PRESENTAZIONE
L'esperienza di fede del cristiano è
intimamente congiunta con l'esperienza di amore, che il
Figlio di Dio Gesù Cristo ha voluto fare per noi e insieme con noi
sulla terra, mediante la sua Incarnazione, Passione, Morte e
Risurrezione. Egli ha percorso le nostre vie, dialogando con noi e
introducendoci passo passo per le vie salutari del Regno di Dio.
Gesù è l'Amore in cammino. Chi crede in Lui, lo rende presente e
diviene a Lui presente nell'amore, incamminandosi insieme con Lui
verso la Dimora del Padre. Il palpito ardente del suo Spirito lo
avvolge di tenerezza e lo rende raggiante alla sua presenza (cf.
2 Cor 4,6), facendogli degustare la dolcezza della sua compagnia
e attirandolo a Lui con vigore. Gesù Cristo diventa così,
nell'intimo di chi crede fermamente in Lui e apre il cuore al
suo amore misericordioso, viva sorgente di speranza (cf. Col 1,27),
nutrita soavemente dalla memoria che Egli continuamente fa della sua
vita di Figlio dal Padre e dal suo ardente desiderio di
riportargli a casa tutti i fratelli, invitandoli di persona alla
grande festa del Regno di Dio e conducendoli Egli stesso alla
presenza del Padre.
Durante il suo pellegrinaggio di
amore misericordioso, Gesù dialogava volentieri e si compiaceva
di fare le sue confidenze a quanti gli stavano più vicini,
condividendo con Lui la Sua stessa forma di vita e ricevendo in
cambio da Lui la promessa di condividere pure la dimora del
Padre celeste. Le moltitudini restavano stupite dei suoi
racconti e anche gli Apostoli, che continuamente stavano in ascolto
della sua parola, non ne divenivano sazi, desiderando anzi di
conoscerLe sempre meglio e di penetrarne l'arcano divino mistero. Gli
chiesero che insegnasse loro a pregare e ne ebbero in dono il "
Padre nostro" (cf. Le 11, 1 ss. ; Mt 6,9-13). Quando poi Filippo
Gli chiese di mostrare loro il Padre, rimase sorpreso di poterlo
mirare sul volto stesso di Gesù (Gv 14, 1 ss.) Tutti erano
meravigliati dei suoi insegnamenti e stupiti di fronte ai segni
e prodigi che operava.
Ma quando giunse 1' ora della sua
passione e morte, sembrò che la sua voce si fosse
definitivamente spenta e qualcuno, come Tommaso o come i due
Discepoli di Emmaus, ebbe la tentazione di rivolgersi altrove.
Fortunatamente Tommaso ritornò da Lui ed ebbe la gioia di
riconoscerLe.
Gesù si rivelò a lui,
presentandogli i segni del suo infinito amore e invitandolo a
dimorare ancora presso di Lui, chiamando anzi "beati,
coloro che, senza aver visto, avrebbero creduto!" (Gv 20,
29). Si aprì così, nuovamente, la "via nuova e vivente"
(Eb 10, 20), inaugurata per noi da Gesù e il Suo dialogo con noi
continua confidenzialmente, come con i Discepoli di Emmaus (cf. Lc
24, 13ss,) o con gli Apostoli sulle rive del Lago di Tiberiade,
all'alba di un nuovo giorno di Dio. Là Pietro venne risanato dal
ricordo del suo tradimento e ristabilito nella corroborante amicizia
e nella consolante intimità d'amore di Gesù, che lo aveva
rigenerato per sempre, costituendolo Pastore supremo, garante
dell'unità di fede e della comunione di amore di tutta la Chiesa
(cf. Gv 21).
Dialogando con i suoi Discepoli,
dopo la Risurrezione, Gesù li consolava e li ristabiliva nella
dimora del Padre celeste come commensali del Regno di Dio,
condividendo con loro la mensa della sua Parola e del suo Corpo,
divenuto per tutti Eucarestia e sorgente di vita. Ai Discepoli di
Emmaus Gesù insegnò con tanta bontà a comprendere anche i momenti
più drammatici della Sua esistenza terrena e a riconoscervi il segno
definitivo e perfetto del Suo amore per loro.
Quel dialogo, pieno di infinito
amore, riecheggia dolce e suasivo nelle pagine del libretto che
ho la gioia di presentare: "SE STARAI CON ME, TI PARLERÒ DI
ME". Gesù racconta dalla Croce. Sembra ripreso il
pellegrinaggio di Gesù con gli uomini d'oggi per renderli
partecipi della sua mirabile e stupenda avventura d'amore. Il
tono è confidenziale, lo stile vivace e conciso, con la
precisione del Testimone fedele e la gioia di aver compiuto il
mandato, ma anche con immensa nostalgia per coloro ai quali Egli
ha donato la Sua vita sulla croce per dire che andava a preparare
loro un posto nella casa del Padre e voleva portarli con Sé
proprio loro, tutti loro, come figli prediletti del Padre.
Gesù continua le Sue confidenze con
commovente bontà, con parole toccanti, soffuse di divina
tenerezza, in questa meditazione ispirata, viva testimonianza
che ci aiuta a comprendere come si può essere, se si vuole,
contemplativi nel mondo.
Rosalba ha saputo armonizzare la sua
vita di lavoro, di sposa, di madre e di Terziaria francescana,
stimolata dalla Grazia divina, in un unico palpito, racchiuso nella
fede, in un grande amore per Gesù Cristo e per quanti Egli ha amato
ed ama e vuole benignamente ammaestrare, parlando loro non come
ad estranei, ma come ad amici speciali, per i quali Egli
veramente ha dato la vita per amore.
Il racconto è confidenziale, con
uno stile vibrante, appassionato, scarno e incisivo, che scolpisce le
scene, imprimendovi nel cuore le immagini con una potente accensione
d'amore. Si riscontrano invero nella storia dell'esperienza
mistica racconti della vita e della passione di Gesù. Ma il racconto
che ne fa Rosalba è nuovo e originale per intensità e vigore,
per l'incantevole stile da filmato, che ripropone vivacemente le
immagini, scolpendole nel cuore prima di farne percepire il
racconto parlato.
Il racconto, confidenziale e
delicatissimo, rivela le pieghe più intime e segrete del Cuore
di Gesù nelle ore più drammatiche della Sua esperienza terrena e ne
ritrasmette i sentimenti d'infinita dolcezza e amabilità, di soave
tenerissimo amore verso quanti il Padre celeste Gli ha affidato
e che amore e dolore Gli hanno reso maggiormente fratelli. Ad essi
Egli dischiude il cielo, aprendo loro la dimora del Padre.
