In una famiglia cristiana della regione
parigina, il 20 novembre 1970, viene alla luce un bambino che sarà
battezzato con il nome di Emanuele. Un fratello, Vincenzo, ed una
sorella, Anna, lo hanno preceduto. La nascita provoca un tripudio di
gioia in tutta la famiglia. Il babbo, Signor D., si reca tutte le
sere alla maternità, dove riposano i suoi due tesori: la mamma e
Emanuele; e, ogni volta, la stessa felicità, sempre nuova, si
ripete.
«Non sa
poppare»
Tre giorni dopo, il Signor D. si
affretta alla volta della clinica, con un mazzo di fiori. Il cuore
accelera i battiti, proprio come la prima volta. Eccolo sulla soglia
della stanza. Ma lì, è come inchiodato sul posto: dal letto, la
moglie gira verso di lui un volto inondato di lacrime. Le si
precipita accanto. Essa lo guarda fissamente, gli tende le braccia,
con la voce strozzata dal pianto, balbetta: «Nostro figlio non è
normale!» Istintivamente, lo sguardo del padre si dirige verso la
culla in cui è adagiato il neonato, che dorme profondamente. «Non
vedo nulla di anormale; te l'ha detto qualcuno? chiede alla moglie. –
No, nessuno; ma lo so, lo sento, non si muove, non piange, non sa
poppare».
I coniugi rimangono insieme per tutto
il pomeriggio, accanto al bambino. Il giorno seguente, la Signora D.
si decide a farlo esaminare da un pediatra. Lo specialista interroga
benevolmente la moglie, poi il marito, e comincia con molta calma una
visita del piccolo, lunga e meticolosa. L'attesa è un supplizio per
i genitori. Finalmente, il medico gira verso di essi uno sguardo
pieno di amicizia, di carità. Commenta con delicatezza la propria
diagnosi, prima di giungere alla conclusione: «Vostro figlio non
sarà come gli altri». Con estrema dolcezza, apprende loro che
Emanuele è affetto da trisomia 21..., è «mongoloide». La prima
intuizione della mamma era giusta.
Gli vorremo
bene come agli altri!
Il Signor D. deve informare la
famiglia. Di ritorno a casa, trova i nonni, gli zii, le zie di
Emanuele, che sono venuti per avere notizie. Egli non riesce a
contenere le lacrime e balbetta: «mongoloide». La costernazione è
generale. Poi, ci si riprende, e la stessa frase spunta su tutte le
labbra: «Gli vorremo bene... come agli altri». «Gli altri»,
Vincenzo ed Anna, sono anch'essi presenti, e sono perfettamente
d'accordo: «Sì, gli vorremo bene, sì, gli vorrò bene!»
«Gli vorremo bene!» Risposta
meravigliosa, che è luce per il nostro mondo. L'atteggiamento
cristiano della famiglia di Emanuele contrasta con il rigetto, tanto
frequente ahimè! nelle nostre società, del figlio minorato,
inadatto – si ritiene – ad essere felice ed a rendere felici gli
altri. Papa Giovanni Paolo II constata a questo proposito: «Ci
troviamo di fronte ad una realtà caratterizzata dalla preponderanza
di una cultura contraria alla solidarietà, che si presenta in molti
casi come una vera e propria «cultura di morte»... A causa della
sua malattia, della sua menomazione, colui che compromette il
benessere o le abitudini di vita di coloro che sono più vantaggiati,
tende ad esser considerato come un nemico da cui ci si deve difendere
o che bisogna eliminare. Si scatena in questo modo una specie di
cospirazione contro la vita» (Enciclica Evangelium vitæ, 12).
Il rifiuto di accogliere e di lasciar vivere quelli che ci
intralciano (il bambino concepito ma «non desiderato», la persona
minorata, o anziana, l'ammalato allo stadio terminale...) manifesta
una profonda ignoranza del valore di ogni vita umana.
Perchè ogni vita umana costituisce un
bene? La Sacra Bibbia fornisce, fin dalle prime pagine, una risposta
energica e ammirabile a questa domanda. La vita che Dio dà all'uomo
è diversa e distinta da quella di qualsiasi altra creatura vivente.
