La
vita e l’insegnamento di p. Francesco Zirano
Della
sua vita abbiamo pochi dati sicuri ma, alcuni, particolarmente
eloquenti. Di certo nacque a Sassari; molto probabilmente nel
1564. Conosciamo il nome della mamma: Margherita, e la data
della sua morte, il 1598. Ignoriamo il nome del babbo; di lui
indirettamente veniamo a sapere che morì ancora giovane (è la mamma
infatti che compie atti giuridici, normalmente riservati al
marito). Probabilmente fu colpito anch’egli dalla peste del 1582
che, solo nella città di Sassari, fece ventimila vittime. E questa
la peste che diede occasione al voto che impegna ancora oggi la
municipalità di Sassari ad offrire ogni anno alcuni ceri (i famosi
candelieri) alla Vergine Assunta.
Ebbe due
sorelle e probabilmente un fratello. Di famiglia povera, ancora
giovane fu tuttavia avviato agli studi, cosa molto rara per quei
tempi, quasi sicuramente presso il convento di Santa Maria di Betlem,
dove a 14 anni, secondo la consuetudine del tempo, fu ammesso al
noviziato e a 15 alla professione.
La sua
formazione religiosa e teologica si svolse negli anni in cui, a
Sassari, operava come docente e come rinomato oratore p. Francesco
Sanna, ministro provinciale negli anni 1583-1587. Sono anni
impegnativi anche per la riforma dell’Ordine dei Frati Minori
Conventuali secondo le indicazioni del Concilio di Trento.
Con
molta probabilità venne ordinato presbitero il 30 maggio del
1586. Nel frattempo lo ha raggiunto a S. Maria, anch’egli come
religioso, il cugino, figlio di una zia materna, fra Francesco Serra;
questi avrà molta importanza nelle vicende degli ultimi 13 anni
della vita di p. Zirano.
La vita
ordinata e laboriosa del convento di Santa Maria nel 1590 viene
turbata da un tragico episodio: fra Francesco Serra, il cugino
di p. Zirano, mentre è in viaggio, viene rapito e ridotto in
schiavitù dai corsari turchi che in Algeri hanno la base per le
loro incursioni.
Tali
incursioni avvenivano nelle coste sarde frequentemente e non di rado
erano rapiti pure sacerdoti e religiosi. Anche in periodi in cui non
erano in corso guerre dichiarate, mondo islamico e mondo cristiano si
combattevano con queste rapide incursioni per fare razzia di persone,
di alimenti e di altri beni.
Uno dei
centri islamici più attivi nell’attività corsara, in quegli anni,
era Algeri. Le persone rapite venivano vendute come schiavi e
sottoposte ad ogni genere di lavoro e di umiliazioni e, a seconda del
padrone, venivano trattate senza alcuna umanità; quando, invece, si
riusciva a comunicare con i parenti, veniva indicato il prezzo
del riscatto, che variava in base dell’importanza della persona
rapita.
Se il
rapito era benestante al riscatto provvedeva in proprio la
famiglia. Il riscatto dei poveri era tentato da alcuni istituti
religiosi sorti con questa finalità (Mercedari, Trinitari, ecc.) e
da varie confraternite dedite esplicitamente a tale opera
caritativa.
Ci
dispiace dirlo ma, in quel tempo, anche navi di cristiani operavano
incursioni di pirateria e, peggio ancora, erano tollerate e, qualche
volta, autorizzate dalle legittime autorità.
Spesso
gli schiavi cristiani, pur di sfuggire alle umiliazioni e liberarsi
dalla schiavitù si convertivano all’islamismo. P. Francesco
Zirano temeva che qualcosa di simile potesse succedere anche al
cugino, per cui, dopo aver sperato e atteso altre possibili
soluzioni, decise di affrontare personalmente la fatica e i rischi
della liberazione di fra Francesco Serra.
Nonostante
tale decisione, egli continua a dare il proprio contributo di lavoro
e di impegno nella sua comunità di Sassari. Nel gennaio del 1598 c’è
un avvicendamento negli uffici e negli incarichi comunitari del
convento di Santa Maria; p. Zirano è nominato economo e procuratore:
vale a dire addetto a trattare gli affari pubblici del convento. A
quei tempi, questo era un incarico talmente importante che la
nomina del p. Zirano viene registrata dal notaio.