E così che le parole si susseguono
senza lasciare respiro, perché respirano palpitanti e risuonano
vigorose dall'arcano sacrario del Cuore di Gesù e penetrano come
fiaccole ardenti il cuore di chi le legge e ne custodisce il
mistero, degustandone la divina fraganza.
Auguro, a quanti avranno la
singolare grazia di leggere queste pagine, di percepirne il
sapore evangelico e la genuina freschezza, per proseguire
rigenerati e sereni il loro cammino insieme con Gesù, che dalla
Sua croce continua anche con loro il suo dialogo d'amore, per
ripetere con tenerezza che proprio per loro Egli ha patito tutto
questo e non ha gioia maggiore che di partecipare loro il frutto
di quell'immenso amore e di quell'immenso dolore. Potranno così,
anch'essi come me, proseguire esultanti il loro cammino pieno di
speranza, all'alba del nuovo giorno, che vide Gesù consolare gli
Apostoli, rendendoli per sempre Suoi commensali nella casa del Padre.
Mi congratulo con Rosalba per queste
intense e profonde meditazioni e La ringrazio di averci resi
partecipi di questo prezioso dono.
Roma, nella Solennità della
Riseurrezione di Gesù, 1991
Frate Cornelio M. Del
Zotto ofm Docente di Teologia Dommatica nel Pontificio Ateneo
"Antonianum" di Roma
E il venerdì sette aprile, ore dodici, dell'anno
trenta e mi ritrovo appeso come un cencio su una croce, trattato
come un brigante, anzi condannato a morte al posto di un brigante.
M'è davanti la mia tenerissima madre,
ritta, ai piedi di questo palo al quale m'hanno inchiodato.
Sembra un soldato valoroso che, al termine di una grande battaglia
vinta, mostra fiero le ferite sanguinanti del corpo al comandante
per dirgli: "Sono ridotto così, ma non preoccuparti, abbiamo
vinto".
"Sì madre, puo dirlo forte,
abbiamo vinto. Io torno al Padre e nel Padre troverò la sua
compiacenza per te e continuerò ad amarti ed attenderti fintanto che
gli Angeli santi ti ricondurranno a me nella santa Dimora".
Nel suo cuore rivedo la piccola casa di
Nazareth. Il mio caro Giuseppe che non dimenticò mai,
quando mi teneva fra le braccia, che sotto quella tenera carne di
bimbo palpitava l'essenza del Dio dei suoi Padri. L'espressione
si riferisce al verbo incarnato. Adorò in me il Dio creato e celato,
fu il primo adoratore dell'Eucarestia. Guardò e custodì mia madre
come un tempio santo, lasciandosi inebriare dal suo profumo verginale
e consacrante.
I primi tempi
Mi rivedo adulto a trent'anni, quando
per l'ultima volta lasciai quella casa che, come il seno di mia
madre, mi aveva custodito, per andare incontro agli uomini.
In un solo attimo mi si ripresentano
tutte le tappe degli ultimi tre anni della mia vita. L'incontro con
Giovanni il Battista... il suo cuore sincero, la sua umiltà profonda
mi fecero un gran bene dopo il distacco dalla casa di Nazareth.
I quaranta giorni nel deserto della
valle del Giordano in una lunga estasi all'ascolto intimo e
divino del progetto del Padre per la rappacificazione del suo
amore con il cuore degli uomini. E poi l'incontro con i primi due
apostoli: Giovanni ed Andrea, che con semplicità
credettero che ero il Messia. E la faccia corrucciata di Pietro che
non seppe resistere suo malgrado al mio sguardo e mi seguì. E tutti
gli altri.
Rividi il pozzo di Giacobbe sul monte
Garizim, dove incontrai un'umile peccatrice samaritana, che
pur non comprendendo il mio discorso lo accolse e cambiò vita, solo
perchè le diedi fiducia, chiamandola col titolo onorifico di donna,
pieno di stima ed affetto riverente.
Mi tornano alla mente tutti i miracoli
che ho fatto e tutti i miracolati ai quali ho ridato vita e salute
pur sapendo che oggi li avrei rivisti nel vigore delle loro
forze ai piedi di questo monte a gridare "Crocifiggilo".
E Maria, la prostituta che entra a casa
di Simone confondendosi con i servi per cospargere i miei piedi
con prezioso profumo misto alle sue calde lacrime e la mia gioia
nell'amministrarle il perdono: "Donna ti sono perdonati
i tuoi peccati, va' in pace''.
E gli Scribi e i Farisei, sempre pronti
lì a volermi far fuori per non scomodarsi a rivedere il proprio
interiore. Li rivedo adesso in mezzo a questa enorme folla che
compiaciuta si gode uno spettacolo gratuito in questo giorno,
grazie proprio alla pervicacia di quei governatori e
conservatori della legge di Mosè, legge interpretata e non amata.
Rivedo Pietro, la sua fede, il suo
"ascoltare" i miei discorsi senza tanti ragionamenti.
Mi aveva seguito perchè gli ero simpatico e mi voleva bene con
l'affetto di un padre. Per me aveva lasciato moglie e figlia, con
grande dolore, ma senza mai pentirsi. Mi amava più di ogni cosa al
mondo, più di se stesso. Fu lui che con grande impeto mi gridò:
"Sei tu il Messia, il figlio del Dio vivente". Verità
rivelatagli, per il suo cuore libero e sincero, dal Padre mio. E
fu in quel momento, che con profonda riconoscenza sentii che
potevo fidarmi di lui, gli diedi il potere di sciogliere e di legare
qualsiasi cosa in terra confermandogli che così sarebbe stato anche
nei cieli, insomma gli diedi le chiavi del Regno.
Esattamente otto giorno dopo aver
annunciato di essere il Messia, invitai Pietro, Giacomo e
Giovanni sul monte Tabor. Arrivammo lì molto stanchi verso sera. Il
sole radente illuminava l'orizzonte. Sentii un gran bisogno di
allontanarmi da loro per unirmi intimamente al Padre mio, sotto la
volta di un cielo intessuto di stelle e volli dare loro un segno
della beatitudine Trinitaria. Con un gran bagliore, meglio che se
fosse stato mezzogiorno, il mio corpo apparve loro condensato di una
luce vivissima, riflessa dalla presenza del Padre mio. Con me
erano Mosè ed Elia, rappresentanti della legge e della profezia. E
Pietro, sempre lui così irruento e spontaneo, mi fece la proposta
di voler fare tre tende!