Solo la creazione dell'uomo è presentata come il frutto di una
decisione speciale da parte di Dio: al termine dell'opera della
creazione del mondo, Egli decreta solennemente: Facciamo l'uomo a
nostra immagine, secondo la nostra somiglianza (Gen. 1, 26). È
conferita all'uomo un'elevatissima dignità, le cui radici si
immergono nel legame intimo che lo unisce al suo Creatore: risplende
nell'uomo un riflesso della realtà stessa di Dio (cf. Evangelium
vitæ, 34). Tale riflesso non è cancellato dalla menomazione
mentale.
Non ti
dimenticherò mai!
Poichè è ad immagine di Dio, unico
fra tutte le creature visibili ad essere dotato di intelligenza e di
volontà libera, l'uomo è capace di conoscere e di amare il proprio
Creatore. È chiamato ad entrare in comunicazione personale d'amore
con Lui, anche se, per un certo tempo, o addirittura per tutta la
vita terrena, tale relazione è resa difficile o misteriosa.
«Proviamo a capire quanto sia tenero l'amore di Dio, diceva Madre
Teresa di Calcutta. Poichè Lui medesimo dice nella Sacra Scrittura:
Anche se una madre potesse dimenticare suo figlio, io non potrò
dimenticarti. Ecco, ti ho inciso sulla palma della mia mano (cf.
Is. 49, 15-16). Quando ti senti solo, quando ti senti respinto,
quando sei ammalato e dimenticato, ricordati che per Lui sei
prezioso. Hai una grande importanza per Lui».
L'importanza di ogni persona per Dio ci
è manifestata ancora di più attraverso l'opera della Redenzione, il
riscatto dei peccati: In questo sta l'amore: non siamo stati noi
ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come
vittima di espiazione per i nostri peccati (1 Giov. 4, 10).
«Contemplando il sangue prezioso di Cristo, il credente impara a
riconoscere e ad apprezzare la dignità quasi divina di ogni uomo;
può esclamare, con un'ammirazione ed una gratitudine sempre
rinnovate: Che valore deve avere l'uomo per il Creatore se «ha
meritato di avere un simile e tanto grande Redentore» (Exultet
della liturgia pasquale), se Dio ha dato suo Figlio affinchè
lui, l'uomo, non perisca, ma abbia la vita eterna! (cf. Giov.
3, 16)» (Evangelium vitæ, 25).
«Figlio di
Dio, totalmente»
La vita che il Figlio di Dio è venuto
a dare agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo. È
destinata a durare per tutta l'eternità. L'Apostolo San Giovanni
scrive: Considerate quale ineffabile amore ci ha donato il Padre;
che ci chiamano figli di Dio. E lo siamo! Carissimi, noi siamo fin
d'ora figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato quello che
saremo. Sappiamo che quando ciò verrà manifestato, saremo simili a
Lui, perchè lo vedremo quale Egli è (1 Giov. 3, 1-2).
Il nonno di Emanuele mette in risalto
questa verità quando scrive: «Il Battesimo dei miei figli (e
nipotini) è stato ogni volta per me un momento importante. Mi sembra
che attualmente si metta l'accento sull' «entrata nella Chiesa».
D'accordo. Ma, quanto a me, ci vedo soprattutto la vera nascita del
figlio della nostra carne alla Vita stessa di Dio. Emanuele non avrà
lo sviluppo intellettuale, nè le capacità fisiche degli altri
bambini. Ma qui, lo so, lo sento, non vi è nessuna inferiorità;
eccolo Figlio di Dio, totalmente, la malattia non ha nessun potere
contro questa dignità essenziale».
Così, «la verità cristiana relativa
alla vita raggiunge la sua pienezza. La dignità della vita non è
legata soltanto alle sue origini, al fatto che viene da Dio, ma anche
al suo fine, al suo destino, che è quello di essere in comunione con
Dio, per conoscerlo ed amarlo». (Evangelium vitæ, 38). Tale
comunione d'amore non è riservata ad una élite di uomini
perfettamente costituiti. Si estende anche a tutti i «poveri» di
corpo o di spirito. «I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i
lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, la Buona
Novella è annunciata ai poveri (Luca 7, 22). Con queste parole
del profeta Isaia, Gesù spiega il senso della sua missione: così,
coloro che soffrono di una forma di menomazione nella loro esistenza,
sentono, annunciata da lui, la buona novella della sollecitudine di
Dio per loro ed hanno la conferma che anche la loro vita è un dono
gelosamente tenuto in mano dal Padre (cf. Matt. 6, 25-34)» (Ibid.,
32).
