...Dio
e mia madre! Ecco i due grandi pensieri che sono la luce, la guida,
il freno delle giovinezze non ancora corrotte. Ma ogni giovane deve
un giorno uscire dalla famiglia per entrare nella società. In quel
giorno difficile egli deve trovarsi di fronte ad uomini che gli
parlano un linguaggio tutto opposto a quello udito nella famiglia o
nel collegio cristiano dove venne educato; uomini che disprezzano
tutto ciò che la madre e il prete gli hanno insegnato a stimare.
Questi uomini, le loro massime, i loro esempi, la loro influenza, il
loro disprezzo, sono ciò che si chiama il mondo. Allora bisogna che
ognuno faccia la sua scelta. O vincere il rispetto umano, e seguire,
miei cari giovani, il primo amico della nostra infanzia, Gesù, che
ci addita la via della croce, – o soffocare la voce della coscienza
e mettersi nelle vie del mondo.
Moltissimi
abbracciano il secondo partito. Perché? Perché Gesù Cristo impone
una legge d’umiltà e di mortificazione, e promette una felicità
futura, mentre il mondo promette una libertà senza confini e una
felicità presente. A seguir il mondo, se lo seguite, avrete grande
libertà di mente, non avrete il disturbo di tanti pensieri
dell'anima.
Avrete
una grande libertà di vita; non avrete l’incomodo di tanti doveri
che la religione impone. Avrete una gran libertà di soddisfazioni;
giacché mentre Gesù Cristo ci dice che chiunque fa un peccato
commette un’iniquità, il mondo ci assicura che anche facendo ciò
che il Vangelo chiama peccato si può essere uomini onesti e
camminare a fronte alta. Ecco le promesse del mondo. Ma è poi vero
che si ottengano questa felicità e questa libertà? Ah no, figliuoli
miei, no! Vedete, io ne ho conosciuti tanti ragazzi! Erano buoni e mi
volevano bene, e nel Signore anch'io volevo bene a loro, ed erano
felici. Poi è venuto come un soffio arido, e vari se ne sono andati,
perduti tra la folla, in cerca di una vaga e ben diversa felicità,
poveri figli! Ed ora, ogni tanto, qualcuno, disilluso e pentito, si
ricorda del tempo felice e scrive... e sono lettere che fanno
piangere, poveri e cari i miei antichi ragazzi!
E
vero che sulle prime, al giovane che si abbandona alle sue passioni
par di respirare più liberamente. Non sente più i legami dei
precetti di Dio e delle Osservanze della Chiesa, e questo gli pare un
grande acquisto, come al puledro che ha rotto la cavezza pare gran
diletto correre all'impazzata, calpestando ogni erba e ogni fiore. Ma
poi? Poi, bisogna cadere sotto una servitù peggiore della prima.
Gesù Cristo è un Padre, ma il mondo è un tiranno e ci tratta da
tiranno. Perciò il giovane che, ribellandosi alla fede dei suoi
padri, credeva d'aver guadagnata la sua indipendenza, presto cadrà
nelle mani di perversi compagni che lo domineranno; e bisognerà che
pensi come essi pensano, che vada dove essi vanno, spenda come essi
spendono... Maledirà il suo giogo, ma bisognerà portarlo. Ecco la
libertà che ha guadagnato! Oh, Dio vi liberi, miei giovani, dalla
libertà e dalla felicità che questo mondo sciagurato promette!
Bisognerebbe vedeste al letto di morte come esso mantenga le sue
promesse!
Ricordo
la morte di un giovane che avrebbe potuto diventare un valentissimo
letterato, e invece scrisse soltanto per bestemmiare ed offendere i
buoni costumi.
Avvicinandosi
alla sua fine precoce, sentiva il bisogno dell'antica sua fede, ed
esclamava:
«Dei
miei semplici padri, antico Iddio Dio di mia madre, in cui fanciullo
anch'io innocente sperai!».
Ma,
infelice, non ebbe poi tanta virtù da romperla col mondo. Ebbene?