E poi la festa dei Tabernacoli, quella
che ricordava la dimora degli antichi Ebrei sotto le tende nel
deserto. Ero lì anch'io ed era l'anno ventinove. Seduto insieme
con i miei apostoli assistevo alla grandiosa fiaccolata che
concludeva gli otto giorni di celeIrazioni. Ammiravo le danze
che facevano gareggiando nel saltellare il più a lungo possibile con
in mano la fiaccola accesa. Ero affascinato da quella allegria
popolare e guardando le grandi lampade appese agli altissimi
candelabri pensavo, e confidai il mio pensiero agli Apostoli: "Io
sono la vera luce del mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre,
ma avrà sempre la luce della vita eterna".
Ad un tratto si sentì un gran chiasso,
alcuni Farisei trascinavano una donna che avevano sorpresa
mentre giaceva con un uomo che non era suo marito. Volevano
lapidarla. Ma ciò che più mi fece male fu il ragionamento dei
Farisei. Non erano lì per osservare con zelo la legge, come poteva
apparire, ma l'avevano portata apposta per mettere me in difficoltà.
Loro facevano presa sul fatto che io avevo predicato l'amore ed
il perdono cercando di spiegare alla gente che il Padre mio mi
aveva mandato solo per dare speranza ed amore... "Amatevi a
vicenda, perdonate settanta volte sette, perché il Padre ha questi
sentimenti nei vostri confronti e voi dovete averli nei confronti
degli altri". Loro davano per scontato che io avrei perdonato e
amato quella donna e quindi avrebbero potuto condannarmi a morte per
non aver osservato la legge di Mosè. D'altronde se anch'io
fossi stato dalla loro parte mi avrebbero presentato al popolo come
un bugiardo che dopo aver predicato l'amore ed il perdono,
presente l'occasione di praticarlo, mi tiravo indietro per paura,
comportandomi diversamente da come avevo predicato. Tutto questo
lessi nei loro cuori e nelle loro menti, mentre seduto per terra col
dito tracciavo dei segni nella sabbia. Insistevano nel chiedermi un
parere e così al di là di ogni legge deliberai che chi non
avesse peccato poteva cominciare a tirare la prima pietra. Con
questo mio dire desiderai rendere chiaro che nessun uomo può
appellarsi a nessuna legge per giudicare un altro uomo, poichè
ci sono peccati che possono essere scoperti, come questo, ma ci sono
molti altri peccati avvolti dalle tenebre della furbizia che l'uomo
riesce perfettamente a nascondere. Se ne andarono lasciandomi quella
donna raggomitolata per terra, piena di paura e stupore. In quel
momento mi alzai e fui pienamente felice di poterle dare una mano
rassicurante e con tutto l'affetto del cuore le dissi: "Donna
va' in pace. E d'ora in poi non peccare più". Ella mi guardò
con gli occhi pieni di lacrime e di gratitudine e nel suo
sguardo lessi: "Grazie, maestro buono, il tuo amore mi ha
guarita".
La Parola: Verità e Misericordia
Il mio coraggio nel testimoniare la
verità mi attirò molte simpatie per cui molti chiesero di
diventare miei discepoli. Ne scelsi settantadue e li mandai come
i miei dodici a predicare.
Solo pochi mesi e la mia vita terrena
si sarebbe conclusa. Così in quel tempo che mi rimaneva non parlai
altro che dell'amore. Volevo arrivare a far vibrare il cuore
degli uomini e di tutti gli uomini, anche di quelli che
pensavano di essere vittime indiscutibili dei propri vizi e così
raccontai la parabola del Figliol Prodigo. Parlavo spesso in
parabole, parabole dell'amore. Era una pedagogia adatta a quegli
uomini semplici perché imparassero a mente i miei insegnamenti. Un
padre, due figli con caratteri diversi. L'uno attratto dai piaceri
della vita, l'altro ligio al dovere e per questo sicuro di dovere
ricevere la lode dal padre e deluso perché i fatti si svolsero
diversamente.
"Prendo tutto ciò che mi spetta",
disse il primo al padre, "voglio godermi la vita, comprarmi
tutti i piaceri che il mondo mi offre" .
Il padre rispetta la libertà del
figlio, gli concede il suo e lascia col cuore triste che varchi
la porta di casa, chissà forse per non rivederlo più. L'amore
lascia sempre libero l'amato di amare oppure no, questa è la radice
dell'amore stesso. Ma quel figlio, fatta l'esperienza della
propria fragilità, si ritroverà solo ed affamato e dopo aver
sperperato tutto, sente e comprende che l'amore di suo padre,
rimasto immutato nell'infinita Misericordia, lo attende sempre.
E così và e trova il padre suo ad attenderlo, senza
rinfacciargli nulla, felice solo di poterlo riabbracciare.
Così scorrono nella mente mia le
immagini degli ultimi giorni della mia vita terrena, mentre il
sangue gronda dalle mie ferite ed i dolori mi penetrano le ossa da
non poterne più. Mi accorgo che ricordare mi fa bene, perché lo
strazio delle mie carni trova in questa memoria una risposta.
Ho amato tutti gli uomini miei fratelli
e voglio dimostrare loro che continuo ad amarli e li amerò
sempre e darò tutto me stesso poiche di più non posso.
A Gerusalemme
Ed ecco riprendo a ricordare il mio
ingresso trionfale nella Città Santa.
Montai su un asinello a circa un
chilometro dal tempio, operando guarigioni tra le grida
gioiose dei fanciulli. La folla non riuscì più a contenere
l'entusiasmo; pochi giorni prima avevo risuscitato Lazzaro e questo
era stato per loro il miracolo più strepitoso, quindi gettarono
i loro mantelli sotto i piedi della cavalcatura e tagliati rami
d'ulivo, li agitavano gridando: "Evviva, evviva, osanna al
Figlio di Davide"!
Passato il torrente Cedron, alzai lo
sguardo verso il tempio candido di marmi e sfavillante di
ori ai primi raggi del sole. I miei occhi si riempirono di lacrime;
pensai che di quel tempio così maestoso non sarebbe rimasta pietra
su pietra che non fosse distrutta. Gerusalemme sarebbe stata
rasa al suolo e dei suoi abitanti chi ucciso e chi condotto in
schiavitù. Entrai, accompagnato dal sempre crescente entusiasmo
della folla, nell'atrio del tempio e mi vennero incontro alcuni Greci
e con l'aiuto di Filippo che conosceva il greco seppi che volevano
conversare con me. Parlai in perifrasi anche con loro. Raccontai che
se il granello di frumento caduto in terra non muore, non porta
frutto; come a dire: "Proprio quando mi uccideranno comincerò a
vivere nei vostri cuori". E proprio il Padre mio mi rese
testimonianza, come durante il battesimo e sul Monte Tabor: si
udì un rumore come di tuono e e una voce che scandiva queste parole:
"Ho glorificato il tuo nome".
