domenica 22 giugno 2014

Il discorso sul Pane del Cielo, nella sinagoga di Cafarnao, e la defezione di molti discepoli. Tratto da "L'Evangelo come mi è stato rivelato" - Libro n° 5 - Capitolo 354



Prima della visione del 7-12 va messa quella della seconda moltiplicazione dei pani, avuta il 28 maggio 1944, col relativo dettato.
7 dicembre 1945.
La spiaggia di Cafarnao formicola di gente che sbarca da una vera flottiglia di barche di tutte le dimensioni. E i primi che sbarcano vanno cercando fra la gente se vedono il Maestro, un apostolo, o almeno un discepolo. E vanno chiedendo...Un uomo, finalmente, risponde: «Maestro? Apostoli? No. Sono andati via subito dopo il sabato e non sono tornati. Ma torneranno perché ci sono i discepoli. Ho parlato adesso con uno di loro. Deve essere un grande discepolo. Parla come Giairo! È andato verso quella casa fra i campi, seguendo il mare». L’uomo che ha interrogato fa correre la voce e tutti si precipitano verso il luogo indicato. Ma, fatto un duecento metri sulla riva, incontrano tutto un gruppo di discepoli che vengono verso Cafarnao gestendo animatamente. Li salutano e chiedono: «Il Maestro dove è?» I discepoli rispondono: «Nella notte, dopo il miracolo, se ne è andato coi suoi, colle barche, al di là del mare. Vedemmo le vele, al candore della luna, andare verso Dalmanuta». «Ah! ecco! Noi lo cercammo a Magdala presso la casa di Maria e non c’era! Però... potevano dircelo i pescatori di Magdala!». «Non lo avranno saputo. Sarà forse andato sui monti d’Arbela in preghiera. Ci fu già un’altra volta, lo scorso anno avanti Pasqua. Io l’ho incontrato allora, per somma grazia del Signore al suo povero servo», dice Stefano. «Ma non torna qui?». «Certamente tornerà. Ci deve dare il commiato e gli ordini. Ma che volete?». «Sentirlo ancora. Seguirlo. Farci suoi».  «Adesso va a Gerusalemme. Lo ritroverete là. 
E là, nella Casa di Dio, il Signore vi parlerà se per voi è utile seguirlo. Perché è bene che sappiate che, se Egli non respinge alcuno, noi abbiamo in noi elementi che sono respingenti la Luce. Ora, chi ne ha tanti da essere non solo saturo di essi che poco male sarebbe, perché Egli è Luce e nel divenire lealmente suoi con volontà decisa la sua Luce ci penetra e vince le tenebre ma da esserne composto e affezionato ad essi come alla carne della nostra persona, allora è bene che costui si astenga dal venire, a meno che non si distrugga per ricrearsi novello. Meditate, dunque, se avete in voi la forza di assumere un nuovo spirito, un nuovo modo di pensare, un nuovo modo di volere. Pregate per poter vedere la verità sulla vostra vocazione. E poi venite, se credete. E voglia l’Altissimo, che ha guidato Israele nel "passaggio", guidare voi, in questo "pèsac", a venire sulla scia dell’Agnello, fuori dai deserti, alla Terra eterna, al Regno di Dio», dice Stefano parlando per tutti i compagni. «No, no! Subito! Subito! Nessuno fa ciò che Egli fa. Lo vogliamo seguire», dice la folla in tumulto. Stefano ha un sorriso di molte espressioni. Apre le braccia e dice: «Perché vi ha dato il buono e abbondante pane volete venire? Credete che vi dia in futuro solo questo? Egli promette ai suoi seguaci ciò che è sua dote: il dolore, la persecuzione, il martirio. Non rose ma spine, non carezze ma schiaffi, non pane ma pietre sono pronte per i “cristi”. E così dico senza essere bestemmiatore, perché i suoi veri fedeli saranno unti coll’olio santo fatto della sua Grazia e del suo patire; e “unti” noi saremo per essere le vittime sull’altare e i re nel Cielo». «Ebbene? Ne sei geloso forse? Ci sei tu? Ci vogliamo essere noi pure. Il Maestro è di tutti». «Sta bene. Ve lo dicevo perché vi amo e voglio che sappiate ciò che è essere “discepoli”, onde non essere poi dei disertori. Andiamo allora tutti insieme ad attenderlo alla sua casa. Il tramonto ha inizio ed ha principio