L'arrivo
di Maria a Ebron e il suo incontro con Elisabetta - "L'Evangelo
come mi è stato rivelato" di
Maria
Valtorta – Libro
I capitolo 21
1
aprile 1944.
Sono
in un luogo montagnoso. Non sono grandi monti ma neppur più
colline. Hanno già gioghi e insenature da vere montagne, quali se
ne vedono sul nostro Appennino tosco-umbro. La vegetazione è folta
e bella e vi è abbondanza di fresche acque, che mantengono verdi i
pascoli e ubertosi i frutteti, che sono quasi tutti coltivati a meli,
fichi e uva: intorno alle case questa. La stagione deve essere di
primavera, perché i grappoli sono già grossetti, come chicchi di
veccia, e i meli hanno già legati i fiori che ora paiono tante
palline verdi verdi, e in cima ai rami dei fichi stanno i primi
frutti ancora embrionali, ma già ben formati. I prati, poi, sono un
vero tappeto soffice e dai mille colori. Su essi brucano le pecore, o
riposano, macchie bianche sullo smeraldo dell'erba.
Maria
sale, sul suo ciuchino, per una strada abbastanza in buono stato, che
deve essere la via maestra. Sale, perché il paese, dall'aspetto
abbastanza ordinato, è più in alto. Il mio interno ammonitore mi
dice: «Questo luogo è Ebron». Lei mi parlava di Montana. Ma io
non so cosa farci. A me viene indicato con questo nome. Non so se sia
«Ebron» tutta la zona o «Ebron» il paese. Io sento così e dico
così. Ecco che Maria entra nel paese. Delle donne sulle porte - è
verso sera - osservano l'arrivo della forestiera e spettegolano fra
di loro. La seguono con l'occhio e non hanno pace sin ché non la
vedono fermarsi davanti ad una delle più belle case, sita in mezzo
del paese, con davanti un orto-giardino e dietro e intorno un ben
tenuto frutteto, che poi prosegue in un vasto prato, che sale e
scende per le sinuosità del monte e finisce in un bosco di alte
piante, oltre il quale non so che ci sia. Tutto è recinto da una
siepe di more selvatiche o di rose selvatiche. Non distinguo bene,
perché, se lei ha presente, il fiore e la fronda di questi spinosi
cespugli sono molto simili e, finché non c'è il frutto sui rami,
è facile sbagliarsi. Sul davanti della casa, sul lato perciò che
costeggia il paese, il luogo è cinto da un muretto bianco, su cui
corrono dei rami di veri rosai, per ora senza fiori ma già pieni di
bocci. Al centro, un cancello di ferro, chiuso. Si capisce che è la
casa di un notabile del paese e di persone benestanti, perché tutto
in essa mostra, se non ricchezza e sfarzo, agiatezza certo.
Maria
scende dal ciuchino e si accosta al cancello. Guarda fra le sbarre.
Non vede nessuno. Allora cerca di farsi sentire. Una donnetta, che
più curiosa di tutte l'ha seguita, le indica un bizzarro utensile
che fa da campanello. Sono due pezzi di metallo messi a bilico di una
specie di giogo, i quali, scuotendo il giogo con una fune, battono
fra di loro col suono di una campana o di un gong. Maria tira, ma
così gentilmente che il suono è un lieve tintinnio, e nessuno lo
sente. Allora la donnetta, una vecchietta tutta naso e bazza e con
una lingua che ne vale dieci messe insieme, si afferra alla fune e
tira, tira, tira. Una suonata da far destare un morto. «Si fa così,
donna. Altrimenti come fate a farvi sentire? Sapete, Elisabetta è
vecchia e vecchio Zaccaria. Ora poi è anche muto, oltre che sordo.
Vecchi sono anche i due servi, sapete? Siete mai venuta? Conoscete
Zaccaria? Siete...».
A
salvare Maria dal diluvio di notizie e di domande, spunta un
vecchietto arrancante, che deve essere un giardiniere o un
agricoltore, perché ha in mano un sarchiello e legata alla vita una
roncola. Apre, e Maria entra ringraziando la donnetta, ma... ahi!
lasciandola senza risposta. Che delusione per la curiosa! Appena
dentro, Maria dice: «Sono Maria di Gioacchino e Anna, di Nazareth.
Cugina dei padroni vostri».
Il
vecchietto si inchina e saluta, e poi dà una voce chiamando: «Sara!
Sara!». E riapre il cancello per prendere il ciuchino rimasto fuori,
perché Maria, per liberarsi dalla appiccicosa donnetta, è
sgusciata dentro svelta svelta, e il giardiniere, svelto quanto Lei,
ha chiuso il cancello sul naso della comare. E, intanto che fa
passare il ciuco, dice: «Ah! gran felicità e gran disgrazia a
questa casa! Il Cielo ha concesso un figlio alla sterile, l'Altissimo
ne sia benedetto! Ma Zaccaria è tornato, sette mesi or sono, da
Gerusalemme, muto. Si fa intendere a cenni o scrivendo. L'avete forse
saputo? La padrona mia vi ha tanto desiderata in questa gioia e in
questo dolore! Sempre parlava con Sara di voi e diceva: "Avessi
la mia piccola Maria con me! Fosse ancora stata nel Tempio! Avrei
mandato Zaccaria a prenderla. Ma ora il Signore l'ha voluta sposa a
Giuseppe di Nazareth. Solo Lei poteva darmi conforto in questo dolore
e aiuto a pregare Dio, perché Ella è tutta buona. E nel Tempio
tutti la rimpiangono. La passata festa, quando andai con Zaccaria per
l'ultima volta a Gerusalemme a ringraziare Iddio d'avermi dato un
figlio, ho sentito le sue maestre dirmi: 'Il Tempio pare senza i
cherubini della gloria da quando la voce di Maria non suona più fra
queste mura". Sara! Sara! E' un poco sorda la donna mia. Ma
vieni, vieni, ché ti conduco io».
Invece
di Sara, spunta sul sommo di una scala, che fiancheggia un lato della
casa, una donna molto vecchiotta, già tutta rugosa e brizzolata
intensamente nei capelli, che prima dovevano essere nerissimi perché
ha nerissime anche le ciglia e le sopracciglia, e che fosse bruna lo
denuncia il colore del volto. Contrasto strano con la sua palese
vecchiezza è il suo stato già molto palese, nonostante le vesti
ampie e sciolte. Guarda facendosi solecchio con la mano. Riconosce
Maria. Alza le braccia al cielo in un: «Oh!» stupito e gioioso, e
si precipita, per quanto può, incontro a Maria. Anche Maria, che è
sempre pacata nel muoversi, corre, ora, svelta come un cerbiatto, e
giunge ai piedi della scala quando vi giunge anche Elisabetta, e
Maria riceve sul cuore con viva espansione la sua cugina, che piange
di gioia vedendola. Stanno abbracciate un attimo e poi Elisabetta si
stacca con un: «Ah!» misto di dolore e di gioia, e si porta le mani
sul ventre ingrossato. China il viso impallidendo e arrossendo
alternativamente. Maria e il servo stendono le mani per sostenerla,
perché ella vacilla come si sentisse male. Ma Elisabetta, dopo
esser stata un minuto come raccolta in sé, alza un volto talmente
radioso che pare ringiovanito, guarda Maria sorridendo con
venerazione come vedesse un angelo, e poi si inchina in un profondo
saluto dicendo: «Benedetta tu fra tutte le donne! Benedetto il
Frutto del tuo seno!» (dice così: due frasi ben staccate). Come ho
meritato che venga a me, tua serva, la Madre del mio Signore? Ecco,
al suono della tua voce il bambino m'è balzato in seno come per
giubilo e quando t'ho abbracciata lo Spirito del Signore mi ha detto
altissima verità al cuore. Te beata, perché hai creduto che a Dio
fosse possibile anche ciò che non appare possibile ad umana mente!
Te benedetta, che per la tua fede farai compiere le cose a te
predette dal Signore e predette ai Profeti per questo tempo! Te
benedetta, per la Salute che generi alla stirpe di Giacobbe! Te
benedetta, per aver portato la Santità al figlio mio che, lo sento,
balza, come capretto festante, di giubilo nel mio seno, perché si
sente liberato dal peso della colpa, chiamato ad esser colui che
precede, santificato prima della Redenzione dal Santo che cresce in
te!». Maria, con due lacrime che scendono come perle dagli occhi che
ridono alla bocca che sorride, col volto levato al cielo e le braccia
pure levate, nella posa che poi tante volte avrà il suo Gesù,
esclama: «L' anima mia magnifica il suo Signore» e continua il
cantico così come ci è tramandato. Alla fine, al versetto: «Ha
soccorso Israele suo servo, ecc.» raccoglie le mani sul petto e si
inginocchia molto curva a terra, adorando Dio.
Il
servo, che si era prudentemente eclissato quando aveva visto che
Elisabetta non si sentiva male, ma che anzi confidava il suo pensiero
a Maria, torna dal frutteto con un imponente vecchio tutto bianco
nella barba e nei capelli, il quale con grandi gesti e suoni
gutturali saluta di lontano Maria. «Zaccaria giunge» dice
Elisabetta, toccando sulla spalla la Vergine assorta in preghiera.
«Il mio Zaccaria è muto. Dio lo ha colpito per non aver creduto.
Ti dirò poi. Ma ora spero nel perdono di Dio, poiché tu sei
venuta. Tu, piena di Grazia». Maria si leva e va incontro a Zaccaria
e si curva davanti a lui fino a terra, baciandogli il lembo della
veste bianca che lo copre sino al suolo. E' molto ampia, questa
veste, e tenuta a posto alla vita da un alto gallone ricamato.
Zaccaria, a gesti, dà il benvenuto, e insieme raggiungono
Elisabetta ed entrano tutti in una vasta stanza terrena molto ben
messa, nella quale fanno sedere Maria e le fanno servire una tazza di
latte appena munto - ha ancora la spuma - e delle piccole focacce.
Elisabetta dà ordini alla servente, finalmente comparsa con le mani
ancora impastate di farina e i capelli ancor più bianchi di quanto
non siano per la farina che vi è sopra. Forse faceva il pane. Dà
ordini anche al servo, che sento chiamare Samuele, perché porti il
cofano di Maria in una camera che gli indica. Tutti i doveri di una
padrona di casa verso la sua ospite. Maria risponde intanto alle
domande, che Zaccaria le fa scrivendole su una tavoletta cerata con
uno stilo. Comprendo dalle risposte che egli le chiede di Giuseppe e
del come si trova sposata a lui. Ma comprendo anche che a Zaccaria è
negata ogni luce soprannaturale circa lo stato di Maria e la sua
condizione di Madre del Messia. E' Elisabetta che, andando presso il
suo uomo e posandogli con amore una mano sulla spalla, come per una
casta carezza, gli dice: «Maria è madre Ella pure. Giubila per la
sua felicità». Ma non dice altro. Guarda Maria. E Maria la guarda,
ma non l'invita a dire di più, ed ella tace.
Dolce, dolcissima visione! Essa mi annulla l'orrore rimasto dalla vista del suicidio di Giuda. Ieri sera, prima del sopore, vidi il pianto di Maria, curva sulla pietra dell'unzione, sul corpo spento del Redentore. Era al suo fianco destro, dando le spalle all'apertura della grotta sepolcrale. La luce delle torce le batteva sul viso e mi faceva vedere il suo povero viso devastato dal dolore, lavato dal pianto. Prendeva la mano di Gesù, la accarezzava, se la scaldava sulle guance, la baciava, ne stendeva le dita... una per una le baciava, queste dita senza più moto. Poi carezzava il volto, si curvava a baciare la bocca aperta, gli occhi socchiusi, la fronte ferita. La luce rossastra delle torce fa apparire ancor più vive le piaghe di tutto quel corpo torturato e più veritiera la crudezza della tortura subita e la realtà del suo esser morto.
