua volontà
testamentaria. Questi non avendo figli, aveva destinato le sue
sostanze alle opere di carità di padre Angelo che, invece di
rallegrasi, gli ricordò di lasciare i beni ad un nipote che con la
sua numerosa famiglia viveva in condizioni disperate. Ma oltre alla
praticità, il nostro grande carmelitano aveva un cuore fondato
nella fiducia. L’abbandono di padre Angelo a Dio era il segreto del
suo cuore, la sua carità immensa rendeva visibile l’invisibile
della sua completa fiducia in Dio. Tale confidenza portava padre
Angelo ad agire con la certezza che solo i bambini sanno avere,
ovvero sia la speranza lo portava a vivere sapendo di poter confidare
nella potenza del Padre. Egli credeva fermamente in quello che aveva
detto Gesù, che cioè, se il Padre provvede ai gigli dei campi ed
agli uccelli del cielo, non può dimenticare gli uomini che sono i
suoi figli. Questa fede era per il nostro carmelitano adesione e
stabilità interiore, ma anche certezza di poter osare ciò che
umanamente era impensabile. Le cronache e le deposizioni giurate di
tanti testimoni, parlano di fatti sorprendenti ed inspiegabili. Molte
volte i poveri da sfamare erano tanti, troppi per le possibilità
concrete e l’effettiva disponibilità di viveri a disposizione da
distribuire. Padre Angelo faceva pregare i poveri e cominciava a
donare senza guardare mai se la minestra o il pane stavano per
finire. Donava fino a sfamare tutti nella certezza che il mestolo che
impugnava o le mani che distribuivano pagnotte di pane, non si
immergevano in pentole e ceste ma “nel pozzo della Provvidenza”
come lui stesso amava dire. Ed in effetti la minestra non mancava mai
e tutti potevano avere il loro pezzo di pane. Se oggi avessimo modo
di incontrare padre Angelo, sicuramente il suo aspetto ci colpirebbe.
La sua tonaca era sempre logora e rattoppata anche se, come dicono i
testimoni, come persona era pulita e decorosa. Non aveva mai vesti
nuove, nonostante i frati provvedevano al rinnovo della tonaca ed
altri benefattori gli donavano camicie ed altra biancheria. La tonaca
spesso la scambiava con quella dei fratelli laici e non erano poche
le volte in cui si toglieva di dosso la sua camicia o qualche altro
indumento per donarli ai poveri, il più delle volte non solo
affamati ma anche ricoperti di stracci. La sua tonaca era rattoppata
anche perché, come raccontano i testimoni, la sua fama di santità
era tale che più di una volta persone devote ne strappavano
brandelli per devozione. Non sono racconti leggendari o echi
ampollosi di una agiografia superata, padre Angelo godeva di grande
stima e fama di santità già in vita. Superiori di monasteri e
conservatori lo vollero confessore e direttore spirituale soprattutto
delle giovani vocazioni (questo servizio di discernimento lo compì
presso il Conservatorio delle Viperesche e forse anche presso
l’Abbazia di Trisulti).
I
papi sotto il cui pontificato si è svolta la sua presenza romana,
lo ebbero in tale stima da intessere con lui rapporti di personale
amicizia e di reciproco sostegno. Il papa Clemente XI spesso mandava
a chiamare padre Angelo perché lo giudicava uomo santo e valido
consigliere. Sia lui che il suo predecessore Benedetto XII, pensarono
di crearlo cardinale, forse per godere meglio della sua saggezza e
del suo dono del consiglio, ma padre Angelo rifiutò la proposta,
proprio per non abbandonare il suo servizio a favore dei poveri e dei
malati. Come padre Angelo abbia saputo di queste sue possibili nomine
cardinalizie non c’è dato saperlo. Forse i pontefici in
amichevole colloquio glielo avevano anticipato, o forse avevano
avanzato richiesta al Priore Generale che a sua volta aveva
provveduto a mettere a corrente della cosa il diretto interessato.