È
amministratore di una riserva di grano della comunità e svolge il
compito di questuante in alcuni paesi del circondano di Sassari.
In
quell’anno, molto probabilmente muore anche la mamma.
Il 1598
è soprattutto l’anno della trepida attesa della risposta del papa
ad una sua supplica di poter questuare in tutte le chiese della
Sardegna per reperire i fondi necessari al riscatto del cugino. Egli
infatti non ha altre possibilità per trovare i 200 scudi, la somma
assegnata per il riscatto del cugino, e poter, sostenere le spese del
viaggio e andare incontro a tanti altri molteplici imprevisti di una
simile impresa.
In
Sardegna la questua finalizzata alla redenzione degli schiavi era
riservata ai religiosi Mercedari di Bonaria. Di conseguenza egli ha
bisogno di una facoltà esplicita del papa. Presenta la supplica
al papa Clemente VIII negli ultimi mesi del 1597 o nei primi del
1598, come si evince dal Breve del papa, firmato il 19 marzo
1599, detto Ortatorio, nel quale si concede la facoltà di
recarsi alla questua per tre anni; la persona del p. Zirano è
indicata come “uomo di circa 33 anni, di bassa statura,
occhi neri e barba castana”.
Ottenuta
la licenza, senza perdere tempo, prese a percorrere i paesi della
Sardegna questuando, oltre che negli atri delle chiese, di casa
in casa; ha modo così di incontrare e confortare varie persone
che avevano parenti nelle stesse condizioni del cugino.
Alla
fine del triennio, nella primavera del 1602, non potendo partire per
l’Africa direttamente dalla Sardegna, egli si reca in Spagna. Il re
Filippo III gli offre un passaggio in una nave spagnola che porta ad
Algeri p. Matteo de Aguirre, frate minore osservante, già schiavo in
quella città, conoscitore della lingua del posto e della situazione
politica, che si è fatto promotore di un progetto per la presa di
Algeri con l’aiuto del re di Cuco, che ha un parente convertito al
cristianesimo.
P.
Francesco approda in Africa il 28 luglio del 1602 e si affretta
subito a compiere la sua missione. Purtroppo il momento non è
proprio quello più adatto. Ad Algeri tutti quelli che vengono dal
Cuco sono considerati nemici o spie. Le trattative per i riscatti
sono state sospese. In città si è saputa la notizia dell’arrivo
di p. Matteo de Aguirre e dello stesso p. Zirano ed anche il suo nome
è inserito nell’elenco dei ricercati.
Tuttavia
egli non desiste dal suo progetto: travestito da mercante moro
venditore di lino, riesce a liberare 4 schiavi che lavorano nelle
aziende agricole fuori le mura della città.
In
attesa degli eventi, per ben 4 mesi, da settembre a dicembre del
1602, p. Zirano si ferma nella città di Cuco e svolge il ministero
sacerdotale a favore dei cristiani riscattati o fuggiti da Algeri e
di alcuni rinnegati che sostano a Cuco in attesa di rientrare in
patria. In questo periodo incontra anche i coniugi Gavino Pinna e
Margherita Escano con il loro figlio Pedro, nativi di Tempio. Essi
gli confidano il profondo dispiacere di aver rinnegato la fede
cristiana, sebbene solo esteriormente. Bastava infatti che un
cristiano entrasse nella moschea o nominasse Maometto ed era
obbligato a farsi maomettano, diversamente veniva bruciato vivo.
Di
fatto, nel loro intimo, i coniugi Pinna-Escano rimasero sempre
cristiani convinti e lo dimostrarono facilitando il compito ai
redentori di schiavi e aiutando i sacerdoti con offerte di messe e in
vari altri modi. Rientrati in patria ebbero la gioia di vedere il
figlio Pedro ordinato sacerdote1.
Intanto
il 10 gennaio, Sid Amar ben Amar, giocando sulla sorpresa attacca
battaglia ed infligge un’umiliante sconfitta all’esercito di
Algeri. Il re di Cuco ci tiene a far sapere la notizia al re di
Spagna ed invia proprio p. Zirano a portare una lettera al sovrano
spagnolo.