E
così sono rimasta contemplando sinché m'è rimasta lucida
l'intelligenza. Poi, risvegliata dal sopore, ho pregato e mi sono
messa quieta per dormire per davvero. E mi è cominciata la
suddescritta visione. Ma la Mamma mi ha detto: «Non ti muovere.
Guarda unicamente. Scriverai domani». Nel sonno ho poi sognato di
nuovo tutto. Svegliata alle 6,30, ho rivisto quanto avevo già visto
da sveglia e in sogno. E ho scritto mentre vedevo. Poi è venuto lei
e le ho potuto chiedere se dovevo mettere quanto segue. Sono
quadretti staccati della permanenza di Maria in casa di Zaccaria.
Le
giornate ad Ebron. I frutti della carità di Maria verso Elisabetta
- "L'Evangelo come mi è stato
rivelato" di Maria Valtorta
– Libro I capitolo 22
2
aprile 1944.
Vedo,
e pare mattina, Maria che cuce, seduta nella sala terrena. Elisabetta
va e viene occupandosi della casa. E quando entra non manca mai di
andare a porre una carezza sulla testa bionda di Maria, ancor più
bionda sulle pareti piuttosto scure e sotto il raggio del bel sole
che entra dalla porta, aperta sul giardino. Elisabetta si curva a
guardare il lavoro di Maria - è il ricamo che aveva a Nazareth - e
ne loda la bellezza. «Ho anche del lino da filare» dice Maria. «Per
il tuo Bambino?». «No. Lo avevo già quando non pensavo...».
Maria non dice altro. Ma io capisco: «... quando non pensavo di
dover esser Madre di Dio». «Ma ora lo dovrai usare per Lui. E'
bello? Fino? I bambini, sai, hanno bisogno di tela morbidissima».
«So». «Io avevo incominciato... Tardi, perché ho voluto esser
sicura che non era un inganno del Maligno. Per quanto... sentissi in
me una tal gioia che, no, non poteva venire da Satana. Poi... ho
sofferto tanto. Sono vecchia, io, Maria, per essere in questo stato.
Ho molto sofferto. Tu non soffri...» «Io no. Non sono mai stata
tanto bene». «Eh! già! Tu... in te non c’è macchia, se Dio ti
ha scelta per Madre sua. E perciò non sei soggetta alle sofferenze
d'Eva. Il tuo Portato è santo». «Mi par di avere un'ala in cuore
e non un peso. Mi par di avere dentro tutti i fiori e tutti gli
uccellini che cantano a primavera, e tutto il miele e tutto il
sole... Oh! sono felice!». «Benedetta! Anche io, da quando ti ho
vista, non ho più sentito peso, stanchezza e dolore. Mi par d'esser
nuova, giovane, liberata dalle miserie della mia carne di donna. Il
mio bambino, dopo aver balzato felice al suono della tua voce, si è
messo quieto nella sua gioia. E mi pare di averlo, dentro, in una
cuna viva e di vederlo dormire sazio e beato, respirare come un
uccellino felice sotto l'ala della mamma... Ora mi metterò al
lavoro. Non mi peserà più. Ci vedo poco, ma...» «Lascia,
Elisabetta! Ci penserò io a filare e tessere per te e per il tuo
bambino. Io sono svelta e ci vedo bene». «Ma dovrai pensare al
tuo... Oh! ne avrò tutto il tempo!... Prima penso a te, che sei
prossima ad avere il piccolino, e poi penserò al mio Gesù».
Dirle come è dolce l'espressione e la voce di Maria, come le si
imperli l'occhio di un soave, felice pianto, e come Ella rida nel
dirlo, questo Nome, guardando il cielo luminoso e azzurro, è
superiore alle possibilità umane. Pare che l'estasi la rapisca solo
a dire: «Gesù». Elisabetta dice: «Che bel nome! Il Nome del
Figlio di Dio, Salvatore nostro!». «Oh! Elisabetta!». Maria si fa
mesta mesta e afferra le mani che la congiunta ha incrociate sul seno
gonfio. «Dimmi, tu che, quando io venni, sei stata investita dallo
Spirito del Signore e che hai profetizzato ciò che il mondo ignora.
Dimmi, che dovrà fare per salvare il mondo la mia Creatura? I
Profeti... Oh! I Profeti che dicono del Salvatore! Isaia... ricordi
Isaia? "Egli è l'Uomo dei dolori. Per le sue lividure noi
siamo sanati. Egli è stato trafitto e piagato per le nostre
scelleratezze... Il Signore volle consumarlo coi patimenti... Dopo la
condanna fu innalzato...". (Isaia 52, 13-15; 53) Di quale
innalzamento parla? Lo chiamano Agnello e io penso... io penso
all'agnello pasquale, all'agnello mosaico, e connetto questo al
serpente innalzato da Mosè su una croce. Elisabetta!...
Elisabetta!... Che faranno alla mia Creatura? Che dovrà patire per
salvare il mondo?». Maria piange. Elisabetta la consola. «Maria,
non piangere. E' tuo Figlio, ma è anche Figlio di Dio. Dio penserà
al suo Figlio e a te che gli sei Madre. E se tanti saranno con Lui
crudeli, tanti lo ameranno. Tanti!... Per i secoli dei secoli. Il
mondo guarderà al tuo Nato e benedirà te con Lui. Te, sorgente da
cui sgorga redenzione. La sorte del tuo Figlio! Innalzato a Re di
tutto il creato. Pensa a questo, Maria. Re, perché avrà
riscattato tutto il creato e, come tale, ne sarà Re universale. E
anche sulla terra, nel tempo, sarà amato. Il mio nato precederà
il tuo e l'amerà. L'ha detto l'angelo a Zaccaria. Egli me lo ha
scritto... Ah! che dolore vederlo muto, il mio Zaccaria! Ma io spero
che, quando il bambino sarà nato, anche il padre sarà liberato
dal suo castigo. Prega tu, che sei la sede della potenza di Dio e la
causa della letizia del mondo. Per ottenere questo, come posso, offro
al Signore. La mia creatura: perché è sua, avendola Egli prestata
alla sua serva per darle la gioia d'esser chiamata "madre".
E la testimonianza di quanto Dio mi ha fatto. Voglio si chiami
"Giovanni". Non è forse una grazia, egli, il mio bambino?
E non è Dio che me l'ha fatta?». «E Dio, io pure ne sono
convinta, ti farà grazia. Io pregherò... con te». «Ho tanto
dolore vedendolo muto!...» Elisabetta piange. «Quando scrive,
perché non mi può più parlare, mi pare che monti e mari siano
fra me e il mio Zaccaria. Dopo tanti anni di dolci parole, ora sempre
silenzio dalla sua bocca. E ora, in specie, in cui sarebbe così
bello parlare di quello che ha da venire. Mi trattengo persino dal
parlare per non vedere lui che si affatica a gesti a rispondermi. Ho
tanto pianto! Quanto ti ho desiderata! Il paese guarda, chiacchiera e
critica. Il mondo è così. E quando si ha un dolore o una gioia,
si ha bisogno di chi capisce, non di chi critica. Ora mi pare che la
vita sia tutta migliore. Sento la gioia in me da quando tu sei con
me. Sento che la mia prova sta per esser superata e che presto sarò
del tutto felice. Sarà così, non è vero? Io mi rassegno a
tutto. Ma se Dio perdonasse al mio sposo! Poterlo sentire pregare da
capo!».
Maria
l'accarezza e conforta e la invita, per distrarla, ad uscire un poco
nel giardino assolato. Vanno sotto una pergola ben curata sino ad una
torretta rustica, nei cui buchi nidificano i colombi. Maria sparge il
becchime ridendo, perché i colombi le si precipitano addosso con un
gran tubare e uno svolazzìo che le fa cerchi di iridescenze
intorno. Sul capo, sulle spalle, sulle braccia e le mani le si
posano, allungando i becchi rosei per carpirle i granelli dall'incavo
delle mani, becchettando con grazia le rosee labbra della Vergine e i
denti che le brillano al sole. Maria attinge da un sacchetto il grano
biondo e ride in mezzo a quella giostra di avidità invadente. «Come
ti vogliono bene!» dice Elisabetta. «Sono pochi giorni che sei con
noi e ti amano più di quanto non amino me, che li ho sempre
curati». La passeggiata prosegue sino ad un recinto chiuso, in fondo
al frutteto, dove sono una ventina di caprette coi loro caprettini.
«Sei tornato dal pascolo?» chiede Maria ad un piccolo pastore che
accarezza. «Sì, perché mio padre mi ha detto: "Va' a casa,
ché fra poco piove e vi sono pecore prossime a figliare. Fa' che
abbiano erba asciutta e lettiera pronta". Egli è là che
viene». E accenna oltre il bosco, da cui viene un belìo tremulo.
Maria accarezza un caprettino biondo come un bambino, che le si
strofina contro, e insieme a Elisabetta beve del latte appena munto
che il pastorello le offre. Giungono le pecore con un pastore irsuto
come un orso. Ma deve essere un buon uomo, perché porta sulle
spalle una pecora che si lamenta. La posa piano e spiega: «Sta per
avere l'agnello. Non poteva più camminare che a fatica. Me la sono
caricata addosso. Ho fatto tutta una corsa per fare a tempo». La
pecora, zoppicante per i dolori, viene condotta nell'ovile dal
bambino. Maria si è seduta su un sasso e scherza coi caprettini e
gli agnelli, offrendo fiori di trifoglio ai loro musetti rosei. Un
caprettino bianco e nero le mette le zampette su una spalla e le
fiuta i capelli. «Non è pane» ride Maria. «Domani te ne porto
una crosta. Sta' buono, ora». Anche Elisabetta, rasserenata, ride.
Maria
parla del suo Bambino
Vedo
Maria che fila svelta svelta sotto la pergola, dove l'uva aumenta il
suo volume. Deve essere passato del tempo, perché già le mele
cominciano ad arrossire sulle piante e le api ronzano presso i fiori
del fico già maturi. Elisabetta è tutt'affatto grossa e cammina
pesantemente. Maria la guarda con attenzione e amore. Anche Maria,
quando si alza per raccogliere il fuso che le è caduto lontano,
appare più rotonda nei fianchi, e l'espressione del volto è
mutata. Più matura. Prima era una bambina, ora è la donna. Le
donne entrano in casa, perché la sera cala e nella stanza vengono
accese le lampade. In attesa della cena, Maria tesse. «Ma non ti
stanca proprio?» chiede Elisabetta accennando il telaio. «No. Siine
sicura». «A me questo caldo mi spossa. Non ho più sofferto, ma
ora il peso è forte per le mie vecchie reni». «Fatti coraggio.
Presto sarai liberata. Come sarai felice, allora! Io non vedo l'ora
di esser madre. Il mio Bambino! Il mio Gesù! Come sarà?». «Bello
come te, Maria». «Oh, no! Più bello! Egli è Dio. Io sono la sua
serva. Ma dicevo: sarà biondo o sarà bruno? Avrà gli occhi come
il cielo sereno o come quelli dei cervi delle montagne? Io me lo
figuro più bello d'un cherubino, coi capelli ricci e color
dell'oro, con gli occhi del color del nostro mare di Galilea quando
le stelle cominciano ad affacciarsi al confine del cielo, una
bocchina piccina e rossa come il taglio di una melagrana che appena
crepa per maturar di sole, e per gote, ecco, un roseo come questo di
questa pallida rosa, e due manine che starebbero nel cavo di un
giglio tanto sono piccine e belle, e due piedini da starmi nel cavo
della mano, e morbidi e lisci più di petalo di fiore. Vedi. Io
presto all'idea che mi son fatta di Lui tutte le bellezze che mi
suggerisce la terra. E sento la sua voce. Sarà, nel pianto -
perché un poco piangerà per fame o sonno il mio Bambino, e sarà
sempre un gran dolore per la sua Mamma, che non potrà, oh! non
potrà sentirlo piangere senza averne il cuore trapassato - sarà,
nel pianto, come quel belato, che ora viene, di agnellino di poche
ore, che cerca la mammella e il caldo del vello materno per dormire.