Ebbene, sentite. «Non si potranno mai dire – scrive nella
prefazione ai suoi versi un suo amico – le profonde disperazioni di
quell'anima: la sua agonia fu orribile, straziante».
Morì
disperando.
Che
giova dunque, o miei figli, abbandonare Gesù Cristo per credere al
mondo?
Fiat!
E una piccola parola, dolce ricovero innalzato dal buon Dio in mezzo
a questo deserto sì arido e difficile da attraversare, che si chiama
la vita.
Fiat!
Esprime l'atto del fanciullo che si getta con amore sul seno del
padre finché passa l’uragano: l'atto del povero abbandonato che,
dopo lunghi anni di vita triste e solitaria, ritrovala sua madre;
l'atto dell’esiliato che, ricondotto sotto il tetto della sua
infanzia, e rivedendo commosso tutto ciò che egli ha amato, non sa
altro ripetere che: Io qui voglio morire!
Fiat!
Pronunciatela questa parola, cuori spezzati dalla sofferenza e dalla
lotta o straziati dalla sofferenza dei vostri più cari, e sarà per
voi un balsamo che vi guarirà.
Fiat!
Pronunciate questa parola, cuori rattristati dalla solitudine,
scoraggiati per l'abbandono, e sarà per voi l'amico che consola,
l'appoggio che sostiene!
Fiat!
Pronunciate questa parola, cuori timidi, che siete incerti sulla
strada da scegliere e non sapete a chi indirizzarvi, e per voi sarà
la luce che vi mostrerà il cammino.
Fiat!
Pronunciate questa parola, o voi che volete allontanare da coloro che
amate il timore che li agita od il male che li minaccia, ed essa li
ospiterà sotto le sue ali, e l’uragano passerà senza toccarli.
Fiat!
Pronunciatela questa soave parola, o figli e amici miei,
pronunciatela ad ogni respiro, ad ogni battito del cuore, ad ogni
movimento delle labbra. Dio la comprenderà sempre nel modo in cui
volete ch’egli la comprenda, ora come preghiera, ora come atto di
fede, nel dubbio, come atto di speranza nel timore, e sempre come
atto di amore.
Fiat!
Questa parola non si può dire che a Voi, o mio Dio, perché a Voi
solo possiamo pienamente confidarci, dedicarci, abbandonarci,
interamente.
Fiat!
Nelle vostre mani dunque, nelle vostre mani, o mio
Dio!
Fiat!
Fiat! In questi giorni di mortale tristezza, io ve la grido dal fondo
dell’anima desolata, m’inabisso in questa parola suprema con
tutto ciò che più amo: Fiat! Fiat!
Lavorate,
lavorate questo fango, o mio Dio, dategli una forma e poi spezzatela
ancora: essa è vostra e di chi fa per Voi, e non avrà mai più
nulla a ridire. O quanti sforzi, o
Signore,
per arrivare sino a questo punto! Quanto di umano si è dovuto
abbattere e calpestare! Ora vi ringrazio dal profondo del cuore!
Fiat!
Fiat! Sofferente, innalzato, abbassato, utile a qualche cosa od
inutile a tutti, io vi adorerò sempre e sarò sempre vostro, o mio
Dio! Nessuno mi staccherà da Voi!
Nelle
gioie e nei dolori sarò sempre tuo, o dolcissimo mio amore Gesù.
Solitario
ed ignorato, come il fiore del deserto, errante come l’uccello
senza nido, sempre, sempre, Signore e Amore soavissimo dell’anima
mia, uscirà dalle mie labbra la parola sottomessa di quella che mi
hai dato per Madre: Fiat! Fiat!
Sia
fatto di me secondo la tua parola!
Ieri
mi trovavo nella camera di un buon prete e là mi cadde lo sguardo su
queste parole: Dio solo! Il mio sguardo in quel momento era pieno di
stanchezza e di dolore, e la mente ripensava a tante giornate piene
di affanno come quelle di ieri, e sopra il turbinio di tante angosce,
e sopra il suono confuso di tanti sospiri, mi pareva fosse la voce
affabile e buona del mio angelo: Dio solo!, anima sconsolata, Dio
solo!
