31
marzo 1944. Venerdì di Passione, ore 2 ant.ne. Ecco la mia
penosissima visione di queste prime ore del Venerdì di Passione,
presentatamisi mentre facevo l'Ora di Maria Desolata, perché avevo
pensato che passare la notte, che precede la Professione, in
compagnia della Vergine dei Sette Dolori fosse la più bella
preparazione alla Professione.
Vedo
Giuda. È solo. Vestito di giallo chiaro e con un cordone rosso alla
vita. Il mio interno ammonitore mi avverte che da poco è stato
catturato Gesù e che Giuda, fuggito subito dopo la cattura, è ora
in preda ad un contrasto di pensieri. Infatti l'Iscariota pare una
belva furente e braccata da una muta di mastini. Ogni sospiro di
vento fra le fronde, il frusciare che fa un qualche che per le vie,
il gemito di una fontanella, lo fanno sussultare e volgersi con
sospetto e terrore, come si sentisse raggiunto da un giustiziere.
Gira il capo tenendolo basso, a collo tor- to, gira gli occhi come
chi vuol vedere e ha paura di vedere e, se un giuoco di luna crea
un'ombra dalla parvenza umana, egli sbarra gli occhi, fa un salto
indietro, diventa anche più livido di quanto non sia, si arresta un
istante e poi fugge a precipizio, tornando sui suoi passi,
scantonando per altre viuzze, sinché un altro rumore, un altro
giuoco di luce, lo fa arretrare e fuggire in altra direzione.
Nel suo andare pazzo va così verso l'interno della città. Ma un clamore di popolo l'avverte che è presso alla casa di Caifa, e allora, portandosi le mani al capo e curvandosi come se quei gridi fossero altrettante pietre che lo lapidino, fugge, fugge. E nel fuggire prende una stradetta che lo porta diritto verso la casa dove fu consumata la Cena. Se ne accorge, quando è davanti ad essa, per una fontanella che geme a quel punto della via. Il piangere dell'acqua, che goccia e cade nel piccolo bacino di pietra, e un fischio debole di vento, che insinuandosi per la via stretta fa come un represso lamento, gli devono sembrare il pianto del Tradito e il lamento del Suppliziato. Si tappa gli orecchi per non udire e scappa ad occhi chiusi per non vedere quella porta, da cui poche ore avanti è passato col Maestro e dalla quale egli è uscito per andare a prendere gli armati per catturarlo.
Nel
correre, così alla cieca, va a urtare contro un cane randagio, il
primo cane che vedo da quando ho le visioni, un grosso cane grigio e
irsuto, che con un ringhio si scansa, pronto a slanciarsi contro il
suo disturbatore. Giuda apre gli occhi e incontra le due pupille
fosforescenti che lo fissano e vede il biancore delle zanne scoperte
che pare abbiano un riso diabolico. Dà un urlo di terrore. Il cane,
che forse lo crede un urlo di minaccia, si avventa, e i due rotolano
nella polvere: Giuda sotto, paralizzato dalla paura, il cane sopra.
Quando la bestia lascia la preda, giudicata forse indegna di una
lotta, Giuda sanguina per due o tre morsi e il suo mantello presenta
dei vasti strappi.
Un morso lo ha proprio addentato alla guancia, nel preciso posto dove egli ha baciato Gesù. La guancia sanguina, e sangue brutta la veste giallognola di Giuda al collo. Gli fa come un collare di sangue, imbibendo di sé il cordone rosso che stringe al collo la veste, facendolo più rosso ancora. Giuda, portandosi la mano alla guancia e guardando il cane che si allontana, ma lo guata dall'insenatura di una porta, mormora: «Belzebù!», e con un nuovo urlo fugge inseguito dal cane per qualche tempo. Fugge sino al ponticello che è prossimo al Getsemani. Qui, sia perché stanco di inseguirlo, sia perché fosse idrofobo e l'acqua lo allontani, il cane lascia la preda e torna indietro ringhiando. Giuda, che si era gettato nel torrente per prendere pietre da scagliare al cane, quando lo vede allontanare si guarda intorno, si vede con l'acqua sino a metà polpaccio. Senza curarsi della veste, che sempre più si bagna, si curva sull'acqua e beve come fosse preso da arsione di febbre, e si lava la guancia che sanguina e deve dolere.