Sarà, nel riso che mi empirà di cielo il cuore innamorato della
mia Creatura - posso esser innamorata di Lui, perché è il mio Dio
ed amarlo da amante non è contravvenire alla mia consacrata
verginità - sarà, nel riso, come questo festoso tubare di
colombino, felice per esser sazio e contento sul tepido nido. Lo
penso ai suoi primi passi... un uccellino saltellante su un prato
fiorito. Il prato sarà il cuore della sua Mamma, che starà sotto
ai suoi piedini di rosa con tutto il suo amore per non fargli
incontrare nulla che gli dia dolore. Come lo amerò, il mio Bambino!
Il Figlio mio! Anche Giuseppe lo amerà!». «Ma dovrai pur
dirglielo a Giuseppe!». Maria si oscura e sospira. «Dovrò pur
dirglielo... Avrei voluto glielo avesse a dire il Cielo, perché è
molto difficile a dirsi». «Vuoi che glielo dica io? Lo facciamo
venire per la circoncisione di Giovanni... «No. Ho rimesso a Dio
l'incarico di istruirlo sulla sua sorte felice di nutrizio del Figlio
di Dio, ed Egli lo farà. Lo Spirito mi ha detto, quella sera:
"Taci. Affida a Me il compito di giustificarti".
E
lo farà. Dio non mente mai. E' una grande prova. Ma con l'aiuto
dell'Eterno sarà superata. Dalla mia bocca nessuno, fuorché te a
cui lo Spirito l'ha rivelato, deve sapere quanto la benignità del
Signore ha fatto alla sua serva». «Ho sempre taciuto anche con
Zaccaria, che ne avrebbe giubilato. Egli ti crede madre secondo
natura». «Lo so. E così volli per prudenza. I segreti di Dio sono
santi. L'angelo del Signore non aveva rivelato a Zaccaria la mia
maternità divina. Avrebbe potuto farlo, se Dio l'avesse voluto,
perché Dio sapeva che già era imminente il tempo
dell'Incarnazione del suo Verbo in me. Ma Dio ha tenuto nascosta
questa luce di gioia a Zaccaria, che respingeva come impossibile cosa
la vostra figliolanza tardiva. Mi sono uniformata al volere di Dio.
E, lo vedi. Tu hai sentito il segreto vivente in me. Egli nulla ha
avvertito. Finché non cadrà il diaframma della sua incredulità
davanti alla potenza di Dio, egli sarà separato dalle luci
soprannaturali». Elisabetta sospira e tace.
Entra
Zaccaria. Offre dei rotoli a Maria. E' l'ora della preghiera prima di
cena. E' Maria che prega ad alta voce al posto di Zaccaria. Poi si
siedono a mensa. «Quando non ci sarai più, come rimpiangeremo di
non avere più chi prega per noi» dice Elisabetta, guardando il suo
muto. «Tu pregherai, allora, Zaccaria» dice Maria. Egli scuote il
capo e scrive: «Non potrò mai più pregare per gli altri. Ne sono
divenuto indegno da quando ho dubitato di Dio». «Zaccaria, tu
pregherai. Dio perdona». Il vecchio si asciuga una lacrima e
sospira. Dopo la cena Maria torna al telaio. «Basta!» dice
Elisabetta. «ti stanchi troppo». «Il tempo è prossimo,
Elisabetta. Voglio fare al tuo bambino un corredo degno di colui che
precede il Re della stirpe di Davide». Zaccaria scrive: «Da chi
nascerà Egli? E dove?». Maria risponde: «Dove i Profeti hanno
detto e da chi l'Eterno sceglierà. Tutto ben fatto ciò che il
nostro Signore altissimo fa». Zaccaria scrive: «A Betlem dunque! In
Giudea. L'andremo a venerare, donna. Verrai anche tu con Giuseppe a
Betlem».
E
Maria, curvando il capo sul suo telaio: «Verrò». La visione cessa
così.
Dice Maria:
«La prima delle carità di prossimo va esercitata verso il prossimo. Non ti paia un giuoco di parole. La carità si ha verso Dio e verso il prossimo. Nella carità verso il prossimo è compresa anche quella che va a noi. Ma se ci amiamo più degli altri, non siamo più caritatevoli. Siamo egoisti. Anche nelle cose lecite occorre esser tanto santi da dare sempre la precedenza ai bisogni del prossimo nostro. State sicuri, figli, che Dio ai generosi supplisce con mezzi della sua potenza e bontà. Questa certezza mi ha spinta a Ebron per sovvenire la parente nel suo stato. E alla mia attenzione di soccorso umano, Dio, dando oltre misura come Egli usa, unisce un impensato dono di soccorso soprannaturale. Io vado per portare aiuto materiale, e Dio santifica la mia retta intenzione col fare, di essa, santificazione del frutto del seno di Elisabetta e, attraverso a questa santificazione, per cui il Battista fu presantificato, annullare la sofferenza fisica della matura figlia d'Eva concepente ad età inusata. Elisabetta, donna di fede intrepida e di fiducioso abbandono al volere di Dio, merita di comprendere il mistero chiuso in me. Lo Spirito le parla attraverso il balzare del suo seno. Il Battista ha pronunciato il suo primo discorso di Annunziatore del Verbo attraverso i veli e i diaframmi di vene e di carne, che lo separano e insieme lo uniscono alla sua santa genitrice. Né io nego, a lei che ne è degna e alla quale la Luce si svela, la mia qualità di Madre del Signore. Negarla sarebbe stato negare a Dio la lode che era giusto dargli, la lode che portavo in me e che, non potendola dire ad alcuno, dicevo alle erbe, ai fiori, alle stelle, al sole, ai canori uccelli e alle pazienti pecore, alle acque canterine e alla luce d'oro che mi baciava scendendo dal cielo. Ma pregare in due è più dolce che dire da sole la nostra preghiera. Avrei voluto che tutto il mondo sapesse la mia sorte, non per me, ma perché a me si unisse per lodare il mio Signore. La prudenza mi ha vietato di rivelare a Zaccaria la verità. Sarebbe stato andare oltre l'opera di Dio. E se io ero la sua Sposa e Madre, ero sempre la sua Serva e non dovevo, perché Egli mi aveva amata oltre misura, permettermi di sostituirmi a Lui e di superarlo in un decreto. Elisabetta, nella sua santità, comprende e tace. Perché chi è santo è sempre remissivo e umile. Il dono di Dio deve farci sempre più buoni. Più da Lui riceviamo e più dobbiamo dare. Perché più riceviamo e più è segno che Egli è in noi e con noi. E più Egli è in noi e con noi, e più noi dobbiamo sforzarci a raggiungere la sua perfezione. Ecco perché io, posponendo il mio lavoro, lavoro per Elisabetta. Non mi lascio prendere dalla paura di non avere tempo. Dio è padrone del tempo. A chi spera in Lui, anche nelle cose usuali, Egli provvede. L'egoismo non affretta, ritarda. La carità non ritarda, affretta. Tenetevelo sempre presente. Quanta pace nella casa di Elisabetta! Se non avessi avuto il pensiero di Giuseppe e quello, quello, quello del mio Bambino che era il Redentore del mondo, sarei stata felice. Ma già la Croce gettava la sua ombra sulla mia vita e, come suono funebre, sentivo le voci dei Profeti... Mi chiamavo: Maria. L'amarezza era sempre mescolata alle dolcezze che Dio versava nel mio cuore. Ed è sempre andata aumentando sino alla morte del Figlio mio. Ma quando Dio ci chiama, Maria, ad una sorte di vittime per il suo onore, oh! dolce esser frante come grano nella mola, per fare del nostro dolore il pane che corrobora i deboli e li fa capaci di raggiungere il Cielo! Ora basta. Sei stanca e beata. Riposa con la mia benedizione».
Dice Maria:
«La prima delle carità di prossimo va esercitata verso il prossimo. Non ti paia un giuoco di parole. La carità si ha verso Dio e verso il prossimo. Nella carità verso il prossimo è compresa anche quella che va a noi. Ma se ci amiamo più degli altri, non siamo più caritatevoli. Siamo egoisti. Anche nelle cose lecite occorre esser tanto santi da dare sempre la precedenza ai bisogni del prossimo nostro. State sicuri, figli, che Dio ai generosi supplisce con mezzi della sua potenza e bontà. Questa certezza mi ha spinta a Ebron per sovvenire la parente nel suo stato. E alla mia attenzione di soccorso umano, Dio, dando oltre misura come Egli usa, unisce un impensato dono di soccorso soprannaturale. Io vado per portare aiuto materiale, e Dio santifica la mia retta intenzione col fare, di essa, santificazione del frutto del seno di Elisabetta e, attraverso a questa santificazione, per cui il Battista fu presantificato, annullare la sofferenza fisica della matura figlia d'Eva concepente ad età inusata. Elisabetta, donna di fede intrepida e di fiducioso abbandono al volere di Dio, merita di comprendere il mistero chiuso in me. Lo Spirito le parla attraverso il balzare del suo seno. Il Battista ha pronunciato il suo primo discorso di Annunziatore del Verbo attraverso i veli e i diaframmi di vene e di carne, che lo separano e insieme lo uniscono alla sua santa genitrice. Né io nego, a lei che ne è degna e alla quale la Luce si svela, la mia qualità di Madre del Signore. Negarla sarebbe stato negare a Dio la lode che era giusto dargli, la lode che portavo in me e che, non potendola dire ad alcuno, dicevo alle erbe, ai fiori, alle stelle, al sole, ai canori uccelli e alle pazienti pecore, alle acque canterine e alla luce d'oro che mi baciava scendendo dal cielo. Ma pregare in due è più dolce che dire da sole la nostra preghiera. Avrei voluto che tutto il mondo sapesse la mia sorte, non per me, ma perché a me si unisse per lodare il mio Signore. La prudenza mi ha vietato di rivelare a Zaccaria la verità. Sarebbe stato andare oltre l'opera di Dio. E se io ero la sua Sposa e Madre, ero sempre la sua Serva e non dovevo, perché Egli mi aveva amata oltre misura, permettermi di sostituirmi a Lui e di superarlo in un decreto. Elisabetta, nella sua santità, comprende e tace. Perché chi è santo è sempre remissivo e umile. Il dono di Dio deve farci sempre più buoni. Più da Lui riceviamo e più dobbiamo dare. Perché più riceviamo e più è segno che Egli è in noi e con noi. E più Egli è in noi e con noi, e più noi dobbiamo sforzarci a raggiungere la sua perfezione. Ecco perché io, posponendo il mio lavoro, lavoro per Elisabetta. Non mi lascio prendere dalla paura di non avere tempo. Dio è padrone del tempo. A chi spera in Lui, anche nelle cose usuali, Egli provvede. L'egoismo non affretta, ritarda. La carità non ritarda, affretta. Tenetevelo sempre presente. Quanta pace nella casa di Elisabetta! Se non avessi avuto il pensiero di Giuseppe e quello, quello, quello del mio Bambino che era il Redentore del mondo, sarei stata felice. Ma già la Croce gettava la sua ombra sulla mia vita e, come suono funebre, sentivo le voci dei Profeti... Mi chiamavo: Maria. L'amarezza era sempre mescolata alle dolcezze che Dio versava nel mio cuore. Ed è sempre andata aumentando sino alla morte del Figlio mio. Ma quando Dio ci chiama, Maria, ad una sorte di vittime per il suo onore, oh! dolce esser frante come grano nella mola, per fare del nostro dolore il pane che corrobora i deboli e li fa capaci di raggiungere il Cielo! Ora basta. Sei stanca e beata. Riposa con la mia benedizione».
