La
Vendramini nacque a Bassano del Grappa (Vicenza) il 9-4-1790, settima
dei dodici figli che Francesco, ricco possidente di negozi e
magazzini. ebbe da Antonia Angela dei nobili Duodo di Venezia, e fu
battezzata il giorno dopo nella chiesa parrocchiale di S. Maria in
Colle coi nomi di Elisabetta Giovanna. Bambina vivace e decisamente
volitiva, fu affidata dai genitori all'educandato delle Monache
Agostiniane di S. Giovanni, il più vicino alla loro abitazione. Colà
per nove anni la beata imparò a venerare la Madonna e il Bambino
Gesù e a praticare con decisione le più solide virtù. A giudicare
dagli strafalcioni di sintassi e di ortografia che farà per tutta la
vita nei suoi scritti, dovremmo dire che nello studio della lingua
italiana fece pochi progressi.
All'età
di quindici anni Elisabetta ritornò in famiglia. Nel Diario
Spirituale che l'anno dopo cominciò a scrivere sotto la direzione
spirituale del P. Antonio Maritani (+1852), francescano del convento
di S. Bonaventura, attesta: "In famiglia, dove tutto spirava
piaceri e comodi, io ben presto cambiai modo di vivere e divenni
l'anima della conversazione della sera".
Con
la pace di Presburgo, conclusa il 26-12-1805 da Napoleone I con la
Russia e l'Austria, dopo la vittoria di Austerlitz, l'Austria, fu
costretta a cedere all'Italia tutto il Veneto e la Dalmazia. Le
monete austriache e venete subirono perciò una forte svalutazione
con danni incalcolabili anche per la famiglia Vendramini. Per
nascondere ai figli le difficoltà alle quali andava incontro
confinò, per due anni, Elisabetta con due sorelle nella villa di San
Giacomo, nella quale, a contatto della natura ebbe modo di
abbandonarsi alla contemplazione e di preparare ai sacramenti
nell'oratorio domestico le ragazze del vicinato. Sentiva grande
desiderio di darsi agli altri, e nel medesimo tempo di farsi una
famiglia. S'innamorò di un bravo giovane ferrarese, fissò persino
la data delle nozze, ma esse divennero per lei "un'agonia di
morte". Riprese a pregare e a fare penitenze. Il 17-9-1817
mentre con le amiche stava parlando di una nuova acconciatura di
capelli, avvertì chiaramente una voce interiore che le disse: "Non
vedi che la tua condotta ti porta a dannazione? Vuoi tu salvarti? Va'
ai Cappuccini", cioè al convento che da Don Marco Cremona
(+1828) era stato trasformato in conservatorio in cui le orfane
potevano rimanere fino ai 25 anni.
La
madre e i fratelli della beata fecero quanto poterono per
distoglierla da quel proposito, anche perché l'orfanotrofio, per la
povertà dei mezzi di sussistenza, non era ancora stato
giuridicamente approvato. Elisabetta non recedette dal suo proposito
benché, senza motivazioni, le fosse stata rifiutata l'accettazione.
Fu allora tentata di tornare alla "vita vana, comoda, non già
dissoluta", invece intensificò la pratica religiosa con
"discipline aspre, cilizi, presenza alle pubbliche funzioni',
quasi come una neo-convertita. Dopo due anni di forzata attesa,
improvvisamente la Vendramini fu accettata al conservatorio come
assistente della priora (l820).
Compito
di Elisabetta fu quello di accudire a dodici orfane, ma dai primi
contatti avuti con la diffidente priora, ebbe la sensazione che ivi
avrebbe dovuto "fare il purgatorio". Il 23-2-1822 pronunciò
i voti secondo la regola delle terziarie secolari, e l'anno
successivo avvertì la profonda "intimazione" di scrivere
una regola che trasformasse quel "ritiro di pie donne" in
una vera e propria congregazione francescana. Ne parlò al P.
Maritani il quale, prima ne rise, poi le concesse il desiderato
permesso poiché anche lui si era persuaso che proprio ai Cappuccini
dovesse dare vita a una vera comunità di Terziarie regolari.
Presentò l'abbozzo della regola anche a Don Cremona il quale, in un
primo momento si dichiarò favorevole, in seguito condannò
l'iniziativa con "una aperta persecuzione". La beata prese
allora lo scritto, lo collocò accanto al tabernacolo e pregò:
"Adesso, Signore, pensaci tu". Dopo alcuni mesi di
incertezze sulla nuova fondazione si sentì dire chiaramente: "Tu
devi essere la prima pietra. Lascia che i superiori facciano, questo
è il loro tempo".