il sabato. Egli verrà per passarlo qui avanti la partenza». E vanno verso la città, parlando. E molti interrogano Stefano ed Erma, che li ha raggiunti, i quali, agli occhi degli israeliti, hanno una luce speciale perché allievi prediletti di Gamaliele. Molti chiedono: «Ma che dice Gamaliele di Lui?», altri: «Vi ci ha mandati lui?», e altri ancora: «Non si è doluto di perdervi?», oppure: «E il Maestro che dice del grande rabbi?». I due rispondono pazienti: «Gamaliele parla di Gesù di Nazaret come del più grande uomo d’Israele». «Oh! più grande di Mosè?», dicono quasi scandalizzati. «Egli dice che Mosè è uno dei tanti precursori del Cristo. Ma non è che il servo del Cristo». «Allora per Gamaliele questo è il Cristo? Dice così? Se così dice rabbi Gamaliel, la cosa è decisa. Egli è il Cristo!». «Non dice ciò. Non riesce ancora a credere questo, per sua sventura. Ma dice che il Cristo è sulla Terra perché egli gli ha parlato molti anni fa. Egli e il saggio Illele. E attende il segno che quel Cristo gli ha promesso per riconoscerlo», dice Erma. «Ma come ha fatto a credere che quello era il Cristo? Che faceva quello? Io sono vecchio quanto Gamaliele, ma non ho mai sentito che da noi fossero fatte le cose che il Maestro fa. Se non si persuade di questi miracoli, che vide mai di miracoloso in quel Cristo per potergli credere?». «Lo vide unto della Sapienza di Dio. Egli dice così», risponde ancora Erma. «E allora cosa è per Gamaliele questo?». «Il più grande uomo, maestro e precursore di Israele. Quando potesse dire: “È il Cristo”, sarebbe salva l’anima sapiente e giusta del mio primo maestro», dice Stefano e termina: «Ed io prego perché ciò sia, a qualunque costo». «E se non lo crede il Cristo, perché vi ha mandati?». «Noi volevamo venirci. Egli ci ha lasciati venire dicendo che era bene». «Forse per poter sapere e riferire al Sinedrio...», dice insinuando uno. «Uomo come parli? Gamaliele è un onesto. Non fa la spia a nessuno, e specie ai nemici di un innocente!», scatta Stefano e pare un arcangelo tanto è sdegnato e quasi raggiante nel suo sdegno santo. «Gli sarà spiaciuto perdervi, però», dice un altro. «Sì e no. Come uomo che ci voleva bene, sì. Come spirito molto retto, no. Perché ha detto: “Egli è da più di me e di me più giovane. Perciò io potrò chiudere gli occhi in pace sul vostro futuro sapendovi del ‘Maestro dei maestri’ ”». «E Gesù di Nazaret che dice del grande rabbi?». «Oh! non ha che parole elette per lui!». «Non ne è invidioso?». «Dio non invidia», dice severo Erma. «Non fare supposizioni sacrileghe». «Ma per voi allora è Dio? Ne siete certi?». E i due ad una voce: «Come di essere vivi in questo momento». E Stefano termina: «E vogliate crederlo pure voi per possedere la vera Vita». Sono da capo sulla spiaggia che si muta in piazza e la traversano per andare a casa. Sulla soglia è Gesù che carezza dei bambini. Discepoli e curiosi si affollano chiedendo: «Maestro, quando sei venuto?». «Da pochi momenti». Il viso di Gesù ha ancora la maestà solenne, un poco estatica, di quando ha molto pregato. «Sei stato in orazione, Maestro?» chiede Stefano a voce bassa per riverenza, così come ha curva la persona per lo stesso motivo. «Sì. Da che lo comprendi, figlio mio?» dice Gesù posandogli la mano sui capelli scuri con una dolce carezza. «Dal tuo volto d’angelo. Sono un povero uomo, ma è tanto limpido il tuo aspetto che su esso si leggono i palpiti e le azioni del tuo spirito». «Anche il tuo è limpido. Tu sei uno di quelli che fanciulli restano...». «E che c’è sul mio viso, Signore?». «Vieni in disparte e te lo dirò», e lo prende per il polso portandolo in un corridoio oscuro. «Carità, fede, purezza, generosità, sapienza; e queste Dio te le ha date, e tu le hai coltivate e più lo farai. Infine, secondo il tuo nome, hai la corona: d’oro puro, e con una grande gemma che splende sulla