Superare i
propri limiti
>>Carissimi, poichè Dio ci ha
amati tanto, anche noi dobbiamo amarci scambievolmente (1 Giov.
4, 11). La paziente educazione di Emanuele è tutta piena dell'amore
cui ci esorta San Giovanni. Essa presuppone un'informazione esatta
sulla natura della menomazione del bambino. Il Professor Jérôme
Lejeune, che ha scoperto nel 1959 la causa della trisomia 21, spiega
che questa malattia non è nè una tara razziale, nè una sequela
della sifilide, dell'alcolismo o della cattiva qualità del cervello
dei genitori, come si riteneva fino a quel momento: è un'aberrazione
cromosomica. Il bambino «mongoloide» possiede tutti gli organi,
tutto l'insieme genetico proprio all'uomo, senza «errori nella
pianta della costruzione»; egli presenta unicamente un eccesso di
informazione genetica, perchè le sue cellule possiedono, per
un'aberrazione, un cromosomo di troppo. Si tratta di una malattia che
ostacola lo sviluppo delle facoltà intellettuali, senza ledere la
memoria nè l'affettività di colui che ne è colpito. La medicina
non dispera di poter un giorno guarire le vittime di questo male.
Come la maggior parte dei trisomici,
Emanuele si distingue per l'indolenza. Ma la Signora D. non si
rassegna a tale fatalità: con tenacia, lo incita a superare i propri
limiti. Quando cade in avanti, non ha l'idea di proteggersi la testa
con le mani. La mamma gli insegna a cadere, su un materasso, mettendo
avanti le braccia, finchè egli acquisice l'automatismo. Per farlo
camminare, gli prende prima un piede, poi l'altro, facendolo
trattenersi alla parete; e ciò, per giorni e giorni, fino a quando
cammina da solo: miracolo di pazienza! È la stessa cosa, per
insegnargli a salire e scendere una scala... Ben presto, con il
babbo, il fratello e la sorella, Emanuele partecipa a corse a piedi,
e, di tanto in tanto, lo si lascia arrivare primo al traguardo,
mentre la mamma applaude.
Gli ci è voluta molta energia per
abituare la lingua, le labbra, i denti e formare le vocali e le
consonanti. Parla volentieri, ma la sua pronuncia è spesso confusa.
Quando non lo si capisce, lo si fa ripetere una volta, due volte, tre
volte: alla fine, si stanca, si prende la testa fra le mani, per un
minuto o due, poi si riprende e pronuncia la parola giusta, o un
sinonimo. Ha una coscienza netta del bene e del male, di quel che è
permesso e di quel che è vietato. Si occupa, si distrae, diffonde
l'allegria. E poi, vi è in lui uno spirito birichino, una vivacità
che non è mai a corto di fantasia. Il riso, in lui, è
caratteristico. Gli piace lo sport: nel calcio, la sua azione è
ottima, nel judo, è temibile. Nel gioco delle bocce, il suo lancio è
«magico»: non fallisce mai il bersaglio. L'equilibrismo non gli fa
paura: se la cava sempre. La famiglia passa le vacanze in montagna:
talvolta le camminate sono un po' lunghe, soprattutto in salita. Si
sente allora la sua vocina: «Non si fa un riposino?»
Come uno
specchio d'acqua
In generale, tutti quelli che hanno a
che fare con Emanuele sono sedotti da vari tratti del suo carattere.
Prima di tutto, ha fiducia in tutti, senza restrizioni. Poi, ci sono
gli occhi con cui ti guarda, di un'estrema dolcezza, e con cui ti
avviluppa come uno specchio d'acqua che si spande in tutte le cavità
che incontra. Ti inonda di tenerezza. Infine, riesce a dimenticare se
stesso, per curarsi degli altri. Gli piace occuparsi dei piccoli,
aiutarli. Spesso, ha una parola, una frase gentile per i suoi. Far
piacere è per lui una seconda natura. La sua menomazione, se non è
soppressa, è attenuata, superata.
Il caso di Emanuele conferma la
testimonianza di Jean Vanier, fondatore dell'Arca:
l'attenzione benevola prestata ai minorati «diventa a poco a poco
comunione dei cuori, perchè la persona, anche con una menomazione
grave, risponde all'amore con l'amore... È un rapporto di fiducia
mutua che trasforma l'immagine ferita e depressiva della persona in
un'immagine positiva, mettendo in luce il suo valore, la sua dignità
e dandole speranza e ragioni di vivere... Le persone deboli hanno una
potenza misteriosa che invita alla comunione, trasforma quelli che le
accolgono, avvicinandoli al cuore di Dio. Esse sono fonte di unità».