Varie
e laceranti furono le sofferenze che la Vendramini continuò a
subire. Più tardi scriverà: "Sei anni e mezzo passai in una
continua croce, tortura, eculeo, oppressione... Ah, se avessi ben
sofferto, sarei ora una santa". A tante tribolazioni, si
aggiunsero le pressioni del fratello Luigi che cercava di ricondurla
in famiglia prospettandole la imminente chiusura del conservatorio
per mancanza di mezzi di sussistenza. Elisabetta, che era disposta a
morire piuttosto di ritornare nel mondo, si chiedeva: "Può
forse la sposa per piacere a un fratello lasciare lo sposo?".
Luigi
si adoperò allora perché fosse assunta nel pio luogo degli Esposti
in Padova, dove egli si trovava come commissario di polizia. La
beata, soddisfatta di non esser di peso alla famiglia, il 5-1-1827
entrò come prima maestra, con uno stipendio annuo di 300 lire
austriache, nell'ampio fabbricato riservato agli Esposti. Curato di
quel pio luogo, che stava attraversando in quel tempo momenti
difficili, era Don Luigi Moran. La Vendramini intuì che doveva darsi
più intensamente alla preghiera e alla mortificazione per potere
superare le difficoltà che anche nel nuovo ambiente avrebbe
incontrato. I suoi rapporti con la priora, difatti, a volte si
trasformavano in vere e proprie tensioni per la diversità del
temperamento e per il divergente metodo educativo. Neppure le fu
facile all'inizio aprirsi filialmente con don Moran che doveva essere
il suo secondo direttore spirituale. Con l'aiuto di Dio riuscì ad
esporgli ogni cosa per scritto. Soltanto dopo un anno, però, gli
parlò dell'intenzione che aveva di fondare una congregazione per
l'istruzione e l'educazione della gioventù, e la cura dei malati.
Quando ogni speranza "credeva sepolta", ebbe la gioia di
costatare che anche lui ne condivideva il progetto apostolico. Le
sarebbe servito per curare i rapporti con le autorità civili ed
ecclesiastiche e per penetrare più agevolmente nell'ambiente
padovano. La beata per applicarsi sempre meglio alla pratica dei voti
già emessi, gli chiese un efficace metodo di ascesi spirituale per
essere in grado di custodire il suo amore sponsale. Sentiva pure il
bisogno di avere più frequenti colloqui con lui, ma per evitare
gelosie da parte della priora e invidie da parte delle orfane, fu
costretta a fargli conoscere quanto desiderava soltanto per mezzo di
biglietti. Non le mancarono i dubbi di non essere chiamata alla vita
faticosa e povera della terziaria, e il timore di non riuscire ad
adattarsi al cibo poco adatto alla sua delicata complessione, ma li
superò ribattendo: "II volere di chi mi guida sarà il mio".
Dopo aver fatto sacrificio a Dio anche dei familiari, il 22-8-1828
presentò all'Istituto Esposti le dimissioni dall'incarico di maestra
con grande rammarico del direttore. Di lei in precedenza aveva
scritto la Delegazione provinciale: "La maestra è attiva,
robusta, imperterrita tratta e lavora in forme del tutto analoghe
alla sorte delle sue alunne. Quindi con la stessa facilità e premura
con cui le addestra nel leggere, le va ella sviluppando in quei
lavori che le debbono un giorno occupare; trovasi con esse a tutte
quelle funzioni che richiedono sorveglianza; si fa obbedire con
prontezza, corregge le mancanze, ne mai si lascia indurre a
cattivarsi l'altrui affetto con una pericolosa dissimulazione, quando
la buona disciplina vuoi essere dal rigore sostenuta. È pur essa di
temperamento facile ad infiammarsi, ma docile al tempo stesso".
A
Padova la Vendramini si sistemò con due compagne che l'avevano
seguita, in una povera casa della curia vescovile, situata nella zona
detta Codalunga, popolata da famiglie che vivevano in condizioni
umilianti di miseria e corruzione. A pianterreno di quella "reggia
della santa povertà" la beata accolse ben presto le fanciulle
povere del quartiere per educarle.