fronte. Sull’oro e sulla gemma sono incise due parole: “Predestinazione” e “Primizia”. Sii degno della tua sorte, Stefano. Va’ in pace con la mia benedizione». E gli posa nuovamente la mano sui capelli, mentre Stefano si inginocchia per poi curvarsi a baciargli i piedi. Tornano dagli altri. «Questa gente è venuta per sentirti...» dice Filippo. «Qui non si può parlare. Andiamo alla sinagoga. Giairo ne sarà contento». Gesù davanti, dietro il corteo degli altri, vanno alla bella sinagoga di Cafarnao; e Gesù, salutato da Giairo, vi entra, ordinando che tutte le porte restino aperte perché chi non riesce ad entrare possa sentirlo dalla via e dalla piazza che sono a fianco della sinagoga. Gesù va al suo posto, in questa sinagoga amica, dalla quale oggi, per buona sorte, sono assenti i farisei, forse già partiti pomposamente per Gerusalemme. E inizia a parlare. «In verità vi dico: voi cercate di Me non per sentirmi e per i miracoli che avete veduto, ma per quel pane che vi ho dato da mangiare a sazietà e senza spesa. I tre quarti di voi per questo mi cercava e per curiosità, venendo da ogni parte della Patria nostra. Manca perciò nella ricerca lo spirito soprannaturale, e resta dominante lo spirito umano con le sue curiosità malsane, o per lo meno di una imperfezione infantile, non perché semplice come quella dei pargoli, ma perché menomata come l’intelligenza di un ottuso di mente. E con la curiosità resta la sensualità e il sentimento viziato. La sensualità che si nasconde, sottile come il demonio di cui è figlia, dietro apparenze e in atti apparentemente buoni, e il sentimento viziato che è semplicemente una deviazione morbosa del sentimento e che, come tutto ciò che è “malattia”, abbisogna e appetisce a droghe che non sono il cibo semplice, il buon pane, la buona acqua, lo schietto olio, il puro latte, sufficienti a vivere e a vivere bene. Il sentimento viziato vuole le cose straordinarie per essere scosso e per provare il brivido che piace, il brivido malato dei paralizzati, che hanno bisogno di droghe per provare sensazioni che li illudano di essere ancora integri e virili. La sensualità che vuole soddisfare senza fatica la gola, in questo caso, col pane non sudato, avuto per bontà di Dio. I doni di Dio non sono consuetudine, sono lo straordinario. Non si possono pretenderli, né impigrirsi dicendo: “Dio me li darà”. È detto: “Mangerai il pane bagnato col sudore della tua fronte”, ossia il pane guadagnato col lavoro. Ché se Colui che è Misericordia ha detto: “Ho compassione di queste turbe, che mi seguono da tre giorni e non hanno più da mangiare e potrebbero venire meno per via prima di avere raggiunto Ippo sul lago, o Gamala, o altre città”, e ha provveduto, non è però detto che Egli debba essere seguito per questo. Per molto di più di un po’ di pane, destinato a divenire sterco dopo la digestione, Io vado seguito. Non per il cibo che empie il ventre ma per quello che nutre l’anima. Perché non siete soltanto animali che devono brucare e ruminare, o grufolare e ingrassare. Ma anime siete! Questo siete! La carne è la veste, l’essere è l’anima. È lei che è duratura. La carne, come ogni veste, si logora e finisce, e non merita curarla come fosse una perfezione alla quale va data ogni cura. Cercate dunque ciò che è giusto procurarsi, non ciò che è ingiusto. Cercate di procurarvi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna. Questo, il Figlio dell’uomo ve lo darà sempre, quando voi lo vogliate. Perché il Figlio dell’uomo ha a sua disposizione tutto quanto viene da Dio, e può darlo, Egli padrone, e magnanimo padrone, dei tesori del Padre Dio, che ha impresso su di Lui il suo sigillo perché gli occhi onesti non siano confusi. E se voi avrete in voi il cibo che non perisce, potrete fare opere di Dio essendo nutriti del cibo di Dio». «Che cosa dobbiamo fare per fare le opere di