Ma nè i miei interlocutori, nè il
popolo compresero. Così mentre loro continuavano ad inneggiare io
ridiscesi verso il torrente Cedron e, tra i sentieri dell'Orto degli
Ulivi, mi diressi a Betania ove andai a trovare il mio amico
Lazzaro e passai la notte.
Verso la Pasqua
Il dì successivo mi alzai di buon
mattino e mi recai regolarmente nel tempio a predicare. Era il lunedì
tre aprile dell'anno trenta. I Farisei si erano nel frattempo
organizzati escogitando ancora una volta di rendermi ridicolo
agli occhi del popolo.
Mi sottoposero dunque un problema di
tasse: "E giusto o no pagarle?"
Il tranello era ben progettato, c'era
Cesare di mezzo e quindi se avessi detto "si" avrei
avuto il popolo contro che di fronte alle tasse versate ad un
governatore tiranno e straniero pensava fosse meglio non pagare; se
avessi detto "no" a quel punto sarebbero intervenute
le guardie e mi avrebbero eliminato per oltraggio al grande
Cesare ... Ipocriti! Ciechi!
Mi feci portare una moneta del tributo
con 1'effige di Cesare e spiegai loro che come c'è un dovere da
compiere in una società civile al quale non si può e non ci si deve
sottrarre, così c'è un dovere morale impresso nella coscienza
di ogni uomo al quale si deve soddisfare. Ma loro non la finirono più
con le domande.
L'indomani, martedì quattro aprile, mi
sottoposero il problema della risurrezione nel caso di una donna che
nell'aldilà si ritrova con sette mariti. A quel punto non ne potei
più: "Ipocriti, razza di vipere, i risorti saranno
incorrutibili ed immortali, non avranno l'uso fisiologico
della sessualità, la loro vita materiale scomparirà con le loro
ceneri. Saranno uno con me nel Padre, purificati dall'amore
sostanziale dello Spirito Santo".
Se ne andarono scuotendo il capo con
l'aria di chi sa di ritornare alla carica. Fui preso da una
violenta reazione contro la loro ipocrisia e gli gridai contro:
"Guai a voi, perchè chiudete il Regno dei Cieli in faccia agli
uomini. Non solo voi non vi entrate, ma fate di tutto perchè
gli altri non vi entrino. Ipocriti ciechi che pretendete di fare agli
altri da guida! Serpenti, razza di vipere, sepolcri imbiancati!
Non illudetevi di poter sfuggire al fuoco della Geenna".
Dopo questo sfogo mi sentii sfinito e mi rifugiai all'interno del
tempio.
Il mio animo si acquietò quando vidi
una vecchietta mettere nella cassetta dell'elemosine pochi spiccioli.
Mi rivolsi agli Apostoli facendo loro notare quanto sia gradita
l'offerta presa dal proprio necessario, molto di più di quella
scrosciante che i ricconi fanno cadere dall'alto.
Il tradimento
Ma proprio a questo ricordo il mio
pensiero va a Giuda.
Poveretto, la mia sfuriata gli aveva
dimostrato che non possedevo alcun senso politico e si sentì
deluso, lui che da me si aspettava la testimonianza di un maestro
sapiente di questo mondo. Crollarono le sue ultime illusioni,
così prese la decisione di aiutare i Farisei a mettermi a tacere.
Ormai non gli interessavo più. Per lui ero solo un pazzo, un
esaltato, e nient'altro. Così quella stessa sera mentre mi avviavo
con gli altri apostoli verso l'Orto degli Ulivi, Giuda rimase in
città per prendere i primi contatti con i capi dei Sacerdoti,
stabilendo l'incontro per l'indomani sera. Quanta tristezza nel
mio cuore! Giunti che fummo nell'Orto mi sedetti per terra e
poggiando la schiena in un albero di ulivo invitai gli apostoli
ad ascoltarmi. "Mancano due giorni alla mia crocifissione",
spiegai, "e sarà proprio a Pasqua".
Ma loro rimuginavano tutto ciò che era
accaduto in quegli ultimi giorni ed erano confusi, quasi
non mi ascoltavano. Dopo l'ingresso trionfale a Gerusalemme,
pensavano che quel popolo mi amava, mi aveva accettato come Messia e
lì, fors'anche per un rifiuto dettato dal grande affetto che avevano
per me, fermavano il loro pensiero. Preferii non insistere e li
lasciai con le loro convinzioni, non me la sentivo di continuare a
spiegare cose che non avrebbero mai compreso, tanto li avrebbero
vissuti da lì a poco questi giorni, insieme a me e non era il caso
di scoraggiarli più di quanto non lo fossero già. Ci appisolammo.
L' indomani mercoledì cinque aprile si
tenne un ulteriore consiglio in casa di Caifa e si ribadì che
bisognava catturarmi con inganno per evitare una sommossa nel popolo.
Cercarono subito di rintracciare Giuda
il quale fu ammesso a partècipare al loro conciliabolo.
Giuda che nella sua vita era stato
abituato a dare un prezzo a tutto, volle darlo anche a me. E
subito, prima ancora di impegnarsi definitivamente a consegnarmi
nelle loro mani, chiese: "Quanto mi date?". Gli
risposero: "Trenta sicli d'argento".
Questo infatti era il prezzo che la
legge ebraica stabiliva quale riscatto in caso che uno schiavo fosse
ucciso. Giuda accettò: pensava di investire l'intera somma per
acquistare un podere. Questa mercede mi fece molto più male del
tradimento in sé. Se mi avesse consegnato senza alcuna
ricompensa, avrebbe guadagnato probabilmente la stima degli stessi
Farisei i quali avrebbero pensato che, deluso dall'opinione
ideale che lui si era fatta su di me e non valendo che niente ai suoi
occhi, poco contava per lui che fossi ucciso o rimanessi vivo e
in ciò, alla richiesta insistente di consegnarmi nelle loro mani,
avrebbe potuto aderire come chi, avendo la proposta di disfarsi di
ciò che non bisogna, se ne disfà volentieri. Ma la degradazione più
grande Giuda l'ebbe quando vendette non me, ma il suo ideale deluso
per trenta sicli d'argento. Riflettei molto su questo e pensai che il
cuore dell'uomo chiuso alla grazia del suo Dio, non saprà far altro
che vendere, comprare, perire. Lo vidi tornare a sedere in mezzo
agli altri apostoli. Rimase molto male quando sentì che avevo
dato a Pietro e Giovanni il compito di organizzare la cena per la
Pasqua, perché a lui urgeva sapere dove saremmo andati.