Quello che è certo, perché bonariamente confessato proprio da
padre Angelo, è che era stato lui stesso a rinunciare alla porpora
perché il compito di cardinalato lo avrebbe impegnato in altri
compiti da assolvere che non potevano più essere quelle del
servizio ai suoi poveri. Se volessimo scendere nella stanza del cuore
di padre Angelo, è possibile trovare un centro dal quale è
scaturita tutta la storia di santità e di carità della sua
esistenza. E’ l’incontro con l’amore di Dio, la memoria
continua della passione che il Padre ha avuto per l’umanità al
punto da mandare suo Figlio che per amore dell’uomo è morto sulla
croce. L’innamoramento che padre Angelo aveva per Cristo, lo
portava a vivere intense ore di preghiera e talvolta anche ad usare
penitenze fisiche per rivivere la stessa sofferenza dell’Amato che
ha sofferto per amore. Ci fanno forse rabbrividire certe notizie, ma
alcuni confratelli vissuti con lui, attestavano di aver visto
cordicelle e cilici intrisi di sangue che sbadatamente padre Angelo
non era riuscito a nascondere. Possono sembrare racconti di una
santità superata o esagerazioni incomprensibili, ma solo l’amore
può farci capire anche le asprezze di queste penitenze che Padre
Angelo sceglieva di compiere. L’amore infatti unisce ed accende il
desiderio di allontanare da sé tutto ciò che impedisce di
appartenere completamente all’Amato e mette nel cuore l’anelito
di amare come ama l’Amato. Le giornate di padre Angelo erano
divorate dagli impegni conventuali ai quali non mancava mai ed erano
ritmate dalla sfibrante attività caritativa. Restava la notte come
tempo personale per il suo intimo dialogo con Dio. Padre Angelo
trascorreva lunghe ore al buio nel coro di san Martino in una
preghiera nella quale la passione per Cristo dilatava il suo cuore in
passione per l’umanità. E sicuramente Dio avrà versato grandi
doni nel cuore di quel piccolo frate attraverso quei dialoghi
notturni. I processi riportano testimonianze di aneddoti in cui il
padre Angelo ha mostrato, pur con la sua squisita umiltà, di poter
leggere i cuori e di conoscere avvenimenti lontani per distanze
geografiche o perché ancora annebbiati dal futuro. L’amore per la
croce portava padre Angelo a volerla vedere materialmente ed a
piantarla nei luoghi dove viveva. Da giovane religioso, convalescente
a casa, aveva realizzato una rudimentale via crucis per i pastori
delle sue montagne natali, parroco a Corniola aveva piantato la croce
accanto alla chiesa parrocchiale, operatore di carità a Roma, la
volle piantare sul Monte Testaccio e dentro al Colosseo come memoria
dei martiri che lì avevano perso la vita per non tradire la loro
fede. C’è un ultimo aspetto della vita del nostro frate che
merita di essere brevemente ricordato ed è il suo umorismo. Si è
già detto della letizia che lui desiderava che regnasse negli
ambienti ospedalieri e nel Convalescenziario da lui fondato, per
questo usava allestire piccole rappresentazioni burlesche e metteva a
disposizione il suo talento di organista. Ma padre Angelo sapeva
ridere di se ed anche “smontare” con battute cariche di umorismo
i suoi collaboratori, specie quando tentavano di distoglierlo da
qualche idea di beneficenza troppo ardita per le disponibilità
economiche. Negli ultimi tempi della sua vita, quando spesso accadeva
che la gente per strada lo venerava come santo (talvolta anche con
espressioni esagerate se non addirittura aggressive quando per
esempio si avventavano addosso per strappare pezzi di tonaca o di
cappa da tenere come reliquia), stornava quelle situazioni per lui
imbarazzanti con battute spiritose. Angelo Paoli amava Maria, ed
amava essere frate nel Carmelo proprio perché è Ordine mariano.
Amava l’abito che portava e lo Scapolare, invitando la gente a
portarlo con fiducia e venerazione. La grande quantità di denaro
che riceveva dai suoi benefattori, egli desiderava ricompensarla in
qualche modo, ed allora, da vecchio sarto come lo era stato nella sua
giovinezza a Firenze, confezionava scapolari che donava ai suoi
benefattori ed agli malati che assisteva, esortandoli ad avere
fiducia in Maria e nel suo materno aiuto.
Nella
festa di Dio
Nel
dicembre del 1719 padre Angelo avvisava i suoi collaboratori che
stava preparandosi per compiere un lungo viaggio. Pur stando bene in
salute, nonostante i suoi settantotto anni, fece visita a diverse
persone per congedarsi da loro. Andò dal suo grande amico, il papa
Clemente XI, per chiedergli la grazia di volerlo confessare e di
impartirgli l’assoluzione in articulo mortis. Si recò anche da
quelle persone che per clausura o per infermità non avrebbero
potuto raggiungerlo, ed infine la domenica 14 gennaio si allettò.