Dio? Noi osserviamo la Legge e i Profeti. Perciò già siamo nutriti di Dio e facciamo opere di Dio». «È vero. Voi osservate la Legge. Meglio ancora: voi “conoscete” la Legge. Ma conoscere non è praticare. Noi conosciamo, ad esempio, le leggi di Roma, eppure un fedele israelita non le pratica altro che in quelle formule che sono imposte dalla sua condizione di suddito. Per il resto noi, parlo dei fedeli israeliti, non pratichiamo le usanze pagane dei romani pur conoscendole. La Legge che voi tutti conoscete ed i Profeti dovrebbero, infatti, nutrirvi di Dio e darvi perciò capacità di fare opere di Dio. Ma per fare questo dovrebbero essere divenute un tutt’uno con voi, così come è l’aria che respirate e il cibo che assimilate, che si mutano entrambi in vita e sangue. Mentre essi rimangono estranei, pure essendo di casa vostra, così come può esserlo un oggetto della casa, che vi è noto e utile, ma che, se venisse a mancare, non vi leva l’esistenza. Mentre... oh! provate un poco a non respirare per qualche minuto, provate a stare senza cibo per giorni e giorni... e vedrete che non potete vivere. Così dovrebbe sentirsi il vostro io nella denutrizione e nell’asfissia della Legge e dei Profeti, conosciuti ma non assimilati e fatti tutt’uno con voi. Questo Io sono venuto ad insegnare e a dare: il succo, l’aria della Legge e dei Profeti, per ridare sangue e respiro alle vostre anime morenti di inedia e di asfissia. Voi siete simili a bambini che una malattia rende incapaci di conoscere ciò che è atto a nutrirli. Avete davanti dovizie di cibi, ma non sapete che vanno mangiati per mutarsi in cosa vitale, ossia che vanno veramente fatti nostri, con una fedeltà pura e generosa alla Legge del Signore che ha parlato a Mosè e ai Profeti per voi tutti. Venire dunque a Me per avere aria e succo di Vita eterna, è dovere. Ma questo dovere presuppone una fede in voi. Perché se uno non ha fede, non può credere alle parole mie, e se non crede non viene a dirmi: “Dàmmi il vero pane”. E se non ha il vero pane non può fare opere di Dio, non avendo capacità di farle. Perciò per essere nutriti di Dio e per fare opere di Dio è necessario che voi facciate l’opera base, che è questa: credere in Colui che Dio ha mandato». «Ma che miracoli fai Tu dunque perché noi si possa credere in Te come il Mandato da Dio e perché si possa vedere su Te il sigillo di Dio? Che fai Tu che già, sebbene in forma minore, non abbiano fatto i Profeti? Mosè ti ha superato, anzi, perché, non per una volta tanto, ma per quarant’anni, nutrì di meraviglioso cibo i nostri padri. Così è scritto: che i nostri padri per quarant’anni mangiarono la manna del deserto, ed è detto che perciò Mosè diede loro da mangiare pane venuto dal cielo, egli che poteva». «Siete in errore. Non Mosè ma il Signore poté fare questo. E nell’Esodo si legge: “Ecco: Io farò piovere del pane dal cielo. Esca il popolo e ne raccolga quanto basta giorno per giorno, e così Io provi se il popolo cammina secondo la mia legge. E il sesto giorno ne raccolga il doppio per rispetto al settimo dì che è il sabato”. E gli ebrei videro il deserto ricoprirsi, mattina per mattina, di quella “cosa minuta come ciò che è pestato nel mortaio e simile alla brina della terra, simile al seme di coriandolo, e dal buon sapore di fior di farina incorporata col miele”. Dunque non Mosè, ma Dio provvide alla manna. Dio che tutto può. Tutto. Punire e benedire. Privare e concedere. Ed Io ve lo dico, delle due cose preferisce sempre benedire e concedere a punire e privare. Dio, come dice la Sapienza, per amore di Mosè detto dall’Ecclesistico “caro a Dio e agli uomini, di benedetta memoria, fatto da Dio simile ai santi nella gloria, grande e terribile per i nemici, capace di suscitare e por fine ai prodigi, glorificato nel cospetto dei re, suo ministro al cospetto del popolo, conoscitore della gloria di