Al
lume di un primo svegliarsi di alba risale il greto. Dall'altra
parte, come avesse ancora paura del cane e non osasse tornare verso
la città. Fa qualche metro e si trova nell'ingresso dell'orto degli
Ulivi. Grida: «No! No!», riconoscendo il posto. Ma poi, non so per
quale forza irresistibile o per quale sadismo satanico e criminale,
avanza in quel luogo. Cerca il posto dove è avvenuta la cattura. La
terra del sentiero scompigliata da molte pedate, l'erba calpestata in
un dato punto e del sangue per terra, forse quello di Malco, lo
avvisano che lì egli ha indicato ai carnefici l'Innocente.
Guarda,
guarda... e poi ha un urlo roco e fa un balzo indietro. Grida: «Quel
sangue, quel sangue!...», e lo indica... a chi? col braccio teso e
l'indice puntato. Nella luce che aumenta il suo volto è terreo e
spettrale. Pare un pazzo. Ha gli occhi sbarrati e lucidi come per
delirio, i capelli scompigliati dalla corsa e dal terrore sembrano
stare irti sul capo, la guancia che va enfiando gli torce la bocca in
un ghigno. La veste strappata, insanguinata, bagnata, motosa, perché
la polvere si è appiccicata al bagnato ed è divenuta fango, lo fa
simile ad un accattone. Il manto, pure lacero e motoso, gli pende giù
da una spalla come uno straccio, e in questo egli si impiglia quando,
continuando a gridare: «Quel sangue, quel sangue!», arretra come se
quel sangue divenisse un mare che monta e sommerge.
Giuda
cade riverso e si ferisce al capo, dietro al capo, contro una pietra.
Ha un gemito di dolore e di paura. «Chi è?», grida. Deve aver
pensato che qualcuno l'abbia fatto cadere per colpirlo. Si volge con
terrore. Nessuno! Si alza. Ora il sangue goccia anche sulla nuca. Il
cerchio rosso si allarga sulla veste. Non cade in terra, perché è
poco. La veste lo beve. Ora il capestro rosso pare già al collo.
Cammina.
Ritrova le tracce del fuocherello acceso da Pietro ai piedi di un
ulivo. Ma egli non sa che è opera di Pietro e deve credere che lì
fu Gesù. Grida: «Via! Via!», e con ambe le mani, tese avanti a sé,
pare respingere un fantasma che lo tormenta. Scappa. E va a finire
proprio contro il masso dell'Agonia.
Ormai
l'alba è netta e permette vedere bene e subito. Giuda vede il
mantello di Gesù rimasto piegato sul masso. Lo conosce. Vuole
toccarlo. Ha paura. Stende e ritira la mano. Vuole. Disvuole. Ma quel
manto lo affascina. Geme: «No. No». Poi dice: «Sì, per Satana!
Sì. Voglio toccarlo. Non ho paura! Non ho paura!». Dice che non ha
paura, ma batte i denti dal terrore, e il rumore che fa sul suo capo
un ramo d'ulivo, mosso dal vento e urtante contro un tronco vicino,
lo fa urlare di nuovo. Pure si sforza e afferra il mantello. E ride.
Un riso da pazzo, da demonio. Un riso isterico, spezzato, lugubre,
che non finisce mai, perché ha vinto la sua paura.
E
lo dice: «Non mi fai paura, Cristo. Più paura. Avevo tanta paura di
Te perché ti credevo un Dio e un forte. Ora non mi fai più paura
perché non sei Dio. Sei un povero pazzo, un debole. Non ti sei
saputo difendere. Non mi hai incenerito come non hai letto nel mio
cuore il tradimento. Le mie paure!... Che stolto! Quando parlavi,
anche ieri sera, io credevo Tu sapessi. Nulla sapevi. Era la mia
paura che dava tono di profezia alle tue comuni parole. Sei un nulla.