Così mi rivolsi ai due apostoli e
parlai in modo molto enigmatico per far comprendere a Giuda che ero
al corrente di suoi piani, per invitarlo a riflettere, ma non volle,
pensando forse che ormai era troppo tardi per tornare indietro,
dimostrando così di non avere fiducia nel mio amore, nel mio
perdono.
L'ultima cena
La cena pasquale si consumò al primo
piano vicino la casa di Caifa. Era la sera del giovedì sei
aprile e seguìto dai miei apostoli mi recai nel luogo stabilito.
Giuda assunse una espressione molto preoccupata vedendoci
incamminare proprio verso la casa di Caifa, sembrava
infatti che io lo conducessi a compiere il suo misfatto quanto prima
possible. Si rassicurò quando, appena seduto a tavola dissi
sorridendo: "Ho desiderato tanto mangiare questa Pasqua con
voi, sapete, questa è l'ultima volta".
Il clima, almeno apparentemente, era
abbastanza sereno, favorito anche dalle carni fumanti,
dalle ricche posate, dai vini pregiati. Gli apostoli non raccolsero
ancora una volta il senso delle mie parole, loro pensavano che fosse
terminato il periodo in cui avevo voluto vivere nascosto e che
subentrava un'era nuova, l'era in cui avrei rivelato con potenza
di essere il Messia, e così avrebbero finalmente potuto dimostrare a
tutti che loro erano stati quei fortunati che l'avevano incontrato
per primo. Per questo cominciarono a discutere sul-
le cariche che dovevano dividersi.
Interruppi il loro dire e dissi: "Colui che serve è il
maggiore tra di voi", mi cinsi al fianco un' asciugamano
e cominciai a lavar loro i piedi.
Non appena gli fui innanzi, Pietro si
scostò con veemenza dicendomi che mai si sarebbe sottoposto a
questo per la grande stima che aveva di me. Ma quando mi sentì
dire che non avrebbe avuto parte con me se non mi avesse lasciato
fare questo servizio, l'impetuoso Pietro quasi mi gridò: "Allora
non solo i piedi, ma anche le mani ed il capo" .
Tenero dolce Pietro, dal viso scavato
dalle lunghe rughe annerite da quel sole bruciante che lo attendeva
ogni giorno sul lago, e dal cuore di bimbo che non fece altro che
sognare per tutta la vita una buona pesca quotidiana per un
sicuro pezzo di pane.
Lo guardai e gli dissi: "Chi ha
fatto il bagno non ha bisogno che di lavarsi i piedi perché e
pulito. E voi tutti siete puliti, tranne uno"
Giuda abbassò lo sguardo, era
sgomento. E fu sempre Pietro che con foga mi chiese: "Sono forse
io, Maestro?"
Lo rassicurai con lo sguardo e osservai
uno per uno tutti gli altri Apostoli, li vidi interdetti,
spauriti, non sapevano capacitarsi per quello che avevo detto: "Uno
di voi mi tradirà" .
Intanto Giuda fors'anche per rompere
quell'atmosfera gelida che si era creata e che gli pesava sul capo
come una candanna, mi si avvicinò e mi chiese con atteggiamento
altezzoso: "Maestro, sono forse io?"
Gli risposi a bassa voce, per non farmi
sentire dagli altri: "Tu l'hai detto".
Dopo ciò indietreggò è tornò a
sedersi al suo posto.
Sono circa le due del pomeriggio. Devo
puntare i piedi sui chiodi e scostare le spalle dal patibolo per
prender un pò di respiro; le ferite causate dal flagello hanno
aperte le mie carni fino all'osso e il sangue ed il sudore le hanno
richiuse malamente, per questo ogni movimento è uno strazio.
Il sole picchia forte e arroventa il
legno, ma più ancora i chiodi. Il rumore della folla e ciò che
sento gridare mi dilaniano più in profondità.
Loro gridano: "A morte, a morte",
ed il mio cuore a loro: "Muore il mio corpo, ma non il mio
amore; vi amo e vi amerò per sempre! "
Con lo sguardo, per quello che ormai
possono permettermi i grumi di sangue che si sono formati
attorno agli occhi a causa della corona di spine, intravedo Giovanni,
l'apostolo che si era donato a me agli albori dei suoi anni, e
me lo rivedo così, quando posando il capo sul mio petto, mi
chiese: "Signore chi è colui che ti tradirà?". "È
quello al quale darò un pezzetto di pane intinto", avevo
risposto.
Ecco, la mia mente ora torna in quella
stanza con i miei dodici. E mentre tutte le ferite del mio corpo
pulsano con dolore immane, il mio cuore si dilata all'infinito
per essermi fatto Eucarestia.
Questo è un momento d'infinito amore.
"Prendete, questo è il mio corpo", dissi loro, spezzando
il pane. E poi aggiunsi, porgendo il calice: "Questo è il
mio sangue, che sta per essere versato. Ripetete questo gesto in
memoria di me".
Ecco, avevo istituito il Sacramento che
mi avrebbe reso eternamente presente in mezzo a loro. "Amici,
consumatemi in questo cibo prezioso, insieme, da uomini uniti dalla
fede e dall'amore e non temete perché io sono la vostra forza. Ma
prima di accostarvi a tale mensa abbiate sempre il cuore mondo,
altrimenti fareste come Giuda, al quale diedi un pezzetto di
pane intinto nel mio piatto e glielo misi sulla bocca dicendogli:
"Quello che devi fare fallo presto" .
Egli infatti non disdegnò di
prenderlo, ma subito dopo andò via, scomparendo nel buio della
notte.
Appena uscì, la cena riprese in
un'atmosfera di serenità. Non seppero spiegarlo neanche
loro perchè, ma tutti si sentirono il cuore libero e leggero,
desiderosi solo di stringersi a me.
Li guardai con grande affetto e mi
venne così spontaneo chiamàrli per la prima volta “figlioli”,
li sentivo parte integrante di me, anzi li sentivo dentro di me, per
questo mi donai a loro nell'unica forma in cui potevo donarmi tutto,
con il mio corpo ed il mio sangue, la mia anima, la mia divinità,
tutto e per sempre.