Nel
tragitto dalla zona montagnosa verso il porto di Asofon, forse
tradito, certamente abbandonato dalla scorta che avrebbe dovuto
difenderlo da eventuali imboscate dei soldati di Algeri, venne
arrestato. Gli viene subito tolta la missiva per il re di
Spagna, spogliato delle vesti, percosso e incatenato viene condotto
ad Algeri, dove entra il 6 gennaio 1603 “..... mezzo morto di
freddo e di fame, ricoperto delle sole brache, scalzo, con una grande
catena al collo e manette ai polsi” (RAMIREZ, Relacion A, c.
5v).
Sarebbe
troppo lungo riassumere le vicende degli ultimi 20 giorni della
sua vita! Fu rinchiuso nel carcere situato all’interno del palazzo
del pascià. Qui, pur essendo in mezzo ad altri cristiani, fu
proibito a tutti di parlargli. Lo si voleva isolare perché ritenuto
erroneamente un personaggio molto importante (fra Matteo de Aguirre
l’ambasciatore del re di Spagna Filippo III), tanto che il
prezzo del suo riscatto venne fissato in tremila ducati d’oro; per
il riscatto di fra Francesco Serra bastavano duecento scudi.
Nonostante
la strettissima sorveglianza, il cugino fra Francesco Serra riuscì a
fargli visita due venerdì di seguito, nell’ora in cui i carcerieri
erano intenti alla preghiera, nella moschea.
Il 22
gennaio del 1603, i giannizzeri (la milizia che presidia Algeri)
lo vorrebbero far arrivare con una nave inglese a Costantinopoli come
trofeo di guerra per il Gran Visir che comanda anche su Algeri; il
tentativo fallisce perché il pascià preferisce i soldi del
riscatto.
Due
giorni dopo riprende il braccio di ferro tra il pascià Solimàn che,
in vista del riscatto, ne vuole salva la vita e i giannizzeri che ne
vogliono la morte. Il verdetto definitivo viene pronunciato la
mattina del 25 gennaio ed è terribile: sarà scorticato vivo;
condannato quindi a morire dissanguato e fra atroci dolori.
Alla
notizia di tale condanna il commento di p. Zirano è di
ringraziamento al Signore: “Rendiamo grazie al Signore nostro
Dio, perché ha scelto me indegno servo” (ANONIMO, Relacion,
p. 3). Non mancano gli inviti pressanti a rinnegare la fede
cristiana per avere salva la vita, sempre rifiutati con grande
decisione.
Segue la
lunga Via crucis attraverso la strada principale di Algeri,
affollata per il mercato, fatto oggetto di insulti, sputi e percosse,
fino al luogo dell’esecuzione, fuori della porta di Babason.
Giunti sul luogo del supplizio, riceve ancora un ultimo invito a
rinnegare la fede, ma la sua risposta è più che mai ferma: “Io
sono cristiano e religioso del mio padre san Francesco e come tale
voglio morire. E supplico Dio che illumini voi perché lo abbiate a
conoscere” (ANONIMO, Relacion, p. 3).
Infine
viene scorticato vivo. Quando gli viene strappato l’ultimo
brandello di pelle esclama: “Nelle tue mani, o Signore,
raccomando l’anima mia... - e con queste parole spirò”
(ANDREA SARDO, Deposicion 29.03.1606, p. 258).
La virtù
che più di ogni altra risalta dal breve sunto della sua biografia è
senza dubbio la carità autenticamente cristiana e fraterna. Dal
momento dell’incursione corsara del 1590 non lo abbandonò più il
pensiero del cugino fra Francesco Serra che si trovava schiavo tra i
musulmani di Algeri, costretto a faticosi e umilianti lavori con il
timore che, in tali condizioni, potesse vacillare la sua stessa
fermezza nella fede cristiana. Il primo pensiero al risveglio e
l’ultimo la sera prima di prendere sonno era quello del
cugino. Probabilmente anche i suoi sogni erano tormentati dalle
immagini dei famosi bagni turchi dove vivevano ammassati migliaia di
schiavi cristiani. Nella preghiera non mancava mai un invocazione per
la perseveranza nella fede del cugino fra Francesco.
Dalla
carità scaturiscono le altre sue virtù umane e cristiane: il
coraggio e l’intraprendenza, la fortezza d’animo e la
disponibilità all’azione dello Spirito. Egli, umile frate di
una lontana provincia del suo ordine, trova il coraggio di rivolgere
una supplica al papa con la richiesta di poter ricorrere alla questua
per il riscatto del cugino, di percorrere poi per tre lunghi anni i
paesi della Sardegna mostrando a prelati, abbati, parroci e rettori
di chiese il breve del papa che lo autorizzava a stendere la
mano negli atri delle chiese come gli umili mendicati, e a
bussare timidamente alle porte dei pastori e dei contadini per
ricevere quel piccolo obolo, necessario per raggiungere la cifra
richiesta.