Nascita
di Giovanni Battista. Ogni sofferenza si placa sul seno di
Maria."L'Evangelo come mi è stato
rivelato" di Maria Valtorta
– Libro I capitolo 23
3
aprile 1944.
In
mezzo alle ripugnanti cose che ci offre il mondo di ora, scende dal
Cielo - e non so come lo possa fare, dato che io sono come un
fuscello in preda al vento in questi continui urti contro la
malvagità umana, così discorde da quanto vive in me - scende dal
Cielo questa visione di pace.
Ancora
e sempre la casa di Elisabetta. In una bella sera d'estate, ancor
chiara di un ultimo sole e pur già ornata nel cielo da un arco
falcato di luna, che pare una virgola d'argento messa su un gran
drappo azzurro intenso.
I
rosai odorano fortemente e le api fanno gli ultimi voli, gocce d'oro
ronzanti nell'aria cheta e calda della sera. Dai prati viene un
grande odore di fieni asciugati al sole, un odor di pane quasi, di
pane caldo, appena sfornato. Forse viene anche dai molti teli stesi
ad asciugare per ogni dove e che ora Sara piega. Maria passeggia
dando braccio alla cugina. Adagio adagio vanno su e giù, sotto la
pergola semioscura. Ma Maria ha occhio a tutto e, pur occupandosi di
Elisabetta, vede che Sara è impicciata a ripiegare un lungo telo
che ha tolto da una siepe. «Attendimi qui seduta» dice alla
parente. E va ad aiutare la vecchia servente, tirando la tela per
raddrizzarla e piegandola poi con cura. «Sanno ancora di sole, sono
caldi» dice con un sorriso. E per far felice la donna aggiunge:
«Questa tela, dopo la tua imbiancatura, è diventata bella quanto
mai. Non ci sei che te che sai fare così bene». Sara se ne va
gongolante col suo carico di tele fragranti. Maria torna da
Elisabetta e dice: «Ancora un pochino di passi. Ti faranno bene». E
siccome Elisabetta, stanca, non vorrebbe muoversi, le dice: «Andiamo
soltanto a vedere se i tuoi colombi sono tutti nei loro nidi e se
l'acqua della loro vasca è monda. Poi torniamo in casa».
I
colombi devono essere i prediletti di Elisabetta. Quando sono davanti
alla rustica torretta dove già i colombi sono tutti raccolti - le
femmine nelle cove, i maschi davanti alle stesse e non si muovono, ma
vedendo le due donne hanno ancora un cruccolio di saluto - Elisabetta
si commuove. La debolezza del suo stato la soverchia e le dà dei
timori che la fanno piangere. Li appalesa alla cugina. «Se avessi a
morire... poveri colombini miei! Tu non resti. Restassi tu nella mia
casa, non mi importerebbe di morire. Ho avuto il massimo di gioia che
donna possa avere, una gioia che m'ero rassegnata a non conoscere
mai, ed anche della morte non posso lamentarmi col Signore perché
Egli, ne sia benedetto, mi ha colmata della sua benignità. Ma c'è
Zaccaria... e ci sarà il bambino. Uno vecchio e che si troverebbe
come perduto in un deserto senza la sua donna. L'altro così piccino
che sarebbe come fiore destinato a morir di gelo, perché senza la
sua mamma. Povero bambino senza carezze della madre!...» «Ma
perché triste così? Dio ti ha dato la gioia d'esser madre, né
te la leverà quando essa è piena. Il piccolo Giovanni avrà
tutti i baci della mamma e Zaccaria tutte le cure della sposa fedele
sino alla più tarda vecchiezza. Siete due rami di una stessa
pianta. Uno non morrà lasciando l'altro solo». «Tu sei buona e mi
conforti. Ma io sono vecchia tanto per avere un figlio. Ed ora che
sto per averlo ho paura». «Oh! no! C'è qui Gesù! Non bisogna
aver paura dove è Gesù. Il mio Bambino ti ha levato la
sofferenza, tu l'hai detto, quando era come un boccio appena formato.
Ora che sempre più si completa e già vive come creatura mia - ne
sento battere il cuoricino nella mia gola e mi par di aver posato su
essa un uccellino di nido dal cuoricino pulsante leggero - leverà
da te ogni pericolo. Devi aver fede». «Ne ho. Ma se morissi... non
lasciare subito Zaccaria. So che pensi alla tua casa. Ma resta un
poco ancora. Per aiutare l'uomo mio nel primo dolore». «Io resterò
per bearmi della tua e della sua gioia, e ti lascerò quando sarai
forte e lieta. Ma stai quieta, Elisabetta. Tutto andrà bene. La tua
casa non soffrirà di nulla mentre tu soffrirai. Zaccaria sarà
servito dalla più amorosa ancella, i tuoi fiori saranno curati, e
curati i colombi, e li troverai, questi e quelli, lieti e belli per
far festa alla ben tornata padrona. Rientriamo, ora, perché tu
impallidisci...». «Sì, mi pare di soffrire di nuovo. Forse l'ora
è giunta. Maria, prega per me». «Ti sorreggerò con la preghiera
finché il tuo travaglio non sarà finito in gioia».
E
le due donne rientrano lentamente in casa. Elisabetta si ritira nelle
sue stanze. Maria, destra e previdente, dà ordini e prepara tutto
quanto può occorrere, e conforta Zaccaria impensierito. Nella casa,
che veglia in questa notte e dove ci sono voci estranee di donne
chiamate in aiuto, Maria resta vigile come un faro in una notte di
tempesta. Tutta la casa gravita su Lei. Ed Ella, dolce e sorridente,
provvede a tutto. E prega. Quando non è chiamata per questo o
quello, Ella si raccoglie in preghiera. E' nella stanza dove si
raccoglievano sempre per i pasti e per il lavoro. E con Lei è
Zaccaria, che sospira e passeggia turbato. Hanno già pregato
insieme. Poi Maria ha continuato a pregare. Anche ora che il vecchio,
stanco, si è seduto sul suo seggiolone presso la tavola e tace
sonnacchioso, Ella prega. E quando lo vede dormire del tutto, col
capo sulle braccia conserte appoggiate al tavolo, Ella si slaccia i
sandali per far meno rumore e cammina scalza e, facendo meno chiasso
di quanto può farne una farfalla aggirandosi per una camera, Ella
prende il mantello di Zaccaria e glielo stende sopra con leggerezza
tale che egli continua a dormire nel tepore della lana che lo difende
dal fresco notturno, che entra a sbuffi dalla porta di sovente
aperta. Poi torna a pregare. E sempre più intensamente prega, in
ginocchio, a braccia alzate, quando il lamento della sofferente si fa
più acuto.
Sara
entra e le fa cenno di uscire. Maria esce, coi suoi piedi scalzi, nel
giardino. «La padrona vi vuole» dice. «Vengo» e Maria cammina
lungo la casa, sale la scala... Pare un angelo bianco che si aggiri
nella notte quieta e piena di astri. Entra da Elisabetta. «Oh!
Maria! Maria! Quanto dolore! Non ne posso più, Maria! Quanto dolore
si deve soffrire per esser madre!». Maria la carezza con amore e la
bacia. «Maria! Maria! Lasciami mettere le mani sul tuo seno!».
Maria prende le due mani rugose e gonfie e se le posa sull'addome
arrotondato, tenendole premute con le sue manine lisce e sottili. E
parla piano, ora che sono sole: «Gesù è lì che ti sente e
vede. Confida, Elisabetta. Il suo cuore santo batte più forte,
poiché Egli ora opera per il tuo bene. Lo sento palpitare come lo
avessi fra mano e mano. Io le capisco le parole di palpito che mi
dice il mio Bambino. Egli ora mi dice: "Di' alla donna che non
tema. Ancora un poco di dolore. E poi, col primo sole, fra le tante
rose che aspettano quel raggio mattutino per aprirsi sullo stelo, la
sua casa avrà la rosa più bella, e sarà Giovanni, il mio
Precursore". Elisabetta posa anche il volto sul seno di Maria e
piange piano. Maria sta qualche tempo così, poiché pare che il
dolore si assopisca in una sosta di ristoro. E accenna a tutti di
star quieti. Resta in piedi, bianca e bella nel tenue chiarore di un
lume ad olio, come un angelo presso chi soffre. Prega. Le vedo
muovere le labbra. Ma, anche se non le vedessi muovere, capirei che
prega dall'espressione rapita del viso.
Il
tempo passa. E il dolore riprende Elisabetta. Maria la bacia
nuovamente e si ritira. Scende svelta nel raggio di luna e corre a
vedere se il vecchio dorme ancora. Dorme, e geme nel sonno. Maria ha
un gesto di pietà. Si rimette a pregare. Passa il tempo. Il vecchio
si scuote dal suo sonno ed alza un volto confuso, come di chi mal si
sovviene perché è lì. Poi ricorda. Ha un gesto e
un'esclamazione gutturale. Poi scrive: «Non è nato ancora?».
Maria fa un cenno di diniego. Zaccaria scrive: «Quanto dolore!
Povera donna mia! Riuscirà senza morirne?». Maria prende la mano
del vecchio e lo rassicura: «All'alba, fra poco, il bambino sarà
nato. Tutto andrà bene. Elisabetta è forte. Come sarà bello
questo giorno - poiché fra poco è giorno - in cui il tuo bambino
vedrà la luce! Il più bello della tua vita! Grazie grandi ha in
serbo per te il Signore, e il tuo bambino ne è l'annunziatore».
Zaccaria scuote il capo mestamente e accenna alla sua bocca muta.
Vorrebbe dire tante cose e non può. Maria comprende e risponde: «Il
Signore farà completa la tua gioia. Credi in Lui completamente,
spera infinitamente, ama totalmente. L'Altissimo ti esaudirà più
che tu non osi sperarlo. Egli vuole questa tua fede totale a lavacro
della tua diffidenza passata. Di' nel tuo cuore, con me: "Credo".
Dillo ad ogni battito del cuore. I tesori di Dio si aprono a chi
crede in Lui e nella sua potente bontà».
La
luce comincia a penetrare dalla porta socchiusa. Maria l'apre. L'alba
fa tutta bianca la terra rugiadosa. C'è un grande odore di terra
umida e di verde, e i primi zirli di uccelli si chiamano da ramo a
ramo. Il vecchio e Maria vanno sulla porta. Sono pallidi per la notte
insonne e la luce dell'alba li fa ancor più pallidi. Maria si
rimette i suoi sandali e va ai piedi della scala e ascolta. E quando
una donna si affaccia, accenna e poi torna. Nulla ancora. Maria va in
una stanza e torna con del latte caldo che fa bere al vecchio, va dai
colombi, torna a scomparire in quella stanza. Forse è la cucina.
Gira, sorveglia. Pare abbia dormito il più bel sonno, tanto è
svelta e serena. Zaccaria passeggia nervosamente su e giù per il
giardino. Maria lo guarda con pietà. Poi entra di nuovo nella
stanza solita e, inginocchiata presso il suo telaio, prega
intensamente, perché il lagno della sofferente si fa più acuto.