Nella
sofferenza... con Gesù
Il 30 gennaio 1976, Emanuele è colto
da una grave emorragia nasale, seguita da accessi di febbre. Il 17
marzo, viene ricoverato all'Ospedale della «Salpétrière», a
Parigi. Si procede a prelievi di midollo osseo. Gli esami rivelano
che Emanuele è affetto da leucemia. Durante le numerose degenze nel
corso dei sette anni successivi, i genitori si avvicendano con altri
affinchè egli non sia mai solo. Nei periodi di tregua, può vivere
in famiglia, ma, alla fine, le ricadute si fanno via via più
frequenti: luglio 82, aprile 83, luglio 83.
Emanuele ha desiderato ricevere Gesù
molto presto. «Ed io?» dice ogni volta che vede la mamma far la
comunione. Nel corso delle messe domenicali, si distrae raramente e,
per quanto riguarda le cose di Dio, è sempre particolarmente
attento. Gli capita di sgridare i bambini che fanno chiasso in
chiesa, o di far loro cenno di tacere. La sua fede matura di giorno
in giorno. La sua attrattiva per «Gesù-Ostia» è sempre maggiore.
Il Giovedì Santo, 23 marzo 1978, Lo riceve per la prima volta. A
partire da quel giorno, si comunica ad ogni messa con un
raccoglimento profondo e un immenso desiderio. Un giorno, dopo la
comunione in una parrocchia di Auxerre, invece di tornare al proprio
posto con i genitori, rimane in uno degli stalli del coro, con la
testa appoggiata sulle mani giunte. Passandogli accanto, il papà gli
chiede: «Cosa fai lì, Emanuele? – Prego Maria perchè la mamma
non pianga più». Riceve la cresima, il 24 aprile 1983.
Questa sensibilità, quest'apertura al
divino, è condivisa dalla maggior parte dei trisomici. Gesù, che
bussa alla porta di tutti i cuori, trova quei piccoli premurosi ad
aprirGli. Commentando un'allocuzione in cui Papa Paolo VI esortava i
minorati a camminare verso la santità, Jean Vanier afferma: «Sì,
certi uomini e donne minorati psichici sono dei Santi. Per via della
loro semplicità, della sete di essere amati e dell'apertura a Gesù,
confondono i grandi di questo mondo, quelli che ricercano l'efficacia
ed il potere fuori del senso del servizio e della comunione dei
cuori. Sono molto poveri e limitati, ma sono ricchi nella fede, come
ci ricorda l'Apostolo San Giacomo: Sentite, miei diletti fratelli!
Dio non ha forse scelto quelli che sono poveri agli occhi del mondo,
affinchè siano ricchi nella fede ed eredi di quel Regno che ha
promesso a quanti Lo amano? (Giac. 2, 5)».
Un delitto
abominevole
Tuttavia, «i minorati sono fra i più
oppressi del nostro mondo, malgrado i progressi che si compiono in
certi paesi. Molti, e sono sempre più numerosi, vengono eliminati
nel seno stesso della madre» (Jean Vanier). Un giorno, il Professor
Lejeune riceve in ambulatorio un bimbo trisomico di dieci anni che
gli si getta fra le braccia e gli dice: «Vogliono ucciderci; bosogna
che tu ci protegga, perchè noi siamo troppo deboli, non saremo in
grado di difenderci!» La vigilia, coi i genitori, aveva guardato una
delle prime emissioni televisive sull'aborto, in cui si spiegava
come, grazie alla diagnosi prenatale, fosse possibile scoprire la
trisomia 21 e sopprimere tali bambini indesiderabili. Da quel giorno,
il Professore prenderà instancabilmente la difesa del nascituro.
Aveva capito che la prima minaccia contro la vita dei minorati è
situata a livello della diagnosi prenatale, quando questa è
realizzata per spingere all'aborto. «La diagnosi prenatale, che non
presenta difficoltà morali se viene effettuata per determinare le
cure eventualmente necessarie per il bambino non ancora nato, diventa
troppo spesso un'occasione per consigliare e provocare l'aborto»
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitæ, 14).