Il
coraggio lo sostiene nel chiedere aiuto al re di Spagna Filippo III
per poter arrivare in Africa, e, giunto nel luogo della sua missione,
nell’affidarsi a guide e interpreti sconosciuti, pur di raggiungere
lo scopo del suo viaggio.
Manifesta
lo stesso intrepido coraggio nell’affrontare le sofferenze
dell’arresto e della barbara uccisione.
La
carità cristiana e le virtù morali da essa derivanti scaturiscono e
sono sostenute da una grande fede, alla cui luce per p.
Francesco Zirano è importante non solo il riscatto del cugino dalla
schiavitù, ma ancora di più l’opportunità di arrecare
conforto a lui e agli altri prigionieri, sostenerne la fede e
richiamare a questa i rinnegati.
P.
Zirano sa che la fede cristiana è un dono talmente grande che
illumina e dà significato a tutta l’esistenza e che, quindi va
difesa, custodita e accresciuta in se stessi e negli altri.
Egli sa
che, recandosi ad Algeri, anche la sua fede potrebbe essere messa a
dura prova. Da qui l’impegno ad accrescerla con l’umile preghiera
e a chiedere il dono della perseveranza innanzitutto per se stesso.
Si
spiega così il fatto che di fronte alle indicibili sofferenze
di un crudele martirio egli non abbia avuto un momento di esitazione
nel confessare la sua fedeltà a Cristo.
Per le
autorità di Algeri era un trofeo molto ambito fare prigionieri
importanti personaggi cristiani e p. Zirano, sebbene per errore,
era ritenuto tale; più esaltante, però, era farne dei rinnegati.
Anche a lui fu promesso di avere salva la vita se fosse diventato
musulmano. Di fronte a tale provocazione non solo la sua fede fu
irremovibile, ma colse l’occasione per testimoniarla pubblicamente
e per invitare i suoi aguzzini al cristianesimo: “Io sono
cristiano e religioso del mio padre san Francesco e come tale voglio
morire. E supplico Dio che illumini voi perché lo abbiate a
conoscere”
(ANONIMO,
Relacion, p. 3).
- La
carità cristiana del p. Zirano, oltre che dalla fede, è
sostenuta poi dalla speranza. Potremmo aggiungere da una
molteplice speranza. Dapprima egli spera di portare a compimento
il progetto della liberazione del cugino e di qualche altro
schiavo; una volta caduto egli stesso prigioniero e
condannato a morte, si sente sostenuto dalla speranza che il suo
sacrificio, per grazia di Dio, ravvivi la fede dei rinnegati
e mantenga salda quella del cugino e degli altri cristiani schiavi
ad Algeri, e a lui apra le porte del paradiso.
L’iniziativa
di p. Francesco Zirano alla luce dell’insegnamento di
san
Francesco su “coloro che vanno tra i saraceni e gli altri
infedeli”
L’opera
del p. Francesco Zirano può essere meglio capita e apprezzata
se vista alla luce del comportamento suggerito da san Francesco a
“coloro che vanno tra i saraceni e altri infedeli”. Per
utilità di coloro che non conoscono il testo del serafico padre
lo riporto qui di seguito:
“Dice
il Signore: Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate
dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe.
“Perciò
quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare fra i
Saraceni e altri infedeli, vadano con il permesso del loro
ministro e servo.
“Il
ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli se vedrà che
essi sono idonei ad essere mandati; infatti dovrà rendere ragione al
Signore, se in queste come in altre cose avrà proceduto senza
discrezione. I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono ordinare
i rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non
facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana
per amore di Dio e confessino di essere cristiani.
“L’altro
modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la
parola di Dio perché credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e
Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e
Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché,
se uno non rinascerà per acqua e Spirito Santo non potrà entrare
nel regno di Dio.
“Queste
ed altre cose che piaceranno al Signore possono dire ad essi e ad
altri; poiché dice il Signore nel Vangelo: Chi mi riconoscerà
davanti agli uomini, Io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è
nei cieli; e: Chiunque si vergognerà di me e delle mie
parole, il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando tornerà
nella gloria sua e del Padre e degli angeli.