Si curva fino a terra per supplicare l'Eterno. Zaccaria rientra e la
vede così prostrata e piange, il povero vecchio. Maria si alza e lo
prende per mano. E' tanto più giovane, ma pare Lei la mamma di
quella vecchiezza desolata, e versa su essa i suoi conforti.
Stanno
così l'uno presso l'altra nel sole che fa rosea l'aria del mattino,
e così li raggiunge l'annuncio festante: «E' nato! E' nato! Un
maschio! Padre felice! Un maschio florido come una rosa, bello come
il sole, forte e buono come la madre. Gioia a te, padre benedetto dal
Signore, che un figlio ti ha dato perché tu lo offra al suo Tempio.
Gloria a Dio, che ha concesso posteritàa
questa casa! Benedizione a te ed al figlio che ti è nato! Possa la
sua progenie perpetuare il tuo nome nei secoli dei secoli per
generazioni e generazioni, e sia sempre in alleanza col Signore
eterno». Maria con lacrime di gioia benedice il Signore. E poi i due
ricevono il piccolo, portato al padre perché lo benedica. Zaccaria
non va da Elisabetta. Riceve il bambino, che strilla come un
disperato, ma non va dalla moglie. Ci va Maria, portando con amore il
piccino, il quale tace subito non appena Lei lo prende fra le
braccia. La comare che la segue nota il fatto. «Donna» dice a
Elisabetta. «Il tuo bambino ha subito taciuto quando Ella lo ha
preso. Guarda come dorme quieto. E lo sa il Cielo quanto è inquieto
e forte. Ora, guarda! Pare un colombino». Maria posa la creatura
presso la madre e la carezza ravviandole i capelli grigi. «La rosa
è nata» le dice piano. «E tu sei viva. Zaccaria è felice».
«Parla?». «Non ancora. Ma spera nel Signore. Riposa, adesso. Io
sto con te».
Dice
Maria:
«Se la mia presenza aveva santificato il Battista, non aveva levato ad Elisabetta la condanna venuta da Eva. "Tu darai dei figli con dolore" aveva detto l'Eterno. Io sola, senza macchia e che non avevo avuto coniugio umano, fui esente dal generare con dolore. La tristezza e il dolore sono i frutti della colpa. Io, che ero l'Incolpevole, dovetti conoscere anche il dolore e la tristezza, perché ero la Corredentrice. Ma non conobbi lo strazio del generare. No. Non conobbi questo strazio. Ma credimi, o figlia, che non vi fu né vi sarà mai strazio di puerperio simile al mio di Martire di una Maternità spirituale che si è compita sul più duro letto, quello della mia croce, ai piedi del patibolo del Figlio che mi moriva. E quale la madre che si trovi costretta a generare in tal modo? A mescolare lo strazio delle viscere, che si lacerano per i rantoli della sua Creatura morente, a quello delle viscere che si convellono per dover superare l'orrore di dover dire: "Vi amo. Venite a me che vi son Madre" agli uccisori del Figlio nato dal più sublime amore che abbia mai visto il Cielo, dall'amore di un Dio con una vergine, dal bacio di Fuoco, dall'abbraccio di Luce che si fecero Carne, e di un seno di donna fecero il Tabernacolo di Dio? "Quanto dolore per esser madre!" dice Elisabetta. Tanto! Ma un nulla rispetto al mio. "Lasciami mettere le mani sul tuo seno". Oh! se nel vostro soffrire mi chiedeste sempre questo! Io sono l'eterna Portatrice di Gesù. Egli è nel seno mio, come tu lo hai visto lo scorso anno, come Ostia nell'ostensorio. Chi viene a me, Lui trova. Chi a me si appoggia, Lui tocca. Chi a me si volge, con Lui parla. Io sono la sua veste. Egli è l'anima mia. Più, più ancora unito, ora, di quanto non fosse nei nove mesi che mi cresceva in seno, il Figlio mio è unito alla sua Mamma. E si assopisce ogni dolore, e fiorisce ogni speranza, e fluisce ogni grazia a chi viene a me e mi posa il suo capo sul seno. Io prego per voi. Ricordatevelo. La beatitudine d'esser nel Cielo, vivente nel raggio di Dio, non mi smemora dei miei figli che soffrono sulla terra. Ed io prego. Tutto il Cielo prega. Poiché il Cielo ama. Il Cielo è carità che vive. E la carità ha pietà di voi. Ma, non ci fossi che io, vi sarebbe già sufficiente preghiera per i bisogni di chi spera in Dio. Poiché io non cesso di pregare per voi tutti, santi e malvagi, per dare ai santi la gioia, per dare ai malvagi il pentimento che salva. Venite, venite, o figli del mio dolore. Vi attendo ai piedi della Croce per darvi grazia».
«Se la mia presenza aveva santificato il Battista, non aveva levato ad Elisabetta la condanna venuta da Eva. "Tu darai dei figli con dolore" aveva detto l'Eterno. Io sola, senza macchia e che non avevo avuto coniugio umano, fui esente dal generare con dolore. La tristezza e il dolore sono i frutti della colpa. Io, che ero l'Incolpevole, dovetti conoscere anche il dolore e la tristezza, perché ero la Corredentrice. Ma non conobbi lo strazio del generare. No. Non conobbi questo strazio. Ma credimi, o figlia, che non vi fu né vi sarà mai strazio di puerperio simile al mio di Martire di una Maternità spirituale che si è compita sul più duro letto, quello della mia croce, ai piedi del patibolo del Figlio che mi moriva. E quale la madre che si trovi costretta a generare in tal modo? A mescolare lo strazio delle viscere, che si lacerano per i rantoli della sua Creatura morente, a quello delle viscere che si convellono per dover superare l'orrore di dover dire: "Vi amo. Venite a me che vi son Madre" agli uccisori del Figlio nato dal più sublime amore che abbia mai visto il Cielo, dall'amore di un Dio con una vergine, dal bacio di Fuoco, dall'abbraccio di Luce che si fecero Carne, e di un seno di donna fecero il Tabernacolo di Dio? "Quanto dolore per esser madre!" dice Elisabetta. Tanto! Ma un nulla rispetto al mio. "Lasciami mettere le mani sul tuo seno". Oh! se nel vostro soffrire mi chiedeste sempre questo! Io sono l'eterna Portatrice di Gesù. Egli è nel seno mio, come tu lo hai visto lo scorso anno, come Ostia nell'ostensorio. Chi viene a me, Lui trova. Chi a me si appoggia, Lui tocca. Chi a me si volge, con Lui parla. Io sono la sua veste. Egli è l'anima mia. Più, più ancora unito, ora, di quanto non fosse nei nove mesi che mi cresceva in seno, il Figlio mio è unito alla sua Mamma. E si assopisce ogni dolore, e fiorisce ogni speranza, e fluisce ogni grazia a chi viene a me e mi posa il suo capo sul seno. Io prego per voi. Ricordatevelo. La beatitudine d'esser nel Cielo, vivente nel raggio di Dio, non mi smemora dei miei figli che soffrono sulla terra. Ed io prego. Tutto il Cielo prega. Poiché il Cielo ama. Il Cielo è carità che vive. E la carità ha pietà di voi. Ma, non ci fossi che io, vi sarebbe già sufficiente preghiera per i bisogni di chi spera in Dio. Poiché io non cesso di pregare per voi tutti, santi e malvagi, per dare ai santi la gioia, per dare ai malvagi il pentimento che salva. Venite, venite, o figli del mio dolore. Vi attendo ai piedi della Croce per darvi grazia».
Circoncisione
di Giovanni Battista. Maria è Sorgente di Grazia per chi accoglie
la Luce. "L'Evangelo come mi è
stato rivelato" di Maria
Valtorta – Libro I capitolo 24
4
aprile 1944.
Vedo
la casa in festa. E' il giorno della circoncisione. Maria ha curato
che tutto sia bello e in ordine. Le stanze splendono di luce, e le
stoffe più belle, i più begli arredi splendono per ogni dove. Vi
è molta gente. Maria si muove agile fra i gruppi, tutta bella nella
sua più bella veste bianca. Elisabetta, riverita come una matrona,
gode felice la sua festa. Il bambino le posa in grembo, sazio di
latte.
Viene
l'ora della circoncisione. «Zaccaria lo chiameremo. Tu sei vecchio.
E' bene che il tuo nome sia dato al bambino» dicono degli uomini.
«No davvero!» esclama la madre. «Il suo nome è Giovanni. Deve
testimoniare, il suo nome, della potenza di Dio». «Ma quando mai vi
fu un Giovanni nella nostra parentela?». «Non importa. Egli deve
chiamarsi Giovanni». «Che dici, Zaccaria? Vuoi il tuo nome, non è
vero?». Zaccaria fa cenni di diniego. Prende la tavoletta e scrive:
«Il suo nome è Giovanni» e, appena finito di scrivere, aggiunge
con la sua lingua liberata: «poiché Dio ha fatto grande grazia a
me suo padre e alla madre sua e a questo suo novello servo, che
consumerà la sua vita per la gloria del Signore e grande sarà
chiamato nei secoli e agli occhi di Dio, perché passerà
convertendo i cuori al Signore altissimo. L'angelo l'ha detto ed io
non l'ho creduto. Ma ora credo e la Luce si fa in me. Ella è fra
noi e voi non la vedete. La sua sorte sarà di non esser veduta,
perché gli uomini hanno lo spirito ingombro e pigro. Ma il figlio
mio la vedrà e parlerà di Lei e a Lei volgerà i cuori dei
giusti d'Israele. Oh! beati coloro che ad essa crederanno e
crederanno sempre alla Parola del Signore. E Tu benedetto Signore
eterno, Dio d'Israele, perché hai visitato e redento il tuo popolo
suscitandoci un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo.
Come promettesti per bocca dei santi Profeti, fin dai tempi antichi,
di liberarci dai nostri nemici e dalle mani di quelli che ci odiano,
per esercitare la tua misericordia verso i nostri padri e mostrarti
memore della tua santa alleanza. Questo è il giuramento che facesti
ad Abramo nostro padre: di concederci che senza timore, liberi dalle
mani dei nostri nemici, noi serviamo Te con santità e giustizia nel
tuo cospetto per tutta la vita...» e continua fino alla fine. (Ho
scritto fin qui perché, come lei vede, Zaccaria si volge
direttamente a Dio).
I
presenti stupiscono. E del nome, e del miracolo, e delle parole di
Zaccaria. Elisabetta, che alla prima parola di Zaccaria ha avuto un
urlo di gioia, ora piange tenendosi abbracciata a Maria, che la
carezza felice.
Non
vedo la circoncisione. Vedo solo riportare Giovanni strillante
disperato. Neppure il latte della mamma lo calma. Scalcia come un
puledrino. Ma Maria lo prende e lo ninna, ed egli tace
e
si mette buono. «Ma guardate!» dice Sara. «Egli non tace altro che
quando Ella lo piglia!». La gente se ne va lentamente. Nella stanza
restano unicamente Maria col piccino fra le braccia e Elisabetta
beata.
Entra
Zaccaria e chiude la porta. Guarda Maria con le lacrime agli occhi.
Vuol parlare. Poi tace. Si avanza. Si inginocchia davanti a Maria.
«Benedici il misero servo del Signore» le dice. «Benedicilo
poiché tu lo puoi fare, tu che lo porti in seno. La parola di Dio
mi ha parlato quando io ho riconosciuto il mio errore ed ho creduto a
tutto quanto m'era stato detto. Io vedo te e la tua felice sorte. Io
adoro in te il Dio di Giacobbe. Tu, mio primo Tempio, dove il
ritornato sacerdote può novellamente pregare l'Eterno. Te
benedetta, che hai ottenuto grazia per il mondo e porti ad esso il
Salvatore. Perdona al tuo servo se non ha visto prima la tua maestà.