Al mattino era sceso in chiesa per suonare l’organo durante la
messa ma proprio mentre suonava, una febbre violenta lo assalì
facendolo barcollare. Nei giorni precedenti aveva camminato spedito
per fare le sue visite sudando e prendendo freddo (padre Angelo era
un grande camminatore!). Portato in cella, nel pomeriggio aveva
chiesto di alzarsi per andare a portare dei viveri ad una famiglia
povera. Si era affrettato a rientrare per pregare insieme ad un
confratello l’Ufficio della festa del Nome di Gesù a cui era
tanto devoto. Da quel momento la sua situazione fisica cominciò
rapidamente a crollare. Il papa, avvisato delle precarie condizioni
dell’amico, mandò il suo medico personale per assistere padre
Angelo nella sua malattia e per avere notizie continue del suo stato
di salute. Mentre intorno a lui ci si prodigava per la sua salute,
l’umile carmelitano con estrema lucidità e senza timore andava
preparando la sua anima all’incontro definitivo con Cristo. Fece la
sua confessione generale chiedendo come confessore uno dei suoi
confratelli che più lo aveva osteggiato e criticato nella sua opera
caritativa. Questi uscì piangendo dalla cella del moribondo dicendo
tra i singhiozzi “è un santo!”. Padre Angelo nella sua quieta
agonia pregava continuamente immergendo nella sofferenza di Cristo la
sua sofferenza. Baciava continuamente il crocefisso chiedendo e
ricevendo il Viatico con profonda fede. La mattina del sabato 20
gennaio 1720 alle ore 6,00, chiese che il priore e la comunità
venissero tutti nella sua cella. Nei giorni precedenti aveva ricevuto
la visita dei suoi collaboratori laici, al principe Altieri aveva
raccomandato che fosse continuata l’opera per i poveri e per i
convalescenti. Nel momento della morte voleva la sua comunità
intorno. Gradualmente si era congedato da tutti, gli ultimi dai quali
si congedava erano quelli della sua famiglia religiosa, quei fratelli
che silenziosamente gli erano stati vicini, quegli uomini in mezzo ai
quali aveva vissuto per tanti anni: i superiori che avevano permesso
e sostenuto la sua azione caritativa, alcuni fratelli che con lui
avevano servito i poveri, quelli che lo avevano giudicato e fatto
soffrire, quelli che lo avevano apprezzato e difeso. Padre Angelo
intonò il Dies irae cantandolo strofa per strofa sostenuto dal
canto dei suoi fratelli. Il vecchio frate scioglieva il suo canto,
arrivato alla strofa “oro supplex et acclinis”, “prego supplice
e in ginocchio, il cuore contrito, come ridotto a cenere, prenditi
cura del mio destino”, la voce di padre Angelo si fermò: il suo
grande cuore aveva cessato di battere. Il canto del suo amore sulla
terra si apriva nella lode senza fine del Cielo.
Oltre
la morte
Il
corpo di padre Angelo fu esposto in chiesa e vi fu un tale afflusso
di popolo che fu necessario l’intervento della guardia papale per
sorvegliare e proteggere la salma dai devoti che desideravano
prendere pezzi di tonaca e cappa. I funerali furono presieduti dal
Priore Generale e dopo la messa la salma dell’umile frate fu
portata in processione per le vie della parrocchia di San Martino
addobbata a festa come si soleva fare in occasione delle grandi
processioni. La gente chiese di lasciare il corpo esposto ancora per
qualche giorno prima di darne sepoltura. Il papa stesso accolse
questa richiesta popolare permettendo che la salma rimanesse esposta
anche per tutta la domenica. La sera del 21 gennaio, il corpo di
padre Angelo fu sepolto non nella cripta dei frati, ma in una
apposita tomba ricavata nel pavimento della chiesa. Successivamente
fu traslato in un altro sepolcro ricavato nel muro di sinistra della
stessa Basilica di San Martino ai Monti. Il papa Clemente XI volle
che sulla tomba fosse inciso, accanto al nome del defunto, il titolo
che riassumeva la vita ed l’infaticabile operato dell’umile e
grande frate carmelitano: “padre dei poveri”. Nel 1723, tre anni
dopo la morte, si avviava il processo di Beatificazione e
Canonizzazione di padre Angelo Paoli. La fase diocesana durò più
di trent’anni. Dovevano passare cinquant’anni dalla morte del
servo di Dio (così prevedeva la legislazione canonica del tempo)
per aprire la fase apostolica. Il papa Benedetto XIV concesse la
deroga per cui la causa fu introdotta presso la Congregazione dei