“E
tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che hanno consegnato e
abbandonato il loro corpo al Signor nostro Gesù Cristo, e per il suo
amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili,
poiché dice il Signore: Colui che perderà l’anima sua per
causa mia la salverà per la vita eterna”2.
Tra gli
esperti si discute se questo capitolo sia stato scritto prima o
dopo l’esperienza dell’incontro che san Francesco ebbe con
il sultano AlMalik-al-Kamil. Se fosse stato scritto prima
indicherebbe la grande intuizione di Francesco, se dopo
riporterebbe il frutto della sua personale esperienza.
Lungo i
secoli sono stati tanti i francescani che si sono recati tra i
saraceni, ma non tutti con gli atteggiamenti suggeriti da san
Francesco in questo capitolo della regola. Alcuni vi si recarono a
seguito e con lo spirito battagliero dei crociati. Altri
particolarmente assetati di martirio e tanto semplici (forse
anche non molto prudenti) da oltraggiare pubblicamente Maometto.
Altri
ancora, e forse più numerosi, vi andarono con lo spirito di san
Francesco per realizzare un’umile e silenziosa testimonianza di
vita cristiana, fatta di rispetto per la buona fede di molti
maomettani e per alcuni loro atteggiamenti autenticamente
religiosi, quali il senso della trascendenza divina, la fedeltà
alla preghiera, il senso dell’ospitalità, ecc.
P.
Francesco Zirano andò tra i saraceni come redentore di schiavi
cristiani e con lo spirito di quanto suggerisce san Francesco nella
regola del 1221.
Egli va
tra i saraceni con l’animo sgombro da ogni forma di ostilità, va
per esercitare una virtù cristiana, anzi quella per eccellenza:
la carità. Non avendo trovato altre soluzioni, utilizza il passaggio
di una nave militare, ma lo scopo del suo viaggio non tende a minare
i poteri costituiti di Algeri.
È vero
che, costretto all’inattività per lo stato di belligeranza tra il
regno di Cuco e Algeri, nel frattempo egli accetta una missione
che potremmo definire diplomatica; essa tuttavia non venne suggerita
da sentimenti di ostilità nei confronti degli islamici. Si
trattava di portare in Spagna una lettera con l’annuncio di una
significativa vittoria da parte del re di Cuco, alleato della Spagna
contro i turchi di Algeri. E fu proprio mentre compiva questa
missione che, per fatalità o tradimento, venne arrestato,
sommariamente processato e condannato alla morte.
Nei
venti giorni che trascorrono dal giorno del suo arresto a quello del
supplizio egli vive in pieno quanto suggerisce san Francesco ai frati
che vanno tra i saraceni: “Un modo è che non facciano liti o
dispute ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e
confessino d’essere cristiani”.
L’intento
del suo viaggio in Africa, secondo quanto già detto, era
esclusivamente caritativo (riscattare il cugino dallo stato di
schiavitù, sostenere nella fede i cristiani schiavi ad Algeri e
esortare i rinnegati a tornare alla fede cristiana).
Inoltre,
quando partì dalla Sardegna, era suo intento riscattare il cugino
non con la forza o l’inganno, ma seguendo le procedure allora
in vigore: giungere sul posto munito dei salvacondotti dovuti, pagare
la somma pattuita per riavere la persona da riscattare e rientrare
pacificamente in patria. Purtroppo tutto questo non fu possibile a
motivo della guerra in atto tra il regno di Cuco e Algeri.
Incatenato,
come Cristo sulla via del Calvario, egli percorreva le strade di
Algeri “mezzo morto di freddo e di fame, ricoperto di un
sommario perizoma, scalzo, con una grande catena al collo e manette
ai polsi” (RAMIREZ, Relacion A, p. 3).
Non un
lamento, non un’imprecazione. Non era venuto a cercare il martirio,
anche se la sua devozione ai martiri Gavino, Proto e Gianuario sta ad
indicare che in lui da sempre era grande l’ammirazione per i
confessori della fede, ma davanti alla prospettiva del martirio egli
si dimostra pronto e grato.
Quando
il cugino fra Francesco Serra lo viene a trovare in carcere,
approfittando dell’ora della preghiera del venerdì, mentre
tutti i musulmani sono nella moschea, e gli comunica che
probabilmente verrà bruciato vivo, egli esclama: “Non merito da
Dio tanta grazia. Ma piaccia a Lui che io venga bruciato per essere
cristiano” (ANONIMO, Relacion, p. 2).