Su
d'una finestra c’era una pianta di ciclamini, più avanti un
corridoio e alcuni preti piamente a meditare e più avanti un
crocifisso, un caro e venerato crocifisso che mi ricordava anni belli
e indimenticabili, e lo sguardo pieno di pianto andò a finire là ai
piedi del Signore. E mi pareva che l'anima si rialzasse, e che una
voce di pace e di conforto scendesse da quel cuore trafitto, e mi
invitasse a salire in alto, a confidare a Dio i miei dolori e a
pregare.
Che
silenzio dolce e pieno di pace...! e nel silenzio Dio solo! andavo
ripetendo tra me Dio solo! E mi pareva sentire come un’atmosfera
benefica e calma attorno alla mia anima!... E allora vidi dietro di
me la ragione delle pene presenti: vidi che invece di cercare nel mio
lavoro di piacere a Dio solo! era da anni che andavo mendicando la
lode degli uomini, ed ero in una continua ricerca, in un continuo
affanno di qualcuno che mi potesse vedere, apprezzare, applaudire, e
conclusi tra me: bisogna cominciare vita nuova anche qui: lavorare
cercando Dio solo!
Lavorare
sotto lo sguardo di Dio, di Dio solo! oh! sì c’è in queste parole
tutta la regola nuova di vita, v'è tutto ciò che basta per l’Opera
della Divina Provvidenza: lo sguardo di Dio! Bisogna incominciare
vita nuova, e bisogna incominciare da qui: lavorare cercando Dio
solo!
Lavorare
sotto lo sguardo di Dio! di Dio solo! Lo sguardo di Dio è come una
rugiada che fortifica, è come un raggio luminoso che feconda e
dilata: lavoriamo dunque senza chiasso e senza tregua, lavoriamo allo
sguardo di Dio, di Dio solo! Lo sguardo umano è raggio cocente che
fa impallidire i colori anche i più resistenti: sarebbe per il
nostro caso come il Soffio gelato del vento che piega, curva, guasta
il gambo ancor tenero di questa povera pianticella. Ogni azione fatta
per far chiasso e per essere visti, perde la sua freschezza agli
occhi del Signore; è come un fiore passato per più mani e che è
appena presentabile. O povera Opera della Divina Provvidenza, sii il
fiore del deserto che cresce, si apre, fiorisce, perché Dio glielo
ha detto, e che non si altera, se l’uccello che passa lo scorge, o
se il vento che soffia disperde le sue foglie appena formate. Per
l'anima nostra e per tutta la nostra vita: Dio solo! Dio solo! La
solitudine senza Dio farà riposare lo spirito, ma inasprisce il
cuore: è una pianura fiorita ed odorosa, ma che non ha se non un
sole pallido e mortuario.
La
solitudine invece con Dio è atmosfera tiepida e dolce che sola sa
guarire gli strazi del cuore! Dio solo! oh com’è utile e
consolante il volere Dio solo per testimonio! Dio solo, è la santità
nel suo grado più elevato! Dio solo, è la sicurezza meglio fondata
di entrare un giorno nel cielo. Dio solo, figli miei, Dio solo!
Più
fede! Fratelli, non siamo spiriti scoraggiati; abbiamo fede, più
fede! Che cosa manca un po' a tutti, a noi tutti, oggi, per
adoprarci, nel nome di Dio e in unione con Cristo, a salvare il mondo
e ad impedire che il popolo si allontani dalla Chiesa? Che cosa ci
manca perché la carità, la giustizia, la verità non siano vinte, e
non rientrino nel seno di Dio, maledicendo all’umanità, che avrà
rifiutato di dare il suo frutto? Ci manca la fede! «Se aveste della
fede soltanto come un grano di Senape, ha detto Gesù, voi
trasportereste le montagne, e niente vi sarebbe impossibile» (cfr.
Mt 17, 20).