Tutte le grazie tu ci hai portato con la tua venuta, ché dove tu
vai, o Piena di Grazia, Dio opera i suoi prodigi, e sante son quelle
mura in cui tu entri, sante si fan le orecchie che intendono la tua
voce e le carni che tu tocchi. Santi i cuori, poiché tu dai Grazia,
Madre dell'Altissimo, Vergine profetizzata e attesa per dare al
popolo di Dio il Salvatore».
Maria
sorride, accesa da umiltà. E parla: «Lode al Signore. A Lui solo.
Da Lui, non da me viene ogni grazia. Ed Egli te la largisce perché
tu lo ami e serva in perfezione, nei restanti anni, per meritare il
suo Regno che il Figlio mio aprirà ai Patriarchi, ai Profeti, ai
giusti del Signore. E tu, ora che puoi pregare davanti al Santo,
prega per la serva dell'Altissimo. Ché esser Madre del Figlio di
Dio è sorte beata, esser Madre del Redentore deve esser sorte di
dolore atroce. Prega per me, che ora per ora sento crescere il mio
peso di dolore. E tutta una vita dovrò portarlo. E, se anche non ne
vedo i particolari, sento che sarà più peso che se su queste mie
spalle di donna si posasse il mondo ed io lo avessi ad offrire al
Cielo. Io, io sola, povera donna! Il mio Bambino! Il Figlio mio! Ah!
che ora il tuo non piange se io lo cullo. Ma potrò io cullare il
mio per calmargli il dolore?... Prega per me, sacerdote di Dio. Il
mio cuore trema come fiore sotto la bufera. Guardo gli uomini e li
amo. Ma vedo dietro i loro volti apparire il Nemico e farli nemici a
Dio, a Gesù Figlio mio...»
E
la visione cessa col pallore di Maria e le sue lacrime che le fanno
lucido lo sguardo.
Dice
Maria:
«A chi riconosce il suo fallo e se ne pente e accusa con umiltà e cuor sincero, Dio perdona. Non perdona soltanto, compensa. Oh! il mio Signore quanto è buono con chi è umile e sincero! Con chi crede in Lui e a Lui si affida!
«A chi riconosce il suo fallo e se ne pente e accusa con umiltà e cuor sincero, Dio perdona. Non perdona soltanto, compensa. Oh! il mio Signore quanto è buono con chi è umile e sincero! Con chi crede in Lui e a Lui si affida!
Sgombrate
il vostro spirito da quanto lo rende ingombro e pigro. Fatelo
disposto ad accogliere la Luce. Come faro nelle tenebre, Essa è
guida e conforto santo. Amicizia con Dio, beatitudine dei suoi
fedeli, ricchezza che nessuna altra cosa uguaglia, chi ti possiede
non è mai solo né sente l'amaro della disperazione. Non annulli
il dolore, santa amicizia, perché il dolore fu sorte di un Dio
incarnato e può esser sorte dell'uomo. Ma rendi questo dolore dolce
nel suo amaro e vi mescoli una luce e una carezza che, come tocco
celeste, sollevano la croce.
E
quando la Bontà divina vi dà una grazia, usate del bene ricevuto
per dar gloria a Dio. Non siate come dei folli che di un oggetto
buono si fanno arma nociva, o come i prodighi che di una ricchezza si
fanno una miseria.
Troppo
dolore mi date, o figli, dietro ai cui volti vedo apparire il Nemico,
colui che si scaglia contro il mio Gesù. Troppo dolore! Vorrei
esser per tutti la Sorgente della Grazia. Ma troppi fra voi la Grazia
non la vogliono. Chiedete grazie ma con l'anima priva di Grazia. E
come può la Grazia soccorrervi se voi le siete nemici?
Il
grande mistero del Venerdì santo si approssima. Tutto nei templi lo
ricorda e celebra. Ma occorre celebrarlo e ricordarlo nei vostri
cuori e battersi il petto, come coloro che scendevano dal Golgota, e
dire: "Costui è realmente il Figlio di Dio, il Salvatore",
e dire: "Gesù, per il tuo Nome, salvaci", e dire: "Padre,
perdonaci". E dire infine: "Signore, io non son degno. Ma
se Tu mi perdoni e vieni a me, la mia anima sarà guarita, ed io non
voglio, no, non voglio più peccare, per non tornare ammalato e in
odio a Te". Pregate, figli, con le parole del Figlio mio. Dite
al Padre pei vostri nemici: "Padre, perdona loro". Chiamate
il Padre che si è ritirato sdegnato dei vostri errori: “Padre,
Padre, perché mi hai Tu abbandonato? Io sono peccatore. Ma se Tu mi
abbandoni, perirò. Torna, Padre santo, che io mi salvi”.
Affidate, all'Unico che lo può conservare illeso dal demonio, il
vostro eterno bene, lo spirito vostro: "Padre, nelle tue mani
confido lo spirito mio". Oh! che se umilmente e amorosamente
cedete il vostro spirito a Dio, Egli ve lo conduce come un padre il
suo piccino, né permette che nulla allo spirito vostro faccia male.
Gesù, nelle sue agonie, ha pregato per insegnarvi a pregare. Io ve
lo ricordo in questi giorni di Passione.
E
tu, Maria, tu che vedi la mia gioia di Madre e te ne estasi, pensa e
ricorda che ho posseduto Dio attraverso ad un dolore sempre
crescente. E' sceso in me col Germe di Dio e come albero gigante è
cresciuto sino a toccare il Cielo con la vetta e l'inferno con le
radici, quando ricevetti nel grembo la spoglia esanime della Carne
della mia carne, e ne vidi e numerai gli strazi e ne toccai il Cuore
squarciato per consumare il Dolore sino all'ultima stilla».
Presentazione
di Giovanni Battista al Tempio e partenza di Maria. La Passione di
Giuseppe. "L'Evangelo come mi è
stato rivelato" di Maria
Valtorta – Libro I capitolo 25
6
aprile 1944.
Nella
notte fra il mercoledì e il giovedì della settimana santa vedo
così. Da un comodo carro, al quale è legato anche il somarello di
Maria, vedo scendere Zaccaria, Elisabetta e Maria con in braccio il
piccolo Giovanni, e Samuele con un agnello e una cesta col colombo.
Scendono davanti al solito stallaggio, che deve esser la tappa di
tutti i pellegrini al Tempio, per depositare le loro cavalcature.
Maria chiama l'ometto che ne è padrone e chiede se nessun nazareno
è giunto nella giornata di ieri o nelle prime ore del mattino.
«Nessuno, donna» risponde il vecchietto. Maria resta stupita, ma
non aggiunge altro. Fa sistemare da Samuele il ciuchino e poi
raggiunge i due maturi genitori e spiega il ritardo di Giuseppe:
«Sarà stato trattenuto da qualche cosa. Ma oggi verrà certo».
Riprende il bambino, che aveva consegnato a Elisabetta, e si avviano
al Tempio.
Zaccaria
è ricevuto con onore dalle guardie e salutato e complimentato da
altri sacerdoti. E' tutto bello, oggi, Zaccaria nelle sue vesti
sacerdotali e nella sua gioia di padre felice. Pare un patriarca.
Penso che Abramo gli doveva somigliare quando gioiva di offrire
Isacco al Signore. Vedo la cerimonia della presentazione del nuovo
israelita e la purificazione della madre. Ed è ancor più pomposa
di quella di Maria, perché per il figlio di un sacerdote i
sacerdoti fanno gran festa. Accorrono in massa e si danno un gran da
fare intorno al gruppetto delle donne e del neonato. Anche della
gente si è accostata curiosa e odo i commenti. Dato che Maria ha
sulle braccia l'infante mentre si avviano al luogo stabilito, la
gente la crede la madre. Ma una donna dice: «Non può essere. Non
vedete che Ella è incinta? Il bambino non ha più di pochi giorni
ed Ella è già grossa». «Eppure» dice un altro «non può
esser che Ella la madre. L'altra è vecchia. Sarà una parente. Ma
madre a quell'età non può essere». «Andiamo loro dietro e
vedremo chi ha ragione».
E
lo stupore diviene ben grande quando si vede che colei che compie il
rito della purificazione è Elisabetta, la quale offre il suo
agnellino belante per l'olocausto e il suo colombo per il peccato.
«La madre è quella. Hai visto?». «No!». «Sì». La gente
bisbiglia incredula ancora. Bisbiglia tanto che un «Ssst!»
imperioso parte dal gruppo sacerdotale presente al rito. La gente
tace un momento, ma bisbiglia più forte quando Elisabetta,
raggiante di santo orgoglio, prende il bambino e si inoltra nel
Tempio per farne la presentazione al Signore. «E' proprio quella».
E' sempre la madre che lo offre». «Che miracolo è mai questo?».
«Che sarà quel bambino concesso in così tarda età a quella
donna?». «Qual segno è mai questo?». «Non sapete?» dice uno
che giunge trafelato. «E' figlio del sacerdote Zaccaria della stirpe
di Aronne, quello che divenne muto mentre offriva l'incenso nel
Santuario». «Mistero! Mistero! E ora parla di nuovo! La nascita del
figlio gli ha slegata la lingua». «Quale spirito gli avrà mai
parlato e resa morta la sua lingua per abituarlo al silenzio sui
segreti di Dio?». «Mistero! Quale verità conoscerà Zaccaria?».
«Sia il figlio suo il Messia atteso da Israele?». «In Giudea è
nato. Ma non a Betlem e non da una vergine. Messia esser non può».
«Chi dunque mai?». Ma la risposta resta nei silenzi di Dio, e la
gente rimane con la sua curiosità. Il cerimoniale è compiuto. I
sacerdoti festeggiano, ora, anche la madre e il piccino. L'unica poco
osservata, anzi schivata quasi con ribrezzo quando si accorgono del
suo stato, è Maria.
Finite
tutte le felicitazioni, i più tornano sulla via, e Maria vuole
tornare allo stallaggio per vedere se è giunto Giuseppe. Non è
giunto. Maria resta delusa e pensierosa. Elisabetta si preoccupa per
Lei. «Fino all'ora sesta possiamo restare, ma poi dobbiamo partire
per essere a casa avanti la prima vigilia. E' ancor troppo piccino
per stare oltre nella notte».
E
Maria, calma e mesta: «Resterò in un cortile del Tempio. Andrò
dalle mie maestre.. - Non so. Qualcosa farò». Zaccaria interviene
con un progetto subito accettato come buona risoluzione. «Andiamo
dai parenti di Zebedeo. Giuseppe certo là ti cerca e, se non avesse
a venire là, ti sarà facile trovare chi ti accompagna verso la
Galilea, ché in quella casa è un continuo andare e venire di
pescatori di Genezareth». Prendono il ciuchino e vanno da questi
parenti di Zebedeo, i quali altro non sono che quelli dai quali hanno
sostato Giuseppe e Maria or sono quattro mesi. Le ore passano veloci
e Giuseppe non compare. Maria domina il suo cruccio ninnando il
piccolo, ma si vede che è pensierosa. Come per nascondere il suo
stato, non si è mai levato il manto, nonostante il caldo intenso
che fa sudare tutti.
Finalmente
un gran picchio alla porta annuncia Giuseppe. Il volto di Maria
splende rasserenato. Giuseppe la saluta, poiché Ella si presenta
per prima e lo saluta con riverenza. «La benedizione di Dio su te,
Maria!». «E su di te, Giuseppe. E lode al Signore che sei venuto!