E
quando, la seconda volta che gli fa visita, gli rende noto che quasi
sicuramente l’indomani sarà giustiziato, rinnova la sua
gratitudine al Signore ed offre la sua vita per il ritorno alla fede
dei rinnegati: “Piaccia a Dio che con la mia morte i rinnegati
riconoscano quanto male han fatto rinnegando il proprio Dio in
mezzo a questi infedeli. Ma, ti prego, conducimi un confessore”
(Ivi).
Alla
risposta del cugino che non era possibile trovargli il
confessore, aggiunge: “Accolga Dio la mia intenzione” (Ivi).
S.
Francesco poi aggiunge: “Quando vedranno che piace al Signore,
annunzino la parola di Dio perché credano in Dio onnipotente Padre
Figlio e Spirito Santo...”.
P.
Zirano capisce che tale opportunità a lui si presenta proprio nel
momento in cui è condotto al supplizio. Ecco cosa afferma al
riguardo la testimonianza di Giovanni Andrea di Cagliari, resa a
voce sotto giuramento: “E questo teste vide come i Mori e i
Turchi, quando lo conducevano al martirio, cercavano di
convincerlo a rinnegare la nostra santa fede cattolica. Ma il detto
fra Francesco, cercando di persuaderli col predicare la nostra
santa fede cattolica, diceva: ‘In essa sono nato e in essa voglio
morire’ ” (Deposicion 29.03.1606, p. 258).
E quando
gli promettono di salvargli la vita se diventerà maomettano egli
esprime la propria irremovibile professione di fede cristiana e,
indirettamente, rivolge l’invito perché essi si convertano a
Cristo: “Io sono cristiano e religioso del mio padre san
Francesco e come tale voglio morire. E supplico Dio che illumini voi
perché lo abbiate a conoscere” (ANONIMO, Relacion ,
pA3).
P.
Francesco Zirano prega per la conversione dei suoi carnefici e di
conseguenza indirettamente li
invita a
fare questo salto, ma in lui non è presente alcuna parola di
disprezzo per Maometto o per il Corano.
Infine,
nella sua regola, san Francesco rivolge ai frati questa esortazione:
“E tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che hanno
consegnato e abbandonato il loro corpo al Signor nostro Gesù Cristo,
e per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che
invisibili, poiché dice il Signore: ‘Colui che perderà l’anima
sua per causa mia la salverà per la vita eterna’ ”.
Abbiamo
appena sentito con quale serenità il nostro servo di Dio si disponga
al martirio e lasci che il suo povero corpo sia oltraggiato e
vilipeso. Nella testimonianza di G. Andrea Sardo leggiamo: “Il
detto carnefice si avvicinò con un coltello alla vittima
ammanettata e ferma nel fosso, e gli diede un colpo aprendo gli una
larga ferita dall’orecchio fino alla schiena: e il detto fra
Francesco soffriva con grandissima pazienza, invocando i santissimi
nomi di Gesù e di nostra Signora e recitando salmi. Proseguendo il
carnefice a scorticare con grandissima crudeltà, arrivando alle
mani gliele tagliava al polso, e lo stesso faceva per i piedi, dopo
aver scorticato le gambe: finché scorticando gli il petto fino alla
bocca dello stomaco, il suddetto testimone vide il padre Francesco,
levati gli occhi al cielo con grande dolore, dire: - Nelle tue
mani, o Signore, raccomando l’anima mia: mi hai redento, o Signore,
Dio vero. - E con queste parole spirò” (G. ANDREA
SARDO, Deposicion 29.03.1606, p. 258).
Il
nostro atteggiamento, oggi, nei confronti dell’Islàm
Oggi,
sono soprattutto gli islamici che vengono in mezzo a noi: vengono in
massa alla ricerca di un lavoro, spinti dal bisogno.
Salvo
rare eccezioni vengono disarmati e senza l’intento esplicito di
fare proselitismo. In maggioranza però essi, anche in mezzo a noi,
intendono vivere i capisaldi della loro religione e
inevitabilmente si arriva ad un certo confronto e, qualche
volta, purtroppo, allo scontro, forse perché sia chi viene in mezzo
a noi, sia chi li accoglie non è libero da pregiudizi. Del resto,
non tutti gli islamici che vengono tra noi conoscono e vivono bene il
proprio credo religioso, così come la grande maggioranza dei
cristiani non conosce e non professa in modo integro la vita
cristiana.