Dio e della voce dell’Altissimo, custode dei precetti e della Legge di vita e di scienza” - Dio, dicevo, per amore di questo Mosè, nutrì il suo po- polo col pane degli angeli, e dal cielo gli donò un pane bell’e fatto, senza fatica, contenente in sé ogni delizia ed ogni soavità di sapore. E ricordate bene ciò che dice la Sapienza e poiché veniva dal Cielo, da Dio, e mostrava la sua dolcezza ai figli, aveva per ognuno il sapore che ognuno voleva, e dava ad ognuno gli effetti desiderati, essendo utile tanto al pargolo, dallo stomaco ancora imperfetto, come all’adulto, dall’appetito e digestione gagliardi, alla fanciulla delicata come al vecchio cadente. E anche, per testimoniare che non era opera d’uomo, capovolse le leggi degli elementi, onde resisté al fuoco, esso, il misterioso pane che al sorgere del sole si squagliava come brina. O meglio: il fuoco – è sempre la Sapienza che parla dimenticò la propria natura per rispetto all’opera di Dio suo Creatore e dei bisogni dei giusti di Dio, di modo che, mentre è solito ad infiammarsi per tormentare, qui si fece dolce per fare del bene a quelli che confidavano nel Signore. Per questo allora, trasformandosi in ogni maniera, servì alla grazia del Signore, nutrice di tutti, secondo la volontà di chi pregava l’eterno Padre, affinché i figli diletti imparassero che non è il riprodursi dei frutti che nutrisce gli uomini, ma è la parola del Signore quella che con- serva chi crede in Dio. Infatti non consumò, come poteva, la dolce manna, neppure se la fiamma era alta e potente, mentre bastava a scioglierla il dolce sole del mattino, affinché gli uomini ricordassero e imparassero che i doni di Dio vanno ricercati dall’inizio del giorno e della vita, e che per averli occorre anticipare la luce e sorgere, per lodare l’Eterno, dalla prima ora del mattino. Questo insegnò la manna agli ebrei. Ed Io ve lo ricordo perché è dovere che dura e durerà sino alla fine dei secoli. Cercate il Signore ed i suoi doni celesti senza poltrire fino alle tarde ore del giorno e della vita. Sorgete a lodarlo prima ancora che lo lodi il sorgente sole, e pascetevi della sua parola che conserva e preserva e conduce alla Vita vera. Non Mosè vi diede il pane del Cielo, ma in verità lo diede il Padre Iddio, e ora, in verità delle verità, è il Padre mio quello che vi dà il vero Pane, il Pane novello, il Pane eterno che dal Cielo discende, il Pane di misericordia, il Pane di Vita, il Pane che dà al mondo la Vita, il Pane che sazia ogni fame e leva ogni languore, il Pane che dà, a chi lo prende, la Vita eterna e l’eterna gioia». «Dacci, o Signore, di codesto pane, e noi non morremo più». «Voi morrete come ogni uomo muore, ma risorgerete a Vita eterna se vi nutrirete santamente di questo Pane, perché esso fa incorruttibile chi lo mangia. Riguardo a darvelo sarà dato a coloro che lo chiedono al Padre mio con puro cuore, retta intenzione e santa carità. Per questo ho insegnato a dire: “Dàcci il pane quotidiano”. Ma coloro che si nutriranno indegnamente diverranno brulichìo di vermi infernali, come i gomor di manna conservati contro l’ordine avuto. E questo Pane di salute e vita diverrà per loro morte e condanna. Perché il sacrilegio più grande sarà commesso da coloro che metteranno quel Pane su una mensa spirituale corrotta e fetida, o lo profaneranno mescolandolo alla sentina delle loro inguaribili passioni. Meglio per loro sarebbe non averlo mai preso!». «Ma dove è questo Pane? Come lo si trova? Che nome ha?». «Io sono il Pane di Vita. In Me lo si trova. Il suo nome è Gesù. Chi viene a Me non avrà più fame, e chi crede in Me non avrà mai più sete, perché i fiumi celesti si riverseranno in lui estinguendo ogni materiale ardore. Io ve l’ho detto, ormai. Voi mi avete conosciuto, ormai. Eppure non credete. Non potete credere che tutto quanto è in Me. Eppure così è. In Me sono tutti