Ti sei lasciato vendere, indicare, prendere come un sorcio nella
tana. Il tuo potere! La tua origine! Ah! Ah! Ah! Buffone! Il forte è
Satana! Più forte di Te. Ti ha vinto! Ah! Ah! Ah! Il Profeta! Il
Messia! Il Re d'Israele! E mi hai tenuto soggetto per tre anni! Con
la paura sempre nel cuore! E dovevo mentire per ingannarti con
finezza quando volevo godere la vita! Ma anche avessi rubato e
fornicato senza tutta l'astuzia che usavo, Tu non mi avresti fatto
nulla. Imbelle! Pazzo! Vigliacco! Toh! Toh! Toh! Ho avuto torto a non
fare a Te quel che faccio al tuo manto per vendicarmi del tempo in
cui mi hai tenuto schiavo della paura. Paura di un coniglio!... Toh!
Toh! Toh!».
Ad
ogni «toh!» Giuda morde e cerca strappare la stoffa del manto. Lo
spiegazza fra le mani. Ma nel farlo lo apre e appaiono le macchie che
lo bagnano. Giuda si ferma nella sua furia. Fissa quelle macchie. Le
tocca. Le fiuta. Sono sangue... Spiega tutto il mantello. È ben
visibile l'impronta lasciata dalle due mani sanguinose quando si
premevano la stoffa sul viso.
«Ah!...
Sangue! Sangue! Il suo... No!». Giuda lascia cadere il mantello e
guarda intorno. Anche contro il masso, là dove Gesù si è
appoggiato con la schiena quando l'Angelo lo confortava, vi è uno
scuro di sangue che secca. «Là!... Là!... Sangue! Sangue!... ».
Abbassa gli occhi per non vedere, e vede l'erba tutta rossa del
sangue gocciato su essa. Questo, per la rugiada che lo ha tenuto
sciolto, pare appena gocciato. È rosso e brilla al primo sole. «No!
No! No! Non voglio vedere! Non posso vedere quel sangue! Aiuto!», e
porta le mani alla gola e annaspa come se stesse affogando in un mare
di sangue. «Indietro! Indietro! Lasciami! Lasciami! Maledetto! Ma
questo sangue è un mare! Copre la Terra! La Terra! La Terra! E sulla
Terra non c'è posto per me, perché io non posso vedere quel sangue
che la copre. Sono il Caino dell'Inno cente!». L'idea del suicidio
credo sia venuta in questo momento in quel cuore.
Il
volto di Giuda fa paura. Si butta dal balzo e fugge per l'uliveto
senza tornare per la via già fatta. Pare un inseguito dalle fiere.
Torna in città. Si avvolge nel mantello come può e cerca coprirsi
la ferita e il volto per quanto può.
Si
dirige al Tempio. Ma, mentre va a quella volta, ad un incrocio di via
si trova di fronte alle canaglie che trascinano Gesù da Pilato. Non
può ritirarsi, perché altra folla lo preme alle spalle, accorrendo
a vedere. E, alto come è, domina per forza e vede. E incontra lo
sguardo di Cristo... I due sguardi si allacciano un momento. Poi
Cristo passa, legato, percosso. E Giuda cade riverso come svenuto. La
folla lo calpesta senza pietà, né egli reagisce. Deve preferire
essere calpestato da tutto un mondo anziché incontrare quello
sguardo.
Quando
la canea deicida è passata col Martire e la via è vuota, si rialza
e corre al Tempio. Urta e quasi rovescia una guardia messa alla porta
del recinto. Altre guardie accorrono per interdire al forsennato di
entrare. Ma egli, come un toro furente, sgomina tutti. Uno, che gli
si aggrappa per impedirgli di penetrare nell'aula del Sinedrio, dove
sono ancora tutti raccolti a discutere, viene afferrato per la gola,
strozzato e gettato, se non morto certo moribondo, giù dai tre
scalini.