Fede,
fratelli, più fede! Chi è di noi, che crede si possano trasportare
le montagne, guarire i popoli, far predominare la giustizia nel
mondo, far risplendere la verità allo spirito umano, unire nella
carità di Cristo tutta la terra? Dove sono questi credenti? Più
fede, fratelli ci vuole più fede! Manca la fede in quelli che
bisogna salvare, e la fede manca, talora –ah, con quanto dolore
dell'animalo dico! –, manca o langue assai la fede in me e pur in
altri di noi che vogliamo o crediamo di voler illuminare e salvare le
folle. Siamo sinceri. Perché non sempre rinnoviamo la società,
perché non abbiamo sempre la forza di trascinare? Ci manca la fede,
la fede calda! Viviamo poco di Dio e molto del mondo: viviamo una
vita spirituale tisica, manca quella vera vita di fede e di Cristo in
noi, che ha insita in sé tutta l’aspirazione della verità, e al
progresso sociale; che penetra tutto e tutti, e va sino ai più umili
lavoratori.
Ci
manca quella fede che fa della vita un apostolato fervido in favore
dei miseri e degli oppressi, com'è tutta la vita e il vangelo di
Gesù Cristo. Ecco la piaga! Se vogliamo oggi lavorare utilmente al
ritorno del secolo verso la luce e la civiltà, al rinnovamento della
vita pubblica e privata, è necessario che la fede risusciti in noi e
ci risvegli da questo sonno «che poco è più morte»; è necessaria
una grande rinascenza di fede, e che escano dal cuore della Chiesa –
nuovi e umili discepoli del Cristo, anime vibranti di fede – i
facchini di Dio, i seminatori della fede! E deve essere una fede
applicata alla vita.
Ci
vuole spirito di fede, ardore di fede, slancio di fede; fede di
amore, carità di fede, sacrificio di fede! La preghiera che è
necessario fare è questa: «O Signore, accresceteci la fede!».
Fu
volontario di guerra, e poi brillante ufficiale del nostro esercito,
e dalla guerra tornò cieco e decorato.
La
luce di Dio risplendé su la sua anima, che aveva respirato la
tenebra del secolo; e la mano del Signore lo condusse, attraverso le
mirabili vie della Provvidenza, sino al nostro Eremo di Sant’Alberto
di Butrio, in Val Staffora, ove, tra valli e montagne boscose, è
solitudine grande e pace Soavissima.
O
beata solitudo! O sola beatitudo!
Quella
solitudine, quella semplicità di vita rispondevano mirabilmente ai
desideri del suo cuore. Amava le rocce, le messi, i boschi e la
freschezza delle fonti, l’aria, il sole, i fiori. Egli scopriva per
tutto i rapporti eterni che legano i misteri della natura a quelli
della fede, e si sentiva trasformato dallo Spirito del Signore.
Diffuso
sul volto e su la fronte alta e serena gli splendeva un raggio di
divina bellezza e di predestinazione, e viveva infiammato di Gesù
come un serafino. E chiese e ottenne d’essere Eremita della Divina
Provvidenza: di vivere nascosto a tutti, di rendersi negletto e servo
di tutti, per l’amore di Cristo benedetto.
E
così visse, da povero fraticello. Visse semplice e pio, d’una
pietà lieta, là nell'antico e diruto cenobio che vide passare Santi
e guerrieri. La vita di lui parea si andasse infervorando ogni di
più, tutta amore di Dio e degli uomini, tutti abbracciando, e
vincitori e vinti. E, morto al mondo e a se stesso, bruciandogli
fortissima la fiamma dell'amore divino, correva frequente ad
abbracciare i piedi del Crocifisso e gridava: Perché voi in croce, o
mio dolcissimo Signore, e io no? Si seppe mai chi fosse quel monaco
cieco, che Sorrideva a tutti, quel cieco che aveva una parola buona,
delicata per tutti. Lo vedevano i montanari e i pellegrini, raccolto
in profonda meditazione, disteso sul crudo Sasso ove l’abate
Alberto si fe santo; lo vedevano dritto con le braccia tese cantare a
Dio in ardore di carità: «Laudato sii, mi Signore, – per quelli
che perdonan per lo tuo amore! – Laudato sii, mi Signore, – per
sora nostra morte corporale!».