Riti. Il papa Pio VI, il 21 gennaio del 1781 emanò il decreto di
eroicità delle virtù attribuendo a padre Angelo Paoli il titolo
di Venerabile. Molte grazie sono state ottenute per sua
intercessione, fatti clamorosi che insieme alla diffusa fama di
santità lasciavano intendere che la sua beatificazione sarebbe
stata ottenuta in tempi brevi. Ma i tempi di Dio chi li può
conoscere?. Con il tempo il silenzio è sceso su quella tomba. Ad
Argigliano non è stato dimenticato ed ogni anno, nell’anniversario
della sua morte, la sua memoria viene ancora ricordata. A Roma, il
Venerabile era stato praticamente dimenticato, ma da qualche anno a
questa parte, grazie all’opera di alcuni religiosi, il ricordo di
padre Angelo è stato recuperato e con esso la speranza di avere da
Dio e dalla Chiesa il dono della sua beatificazione. Il desiderio di
vedere padre Angelo coronato con il titolo di Beato è sempre stato
come un sospiro dei suoi fratelli, un desiderio che pareva si fosse
affievolito nello scorrere di trecento lunghi anni. Ma ecco che,
quando ormai pareva che su questa causa di beatificazione era da
porre il desolato sigillo della rassegnazione, Dio ha fatto
germogliare la gioia. Il Postulatore Generale dell’Ordine, padre
Felipe Amenòs, riprendendo i dati ed i documenti di una guarigione
avvenuta a Gramolazzo, un paesino della diocesi di Massa Carrara,
avviò lo studio medico scientifico sull’asserito miracolo. Il suo
lavoro è stato poi ripreso e portato avanti dal nuovo postulatore,
padre Giovanni Grosso, che ha provveduto a redigere la Positio
sull’asserito miracolo. S tratta della guarigione, istantanea,
completa e duratura da “voluminosa tumescenza utero-vaginale,
protrudente dai genitali esterni, sanguinante, in necrosi, infetta ed
infestata” che comprometteva non solo lo stato generale, ma
probabilmente anche la sopravvivenza della signora Eglina Canozzi che
per tutto il decorso della sua malattia si è affidata alla
intercessione del Venerabile Angelo Paoli, fino a quando, spossata
dalla sofferenza, invocandolo è guarita in pochi attimi “come con
il passare della folata di un venticello fresco” così come lei
stessa ha testimoniato.
I
documenti sull’asserito miracolo sono stati analizzati dalla
Commissione medica, poi dai Consultori Teologi, infine dalla
Congregazione del Vescovi e dei Cardinali, ottenendo sempre unanime
parere positivo, fino a quando il luglio del 2009, il Santo Padre
Benedetto XVI ha firmato il Decreto sul miracolo. Ormai la via della
Beatificazione del Venerabile Angelo Paoli è giunta alla gioiosa
conclusione della sua celebrazione nella quale verrà letta la
Lettera Apostolica del Santo Padre con il quale Francesco di
Argigliano, padre Angelo Paoli carmelitano, il padre dei poveri,
verrà chiamato Beato.
Angelo
Paoli oggi
Oggi,
dopo tanto tempo, che senso ha la glorificazione di questo uomo
vissuto così tanto tempo fa? La sua storia, mostrata a tutti con la
beatificazione, è un messaggio ancora valido per la Chiesa e il
Carmelo odierno che avanzano nel terzo millennio? Sicuramente ciò
che non tramonta della vita e dell’esempio di padre Angelo Paoli è
il suo servizio caritativo fondato nella contemplazione del Mistero
di Dio, soprattutto nella Eucarestia. Scrive papa Benedetto XVI “I
santi hanno attinto la loro capacità di amare il prossimo, in modo
sempre nuovo, dal loro incontro con il Signore Eucaristico e,
reciprocamente questo incontro ha acquisito il suo realismo e la sua
profondità proprio nel servizio agli altri” (Deus Caritas est, n°
18). Padre Angelo ha vissuto con verità tangibile il suo rapporto
con Dio rimanendo unito a Lui nelle sue lunghe ore di preghiera e
diventando manifestazione nella storia della presenza dell’amore di
Dio. L’amore intenso per Gesù Eucarestia e per la sua Croce, ha
plasmato il corso della sua vita ed è diventato per lui
un’esperienza di unione di pensiero, di sentimento e volontà con
il mistero divino, tanto da condurre padre Angelo a vedere gli uomini
ed il mondo con gli occhi di Dio ed amare gli altri in Dio e con Dio.
La Beatificazione di padre Angelo in questo anno sacerdotale è una
occasione opportuna per risvegliare in tutti i Sacerdoti l’amore
per l’Eucarestia, la preghiera e la carità. Padre Angelo, uomo
povero e penitente, ci insegna anche la gioia e la bellezza.