Ecco, Zaccaria ed Elisabetta stavano per partire, per esser a casa
avanti notte». «Il tuo messo giunse a Nazareth mentre io ero a Cana
per dei lavori. Ieri l'altro a sera lo seppi. E subito partii. Ma,
per quanto abbia camminato senza sostare, ho fatto tardi, perché
era perso un ferro all'asinello. Perdona!». «Tu perdona per esser
stata tanto tempo lontana da Nazareth! Ma, vedi, tanto felici erano
d'avermi seco, che ho voluto accontentarli sino ad ora. «Bene hai
fatto, Donna. Il bambino dove è?». Entrano nella stanza dove è
Elisabetta che dà il latte a Giovanni avanti di partire. Giuseppe
complimenta i genitori per la robustezza del bambino che, staccato
dalla mammella per mostrarlo a Giuseppe, strilla e scalcia come lo
scorticassero. Ridono tutti davanti alle sue proteste. Anche i
parenti di Zebedeo, che sono accorsi portando frutta fresca e latte e
pane per tutti e un gran vassoio di pesce, ridono e si uniscono alla
conversazione degli altri.
Maria
parla molto poco. Sta quieta e silenziosa, seduta nel suo angolino
con le mani in grembo sotto il suo manto. E, anche quando beve una
tazza di latte e mangia un grappolo d'uva dorata con un poco di pane,
poco parla e poco si muove. Guarda Giuseppe con un misto di pena e di
indagine. Anche egli la guarda. E dopo qualche tempo, curvandosi
sulla sua spalla, le chiede: «Sei stanca o soffri? Sei pallida e
triste». «Ho dolore a separarmi da Giovannino. Gli voglio bene.
L'ho avuto sul cuore da pochi momenti nato...» Giuseppe non chiede
altro. L'ora della partenza di Zaccaria è venuta. Il carro si ferma
alla porta e tutti si avviano ad esso. Le due cugine si abbracciano
con amore. Maria bacia e ribacia il piccino prima di deporlo sul
grembo della madre, già seduta nel suo carro. Poi saluta Zaccaria e
gli chiede la benedizione. Nell'inginocchiarsi davanti al sacerdote,
il manto le scivola dalle spalle e le forme le appaiono nella luce
intensa del pomeriggio estivo. Non so se Giuseppe le noti in questo
momento, intento come è a salutare Elisabetta. Il carro parte.
Giuseppe
rientra in casa con Maria, che riprende il suo posto nell'angolo
semioscuro. «Se non ti spiace viaggiare di notte, io proporrei di
partire al tramonto. Il caldo è forte nel giorno. La notte invece
è fresca e quieta. Dico per te, per non farti prendere troppo sole.
Per me è cosa da nulla stare sotto al solleone. Ma tu... «Come
vuoi, Giuseppe. Credo io pure che sia bene andare di notte». «La
casa è tutta in ordine. E l'orticello. Vedrai che bei fiori! Giungi
in tempo per vederli tutti fiorire. Il melo, il fico e la vite sono
carichi di frutti come non mai, e il melograno ho dovuto sorreggerlo,
tanto ha i rami carichi di frutti così già formati che mai si
vide esser tali di questo tempo. L'ulivo, poi... Avrai olio in
abbondanza. Ha fatto una fiorita miracolosa e non si è perso un
fiore. Tutti sono già piccole ulive. Quando saranno mature, la
pianta sembrerà piena di scure perle. Non c'è che il tuo orto
così bello in tutta Nazareth. Anche i parenti ne sono stupiti. E
Alfeo dice che questo è un prodigio». «Le tue cure lo hanno
creato». «Oh! no! Povero uomo! Che devo aver fatto io? Un poco di
cura alle piante ed un poco d'acqua ai fiori... Sai? Ti ho fatto una
fonte in fondo, presso la grotta, e vi ho messo una vasca. Così non
avrai ad uscire per aver l'acqua. L'ho condotta da quella sorgente
che sta sopra all'uliveto di Mattia. E' pura e abbondante. Un piccolo
rivolo l'ho condotto a te. Ho fatto un piccolo canale ben coperto, e
ora viene e canta come un'arpa. Mi doleva che tu andassi alla fonte
del paese e ne tornassi carica delle anfore piene d'acqua». «Grazie,
Giuseppe. Tu sei buono!».
I
due sposi tacciono, ora, come stanchi. E Giuseppe sonnecchia anche.
Maria prega.
Viene
la sera. Gli ospiti insistono perché prima di mettersi in viaggio i
due mangino ancora. Giuseppe mangia infatti pane e pesce. Maria solo
frutta e latte. Poi partono. Montano sui loro ciuchini. Giuseppe ha
legato sul suo, come nel venire, il cofano di Maria, e prima che Ella
monti sul somarello osserva che la sella sia ben sicura. Vedo che
Giuseppe osserva Maria quando monta in sella. Ma non dice nulla. Il
viaggio ha inizio sotto le prime stelle che cominciano a palpitare in
cielo. Si affrettano alle porte per giungervi avanti che siano
chiuse, forse. Quando escono da Gerusalemme e prendono la via maestra
che va verso la Galilea, le stelle gremiscono ormai tutto il cielo
sereno. E un grande silenzio è per la campagna. Solo si sente
cantare qualche usignolo e il battere degli zoccoli dei due asinelli
sul terreno duro della via arsa dall'estate.
Dice
Maria:
«E' la vigilia del Giovedì santo. A taluni parrà fuori posto questa visione. Ma il tuo dolore di amante del mio Gesù Crocifisso è nel tuo cuore e vi resta anche se una dolce visione si presenta. Essa è come il tepore che si sviluppa da una fiamma, che è ancora fuoco ma non è già più fuoco. Il fuoco è la fiamma, non il tepore di essa, che ne è unicamente una derivazione. Nessuna visione beatifica o pacifica varrà a toglierti quel dolore dal cuore. E tienilo caro più della tua stessa vita. Perché è il dono più grande che Dio possa concedere ad un credente nel suo Figlio. Inoltre non è la mia, nella sua pace, visione disforme alle ricorrenze di questa settimana.
«E' la vigilia del Giovedì santo. A taluni parrà fuori posto questa visione. Ma il tuo dolore di amante del mio Gesù Crocifisso è nel tuo cuore e vi resta anche se una dolce visione si presenta. Essa è come il tepore che si sviluppa da una fiamma, che è ancora fuoco ma non è già più fuoco. Il fuoco è la fiamma, non il tepore di essa, che ne è unicamente una derivazione. Nessuna visione beatifica o pacifica varrà a toglierti quel dolore dal cuore. E tienilo caro più della tua stessa vita. Perché è il dono più grande che Dio possa concedere ad un credente nel suo Figlio. Inoltre non è la mia, nella sua pace, visione disforme alle ricorrenze di questa settimana.
9
Anche il mio Giuseppe ha avuto la sua Passione. Ed essa è nata in
Gerusalemme quando gli apparve il mio stato. Ed essa è durata dei
giorni come per Gesù e per me. Né essa fu spiritualmente poco
dolorosa. E unicamente per la santità del Giusto che m'era sposo fu
contenuta in una forma, che fu talmente dignitosa e segreta che è
passata nei secoli poco notata. Oh! la nostra prima Passione! Chi
può dirne la intima e silenziosa intensità? Chi il mio dolore nel
constatare che il Cielo non mi aveva ancora esaudita rivelando a
Giuseppe il mistero? Che egli lo ignorasse l'avevo compreso vedendolo
meco rispettoso come di solito. Se egli avesse saputo che portavo in
me il Verbo di Dio, egli avrebbe adorato quel Verbo, chiuso nel mio
seno, con atti di venerazione che sono dovuti a Dio e che egli non
avrebbe mancato di fare, come io non avrei ricusato di ricevere, non
per me, ma per Colui che era in me e che io portavo così come
l'Arca dell'alleanza portava il codice di pietra e i vasi della
manna. Chi può dire la mia battaglia contro lo scoramento, che
voleva soverchiarmi per persuadermi che avevo sperato invano nel
Signore? Oh! io credo che fu rabbia di Satana! Sentii il dubbio
sorgermi alle spalle e allungare le sue branche gelide per
imprigionarmi l'anima e fermarla nel suo orare. Il dubbio che è
così pericoloso, letale allo spirito. Letale, perché è il primo
agente della malattia mortale che ha nome "disperazione" e
al quale si deve reagire con ogni forza, per non perire nell'anima e
perdere Dio. Chi può dire con esatta verità il dolore di
Giuseppe, i suoi pensieri, il turbamento dei suoi affetti? Come
piccola barca presa in gran bufera, egli era in un vortice di opposte
idee, in una ridda di riflessioni l'una più mordente e più penosa
dell'altra. Era un uomo, in apparenza, tradito dalla sua donna.
Vedeva crollare insieme il suo buon nome e la stima del mondo, per
lei si sentiva già segnato a dito e compassionato dal paese, vedeva
il suo affetto e la sua stima in me cadere morti davanti all'evidenza
di un fatto. La sua santità qui splende ancor più alta della
mia. Ed io ne rendo questa testimonianza con affetto di sposa,
perché voglio lo amiate il mio Giuseppe, questo saggio e prudente,
questo paziente e buono, che non è separato dal mistero della
Redenzione, ma sibbene è ad esso intimamente connesso, perché
consumò il dolore per esso e se stesso per esso, salvandovi il
Salvatore a costo del suo sacrificio e della sua santità. Fosse
stato men santo, avrebbe agito umanamente, denunciandomi come
adultera perché fossi lapidata e il figlio del mio peccato perisse
con me. Fosse stato men santo, Dio non gli avrebbe concesso la sua
luce per guida in tal cimento. Ma Giuseppe era santo. Il suo spirito
puro viveva in Dio. La carità era in lui accesa e forte. E per la
carità vi salvò il Salvatore, tanto quando non mi accusò agli
anziani, quanto quando, lasciando tutto con pronta ubbidienza, salvò
Gesù in Egitto. Brevi come numero, ma tremendi di intensità i tre
giorni della Passione di Giuseppe. E della mia, di questa mia prima
passione. Perché io comprendevo il suo soffrire, né potevo
sollevarlo in alcun modo per l'ubbidienza al decreto di Dio, che mi
aveva detto: "Taci"!
E
quando, giunti a Nazareth, lo vidi andarsene dopo un laconico saluto,
curvo e come invecchiato in poco tempo, né venire a me alla sera
come sempre usava, vi dico, figli, che il mio cuore pianse con ben
acuto duolo. Chiusa nella mia casa, sola, nella casa dove tutto mi
ricordava l'Annuncio e l'Incarnazione, e dove tutto mi ricordava
Giuseppe a me sposato in una illibata verginità, io ho dovuto
resistere allo sconforto, alle insinuazioni di Satana e sperare,
sperare, sperare. E pregare, pregare, pregare. E perdonare,
perdonare, perdonare al sospetto di Giuseppe, al suo sommovimento di
giusto sdegno. Figli, occorre sperare, pregare, perdonare per
ottenere che Dio intervenga in nostro favore. Vivete anche voi la
vostra passione. Meritata per le vostre colpe. Io vi insegno come
superarla e mutarla in gioia. Sperate oltre misura. Pregate senza
sfiducia. Perdonate per esser perdonati. Il perdono di Dio sarà la
pace che desiderate, o figli. Null'altro per ora vi dirò. Sin dopo
il trionfo pasquale sarà silenzio. E' la Passione. Compassionate il
Redentore vostro. Uditene i lamenti e numeratene ferite e lacrime.
Ognuna di esse è scesa per voi e per voi fu patita. Ogni altra
visione scompaia davanti a questa che vi ricorda la Redenzione
compiuta per voi».
Giuseppe
chiede perdono a Maria. Fede, carità e umiltà per ricevere
Dio."L'Evangelo come mi è stato
rivelato" di Maria Valtorta
– Libro I capitolo 26
31
maggio 1944.