Così ripresi a parlare: "Figlioli,
vedete ... ancora per poco sarò con voi, ma prima di tornare al
Padre desidero dirvi che dovete amarvi gli uni gli altri, come io vi
ho amati. Vedete come è bello sentirsi in consonanza con tutti i
fratelli? È solo questo che desidero testimoniate, perchè solo da
questo crederanno che siete stati con me e che io vi ho rivelato
l'amore; lo stesso amore per il quale siete stati creati e per
il quale tra poco io darò la mia vita. Vedete... nella casa del
Padre mio vi sono molti posti, io vado a prepararvi un posto
adatto per ciascuno di voi, affinché possiate un giorno venire anche
voi dove sono io".
Tommaso che era il più razionale degli
apostoli mi interruppe dicendomi: "Signore, ma se noi non
sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via!" Gli
risposi: "Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno può
venire al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me conoscerete
anche il Padre; anzi vi dico che fin da ora lo conoscete e lo
avete visto".
E Filippo, dimostrando di avere capito
meno degli altri, mi chiese: "Signore, mostraci il Padre e ci
basta"
"Oh, Filippo, Filippo come puoi
dire: - Mostraci il Padre? -, Io sono nel Padre e il Padre è in me,
è lui che sta compiendo in me l'opera di redenzione, credimi, il
Padre ed io siamo una cosa sola".
Detto questo sentii una grande
nostalgia del Padre. Le parole sgorgavano così teneramente dal
profondo del mio cuore, che gli apostoli, percependo il mio
sentimento, esitavano ad interrompermi. Così spontaneamente pregai
rivolgendomi direttamente a Lui, al Padre mio, dicendogli: "Padre
santo, quando io ero con loro li custodivo, adesso è venuto il
momento di tornare a te, perciò ti prego custodiscili tu,
perchè abbiano la stessa gloria in me, della mia in te. Ti prego
anche per tutti quelli che in me crederanno, affinché tutti siano
una sola cosa, come tu Padre sei in me ed io in te".
Il Getsemani
Era già notte fonda quando mi riebbi e
volli uscire fuori.
Sentivo in quel momento tutto l'amore
per tutti gli uomini dei quali il Padre mio mi aveva reso
fratello, ma anche tutto il peso dei loro peccati venirmi
addosso.
Sostai un attimo sull'uscio, guardai
l'immensità oscura e mi incamminai andando incontro a quel
buio nel quale l'anima mia si rispecchiava perfettamente. Mi
incamminai come al solito verso l'Orto degli Ulivi, i miei
apostoli mi seguirono a gruppetti. C'era un vento gelido ed un
silenzio mortale. Si sentiva solo il rumore dei nostri passi
sull'acciottolato. Nel cielo brillavano le stelle e la luna piena
rendeva gli alberi degli ulivi argentati. Era uno spettacolo
di straordinaria bellezza. Gli apostoli, lontani dal pensare che
questa era l'ultima notte che avrebbero passato con me, si sdraiarono
per terra e coprendosi con i loro mantelli si addormentarono. Li
guardai e mi accorsi di soffrire anche per loro, mi erano stati
amici, avevano rinunciato a tutto per seguirmi; mi apparivano
come bambini che certi della custodia della madre si
addormentano con abbandono. Li amai come non mai in quel momento,
avrei voluto accarezzarli e stringerli al mio petto ad uno ad uno,
proprio come una madre fa con i suoi bambini.
Parlai loro con il cuore dicendo:
"Amici miei, per causa mia vi perseguiteranno e vi metteranno a
morte, devo mandarvi come pecore in mezzo ai lupi; mi addolora,
ma voi siete stati scelti quale eco per diffondere il gorgheggiare
della fonte che è lo Spirito di Verità e arriverete così poveri,
così indifesi, fino ai confini della terra".
Ad un tratto mi accorsi che Pietro,
Giacomo, Giovanni, non dormivano. Mi accostai a loro per
rivelare il mio stato d'animo.
"L'anima mia è triste fino alla
morte", dissi, "tenetemi un pò di compagnia".
La mia voce tremava, la paura di ciò
che doveva accadermi mi faceva sudare. Sentii poi un gran bisogno di
parlare con il Padre per essere rassicuarato da Lui, ma nel
contempo sentivo l'esigenza di una presenza fisica e così,
dilaniato fino allo spasimo, andavo e tornavo. Ad un tratto mi
mancarono le forze e caddi in ginocchio e alzati gli occhi al cielo
rividi la luna, le stelle sempre lì fedeli fin dalla fuga in Egitto
quando illuminarono il sentiero a Maria mia madre e a Giuseppe,
compagne a me per tanti notti ed ora testimoni di un amore
distillato goccia a goccia che trasudava dalla mia fronte e di
colore scarlatto. "Padre, Padre!", ripetevo, "allontana
da me questo calice!'
Ad un tratto rientrai in me, rividi il
Padre e alla di lui presenza mi sentii ricolmo di tutto il
sudiciume che gli uomini passati presenti e futuri avevano e
avrebbero racimolato coi loro peccati. La sfavillante presenza del
Padre rese la mia anima consapevole, non solo dell'oltraggio
fatto dall'uomo a Colui che è l'amore per essenza, ma anche di
che cos'è l'uomo senza il suo Dio d'amore. Mi guardai così
come apparivo al Padre e mi vidi un obbrobrio. Lui per
consolarmi mandò uno dei suoi angeli che mi diede il sapore del mio
cielo. "Amo tutto ciò che tu hai fatto, Padre mio e mio Dio",
dissi, 'ma più ancora amo le tue creature che hai fatte ad immagine
di me. Voglio restituirle al tuo amore. Voglio far riemergere
in loro quel soffio di vita che sei tu, togliendo ogni ludibrio alla
primordiale bellezza. E se per far ciò devo bere il calice fino
alla feccia, sono pronto Padre mio' .
La cattura ed il processo
Mi rialzai cercando di riunire tutte le
mie forze e mi portai dove erano i miei apostoli.
Li feci alzare e andai incontro al
bacio di Giuda. Così i soldati arrivati con gran chiasso mi
presero e mi condussero via incatenato come un assassino.
Dovevo attendere lo spuntare del sole,
del sole di questo giorno, perchè il Sinedrio si riunisse e
quindi passai le rimanenti ore di questa ultima notte terrena in
carcere, in compagnia dei custodi che bendatomi mi percuotevano
e si prendevano gioco di me.
In quei momenti il mio pensiero
improvvisamente andò a Giuda e lo vidi penzolare da un albero,
con una corda al collo che smorzò l'ultimo grido dettato dalla
disperazione e dal rimorso. Il figlio dell'orgoglio non volle
ammettere di avere sbagliato, di aver bisogno di perdono.