i tesori di Dio. E a Me tutto della terra è dato, onde in Me sono riuniti i gloriosi cieli e la militante terra, e fino la penante e attendente massa dei trapassati in grazia di Dio sono in Me, perché in Me e a Me è ogni potere. Ed Io ve lo dico: tutto quanto il Padre mi dà verrà a Me. Né Io scaccerò chi a Me viene, perché sono disceso dal Cielo non per fare la mia volontà ma quella di Colui che mi ha mandato. E la volontà del Padre mio, del Padre che mi ha mandato, è questa: che Io non perda nemmeno uno di quelli che mi ha dato, ma che Io li risusciti all’ultimo giorno. Ora la volontà del Padre che mi ha mandato è che chiunque conosce il Figlio e crede in Lui abbia la vita Eterna e Io lo possa risuscitare nell’Ultimo Giorno, vedendolo nutrito della fede in Me e segnato del mio sigillo». Vi è non poco brusìo nella sinagoga e fuori della stessa per le nuove e ardite parole del Maestro. E questo, dopo avere per un momento preso fiato, volge gli occhi sfavillanti di rapimento là dove più si mormora, e sono precisamente i gruppi in cui sono dei giudei. Riprende a parlare. «Perché mormorate fra voi? Sì, Io sono il figlio di Maria di Nazareth figlia di Gioacchino della stirpe di Davide, vergine consacrata nel Tempio e poi sposata a Giuseppe di Giacobbe, della stirpe di Davide. Voi avete conosciuto, in molti, i giusti che dettero vita a Giuseppe, legnaiolo regale, e a Maria, vergine erede della stirpe regale. Ciò vi fa dire: “Come può costui dirsi disceso dal Cielo?», e il dubbio sorge in voi. Vi ricordo i Profeti nelle loro profezie sull’Incarnazione del Verbo. E vi ricordo come, più per noi israeliti che per qualsiasi altro popolo, è dogmatico che Colui che non osiamo chiamare non potesse darsi una Carne secondo le leggi della umanità, e umanità decaduta per giunta. Il Pu- rissimo, l’Increato, se si è mortificato a farsi Uomo per amore dell’uomo, non poteva che eleggere un seno di Vergine più pura dei gigli per rivestire di Carne la sua Divinità. Il pane disceso dal Cielo al tempo di Mosè è stato riposto nell’arca d’oro, coperta dal propiziatorio, vegliata dai cherubini, dietro i veli del Tabernacolo. E col pane era la Parola di Dio. E giusto era che ciò fosse, perché sommo rispetto va dato ai doni di Dio e alle tavole della sua Ss. Parola. Ma che allora sarà stato preparato da Dio per la sua stessa Parola e per il Pane vero che è venuto dal Cielo? Un’arca più inviolata e preziosa dell’arca d’oro, coperta dal prezioso propiziatorio della sua pura volontà di immolazione, vegliata dai cherubini di Dio, velata dal ve- lo di un candore verginale, di una umiltà perfetta, di una carità sublime e di tutte le virtù più sante. E allora? Non capite ancora che la mia paternità è in Cielo e che perciò Io di là vengo? Sì, Io sono disceso dal Cielo per compiere il decreto del Padre mio, il decreto di salvazione degli uomini secondo quanto promise al momento stesso della condanna e ripeté ai Patriarchi e ai Profeti. Ma questo è fede. E la fede viene data da Dio a chi ha l’animo di buona volontà. Perciò nessuno può venire a Me se non lo conduce a Me il Padre mio, vedendolo nelle tenebre ma rettamente desideroso di luce. È scritto nei Profeti: “Saranno tutti ammaestrati da Dio”. Ecco. È detto: È Dio che li istruisce dove andare per essere istruiti di Dio. Chiunque, dunque, ha udito in fondo al suo spirito retto parlare Iddio, ha imparato dal Padre a venire a Me». «E chi vuoi che abbia sentito Iddio o visto il suo Volto?» chiedono in diversi che cominciano a mostrare segni di irritazione e di scandalo. E terminano: «Tu deliri, oppure sei un illuso». «Nessuno ha veduto Iddio eccetto Colui che è da Dio; questo ha veduto il Padre. E questo Io sono. Ed ora udite il “credo” della vita futura, senza il quale non ci si può salvare. In verità, in verità vi dico che chi crede in Me ha la Vita eterna. In verità, in