Dopo
53 giorni riprende la Mamma a mostrarsi con questa visione che mi
dice da segnare in questo libro. La gioia si riversa in me. Perché
vedere Maria è possedere la Gioia.
Vedo
dunque l'orticello di Nazaret. Maria fila all'ombra di un foltissimo
melo stracarico di frutta, che cominciano ad arrossare e sembrano
tante guance di bambino nel loro roseo e tondo aspetto. Ma Maria non
è per nulla rosea. Il bel colore, che le avvivava le guance a
Ebron, le è scomparso. Il viso è di un pallore di avorio, in cui
soltanto le labbra segnano una curva di pallido corallo. Sotto le
palpebre calate stanno due ombre scure e i bordi dell'occhio sono
gonfi come in chi ha pianto. Non vedo gli occhi, perché Ella sta
col capo piuttosto chino, intenta al suo lavoro e più ancora ad un
suo pensiero che la deve affliggere, perché l'odo sospirare come
chi ha un dolore nel cuore. E' tutta vestita di bianco, di lino
bianco, perché fa molto caldo nonostante che la freschezza ancora
intatta dei fiori mi dica che è mattina. E' a capo scoperto e il
sole, che scherza con le fronde del melo mosse da un lievissimo vento
e filtra con aghi di luce fin sulla terra bruna delle aiuole, le
mette dei cerchiolini di luce sul capo biondo, e là i capelli
sembrano di un oro zecchino. Dalla casa non viene nessun rumore, né
dai luoghi vicini. Si sente solo il mormorìo del filo d'acqua che
scende in una vasca in fondo all'orto.
Maria
sobbalza per un picchio dato risolutamente all'uscio di casa. Posa
conocchia e fuso e si alza per andare ad aprire. Per quanto l'abito
sia sciolto e ampio, non riesce a nascondere completamente la
rotondità del suo bacino. Si trova di fronte Giuseppe. Maria
impallidisce anche nelle labbra. Ora il suo viso pare un'ostia, tanto
è esangue. Maria guarda con occhio che interroga mestamente.
Giuseppe guarda con occhio che pare supplichi. Tacciono, guardandosi.
Poi Maria apre la bocca: «A quest'ora, Giuseppe? Hai bisogno di
qualche cosa? Che vuoi dirmi? Vieni». Giuseppe entra e chiude la
porta. Non parla ancora. «Parla, Giuseppe. Che vuoi da me?». «Il
tuo perdono». Giuseppe si curva come volesse inginocchiarsi. Ma
Maria, sempre così riservata nel toccarlo, lo afferra per le spalle
risolutamente e glielo impedisce. Il colore va e viene dal volto di
Maria, che ora è tutta rossa e ora di neve come prima. «Il mio
perdono? Non ho nulla da perdonarti, Giuseppe. Non devo che
ringraziarti ancora per tutto quanto hai fatto qui dentro in mia
assenza e per l'amore che mi porti». Giuseppe la guarda, e vedo due
grossi goccioloni formarsi nell'incavo del suo occhio profondo, stare
lì come sull'orlo di un vaso e poi rotolare giù sulle guance e
sulla barba. «Perdono, Maria. Ho diffidato di te. Ora so. Sono
indegno di avere tanto tesoro. Ho mancato di carità, ti ho accusata
nel mio cuore, ti ho accusata senza giustizia perché non ti avevo
chiesto la verità. Ho mancato verso la legge di Dio non amandoti
come mi sarei amato... «Oh! no! Non hai mancato!». «Si, Maria. Se
fossi stato accusato di un tal delitto, mi sarei difeso. Tu... Non
concedevo a te di difenderti, perché stavo per prendere delle
decisioni senza interrogarti. Ho mancato verso te recandoti l'offesa
di un sospetto. Anche solo un sospetto è offesa, Maria. Chi
sospetta non conosce. Io non ti ho conosciuta come dovevo. Ma per il
dolore che ho patito... tre giorni di supplizio, perdonami, Maria».
«Non ho nulla da perdonarti. Ma, anzi, io ti chiedo perdono per il
dolore che ti ho dato». «Oh! si, che fu dolore! Che dolore! Guarda,
stamane mi hanno detto che sulle tempie sono canuto e sul viso ho
rughe. Più di dieci anni di vita sono stati questi giorni! Ma
perché, Maria, sei stata tanto umile da tacere, a me, tuo sposo, la
tua gloria, e permettere che io sospettassi di te?». Giuseppe non è
in ginocchio, ma sta così curvo che è come lo fosse, e Maria gli
posa la manina sul capo e sorride. Pare lo assolva. E dice: «Se non
lo fossi stata in maniera perfetta, non avrei meritato di concepire
l'Atteso, che viene ad annullare la colpa di superbia che ha rovinato
l'uomo. E poi ho ubbidito... Dio mi ha chiesto questa ubbidienza. Mi
è costata tanto... per te, per il dolore che te ne sarebbe venuto.
Ma non dovevo che ubbidire. Sono l'Ancella di Dio, e i servi non
discutono gli ordini che ricevono. Li eseguiscono, Giuseppe, anche se
fanno piangere sangue». Maria piange quietamente mentre dice questo.
Tanto quietamente che Giuseppe, curvo come è, non se ne avvede
sinché una lacrima non cade al suolo. Allora alza il capo e - è
la prima volta che gli vedo fare questo gesto - stringe le manine di
Maria nelle sue brune e forti e bacia la punta di quelle rosee dita
sottili, che spuntano come tanti bocci di pesco dall'anello delle
mani di Giuseppe.
«Ora
bisognerà provvedere perché...». Giuseppe non dice di più, ma
guarda il corpo di Maria, e Lei diviene di porpora e si siede di
colpo per non rimanere così esposta, nelle sue forme, allo sguardo
che l'osserva. «Bisognerà fare presto. Io verrò qui... Compiremo
il matrimonio... Nell'entrante settimana. Va bene?». «Tutto quanto
tu fai va bene, Giuseppe. Tu sei il capo di casa, io la tua serva».
«No. Io sono il tuo servo. Io sono il beato servo del mio Signore
che ti cresce in seno. Tu benedetta fra tutte le donne d'Israele.
Questa sera avviserò i parenti. E dopo... quando sarò qui
lavoreremo per preparare tutto a ricevere... Oh! come potrò
ricevere nella mia casa Dio? Nelle mie braccia Dio? Io ne morrò di
gioia!... Io non potrò mai osare di toccarlo!...». «Tu lo potrai,
come io lo potrò, per grazia di Dio». «Ma tu sei tu. Io sono un
povero uomo, il più povero dei figli di Dio!...» «Gesù viene
per noi, poveri, per farci ricchi in Dio, viene a noi due perché
siamo i più poveri e riconosciamo di esserlo. Giubila, Giuseppe. La
stirpe di Davide ha il Re atteso e la nostra casa diviene più
fastosa della reggia di Salomone, perché qui sarà il Cielo e noi
divideremo con Dio il segreto di pace che più tardi gli uomini
sapranno. Crescerà fra noi, e le nostre braccia saranno cuna al
Redentore che cresce, e le nostre fatiche gli daranno un pane... Oh!
Giuseppe! Sentiremo la voce di Dio chiamarci "padre e Madre!".
Oh!...». Maria piange di gioia. Un pianto così felice!
E
Giuseppe inginocchiato, ora, ai suoi piedi, piange col capo quasi
nascosto nell'ampia veste di Maria, che le fa una caduta di pieghe
sui poveri mattoni della stanzetta. La visione cessa qui.
Dice
Maria:
«Nessuno interpreti in modo errato il mio pallore. Non era dato da paura umana. Umanamente mi sarei dovuta attendere la lapidazione. Ma non temevo per questo. Soffrivo per il dolore di Giuseppe. Anche il pensiero che egli mi accusasse, non mi turbava per me stessa. Soltanto mi spiaceva che egli potesse, insistendo nell'accusa, mancare alla carità. Quando lo vidi, il sangue mi andò tutto al cuore per questo. Era il momento in cui un giusto avrebbe potuto offendere la Giustizia, offendendo la Carità. E che un giusto mancasse, egli che non mancava mai, mi avrebbe dato dolore sommo.
«Nessuno interpreti in modo errato il mio pallore. Non era dato da paura umana. Umanamente mi sarei dovuta attendere la lapidazione. Ma non temevo per questo. Soffrivo per il dolore di Giuseppe. Anche il pensiero che egli mi accusasse, non mi turbava per me stessa. Soltanto mi spiaceva che egli potesse, insistendo nell'accusa, mancare alla carità. Quando lo vidi, il sangue mi andò tutto al cuore per questo. Era il momento in cui un giusto avrebbe potuto offendere la Giustizia, offendendo la Carità. E che un giusto mancasse, egli che non mancava mai, mi avrebbe dato dolore sommo.
Se
io non fossi stata umile sino al limite estremo, come ho detto a
Giuseppe, non avrei meritato di portare in me Colui che, per
cancellare la superbia nella razza, annichiliva Sé, Dio,
all'umiliazione d'esser uomo.
Ti
ho mostrato questa scena, che nessun vangelo riporta, perché voglio
richiamare l'attenzione troppo sviata degli uomini sulle condizioni
essenziali per piacere a Dio e ricevere la sua continua venuta in
cuore. Fede: Giuseppe ha creduto ciecamente alle parole del messo
celeste. Non chiedeva che di credere, perché era in lui convinzione
sincera che Dio è buono e che a lui, che aveva sperato nel Signore,
il Signore non avrebbe serbato il dolore d'esser un tradito, un
deluso, uno schernito dal suo prossimo. Non chiedeva che di credere
in me perché, onesto come era, non poteva pensare che con dolore
che altri non lo fosse. Egli viveva la Legge, e la Legge dice: "Ama
il tuo prossimo come te stesso". Noi ci amiamo tanto che ci
crediamo perfetti anche quando non lo siamo. Perché allora disamare
il prossimo pensandolo imperfetto? Carità assoluta. Carità che sa
perdonare, che vuole perdonare. Perdonare in anticipo, scusando in
cuor proprio le manchevolezze del prossimo. Perdonare al momento,
concedendo tutte le attenuanti al colpevole. Umiltà assoluta come
la carità. Sapere riconoscere che si è mancato anche col semplice
pensiero, e non avere l'orgoglio, più nocivo ancora della colpa
antecedente, di non voler dire: "Ho errato". Meno Dio,
tutti errano. Chi è colui che può dire: "Io non sbaglio
mai"?
E
l'ancor più difficile umiltà: quella che sa tacere le meraviglie
di Dio in noi, quando non è necessario proclamarle per dargliene
lode, per non avvilire il prossimo che non ha tali doni78 speciali da
Dio. Se vuole, oh! se vuole, Dio disvela Se stesso nel suo servo!
Elisabetta mi "vide" quale ero, lo sposo mio mi conobbe per
quel che ero quando fu l'ora di conoscerlo per lui.
Lasciate
al Signore la cura di proclamarvi suoi servi. Egli ne ha un'amorosa
fretta, perché ogni creatura che assurga a particolare missione è
una nuova gloria aggiunta all'infinita sua, perché è
testimonianza di quanto è l'uomo così come Dio lo voleva: una
minore perfezione che rispecchia il suo Autore. Rimanete nell'ombra e
nel silenzio, o prediletti dalla Grazia, per poter udire le uniche
parole che sono di "vita", per poter meritare di avere su
voi e in voi il Sole che eterno splende. Oh! Luce beatissima che sei
Dio, che sei la gioia dei tuoi servi, splendi su questi servi tuoi e
ne esultino nella loro umiltà, lodando Te, Te solo, che sperdi i
superbi ma elevi gli umili, che ti amano, agli splendori del tuo
Regno».
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