Lui, facendo sempre affidamento sulla
sua intelligenza, si mise su un piano di autosufficienza.-
Doveva chiedere a me il perdono e non seppe farlo. Per orgoglio non
seppe neanche perdonarsi. Se avesse atteso avrebbe visto che per dare
questo perdono agli uomini, io morivo.
Finalmente spuntò l'alba di questo
venerdì sette aprile e mi ritrovai nella sala del palazzo dove il
Sinedrio, presieduto da Caifa, si era appena riunito.
Mi interrogarono: "Sei tu il
Cristo?" "Io lo sono" , risposi con voce limpida e
pacata.
Così mi giudicarono colpevole di
bestemmia e sentenziarono la condanna a morte. Mon era una
condanna ufficiale, questa poteva infliggerla solo Pilato. Così
fui mandato da lui guardato a vista dai soldati.
Faceva freddo e nell'atrio i servi dei
sommi sacerdoti avevano acceso un fuoco per scaldarsi. Ad
un tratto sentii la voce di Pietro dire: "Non lo conosco".
Mi girai e lo vidi con gli occhi
sgranati, si guardava attorno. Lo fissai intensamente negli occhi e
in quello sguardo Pietro ritrovò la predizione che gli avevo fatto
giorni prima: "Prima che il gallo canti mi rinnegherai tre
volte".
Al contrario di Giuda, avrebbe voluto
in quello stesso istante buttarmi le braccia al collo e dirmi:
"Perdonami, Maestro", ma non potè farlo per paura che
lo arrestassero, quindi leggendo nel mio sguardo il perdono uscì
fuori e pianse amaramente.
Al Pretorio
Verso le sei del mattino fui condotto
dal procuratore Ponzio Pilato che però, saputo che ero Galileo, mi
mandò a sua volta da Erode Antipa, figlio di Erode il Grande.
Lì non risposi ad alcuna domanda. Non
ne valeva la pena. Erode era un uomo molto frivolo ed era interessato
a me solo per curiosità. Il mio silenzio lo fece montare su tutte le
furie e dopo avermi violentemente insultato mi rivestì,
schernendomi, di un manto di porpora e mi rimandò da Pilato. Questi
era un uomo di potere, datogli in prestito da Tiberio il quale lo
avrebbe destituito da lì a poco, ed aveva un carattere pusillamine.
Pur riconoscendomi innocente, non ebbe il coraggio di
proclamarlo per paura della folla, ma non ebbe neanche il
coraggio di proclamarmi colpevole.
"Sei tu re dei Giudei?", mi
chiese.
"Il mio regno non è di questo
mondo", risposi, "ma è vero, sono re, ma nel senso
ultraterreno, così come è scritto nei libri sacri".
La mia voce era molto pacata e da
questo Pilato si rese conto che non aveva a che fare con un agitatore
politico.
Continuai: "Si, sono re, per
questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità"
La parola "verità" fece
presa nella mente di Pilato. Pensò fossi uno dei soliti
filosofi che si illudevano di trasformare il mondo con il pensiero
anzicchè con la violenza. Così replicò: "Ma cos'è la
Verità?", ma non aveva nessuna voglia di saperlo, perchè
subito uscì fuori verso i Giudei offrendo loro la possibilità
di rendermi libero secondo l'usanza di rilasciare per la Pasqua
un prigioniero. E così mi barattarono con Barabba, un ladro, finito
in carcere per omicidio.
Pilato, lavatosi le mani dopo avermi
fatto flagellare, mi ripresentò alla folla urlante. I suoi occhi mi
seguirono mentre camminavo giù nel cortile del Pretorio.
Così fui ridotto ad un'intera piaga.
Secondo la legge di Mosè avrebbero dovuto darmi quaranta colpi,
anzi solitamente per rimanere dentro la legge ne davano uno in meno,
con una frusta formata con corde di cuoio che avevano alle estremità
sfere di metallo e punte ad uncino, chiamata "flagrum". Ma
a me ne diedero molti di più e non contenti di ciò mi posero sul
capo un serto di spine ricavato da sterpi di pimpinella che i
soldati avevano messi da parte per accendere il fuoco durante le
veglie. Colpendo con un bastone procurarono di farmela aderire
attorno alla testa, soprattutto nella parte frontale. Così,
quale cencio umano, Pilato ordinò che fossi condotto innanzi al
popolo.
Per un attimo a tale vista la folla
rimase smarrita e come uno scemare di tempesta ci fù un grande
silenzio. Cercai con lo sguardo un volto amico, qualcuno che pur non
potendomi salvare dalla morte mi dicesse: "Gesù, figlio di
Maria e del Dio di Abramo, ti amo e credo in te", e invece udii
solo la voce di Pilato: "Ecco, questo è l'uomo, in lui non ho
trovato nessuna colpa".
Ero sfinito, per farmi coraggio
ripensai a tutti gli uomini amati dal Padre, ritornare a Lui, a tutti
questi fratelli legati a me dal patto della nuova ed eterna alleanza.
Per questo in fondo sono venuto: perchè il mio corpo si facesse via
attraverso la quale poter tornare a casa.
Ad un tratto mi sentii osservato. Una
donna avvolta in uno scialle scuro lasciava intravvedere
due grandi occhi che il pianto aveva reso simili a due laghi dalle
acque profonde e cristalline.
Nessuno la riconobbe, ma io sì. Era
Maria, quella soprannominata "La peccatrice".
"Signore, so che muori per i miei peccati", mi diceva
il suo cuore, "ma prima di te nessuno mi aveva amata per amore.
D'ora in poi non potrò più vivere se non per amore, l'Amore
che sei tu" .
La guardai e risposi col mio cuore al
suo messaggio: "Guardami donna, muoio per dare a tutti gli
uomini ciò che ho dato a te: il perdono e la vita eterna;
consolati, il tuo fiume d'amore d'ora in poi troverà il suo letto
per sfociare infine nel grande mare della mia Misericordia".
Le urla dei sommi Sacerdoti mi
scossero: "Crocifiggilo, crocifiggilo", e da lì a
poco tutta la folla gridò così.
I soldati si avvicinarono e Pilato mi
consegnò a loro. Mi legarono il patibolo sulle spalle, mi
appesero al collo il cartello che indicava il motivo della condanna e
mi spinsero insieme ad altri due condannati per le vie della
città in direzione del Calvario.
La via della Croce
Due soldati camminavano davanti a me e
due dietro. Tutt' attorno c'era il popolo che preso dalla
curiosità voleva godersi lo spettacolo fino in fondo.
