Crocerossina
in Austria
Infuria
la prima guerra mondiale e molti giovani tedeschi rischiano la vita o
muoiono sui vari fronti del conflitto. Edith, che sta preparando la
tesi di laurea, decide di sospendere le ricerche e si offre come
volontaria nelle file delle crocerossine. La sua domanda è accolta e
viene inviata in Austria, nell’ospedale militare di
Mährisch-Weisskirchen per le malattie infettive, dove trascorre nove
mesi. È un’esperienza forte, che Edith racconterà poi in Storia
di una famiglia ebrea. Lineamenti autobiografici: l’infanzia e gli
anni giovanili, un libro sulla sua infanzia e giovinezza, scritto con
l’intento dichiarato di far conoscere «l’umanità ebraica, dal
momento che quanti non vi appartengono conoscono così poco di essa».
Lo scrive in gran parte nel 1933, dopo che i nazional-socialisti di
Adolf Hitler hanno preso il potere (gennaio 1933), cioè in un
momento in cui a causa delle prime leggi razziali gli «ebrei
tedeschi sono stati strappati alla tranquilla ovvietà dell’esistenza
e costretti a riflettere su se stessi, sulla loro natura e sul loro
destino». Edith, sospesa dall’insegnamento, torna a Breslavia e si
dedica alla stesura del libro, che rimane però incompleto, perché
nel maggio del 1935, poco dopo aver professato i primi voti, Edith
interrompe
il lavoro per portare a termine lo studio filosofico Essere finito ed
Essere eterno, e non lo riprenderà più. Ecco alcuni brani che
descrivono l’esperienza umana e spirituale di Edith nell’ospedale
militare austriaco. Ma la cosa che preferivo era il contatto con i
pazienti, anche se presentava qualche difficoltà. Nel nostro
ospedale erano rappresentate tutte le nazioni della monarchia
austro-ungarica: tedeschi, cechi, slovacchi, sloveni, polacchi,
ruteni, ungheresi, rumeni, italiani. Anche gli zingari non erano
rari. A questi si aggiungeva talvolta un russo o un turco. Per la
comunicazione tra il medico e i pazienti c’era un libriccino
contenente le domande e le risposte che ricorrevano quotidianamente,
in nove lingue, che divenne familiare anche per me. Un giorno, mentre
stavo andando alla piccola cucina, udii ad una certa distanza il
dottor Pick che, accanto al letto di un ammalato, diceva a sorella
Emma: «Stia attenta, lei lo sa di certo!». Poi parlando da una
parte all’altra della stanza mi chiese: «Sorella Edith, come si
dice “sudare” in ungherese?». Io gli dissi di rimando il
vocabolo che non sapeva, senza fermarmi. Ci si aiutava con queste
quattro parole e con il linguaggio dei segni.
Ci
sarebbero state maggiori difficoltà se la gente avesse avuto bisogno
di fare conversazione. Tuttavia la maggior parte di essi erano in una
condizione che escludeva tutto ciò. Il loro completo abbandono e il
bisogno di assistenza mi rendeva particolarmente caro il mio lavoro.
Molto presto imparammo a conoscere la differenza di nazionalità. Non
avevamo neppure un tedesco del Reich nel nostro reparto. In seguito
invece ne ho avuto qualcuno come paziente. Noi infermiere tedesche
esultavamo quando trovavamo un compatriota in un trasporto. Ma dopo
averli avuti un paio di giorni nella nostra stanza di degenza, ci
facevamo piccole piccole. I nostri compatrioti erano critici e pieni
di pretese, e riuscivano a mettere in agitazione tutta la corsia se
qualcosa non gli andava a genio. Le «popolazioni selvagge» erano
docili e grate. Mi facevano tanta pena i poveri slovacchi e ruteni,
che erano stati strappati dai loro pacifici paesi e spediti al
fronte.
Che
cosa potevano saperne loro delle sorti del Reich tedesco e della
monarchia asburgica? Ora giacevano là e soffrivano senza sapere
perché.