«Il
vostro denaro, maledetti, non lo voglio», egli urla, ritto in mezzo
all'aula, al posto dove prima era Gesù. Pare un demone sbucato
dall'inferno. Insanguinato, spettinato, acceso dal delirio, con la
bava alla bocca, le mani ad artiglio, egli urla e pare che abbai
tanto la sua voce è stridula, roca, ululante. «Il vostro denaro,
maledetti, non lo voglio. Mi avete perduto. Mi avete fatto commettere
il più grande peccato. Come voi, come voi sono maledetto! Ho tradito
il Sangue innocente. Ricada su voi quel Sangue e la mia morte. Su
voi... No! Ah!...». Giuda vede il pavimento bagnato di sangue.
«Anche qui, anche qui è sangue? Da per tutto! Da per tutto è il
suo Sangue! Ma quanto Sangue ha l'Agnello di Dio per coprirne così
la Terra e non morirne? Ed io l'ho sparso! Per istigazione vostra.
Maledetti! Maledetti! Maledetti in eterno! Maledizione a queste mura!
Maledizione a questo Tempio profanato! Maledizione al Pontefice
deicida! Maledizione ai sacerdoti indegni, ai dottori falsi, ai
farisei ipocriti, ai giudei crudeli, agli scribi subdoli! Maledizione
a me! A me maledizione! A me! Tenete il vostro denaro e vi strozzi
l'anima nella gola come a me il capestro», e getta la borsa in
faccia a Caifa e va con un urlo, mentre le monete suonano
spargendosi al suolo dopo aver colpito a sangue la bocca di Caifa.
Nessuno
osa trattenerlo. Esce. Corre per le vie. E fatalmente torna ad
incrociare altre due volte Gesù, che va e viene da Erode.
Abbandona
il centro della città, prendendo a casaccio per le viette più
misere, e va a finire da capo contro la casa del Cenacolo. È tutta
chiusa. Come abbandonata. Si ferma. La guarda. «La Madre!»,
mormora. «La Madre!... ». Resta in sospeso... «Ho anche io una
madre! E ho ucciso un figlio a una madre! Pure... Voglio entrare...
Rivedere quella stanza. Là non c'è sangue... ».
Dà
un picchio alla porta. Un altro... Un altro... La padrona di casa
viene ad aprire e socchiude l'uscio. Una fessura... E vedendo
quell'uomo stravolto, irriconoscibile, getta un urlo e tenta
rinchiudere l'uscio. Ma Giuda con una spallata lo spalanca e,
travolgendo la donna esterrefatta, passa oltre. Corre verso la
porticina che mette nel Cenacolo. L'apre. Entra. Un bel sole entra
dalle finestre spalancate. Giuda tira un respiro di sollievo. Si
inoltra. Qui tutto è calmo e silenzioso. Le stoviglie sono ancora
come furono lasciate. Si capisce che per ora nessuno se ne è
occupato. Si potrebbe credere che si sia per mettersi a tavola.
Giuda
va verso la tavola. Guarda se vi è vino nelle anfore. Ce ne è. Beve
avidamente dall'anfora stessa, che solleva a due mani. Poi si lascia
cadere seduto e appoggia il capo sulle braccia conserte sulla tavola.
Non si accorge che sì è seduto proprio al posto di Gesù e che ha
di fronte il calice usato per l'Eucarestia. Sta fermo qualche tempo.
Finché l'ansito del gran correre si placa. Poi alza il capo. E vede
il calice. E riconosce dove si è seduto.
Si
alza come spiritato. Ma il calice lo affascina. Un poco di vino rosso
è ancora nel fondo e il sole, percuotendo il metallo (pare argento),
accende quel liquido. «Sangue! Sangue! Sangue anche qui! Il suo
Sangue! Il suo Sangue!... "Fate questo in memoria di Me!...
Prendete e bevete. Questo è il mio Sangue... Il Sangue del nuovo
testamento che sarà sparso per voi... ". Ah! maledetto me! Per
me non può più esser sparso per remissione del mio peccato. Non
chiedo perdono perché Egli non mi può perdonare. Via, via! Non c'è
più un posto dove il Caino di Dio possa conoscere quiete. A morte! A
morte!... ».
Esce.