L’ilarità e l’umorismo hanno accompagnato tanti momenti della
sua vita. Con battute simpatiche ha smorzato momenti difficili ed ha
accettato parole che suonavano come attacchi se non addirittura come
insulti. L’amore per la musica e l’impegno perché tra le corsie
dell’ospedale ci fosse spazio per il canto e per scenette buffe, ci
mostrano un padre Angelo che bene intuisce la pedagogia della
guarigione totale della persona che non può risollevarsi
fisicamente se il suo spirito non risorge nella letizia. Tanti tratti
ed aneddoti della vita di padre Angelo, ci rivelano la delicatezza
dell’animo di questo uomo che contemplando la Bellezza di Dio, ha
operato per ridare bellezza agli uomini che lo hanno avvicinato
collaborando con lui come volontari nello stesso servizio o
lasciandosi evangelizzare nell’esperienza della loro malattia e
della loro povertà. Nella grande famiglia del Carmelo che vede una
schiera meravigliosa di fratelli e sorelle brillare come esempio di
preghiera e come maestri di spiritualità e di mistica, non solo è
bello ma soprattutto responsabilizzante vedere il nostro padre Angelo
ufficialmente proposto ai nostri occhi come modello di vita. Lui con
la sua esistenza ci mostra che la mistica va trasformata in impegno
etico e che l’unione con Dio si trasforma in struggimento per la
povertà umana, non come semplice commiserazione sentimentale, ma
come cammino sui sentieri della storia nel segno della compassione e
del servizio. Il Carmelo è uscito dall’esperienza del Capitolo
Generale del 2007 con una rinnovata coscienza di impegno a favore
della giustizia e con il desiderio di crescere ancora nella sua
comunione interna come famiglia di fratelli e sorelle, religiosi e
laici, animati dallo stesso carisma. Padre Angelo, che univa intorno
a se gente altolocata e semplici artigiani, che responsabilizzava e
sapeva suggerire ad ognuno il suo specifico modo di far crescere la
cultura dell’amore nel loro tempo e nella loro società, invita
anche noi suoi fratelli e sorelle di oggi a inventare insieme vie e
modi nuovi per aver cura dei poveri e dei convalescenti di oggi,
ammalati soprattutto di aridità dell’anima. Voglia il Signore, ai
cui occhi è preziosa la morte dei giusti, donare presto al Carmelo
la gioia di vedere Padre Angelo elevato alla gloria degli altari, e
voglia il nostro umile e grande fratello accompagnarci con la sua
preghiera. Se il Signore ha permesso prima che scendesse il silenzio
su questa figura, e proprio oggi per le mani della Chiesa, ce lo
ripresenta nella luce della sua testimonianza e del suo infaticabile
amore, vuol dire che Egli al Carmelo di oggi vuol dire qualcosa. Dio,
attraverso questa glorificazione che avviene oggi e non in tempi
passati, sta parlano ai carmelitani ed alle carmelitane di oggi,
religiosi e laici. Forse non sta solo facendoci un regalo, è
probabile che ci stia mostrando una via. Il cantico di Frate Carità
Parole del venerabile Angelo Paoli riportate nei processi di
beatificazione
•
Chi cerca Iddio deve andarlo a
trovare tra i poveri.
•
Bisogna amare Iddio con tutto
il cuore, e con tutta la nostra anima, ed amare il nostro prossimo,
particolarmente i poverelli che così non si sente freddo, e non
viene paura. Iddio quanto ha patito per noi, per liberarci dalla
schiavitù del demonio, e darci la investitura del Paradiso? E noi
non vogliamo patire un piccolo incomodo o di freddo, o di caldo, per
servizio di Dio nella persona dei poverelli, e principalmente dei
poverelli infermi? Bisogna tremare dal freddo del maledetto peccato
che ammazza l'anima e la priva della bella grazia di Dio.
•
In questi poveri io riconosco
il maggior personaggio che vi sia, cioè Nostro Signore Gesù
Cristo: pertanto quando sono impegnato in servizio di questo gran
Signore non devo dar udienza ad altre persone.
•
Chi strapazza i poveri,
strapazza Iddio, perché nei poveri s'ha da riconoscere Iddio
benedetto.
•
Poiché siamo tutti figli di
un Padre che ci ama tanto, anche noi dobbiamo amarci a vicenda.
•
II carmelitano gusta il riposo
di san Giovanni, quello che si gusta sul petto dì Gesù, mediante
l'orazione!
•
Ho una grande fiducia nella
Divina Provvidenza e sono sicuro che non mi farà mai mancare nulla.
Dal
sito http://www.angelopaoli.org/
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