verità vi dico che Io sono il Pane della Vita eterna. I vostri padri mangiarono nel deserto la manna e morirono. Perché la manna era un cibo santo ma temporaneo, e dava vita per quanto necessitava a giungere alla terra promessa da Dio al suo popolo. Ma la Manna che Io sono non avrà limitazione di tempo e di potere. È non solo celeste, ma è divina, e produce ciò che è divino: l’incorruttibilità, l’immortalità di quanto Dio ha creato a sua immagine e somiglianza. Essa non durerà quaranta giorni, quaranta mesi, quaranta anni, quaranta secoli. Ma durerà finché durerà il tempo, e sarà data a tutti coloro che di essa hanno fame santa e gradita al Signore, che giubilerà di darsi senza misura agli uomini per cui si è incarnato, onde abbiamo la Vita che non muore. Io posso darmi, Io posso transustanziarmi per amore degli uomini, onde il pane divenga Carne e la Carne divenga Pane per la fame spirituale degli uomini, che senza questo Cibo mori- rebbero di fame e di malattie spirituali. Ma se uno mangia di questo Pane con giustizia, egli vivrà in eterno. Il pane che Io darò sarà la mia Carne immolata per la vita del mondo, sarà il mio amore sparso nelle case di Dio, perché alla mensa del Signore vengano tutti coloro che sono amorosi o infelici e trovino ristoro al loro bisogno di fondersi a Dio e di trovare sollievo al loro penare». «Ma come può darci da mangiare la tua carne? Per chi ci hai presi? Per belve sanguinarie? Per selvaggi? Per omicidi? A noi ripugna il sangue e il delitto». «In verità, in verità vi dico che molte volte l’uomo è più di una belva, e che il peccato fa più che selvaggi, che l’orgoglio dà sete omicida, e che non a tutti dei presenti ripugnerà il sangue e il delitto. E anche in futuro l’uomo tale sarà, perché Satana, il senso e l’orgoglio lo fanno belluino. E perciò con maggior bisogno che mai dovete e dovrà l’uomo sanare se stesso dai germi terribili con l’infusione del Santo. In verità, in verità vi dico che se non mangerete la Carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo Sangue, non avrete in voi la Vita. Chi mangia degnamente la mia carne e beve il mio Sangue ha la Vita eterna ed Io lo risusciterò all’Ultimo Giorno. Perché la mia Carne è veramente Cibo e il mio Sangue è veramente Bevanda. Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue rimane in Me ed Io in lui. Come il Padre vivente mi inviò, ed Io vivo per il Padre, così chi mi mangia vivrà anch’egli per Me e anderà dove lo mando, e farà ciò che Io voglio, e vivrà austero come uomo e ardente come serafino, e sarà santo, perché per potersi cibare della mia Carne e del mio Sangue si interdirà le colpe e vivrà ascendendo per finire la sua ascesa ai piedi dell’Eterno.» «Ma costui è folle! Chi può vivere in tal modo? Nella nostra religione è solo il sacerdote che deve essere purificato per offrire la vittima. Qui Egli ci vuole fare, di noi, tante vittime della sua follia. Questa dottrina è troppo penosa e questo linguaggio è troppo duro! Chi li può ascoltare e praticare?» sussurrano i presenti, e molti sono discepoli già riputati tali. La gente sfolla commentando. E molto assottigliate appaiono le file dei discepoli quando restano solo nella sinagoga il Maestro e i più fedeli. Io non li conto, ma dico che, ad occhio e croce, sì e no si arriva a cento. Perciò ci deve essere stata una bella defezione anche nelle schiere dei vecchi discepoli ormai al servizio di Dio. Fra i rimasti sono gli apostoli, il sacerdote Giovanni e lo scriba Giovanni, Stefano, Erma, Timoteo, Ermasteo, Agapo, Giuseppe, Salomon, Abele di Betlemme di Galilea e Abele il già lebbroso di Corozim col suo amico Samuele, Elia (quello che lasciò di seppellire il padre per seguire Gesù), Filippo di Arsela, Aser e Ismaele di Nazareth, più altri che non conosco di nome. Questi tutti parlano piano fra loro commentando la defezione degli