Si trova di fronte Maria, ritta sulla porta della stanza dove Gesù
l'ha lasciata. Ella, udendo un rumore, si è affacciata sperando
forse vedere Giovanni, che manca da tante ore. È pallida come un
svenata. Ha degli occhi che il dolore fa ancor più simili a quelli
del Figlio. Giuda incontra quello sguardo che lo guarda con la stessa
accorata e cosciente cognizione con cui Gesù lo ha guardato per via,
e con un «Oh!» spaurito si addossa al muro.
«Giuda!»,
dice Maria. «Giuda, che sei venuto a fare?». Le stesse parole di
Gesù. E dette con amore doloroso. Giuda le ricorda e urla.
«Giuda»,
ripete Maria, «che hai tu fatto? A tanto amore hai risposto
tradendo?». La voce di Maria è carezza che trema.
Giuda
fa per scappare. Maria lo chiama con una voce che avrebbe dovuto
convertire un demonio: «Giuda! Giuda! Fermati! Fermati! Ascolta! Io
te Io dico in suo Nome: pentiti, Giuda. Egli perdona... ». Giuda è
fuggito.
La
voce di Maria, il suo aspetto è stato il colpo di grazia, ossia di
disgrazia perché egli le resiste. Va a precipizio. Incontra Giovanni
che corre verso la casa a prendere Maria. La sentenza è pronunciata.
Gesù sta per andare al Calvario. È ora che la Madre sia condotta
dal Figlio.
Giovanni
riconosce Giuda per quanto ben poco resti del bel Giuda di poco tempo
prima. «Tu qui?», gli dice Giovanni con palese ribrezzo. «Tu qui?
Maledizione a te, uccisore del Figlio di Dio! Il Maestro è
condannato. Giubila, se puoi. Ma sgombra la via. Vado a prendere la
Madre. Che Ella, l'altra tua Vittima, non ti incontri, rettile».
Giuda
fugge. Si è avvolto il capo nei brandelli del manto, lasciando
unicamente uno spiraglio per gli occhi. La gente, la poca gente che
non è verso il Pretorio, lo scansa come vedesse un pazzo. E tale
sembra.
Vaga
per la campagna. Il vento porta ogni tanto un'eco del clamore che
proviene dalla turba che segue imprecando Gesù. Ogni volta che tale
eco giunge a Giuda, egli urla come uno sciacallo.
Io
credo che sia realmente impazzito, perché batte la testa
ritmicamente contro i muretti di pietra. Oppure è divenuto idrofobo
perché, quando vede un liquido purché sia acqua, latte portato in
un recipiente da un bambino, olio che geme da un otre urla, urla e
grida: «Sangue! Sangue! Il suo Sangue!». Vorrebbe bere ai ruscelli
e alle fonti. Non può, perché l'acqua gli pare sangue, e lo dice:
«È sangue! È sangue! Mi affoga! Mi brucia! Ho il fuoco! Il suo
Sangue, che ieri mi ha dato, è divenuto fuoco in me! Maledizione a
me e a Te!».
Sale
e scende per i colli che circondano Gerusalemme. E l'occhio,
irresistibilmente, gli va al Golgota. E due volte vede da lungi il
corteo snodarsi nella salita. Guarda e urla.
Eccolo
alla cima. Anche Giuda è in cima di un piccolo colle coperto
d'ulivi. Vi è penetrato aprendo una chiudenda rustica come ne fosse
padrone o per lo meno molto pratico. Già ho l'impressione che Giuda
non avesse molti riguardi per l'altrui proprietà. Ritto sotto un
ulivo al limite di un balzo, guarda verso il Golgota. Vede drizzare
le croci e comprende che Gesù è cro- cifisso. Non può vedere né
udire. Ma il delirio o un malefizio di Satana gli fan vedere e udire
come fosse sulla cima del Calvario.
Guarda,
guarda come allucinato. Si dibatte: «No! No! Non mi guardare! Non mi
parlare! Non lo sopporto. Muori, muori, maledetto! Ti chiuda la morte
quegli occhi che mi fan paura, quella bocca che mi maledice. Ma anche
io ti maledico. Perché non mi hai salvato».