Gli
ungheresi, tanto elogiati per il loro valore sul campo e cortesi e
cavallereschi nei nostri confronti, erano i pazienti che si
lamentavano di più. Se un nuovo arrivato si lagnava a voce alta al
primo cambiamento delle bende in sala operatoria, gli si diceva: Nein
sabot, Magyar! (Non è permesso, magiaro!) e il lamento cessava per
qualche istante. Non ci si era sbagliati sulla sua nazionalità. I
cechi, tanto odiati per aver «tradito» la causa tedesca, imparammo
a conoscerli come i più pazienti e anche i più disponibili.
Una
volta dovevo trasferire un paziente di grossa corporatura e privo di
conoscenza in un altro letto per poter rifare il suo. Di solito
portavo da sola sul letto accanto gli ammalati quando erano coscienti
e non troppo pesanti; non era difficile se li si afferrava bene. Ma
in questo caso era impossibile. Dal momento che non c’erano
infermiere nei pressi, pregai un giovane tedesco boemo di aiutarmi.
Stava già bene e passeggiava oziosamente per la corsia. Era sempre
gentile come un bambino e molto devoto a me. «Sorella», rispose
imbarazzato, «lo farei volentieri per amor suo. Ma non posso, mi
disgusta troppo». Allora un ceco si avvicinò spontaneamente. Non
riusciva ancora a tenersi saldamente in piedi come l’altro. «Anche
per me non è facile», disse, «ma bisogna pur aiutare un uomo
malato».
Uno
slovacco, che a casa sua era un contadino benestante, aveva un grosso
ascesso a una gamba, ma, nonostante i forti dolori, rifiutava di
farsi operare per paura del taglio. Il dottore si irritò a tal punto
per questo che non andò più a vedere la sua gamba. Un giorno,
durante l’ora del pranzo, andai da lui e insistetti tanto per
convincerlo con le quattro parole che sapevo di ceco e con il
linguaggio dei segni – finché si dichiarò pron- to all’incisione.
Prima della visita preparai tutto il necessario accanto al letto. Le
infermiere facevano spallucce; erano convinte che il dottor Pick
avrebbe rifiutato. Quando egli arrivò e come al solito chiese se
vi fosse qualche novità particolare, io risposi tranquillamente che
c’era da fare un’incisione. Lui procedette all’operazione senza
spendere una sola parola e il buon Wessely fu liberato dai suoi
patimenti. (Wessely e Sumtery – Felice e Triste erano nomi che
ricorrevano spesso).
Talvolta
in corsia veniva anche un cappellano militare in uniforme e faceva il
giro dei letti. Devo dire che ispirava poca fiducia; non notai
neppure che si fermasse più a lungo presso qualche ammalato. Non lo
vidi mai portare a un malato la comunione o dispensare l’olio
santo. Purtroppo io ero talmente ignorante per ciò che riguardava
queste cose che non mi venne neppure in mente di chiedere qualcosa in
proposito o preoccuparmene [...]. Con tutte le infermiere avevo
rapporti cortesi e camerateschi, pur tenendomi ad una certa distanza
da loro. A ciò mi avevano portato le esperienze fatte durante quella
«serata di festa» e altre cose che osservai in seguito. Sicché
intimamente ero veramente sola. Il sapere che c’era anche Grete
Bauer era una consolazione: lei proveniva dal mio stesso ambiente ed
era arrivata qui con la stessa disposizione d’animo. Credo che
fosse la prima domenica mattina che andai con lei e sorella Alwine a
fare una piccola passeggiata verso «Sant’Antonio», come propose
Alwine. Il Santo aveva il suo posto sul pendio di una collina, un
poco sotto la cima. Ci sedemmo ai suoi piedi e di lì godemmo di
un’ampia panoramica sull’ameno paesaggio. Attraverso Weisskirchen
serpeggiava la Beezwa, un grazioso fiumicello montano. Sulle due
sponde si ergevano catene collinose, le propaggini dei Beschidi.
Sopra una dorsale piuttosto estesa si vedeva in lontananza un’antica
rovina, il castello di Helfenstein. Era una regione estremamente
fertile quella in cui ci trovavamo: la «Hanna morava», un vero e
proprio giardino. Sempre ad una certa distanza si estendevano i
rigogliosi campi di grano, e nelle profonde gole si trovavano delle
valli prative con una ricchezza di fiori che non ho visto quasi in
nessun altro luogo.