In
poco tempo esse raggiunsero la cifra di 160, cosicché la fondatrice
si vide costretta ad acquistare l'attiguo e più ampio edificio. Al
mattino le fanciulle, conforme ai "metodi scolastici in corso",
prendevano parte alle lezioni scolastiche, e nel pomeriggio venivano
ammaestrate nei lavori tipicamente femminili. La Casa si impose ben
presto all'attenzione dei padovani per il profitto che le loro figlie
ne traevano. Don Moran fu continuamente ragguagliato sullo sviluppo
dell'Opera finché, dimessosi dal pio luogo alla fine del 1832, potè
prendersi cura del piccolo seminario che aveva aperto accanto alla
comunità delle Terziarie Regolari, e nello stesso tempo dirigere
tanto loro quanto la fondatrice, la quale doveva superare gravi
difficoltà economiche. Don Moran svolse questo compito da uomo rude
e di poche parole, contrariandola alle volte con durezza, dimostrando
di non avere sempre le doti di un buon maestro di spirito, quando
Madre Elisabetta viveva momenti di sofferenza, di illuminazioni
straordinarie e di intima unione con Dio. Migliore fu l'aiuto che le
prestò quanto allo sviluppo dell'Istituto. Per questo la fiducia e
la gratitudine che la beata nutrì verso la Provvidenza non le venne
meno mai.
Il
P. Bartolomeo Cornet (11836), filippino, figlio di ricchi
commercianti veneziani, considerato l'apostolo di Padova per lo
spiccato senso di carità che nutriva verso i bisognosi, divenne
anche per le Terziarie quasi "un San Gaetano", pronto a
sollevarle nelle loro necessità. Quando Don Moran fu colpito dal
vaiolo, il P. Cornet ritenne opportuno convogliare le Terziarie della
Vendramini alle Figlie della Carità, sorte a Verona per opera della
marchesa di Canossa (1"1834). Fissò tra loro un appuntamento,
ma Elisabetta "dopo due ore di reciproci detti e contrasti",
venne nella determinazione di continuare per la sua strada. Trovando
lo spirito serafico più congeniale per sé e per l'Istituto, con il
beneplacito di Mons. Modesto Farina (11857), vescovo di Padova,
ottenne di inserirlo regolarmente nel Terz’Ordine Francescano sotto
la tutela dei minori Conventuali.
Il
24-10-1830 con le prime compagne ricevette l'abito religioso e venne
confermata "Capo d'Ordine" dal visitatore P. Francesco
Peruzzo. Nel suo Diario scrisse di avere eletto "Maria SS.
Priora" della Casa, e se stessa "sotto Priora". Un
anno dopo con le sue prime compagne emise i tre voti religiosi sotto
la denominazione ufficiale di Suore Terziarie Francescane
Elisabettine.
Le
prime costituzioni furono consegnate alle terziarie regolari nel
1833. La fondatrice per 32 anni fu sempre pronta a spiegarle e a
raccomandarle alle sue consorelle nelle riunioni settimanali e nei
ritiri spirituali. Asserì chi vi prese parte: "Madre Elisabetta
trattava con grande carità le religiose. Era forte sì nell'esigere
l'osservanza delle regole, ma insieme umile e prudente. Non aveva
ambizione di sorta.
Avrebbe
preferito obbedire piuttosto che comandare. Esemplarissima in tutto,
amante del lavoro, della mortificazione, sceglieva per sé le
occupazioni più umili. Era osservantissima della regola, di condotta
ineccepibile; si sacrificava per il bene dell'Istituto e pregava
giorno e notte".
Secondo
altre sue religiose "era imparziale nelle correzioni e nei
rimproveri, senza ammettere eccezioni tra le suore. Di solito era
affabile, di belle maniere anche se di carattere forte. Usava
severità solo quando ve la obbligava la coscienza, sempre ferma nel
mantenere il proposito fatto di accogliere le sue figlie con
piacevolezza allorché avessero fatto ricorso a lei nelle loro
necessità".
Come
Gesù, suo sposo, la beata cercava la vera grandezza con il farsi
piccola, amava la vera ricchezza con il farsi povera, mantenendosi
davanti a lui nella sua verità di creatura carica di limiti e di
pesi, sempre bisognosa della sua grazia e della sua misericordia.