Ora, l'aborto è sempre, in sè e per
sè, un peccato gravissimo. Papa Giovanni Paolo II scrive: «Il
comandamento non uccidere ha un valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente. E ciò a più forte ragione che si
tratta di un essere umano debole e indifeso, che trova solo nel
carattere assoluto del comandamento di Dio una difesa radicale di
fronte all'arbitrio ed all'abuso di potere degli altri... La
decisione deliberata di privare un essere umano innocente della vita,
è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai esser
lecita, nè come fine, nè come mezzo in vista di uno scopo
lodevole... Nulla nè nessuno può autorizzare che si dia la morte ad
un essere umano innocente, feto o embrione, bambino o adulto,
vecchio, malato incurabile o agonizzante. Nessuno può chiedere
questo gesto omicida per sè o per un altro affidato alla sua
responsabilità, e neppure consentirvi, esplicitamente o meno.
Nessuna autorità può imporlo legittimamente, e neppure
autorizzarlo» (Ibid., 57).
Oggi, nella coscienza di molte persone,
la percezione della gravità dell'aborto si è andata offuscando
progressivamente. La sua «accettazione nelle mentalità, nei costumi
e nella legge medesima è un segno eloquente di una crisi pericolosa
del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere il
bene dal male, anche quando è in gioco il diritto fondamentale alla
vita. Davanti ad una situazione tanto grave, il coraggio di guardare
in faccia la verità e di dir pane al pane e vino al vino è più che
mai necessario, senza cedere a compromessi per facilità o alla
tentazione di ingannare se stessi. A questo proposito, il rimprovero
del Profeta risuona in modo categorico: Guai a coloro che chiamano
bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la
luce in tenebre (Is. 5, 20)» (Evangelium vitæ, 58).
Taluni tentano di giustificare l'aborto
sostenendo che il frutto della concezione, almeno fino a un certo
numero di giorni, non può esser considerato come una vita umana
personale. In realtà, «non appena l'ovulo è fecondato, si trova
inaugurata una vita che non è nè quella del padre nè quella della
madre, bensì quella di un nuovo essere umano che si sviluppa a sè.
Non sarà mai reso umano, se non lo è già fin da allora. A
quest'evidenza di sempre, la scienza genetica moderna fornisce
preziose conferme. Ha mostrato che, fin dal primo istante, si trova
definito il programma di quel che sarà quell'essere: una persona,
persona individuale con le sue note caratteristiche già ben
determinate» (Congregazione per la Dottrina della Fede, 18 novembre
1974). Forte di una simile convinzione, acquisita attraverso la
scienza, il Professor Lejeune diceva volentieri: «Lo studente di
medicina più materialistico è costretto a riconoscere che l'essere
umano comincia all'atto della concezione, altrimenti viene bocciato!»
Sei troppo
stanco!
Il 7 settembre 1983, lo specialista
dichiara ai genitori di Emanuele che non c'è più nulla da fare. Le
ultime domeniche, benchè allo stremo delle forze, Emanuele vuole
andar a messa e servirla. Suo fratello cerca di dissuaderlo: «Sei
troppo stanco e poi non potrai inginocchiarti». Allora, facendo
prova di un coraggio straordinario per dimostrare che può, che vuole
andarci, Emanuele fa forza sulle gambe, si strappa dal suolo e in
piedi, senza appoggi, fa una genuflessione, poi si rialza ben
diritto. Andrà a servire Gesù.
Il 27 settembre, le cose vanno per il
peggio. Emanuele può soltanto gemere, steso nel letto. Il papà e la
mamma sono chini insieme su di lui. È il bambino che parla,
debolmente, ma nettamente: «Ti voglio molto bene, sai, papà – Ti
voglio molto bene, sai, mamma». Sono le ultime parole che rivolge ai
genitori. Ha detto loro «arrivederci, in Cielo».
«Emanuele, Dio con noi, resterà
un simbolo pieno di speranza. Perchè i cristiani sono persone per
cui la nascita, la vita e la morte di un piccolo minorato valgono più
di tutti gli applausi offerti agli idoli, più di tutti gli imperi e
più di tutto l'oro del mondo» (Don Maurice Cordier, ex parroco
della famiglia di Emanuele).
Che la Vergine Maria e San Giuseppe ci
insegnino a vedere ed a servire Gesù in tutti i nostri fratelli,
specialmente nei più poveri! I monaci pregano per Lei, per i Suoi
defunti e secondo tutte le Sue intenzioni.
Dom Antoine
Marie osb
"Lettera
mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia
(Website : www.clairval.com)"
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