A
volte andavamo là il mattino presto, prima di cominciare il
servizio, a prendere i fiori per abbellire le nostre corsie. Le
infermiere facevano a gara nel tenere i reparti il più possibile
accoglienti e graziosi. Grete Bauer e Alwine dividevano la camera,
situata nel liceo scientifico, con altre due infermiere. Questo
quartetto si teneva saldamente unito e lontano dalle faccende delle
altre infermiere. Era fedele alla superiora, che lo chiamava la sua
«piccola comunità». La sera, dopo il servizio, a volte mi
invitavano da loro. Sorella Klara era un’abile infermiera di mezza
età, alta, spigolosa e brutta, con una voce profonda e modi virili,
ma di buon cuore e dotata di un umorismo ristoratore. La sua
aiutante, Lotte Neumeister, una ragazza alta e bionda, figlia di un
medico di Breslavia, era attaccata a lei da un amore geloso. Talvolta
a queste serate partecipava anche sorella Margareta, ma spesso i suoi
doveri di superiora non le concedevano neppure le piccole pause di
ricreazione. Al gusto di sorella Klara corrispondeva l’osservanza
di abitudini goliardiche. Aveva addirittura i berretti con i colori e
le mazze. Il «materiale» era costituito da caffè forte che veniva
preparato in camera. Inoltre c’erano sigarette e dolci. Questi
ultimi li prendevamo in una pic- cola pasticceria al mercato durante
la pausa per il pranzo. C’erano cose prelibate, perché gli
austriaci sono dei ghiottoni. Nella pasticceria incontravamo
abitualmente un paio di ufficiali nelle loro eleganti uniformi.
Bevevano due bicchierini di liquore in piedi, mangiando la torta: una
scena sorprendente per chi portava in sé le idee tedesche
sull’«eroismo».
Anch’io
mi abituai presto al caffè forte e alle sigarette. I nervi avevano
bisogno di stimolanti quando si usciva dalle corsie.
Dopo
due settimane al reparto di tifo, mi affidarono il servizio di notte.
Nella nostra corsia lo svolgevamo a turno. Allora si andava al
reparto per 14 giorni solo di notte dalle 7 di sera alle 7 del
mattino e ci si riposava durante il giorno. Alle 9 del mattino c’era
il pranzo per chi svolgeva il servizio di notte, poi si dormiva fin
circa le 6 di sera per cenare alle 6 e mezzo e poi andare al reparto.
Per la notte si veniva muniti di un bricchetto di caffè, due spesse
fette di pane imburrato e un uovo; c’era anche una stanza da letto,
dove mi trasferii. Se si avevano buone amiche che provvedevano a
portarti il pranzo, si poteva mangiare all’ora consueta e farsi
portare il cibo a letto. In tal modo non si era costretti a
trovarsi sul posto alle 9, ma si poteva restare un po’ di più
all’aria aperta. Perché ancora più che al sonno si anelava alla
luce, all’aria e al sole.
La
prima sera, mentre mi stavo recando alla scuola di equitazione con il
mio bricchetto di caffè, incontrai il dottor Pick con un collega. Mi
augurò buona fortuna per la notte e disse all’altro: «È qui da
due settimane e già si assume la responsabilità di 60 ammalati di
tifo». Ma mi aspettava ancora di più. La capoinfermiera mi fece
chiamare per chie dermi se potevo fare delle iniezioni. Io avevo
imparato come si faceva, pur non avendole fatte spesso. Mi pregò di
badare un poco anche alla seconda corsia; la polacca che aveva lì il
turno di notte (il piccolo caporale) non si intendeva di iniezioni.