Riconosceva che solo Dio operava in lei quando faceva qualche cosa di
buono. Mantenendosi in un vero distacco e vuoto da tutto ciò che non
è Lui, si riempiva di Lui e del suo amore. A se stessa e alle sue
suore, ben a ragione ella ripeteva di non essere propriamente virtù
l'umiltà, ma semplicemente verità. Sempre paziente con se stessa e
con i suoi difetti non perdeva la pace inferiore, né si scoraggiava:
l'umiltà la rendeva fedele, e faceva di lei un'autentica orante,
vivente solo in Dio.
Finché
visse la Vendramini cercò pure di fare riconoscere legalmente il
proprio Istituto, ma le risposte da parte del governo furono sempre
negative perché mancava di solide garanzie economiche. Non cessò
per questo di accorrere in aiuto di chi si trovava in necessità.
Nello spazio di circa vent'anni le sue Terziarie si occuparono di una
decina di opere assistenziali della città. Ricordiamo la Casa
d'Industria, contigua alla casa delle religiose, in cui prestarono
prima l'assistenza e poi l'istruzione alle fanciulle e fanciulli
orfani; l'annesso ex-monastero del Beato Pellegrino, occupato da
donne anziane sane e malate; il ricovero-ospedaletto ai Santi
Giovanni e Paolo di Venezia (1850), l'Istituto degli Esposti (1852),
l'ospedale civile di Padova (1853) e quattro asili cittadini. Un
giorno la fondatrice scrisse a Don Moran: "Io voglio amare il
mio Dio perdutamente, indicibilmente. Operativo amore è quello che
chiedo, e questo solo per Iddio, non per i suoi beni". E nelle
Memorie dell'Impianto delle Terziarie annotò: "II soccorrere
era il mio vero bene".
Chi
visse con lei nei processi attestò: "Amava immensamente i
poveri e per essi sarebbe andata volentieri di porta in porta a
chiedere l'elemosina". "Per le bambine aveva cure materne:
le lavava, le pettinava, le copriva con qualche indumento che le
veniva regalato; le istruiva insegnando loro il catechismo; le
conduceva in chiesa a pregare; e insegnava loro, con inalterabile
pazienza, a leggere e a scrivere". "Ai cari vecchietti
porgeva il cibo con le sue stesse mani e diceva loro parole di
rassegnazione e di conforto". "Nei malati vedeva Gesù,
perciò li trattava con tanto amore specialmente se erano fastidiosi,
esigenti, ingrati e ripugnanti".
Alla
morte di Don Moran (1859) Madre Elisabetta si pose sotto la direzione
del P. Bernardino da Portogruaro, provinciale dei Frati Minori di
Padova. Avrebbe voluto legarsi anche a lui con il voto di obbedienza,
ma ne ebbe un netto rifiuto. Lesse il libro che le suggerì di S.
Bonaventura, intitolato Le sei ali serafiche, vale a dire le virtù
che deve possedere chi è preposto al governo, e si dichiarò
spaventata della sua "somma Spirituale povertà e miseria".
Le forze le vennero meno giorno dopo giorno. Tuttavia, mettendo in
pratica i consigli del P. Bernardino, fatto in seguito Ministro
generale dell'Ordine, riuscì a trascorrere l'ultimo periodo della
vita in una grande pace inferiore.
Anche
negli ultimi anni di vita i tanti acciacchi fisici non valsero a
indebolire la ferrea volontà della fondatrice. Essa tutto
sorvegliava, e visitando asili, scuole, ospedali, ricoveri,
consolava, dava buoni consigli, indicava opportuni rimedi, si faceva
tutta a tutti ed era l'anima che informava l'intera congregazione.
Persino quando si muoveva appoggiata a un bastoncello, o condotta per
casa su di una sedia a rotelle a causa di una artrite deformante, con
l'eroico suo coraggio sapeva infondere vigoria a tutte le sue figlie
spirituali.
Madre
Elisabetta morì il 2-4-1860 di ipertrofia cardiaca dopo avere
ripetuto: "Gesù, Giuseppe e Maria", ed esclamato: "Ho
veduto di passaggio la S. Famiglia". A tutte le religiose in
precedenza aveva raccomandato la carità e il distacco da se stesse.
Fu seppellita nel cimitero di Padova. In seguito le sue ossa furono
esumate a insaputa delle Terziarie Francescane e collocate
nell'ossario comune. Giovanni Paolo II ne riconobbe l'eroicità delle
virtù il 18-2-1989 e la beatificò il 4-11-1990.
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