Dopo aver percorso un breve tragitto mi
accasciai a terra sotto il peso dell'asse che portavo sopra le
spalle. I soldati che stavano dietro di me m'aiutarono a
rialzarmi con veemenza e mi rimisero in piedi non curanti dei
dolori lancinanti che mi procurava il legno sulle nude piaghe.
Il sangue mi grondava da tutte le parti del corpo.
Pensai a mia madre e provai una fitta
al cuore quando mi accorsi che mi veniva innanzi. Mi seguiva
silenziosa, e il suo volto, per quanto addolorato, sprigionava una
luce d'amore dalla quale mi sentii abbracciare.
"Madre, sii benedetta fra tutte le
donne, perché hai aderito sempre alla volontà del Padre mio"
.
Mi trascinavo a stento e i soldati,
vedendo che non riuscivo più a stare in piedi, fermarono
un uomo, un certo Simone di Cirene. Faceva il contadino, tornava
stanco dal lavoro e per qualche denaro accettò di aiutarmi a
portare l'asse.
Una donna si fece innanzi e con grande
pietà mi asciugò il volto, mi sentii refrigerato e, per
ricompensare la sua carità, le lasciai impresso il mio volto
nel panno. Altre donne mi consolavano durante il cammino con pianti e
gemiti e, malgrado fossi allo stremo delle forze, le avvertii
delle future sofferenze che si sarebbero abbattute su di loro e
sui loro figli.
Il Calvario dista dal Pretorio meno di
un chilometro. Così, giunti sul monte con la velocità di chi
vuole sbarazzarsi della prova del delitto, buttato l'asse per terra,
m'hanno spogliato completamente e disteso supino.
Un carnefice m'ha inchiodato i polsi al
patibolo e legata la fune al petto.
Altri due m'hanno innalzato sullo
stipite già pronto e infisso al terreno.
Fermati i due assi della croce hanno
allentato la fune e il mio corpo, scivolando verso il
basso, s'è assestato con un orribile strattone. Poi hanno inchiodato
anche i miei piedi.
Le immagini dei ricordi si esauriscono.
C'è solo da attendere che tutto si compia. Abbassando lo
sguardo rivedo mia madre sostenuta dal braccio di Maria
Maddalena e Maria di Cleofa. C'è anche Giovanni, lui solo fra tutti
gli apostoli. Li affido l'uno all'altra, perché l'uno dell’altra
avranno bisogno.
Ad un tratto sento una voce che mi
dice: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso ed anche noi".
È uno dei due malfattori che sono crocifissi con me.
L'altro però lo rimprovera,
dicendogli: "Noi moriamo per le nostre iniquità ed è giusto,
ma lui che male ha fatto?" e poi rivolto a me dice: "Gesù,
quando sarai arrivato nel tuo regno, ricordati di me".
Cosa sa lui di me e del mio regno? Ne
avrà sentito parlare fra la folla solo durante il tragitto dal
Pretorio al monte dove siamo crocifissi, ma la predisposizione
alla verità lo ha illuminato dentro, così mi percepisce per quello
che sono, Re del Regno dei Cieli, e comprende pure in così poco
tempo che appartenere al mio regno è solo una questione di amore. Mi
volto verso di lui e gli dico: "Oggi ti porterò con me in
Paradiso".
Nello stesso istante il sole si
eclissa, il cielo diventa buio, l'aria si fa molto calda,
irrespirabile, è l'afa che precede i temporali. Si fa un grande
silenzio. In questo momento ho la percezione di essere uno di voi, ho
appeso sì il peccato alla croce, ma ancora non basta. Sono gli
ultimi momenti della mia vita. In quest'attimo mi vedo tutto
uomo ed il Padre mio non più dentro di me, ma di fronte a me, tutto
Dio nella meraviglia della sua perfezione; ho un grido: "Dio
mio, Dio mio perchè mi hai abbandonato?" .
Lo chiamo "Dio mio" perchè
proprio ho bisogno di gridarla questa verità. Io uomo fatto peccato
e lui il mio Dio. Così imploro il perdono per i miei
crocifissori e per tutti gli uomini, mi porgo a lui ed in nome di
tutti gli uomini lo richiamo: "Padre", gli dico,
"adesso che tutto è compiuto, depongo nelle tue mani il
mio spirito, torniamo a casa perché ormai i miei fratelli conoscono
la via e potranno, se lo vorranno, abitare nelle stanze che tu, o
Padre, hai loro preparato".
Il Padre mi apre il suo seno e mi dice:
"Vieni servo buono e fedele, vieni fratello dei fratelli, vieni
amore mio incarnato".
Questa è l'agonia. Torno a guardare la
folla, questa volta oppressa, impaurita per l'atmosfera che
si è creata attorno. Al di là di ogni ragione la natura creata per
amare si ribella nel vedere l'amore crocifisso, ma al di là di ogni
ragione, proprio perché crocifisso, l'amore può aprirsi
all'infinito poiché non lo farà più con le braccia, ma con il
cuore il quale e il solo che amando si dilata all'infinito.
Sono le ore quindici, emetto l'ultimo
respiro. Muoio. Ma risorgerò, non vi lascio orfani, vi manderò
lo Spirito Consolatore che vi insegnerà ad amare come Io vi ho
amati.
RIFLESSIONE
La persona "uomo" sta in
mezzo tra il Padre Creatore e il Cristo Redentore. Attorno a lui
vi è uno spazio che si chiama libero arbitrio.
Se l'uomo non distende le sue braccia a mo' di
crocifisso, all'Uno per ritrovare l' Altro, non potrà mai
essere inserito nel Progetto di DIO, che è quello di dargli una
Dimora stabile ed eccellente per il suo spirito. L'uomo può anche
rifiutarsi di entrare a far parte di questa perfezione e fuggire
attraverso quegli spazi che Dio gli ha lasciato attorno e
che si chiamano libertà. Ma sarà una meteora, che rimarrà a
roteare nell'infinito spazio, che non è lo Spazio Infinito, e
lì rischierà di permanere in una eternità dove, al di là della
luce del sole, c'è solo tenebra.
Fratelli, se vivremo nei cieli di
Cristo, Cristo ci renderà suo cielo e, ad imitazione del Serafico
Padre, saremo gaudenti uomini di Paradiso. A lode di Cristo e
del Santo Francesco d'Assisi. Amen.
Che dire - leggere di Gesù che parla in prima persona è fantastico - Brava come sempre PAOLA - Grazie
RispondiEliminaUmberto