Il
volto è talmente stralunato che non si può più guardare. Due fili
di bava scendono dalla bocca urlante. La guancia morsa è livida e
enfiata, e il viso ne appare storto. I capelli appiccicati, la barba,
molto scura, cresciuta sulle guance in quelle ore, mette un bavaglio
lugubre sulle gote e sul mento. Gli occhi poi!... Roteano, si
torcono, sono fosforescenti. Da vero demonio.
Strappa
dalla sua cintura il cordone di grossa lana rossa che lo cinge con
tre giri. Ne prova la solidità avvinghiandolo intorno ad un ulivo e
tirando con tutta la sua forza. Resiste. È forte. Sceglie un ulivo
atto alla bisogna. Ecco. Questo, proteso oltre la balza con la sua
chioma spettinata, va bene. Monta sull'albero. Assicura solidamente
un cappio al ramo più robusto e sporgente nel vuoto. Ha già fatto
il nodo scorsoio. Guarda un'ultima volta al Golgota. Poi infila la
testa nel nodo scorsoio. Ora pare avere due collane rosse alla radice
del collo. Si siede sulla balza. Poi di colpo si lascia scivolare nel
vuoto.
Il
nodo lo stringe. Si dibatte qualche minuto. Strabuzza gli occhi,
diviene nero d'asfissia, apre la bocca, le vene del collo si gonfiano
e si fanno nere. Tira quattro o cinque calci per aria, nelle ultime
convulsioni. Poi la bocca si apre e ne pende la lingua scura e
bavosa, e i globi oculari restano scoperti, sporgenti, mostranti il
bulbo bianchiccio iniettato di sangue. L'iride scom- pare in alto. È
morto.
Il
forte vento, che si è alzato per l'imminente bufera, ciondola il
macabro pendolo e lo fa roteare come un orrido ragno appeso al filo
della ragnatela.
La
visione finisce così. E mi auguro a avermi a dimenticare presto
tutto ciò, perché le assicuro che è visione orrenda.
Poema:
IX, 24
Dice
Gesù:
«Orrenda,
ma non inutile. Troppi credono che Giuda abbia commesso cosa da poco.
Alcuni giungono anzi a dire che egli è un benemerito perché senza
di lui la Redenzione non sarebbe venuta e che, perciò, egli è
giustificato al cospetto di Dio.
In
verità vi dico che, se l'Inferno non fosse già esistito, ed
esistito perfetto nei suoi tormenti, sarebbe stato creato per Giuda
ancor più orrendo e eterno, perché di tutti i peccatori e i dannati
egli è il più dannato e peccatore, né per lui in eterno vi sarà
ammolcimento di condanna. Il rimorso l'avrebbe anche potuto salvare,
se egli avesse fatto del rimorso un pentimento. Ma egli non volle
pentirsi e, al primo delitto di tradimento, ancora compatibile per la
grande misericordia che è la mia amorosa debolezza, ha unito
bestemmie, resistenze alle voci della Grazia che ancora gli volevano
parlare attraverso i ricordi, attraverso i terrori, attraverso il mio
Sangue e il mio mantello, attraverso il mio sguardo, attraverso le
tracce dell'istituita Eucarestia, attraverso le parole di mia Madre.
Ha
resistito a tutto. Ha voluto resistere. Come aveva voluto tradire.
Come volle maledire. Come si volle suicidare. È la volontà quella
che conta nelle cose. Sia nel bene che nel male.
Quando
uno cade senza volontà di cadere, Io perdono. Vedi Pietro. Ha
negato. Perché? Non lo sapeva esattamente neppure lui. Vile Pietro?
No. Il mio Pietro non era vile. Contro la coorte e le guardie del
Tempio aveva osato ferire Malco per difendermi e rischiare d'essere
ucciso per questo. Era poi fuggito. Senza averne volontà di farlo.
Aveva poi negato. Senza aver- ne volontà di farlo. Ha saputo poi ben
restare e procedere sulla sanguinosa via della Croce, sulla mia Via,
fino a giungere alla morte di croce. Ha saputo poi molto bene
testimoniare di Me, sino ad esser ucciso per la sua fede intrepida.