altri e le parole di Gesù, che pensieroso sta con le braccia conserte appoggiato ad un alto leggìo. «E vi scandalizzate di ciò che ho detto? E se vi dicessi che vedrete un giorno il Figlio dell’uomo ascendere al Cielo dove era prima e sedersi al fianco del Padre? E che avete capito, assorbito, creduto fino ad ora? E con che avete udito e assimilato? Solo con l’umanità? È lo spi- rito quello che vivifica e ha valore. La carne non giova a niente. Le mie parole sono spirito e vita, e vanno udite e capite con lo spirito per averne vita. Ma ci sono molti fra voi che hanno morto lo spirito perché è senza fede. Molti di voi non credono con verità. E inutilmente stanno presso Me. Non ne avranno Vita ma Morte. Perché vi stanno, come ho detto in principio, o per curiosità, o per umano diletto, o, peggio, per fini ancora più indegni. Non sono portati qui dal Padre per premio alla loro buona volontà, ma da Satana. Nessuno può venire a Me, in verità, se non gli è concesso dal Padre mio. Andate pure, voi che vi trattenete a fatica perché vi vergognate, umanamente, di abbandonarmi, ma avete ancora maggior vergogna di rimanere al servizio di Uno che vi pare “pazzo e duro”. Andate. Meglio lontani che qui per nuocere». E molti si ritraggono di fra i discepoli, fra i quali lo scriba Giovanni e Marco, il geraseno indemoniato, guarito mandando i demoni nei porci. I discepoli buoni si consultano e corrono dietro a questi fedifraghi tentando di fermarli. Nella sinagoga sono ora Gesù, il sinagogo e gli apostoli... Gesù si volge ai dodici che, mortificati, stanno in un angolo e dice: «Volete andarvene anche voi?». Lo dice senza acredine e senza mestizia. Ma con molta serietà. Pietro, con impeto doloroso, gli dice: «Signore, e dove vuoi che si vada? Da chi? Tu sei la nostra vita e il nostro amore. Tu solo hai parole di Vita eterna. Noi abbiamo conosciuto che Tu sei il Cristo, Figlio di Dio. Se vuoi, cacciaci. Ma noi, di nostro, non ti lasceremo neppure... neppure se Tu non ci amassi più...», e Pietro piange senza rumore, con grandi lacrimoni... Anche Andrea, Giovanni, i due figli di Alfeo, piangono apertamente, e gli altri, pallidi o rossi per l’emozione, non piangono, ma soffrono palesemente. «Perché vi dovrei cacciare? Non sono stato Io che ho eletto voi dodici?...». Giairo, prudentemente, si è ritirato per lasciare Gesù libero di confortare o redarguire i suoi apostoli. Gesù, che ne nota la silenziosa ritirata, dice, sedendosi accasciato come se la rivelazione che fa gli costasse uno sforzo superiore a quello che Egli può fare, stanco come è, disgu- stato, addolorato: «Eppure uno di voi è un demonio». La parola cade lenta, paurosa, nella sinagoga, nella quale è solo allegra la luce delle molte lampade... e nessuno osa dire nulla. Ma si guardano l’un con l’altro con pauroso ribrezzo e angosciosa indagine e, con una ancor più angosciosa e intima domanda, ognuno esamina se stesso... Nessuno si muove per qualche tempo. E Gesù resta solo, sul suo sedile, le mani incrociate sui ginocchi, il viso basso. Lo alza infine e dice: «Venite. Non sono già un lebbroso! O mi credete tale?...». Allora Giovanni corre avanti e gli si avviticchia al collo dicendo: «Con Te, allora, nella lebbra, mio solo amore. Con Te nella condanna, con Te nella morte, se credi che ciò ti attenda...»; e Pietro striscia ai suoi piedi e li prende e se li mette sugli omeri e singhiozza: «Qui, premi, calpesta! Ma non mi fare pensare che Tu diffidi del tuo Simone». Gli altri, vedendo che Gesù carezza i due primi, si fanno avanti e baciano Gesù sulle vesti, sulle mani, sui capelli... Solo l’Iscariota osa baciarlo sul viso. Gesù si alza di scatto, e quasi lo respinge bruscamente tanto lo scatto è improvviso, e dice: «Andiamo a casa. Domani sera, di notte, partiremo con le barche per Ippo».

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