Lo
vedevano prostrato a l’urna miracolosa del Santo o all’altare,
lapideo, preziosissimo per venerabilità, dove, pochi anni innanzi il
suo morire, che fu nel 1444, Bernardino da Siena, peregrino all’Eremo
di S. Alberto di Butrio, volle consacrare il Corpo e il Sangue del
Signore, e confortarne i monaci pur con quella sua voce di pace
insieme e di mistico fervore, ma anche, e più frequente, di
formidabile profeta. La natura, lungi dalle agitazioni e dagli
inganni della società, nel silenzio della solitudine, ammaestra di
Dio più che non i libri degli uomini. E fu tutta una vita nascosta
con Cristo in Dio: vita di penitenza, di adorazione, di elevazione
sublime dello spirito: fu come la voce della preghiera, la vita del
nostro eremita cieco. Egli sapeva di lettere, sapeva di musica,
sapeva di armi, ma venne all'Eremo per sapere solo e umilmente di
Dio.
«Vànitas
vanitatum, et òmmia vànitas!». Vanità delle vanità, e ogni cosa
è vanità, fuori che l’amare Dio e il servire a Lui solo. E si fe
stolto, per essere sapiente di Cristo, lasciando le Vanità ai vani,
níuna cosa bramando, fuorché vivere in semplice obbedienza, con
libertà di spirito e carità grande nella servitù di Dio, grata e
gioconda. O servitù amabile e desiderabile sempre! O santo stato del
religioso servizio, che rende l’uomo pari agli Angeli, terribile a
demoni, e a tutti i fedeli onorevole! E seguendo Gesù con la croce
sua, e lietamente amando Cristo in croce, il nostro valoroso cieco di
guerra seppe nascondersi sì ch'ei fu il minimo di tutti, e ti pareva
che solo sapesse dire: Ave, Maria! Ave, Maria! al coro; Ave, Maria!
lungo il chiostro; Ave, Maria! al bosco; Ave, Maria! alla cella; Ave,
Maria! sul poggio che mena alla grotta di S. Alberto; sempre Ave,
Maria!
Si
chiamava Fratello Avemaria.
E
così, conformando la sua vita a quella di Cristo, compì la sua
«giornata innanzi sera». Era un tramonto, e venne a morire. Volle
essere portato nella primitiva chiesetta di Santa Maria; volle essere
disteso là sulla nuda terra, ai piedi degli affreschi, bellissimi,
della Madre di Dio; incrociate le braccia, aprì le labbra a un
sorriso luminoso. Evidentemente era la Vergine, celeste e pia, che
dal Paradiso se lo veniva a prendere.
Frate
Avemaria apparve trasfigurato. Egli la chiamò, la salutò ancora;
l'ultimo respiro fu: Ave, Marias «Morte bella parea nel suo bel
viso», e rivelava tutta la sua beatitudine. Dalla torre antica corse
«su l’aure l’umil Saluto». Quella campana che, fiera, dal
Carroccio aveva chiamati i popoli a raccolta contro il despota del
Medioevo, Federico Barbarossa, quella stessa campana, che aveva
suonata la libertà dei Comuni sui piani lombardi, parve, in
quell’ora, che dall’alto della torre venisse mossa dalla mano
d’un angelo. Con voce dolcissima si mise a squillare alle valli e
ai clivi, Ave, Maria! Ave, Maria! Una «soave volontà di pianto»
invase l'animo dei monaci bianco vestiti, e subito una gioia, una
pace, un ardore indistinto si diffondeva d’intorno; le ultime tinte
del tramonto sfumavano nella notte, e scorreva sulle cime delle
montagne, per le pendici, e giù, fin su le acque della Stàffora,
scendeva a valle il murmure dolce: Ave, Maria! Si fece il mortorio.
Gli
Eremiti, piangendo, cantarono al fratello i salmi del suffragio e
della requie sempiterna. Quando tacquero, dalla bara fonda una voce,
quale di cigno lontano, s’intese distinta; diceva: Ave, Maria!