Io lo difendo il mio Pietro. Il suo è stato l'ultimo smarrimento
della sua umanità. Ma la volontà spirituale non era presente in
quel momento. Ottusa dal peso dell'umanità, dormiva. Quando si
destò, non volle restare nel peccato e volle esser perfetta. Io l'ho
perdonato subito.
Giuda
non volle. Tu dici che pareva pazzo e idrofobo. Lo era di rabbia
satanica. Il suo terrore nel vedere il cane, bestia rara, in
Gerusalemme in specie, venne dal fatto che si attribuiva a Satana, da
tempi immemorabili, quella forma per apparire ai mortali. Nei libri
di magia è detto tuttora che una delle forme preferite da Satana per
apparire è quella di un cane misterioso o di un gatto o di un capro.
Giuda, già preda del terrore nato dal suo delitto, convinto d'esser
di Satana per il suo delitto, vide Satana in quella bestia randagia.
Chi
è colpevole, in tutto vede ombre di paura. È la coscienza che le
crea. Satana poi aizza queste ombre, che potrebbero ancora dare
pentimento ad un cuore, e ne fa larve orrende che portano alla
disperazione. E la disperazione porta all'ultimo delitto: al
suicidio.
A
che pro gettare il prezzo del tradimento quando questo spogliamento è
solo frutto dell'ira e non è corroborato da una retta volontà di
pentimento? Allora spogliarsi dai frutti del male diviene meritorio.
Ma così come egli fece, no. Inutile sacrificio.Mia Madre, ed era la
Grazia che parlava e la mia Tesoriera che largiva perdono in mio
Nome, glielo disse: "Pentiti, Giuda. Egli perdona... ".
Oh!
se lo avrei perdonato! Se si fosse gettato ai piedi della Madre
dicendo: "Pietà!", Ella, la Pietosa, lo avrebbe raccolto
come un ferito e sulle sue ferite sataniche, per le quali il Nemico
gli aveva inoculato il Delitto, avrebbe sparso il suo pianto che
salva e me lo avrebbe portato, ai piedi della Croce, tenendolo per
mano perché Satana non lo potesse ghermire e i discepoli colpirlo,
portato perché il mio Sangue cadesse per primo su lui, il più
grande dei peccatori. E sa- rebbe stata, Ella, Sacerdotessa mirabile
sul suo altare, fra la Purezza e la Colpa, perché è Madre dei
vergini e dei santi, ma anche Madre dei peccatori.
Ma
egli non volle. Meditate il potere della volontà di cui siete
arbitri assoluti. Per essa potete avere il Cielo o l'Inferno.
Meditate cosa vuol dire persistere nella colpa.
Il
Crocifisso, Colui che sta con le braccia aperte e confitte per dirvi
che vi ama, e che non vuole, non può colpirvi perché vi ama, e
preferisce negarsi di potervi abbracciare, unico dolore del suo esser
confitto, anziché aver libertà di punirvi, il Crocifisso, oggetto
di divina speranza per coloro che si pentono e che vogliono lasciare
la colpa, diviene per gli impenitenti oggetto di un tale orrore che
li fa bestemmiare e usare violenza verso se stessi. Uccisori del loro
spirito e del loro corpo per la loro persistenza nella colpa. E
l'aspetto del Mite, che si è lasciato immolare nella speranza di
salvarli, assume l'apparenza di uno spettro di orrore.Maria, ti sei
lamentata di questa visione. Ma è il Venerdì di Passione, figlia.
Devi soffrire. Alle sofferenze per le sofferenze mie e di Maria devi
unire le tue per l'amarezza di vedere i peccatori rimanere peccatori.
È stata sofferenza nostra, questa. Deve esser tua. Maria ha
sofferto, e soffre ancora, di questo, come delle mie torture. Perciò
tu devi soffrire questo. Ora riposa. Fra tre ore sarai tutta mia e di
Maria. Ti benedico, violetta della mia Passione e passiflora di
Maria».
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