Dovevo dare un’occhiata anche alla terza corsia perché là c’era
solo un’aiutante. Infine, mi affidò anche la piccola stanza di
isolamento, dove era stato trasferito un paziente dalla nostra corsia
a cui avevano diagnosticato una difterite. Era uno zingaro, che ci
aveva già dato molte preoccupazioni, perché rifiutava qualsiasi
cibo. Era spaventosamente dimagrito, e il suo viso scuro era
diventato pallidissimo. La difterite gli diede il colpo di grazia. Ma
non morì durante il mio turno di notte. Invece, la piccola polacca
venne, piena di paura, a prendermi durante la prima notte per
portarmi al letto di un moribondo. Il poveretto, in agonia, non
riusciva a farsi capire da lei: era tedesco e lei non capiva quella
lingua. La mandai subito dal dottore che faceva il turno di notte da
noi e nel frattempo praticai un’iniezione. Il dottore venne
immediatamente, ma non c’era più nulla da fare. Poté solo
attendere e poi accertare la morte.
Era
la prima volta che vedevo morire qualcuno. Il secondo caso di decesso
lo vidi nella nostra corsia: quando, dopo qualche giorno di servizio
notturno, arrivai di sera al reparto, le infermiere mi accolsero con
la notizia che era stato trasportato un moribondo nella nostra
corsia; esse avrebbero voluto risparmiarmelo per quella notte.
Ricevetti l’istruzione di fargli una iniezione di canfora ogni ora.
In questo modo prolungai per diverse notti la scintilla di vita fino
al mattino dopo. Era un uomo grande e forte; giaceva sempre immoto e
privo di conoscenza. Quando era arrivato era già così. Nes- suno di
noi lo vide mai aprire gli occhi o lo udì pronunciare una parola.
Anche l’ultima notte gli feci diverse iniezioni. Tra una iniezione
e l’altra stavo ad ascoltare il suo respiro dal mio posto
improvvisamente cessò. Andai presso il suo letto; il cuore non
batteva più. Ora dovevo fare ciò che ci era stato prescritto in
casi del genere: raccogliere i pochi oggetti che aveva ancora con lui
per consegnarli all’Amministrazione militare (la maggior parte
delle cose venivano ritirate ai pazienti al loro arrivo e serbate
fino a che non venivano dimessi); chiamare il dottore e farmi
rilasciare il certificato di morte; andare dal guardaporte con il
certificato e far venire gli uomini con una barella a portar via il
morto; infine togliere tutta la biancheria del letto. Mentre stavo
ordinando le sue poche cose, un foglietto cadde fuori dal suo
taccuino: sopra c’era una preghiera per la conservazione della sua
vita che la moglie gli aveva dato. Ciò mi colpì profondamente. Solo
in quel momento capii che cosa avrebbe significato quella morte dal
punto di vista umano. Ma non potevo fermarmi. Raccolsi le mie forze
per andare a chiamare il dottore. Dovetti andare nella sua stanza a
svegliarlo. Un paravento nascondeva il letto; là dietro si vestì e
poi uscì. Era il dottor Andersmann, un giovane polacco del reparto
di chirurgia. Mi guardò e disse, compassionevole: «Sorella Edith,
si sieda un attimo, ha un aspetto smorto e sfinito». Poi compilò il
certificato di morte seguendo le mie indicazioni e venne con me per
accertare la morte. Poi rimasi di nuovo sola e mi occupai delle altre
cose che c’erano da fare. Un’impressione inquietante mi fecero i
portatori che venivano a prendere il defunto, così, di notte.
Speravo solo che nessuno degli ammalati ci facesse caso; su di loro
avrebbe fatto un’impressione spaventosa. Il mattino dopo fui in
grado di accertarmi che ef- fettivamente nessuno aveva visto nulla.
Gli stessi vicini di letto si stupirono per il posto vuoto [...].
Quando arrivavo la sera in corsia, facevo prima un giro per i letti.
Nella cucinetta trovavo abitualmente gli ungheresi che stavano bene.
Mi salutavano gioiosamente e ridevano quando dicevo: «È qui che si
è riunito il club ungherese?». La cosa che li attirava maggiormente
in quel luogo era la grande pentola con il vino rosso. Il «club
tedesco» si riuniva presso il letto del giovane tedesco-boemo, che
non poteva ancora alzarsi. Si raccontavano storie del fronte,
imprecando contro la situazione politica. «Dopo la guerra mi
immatricolerò in Germania», diceva il giovane. La sua casa non era
lontana dal confine con la Baviera.