Finite le esequie, fu portato al cimitero, a mano, dai fratelli in
lacrime; al cimitero, lì, presso l’eremo; ma dovei passava, le
erbe e sin le pietre fiorivano e gli uccelli cantavano a gloria. La
bara posò nella fossa, e la terra la ricoperse, e vi fu piantata una
croce di legno che egli s’era fatta con le sue mani, già cieco. Si
nascosero i passerotti al cipresso; ai folti castagni del bosco di
Butrio quietarono i cardellini. Era silenzio. Di sotterra, nella pace
della notte, una voce sommessa s’intese; veniva verso l’Eremo, e
si andava perdendo lungo quella stradicciola che conduce alla
chiesetta Solitaria. Diceva, la voce dolce e sommessa: Ave, Maria!
Passarono
dei giorni, e gli Eremiti della Divina Provvidenza si raccolsero a
pregare sulla tomba di Frate Avemaria. Erano venuti anche di lontano,
dalla Calabria di S. Bruno e di Cassiodoro, dalla Sicilia che vide i
primi Eremi e fu terra di Santi, e pur dalla Palestina lontana ne
vennero, di là dove visse il Signore.
Vennero
e videro, meraviglia! Sulla tomba del fratello, un giglio
candidissimo apriva l’odoroso calice; e attorno alla corolla, in
lettere d’oro recava scritto: Ave, Maria! Vollero svellere il fiore
per recarlo alla Madonna, ma era forte; scavarono, e videro che aveva
poste le radici entro la bocca di Frate Avemaria, e andavano giù giù
fino al cuore.
Piangendo
di commozione, «pieni di meraviglia e di pietade», caddero i buoni
Eremiti in ginocchio avanti a Fratello Avemaria, che era là bello
come un giacinto, incorrotto, sorridente come un angelo, e compresero
allora che, ad ogni nostra Ave, Maria!, fiorisce un giglio in terra,
e odora in grazia al cospetto della Madonna.
Ma
ecco, sulle loro teste, un alitare di vento, e passare soave la nota
voce, che andava al cielo, ripetendo Ave, Maria! Ave, Maria! Ed oh,
gioia d'una nuova aurora! L'azzurro si era tutto gemmato di stelle, e
le stelle che fiorivano nel cielo erano le molte, le dolci, le care
Ave, Maria!
Perché,
o giovani miei, dovete sapere che, ad ogni nostra Ave, Maria, si
accende una stella in cielo e risplende in omaggio alla Madonna.
Gigli
e stelle le possono essere offerti da noi, o miei cari. Gigli afar
tappeto ai suoi passi, a dar corona a Lei da presso; stelle a far
diadema alla sua fronte verginale, ad aggiungere luce alla sua
aureola.
Gigli
che gli angioli colgono; stelle che gli angioli intessono in
ghirlanda per Lei. Gigli che vanno così innanzi a prepararci la
strada per la quale noi passeremo un giorno per salire alla Madonna;
stelle che illumineranno la nostra via al cielo, come fu già di San
Benedetto, e un po' della loro luce daranno poi a farci corona
eternamente.
Far
sbocciare molti di questi gigli, far risplendere molte di queste
stelle equivale per noi ad onorare Maria, e ottenerne sicuro favore e
materno patrocinio per la nostra salvezza.
A
fasci crescano, dunque, su i nostri passi í gigli; a costellazioni
s’illuminino adunque sul nostro capo le stelle.
E
ogni giorno e ogni ora della nostra vita e ogni battaglia del cuore
siano segnati, siano suggellati dalla nostra preghiera: Ave, Maria!
«Taccian
le fiere e gli uomini e le cose,
roseo
il tramonto ne l’azzurro sfumi,
mormorin
gli alti vertici ondeggianti: Ave, Maria!».
O
giovani: Ave, Maria! Sempre!
O
giovani: Ave, Maria! e avanti! O giovani: Ave, Maria! sino al beato
Paradiso!
Don
Orione – Tratto da “Nel nome della Divina Provvidenza”
Nessun commento:
Posta un commento