Passavo
tra le file di letti e mi accertavo delle condizioni dei malati
gravi. Quando veniva l’ora di dormire per i pazienti e non c’era
niente di particolare da fare, mi mettevo seduta alla piccola
scrivania a scrivere lettere o a leggere. Avevo portato a
Weisskirchen solo due libri: le Idee di Husserl e Omero.
Proprio
dietro a me, nella prima fila di letti, c’e ra un ceco, un uomo di
mezza età, piccolo e delicato. Aveva i piedi talmente congelati che
alcune dita sembravano carbonizzate e bisognò amputarle. Non dormiva
quasi mai e per tutta la notte teneva la pipa in bocca. Io lo
lasciavo tranquillamente fare, malgrado fosse proibito fumare. Non
potevo to- gliergli anche quella consolazione.
Anche
Mario giaceva per lo più insonne, con i suoi grandi occhi brillanti.
Una volta mi fece un cenno e con altri segni mi fece capire che
avrebbe voluto dettarmi una lettera. Probabilmente aveva osservato
che a volte scrivevo. Presi carta e penna e mi inginocchiai presso il
suo letto. Poi egli formò le parole con le labbra non poteva
neppure sussurrare mentre io gli guardavo la bocca con ansiosa
attenzione, scrivevo e gli mostravo ogni frase che avevo finito
perché lui la rivedesse. In tal modo riuscimmo a scrivere una
lettera in un buon italiano per le sue sorelle. Era certamente la
prima notizia che ricevevano a casa da che era malato. Non molto
tempo dopo il dottor Pick gli riferì durante la visita che le
sorelle gli avevano scritto. Le molte pene che ci eravamo date per
Mario vennero ampiamente ricompensate. Dopo diverse settimane,
l’ostinata malattia arretrò, egli riacquistò la voce una voce
davvero energica e fu in grado di mangiare con appetito, e finalmente
anche di alzarsi. A quel punto fu trasferito in una baracca insieme
con il suo amico, anche lui giovane commerciante di Trieste. Nel suo
caso la malattia si era manifestata fin dal principio in una forma
leggera. Era un infermiere, una persona molto gentile e di buon
cuore; si era reso volentieri utile, avvolgendo le fasce di garza a
regola d’arte e rendendoci altri piccoli servizi. I due giovani
venivano spesso a trovarci dalla loro baracca; si rinforzavano a
vista d’occhio e il romantico Mario si rivelò infine un autentico
birbone.
Per
alcune notti, fui molto occupata con un paziente che delirava
gravemente. Quando era stato trasferito al reparto era già privo
di coscienza, sembrava tranquillo, ma era afflitto da visioni
angosciose. Quando mi avvicinai a lui, mi afferrò il camice,
gridando: «Sorella, mi aiuti, mi aiuti!». Una notte voleva
continuamente scappare via. Non mi restò altro che legarlo
saldamente. Stesi un lenzuolo da una parte all’altra del letto e ne
legai le estremità alle colonnine. Il paziente, inquieto, mi
sbirciava ancora con la testa di fuori, ma per il resto era
prigioniero. Ad ogni modo, dopo averci lavorato per un po’ di tempo
era un uomo forte i nodi si allentavano e io dovevo ricominciare
daccapo il lavoro. In quella occasione mi stupì un dottore, che
aveva il turno di notte ed era venuto a controllare che cosa c’era
che non andava nel reparto. Questo dottore era un tranquillo medico
di campagna che certamente non aveva mai visto un caso di tifo. Si
indignò per il fatto che io fossi sola in corsia ad assistere
quell’ammalato così difficile da frenare. Quando poi vide che
pulivo il letto, gridò spaventato: «Sorella, prenderà il
contagio!». Sorridendo, gli indicai la nostra bacinella con il
sublimato. Per dare tranquillità a me e all’ammalato, gli praticò
infine una iniezione di morfina. L’effetto, però, non fu proprio
quello desiderato. Il paziente ora giacque quieto, ma cominciò a
cantare a voce alta, svegliando anche gli altri, i quali, il mattino
dopo, dissero che era stato così piacevole che l’infermiera si
fosse seduta accanto al loro letto e avesse cantato la ninna-nanna.
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