In
questa situazione il compito di noi francescani nei confronti di
questi emigrati è: accogliere, rispettare, aiutare,
testimoniare un’autentica vita cristiana, e, all’occorrenza
annunciare loro il vangelo.
1)
Accogliere. Sappiamo che san Francesco voleva che i suoi frati
fossero ospitali verso tutti: “Chiunque verrà da essi, amico o
nemico, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà” (Rnb 7, FF 26).
In
questo spirito è urgente che noi francescani sensibilizziamo il
nostro ambiente perché coloro che, in cerca di un onesto lavoro,
vengono in modo regolare in Occidente non siano né ostacolati né
emarginati. Se ne avessimo la possibilità, noi stessi potremmo
offrire loro un lavoro.
2)
Rispettare. La nostra accoglienza va offerta con spirito
fraterno, umile, con l’atteggiamento di chi accoglie degli amici,
anzi molto di più: Cristo stesso.
Dobbiamo
rispettare anche e soprattutto il loro credo religioso perché come
ha ben detto il Vaticano II, anche in esso è presente “un raggio
di quella verità che illumina tutti gli uomini” (Nostra Aetate
2). Come non apprezzare, ad esempio, il senso profondo della
trascendenza divina da essi coltivato? la fede nella misericordia di
Dio? la fedeltà alla preghiera? lo sforzo per vincere le proprie
passioni? la lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia? A
questo riguardo è molto significativa la sura 4 del Corano: “O
voi che credete praticate la giustizia, praticatela con costanza, in
testimonianza di fedeltà a Dio, anche a scapito vostro, o di vostro
padre, o di vostra madre, sia che si tratti di un ricco o di un
povero perché Dio ha priorità su ambedue”.
3)
Aiutare. Non si tratta solo di offrire aiuti materiali, quando
ne avessero bisogno. Più importante ancora è favorire il loro
inserimento nel nostro ambiente; aiutarli con la nostra cordiale
amicizia a saper armonizzare i doveri di ogni cittadino con
l’osservanza dei precetti della propria religione. Questa
conciliazione non è sempre facile per loro, abituati come sono ad
identificare lo stato con la religione, a differenza di noi
occidentali che da tempo abbiamo distinto queste due dimensioni del
vivere sociale.
4)
Testimoniare. Il mondo occidentale è terrorizzato
dall’idea che l’islamismo possa pacificamente occupare
l’Europa cristiana. E un pericolo reale? Per scongiurarlo o
esorcizzarlo è necessaria una maggiore coerenza nella nostra vita di
fede e un’autentica testimonianza di carità cristiana.
A
contatto con una comunità cristiana che vive con fede, anche gli
islamici difficilmente resteranno insensibili davanti al
messaggio evangelico. È sempre possibile che alcuni cristiani
passino all’Islàm, ma, a lungo andare, è più probabile che tanti
maomettani si aprano alla fede cristiana: dipende anche da noi.
Alla
luce di quanto ha insegnato e vissuto il serafico Padre e nel ricordo
di quanto ha operato p. Francesco Zirano, noi francescani dobbiamo
sentire come nostro il compito di essere vicini, in nome della
Chiesa, ai musulmani.
Anche
se, per il momento, nella nostra Isola gli islamici non sono
moltissimi, noi della Sardegna, collocati dalla geografia e dalla
storia come testa di ponte tra Europa e Africa siamo chiamati ad
individuare in tale compito il nostro specifico per i decenni
a venire.
Doverosa
e fruttuosa memoria dei martiri
Il 4°
centenario della morte di p. Francesco Zirano, ci ricorda che è
doveroso e utile fare memoria di quei cristiani che hanno pagato con
la morte la propria fedeltà a Cristo.
In
occasione del grande Giubileo del 2000 il Papa volle che nel
Colosseo, alla sua presenza, venisse celebrato il ricordo dei martiri
del XX secolo. Risultò una delle cerimonie più commoventi e
significative di quell’anno.
Per la
Chiesa è importante e doveroso:
- fare
memoria dei cristiani che hanno saputo dare la vita per conservare
integra la propria fede e per l’affermazione dei molteplici valori
cristiani;
-
rendere onore a tutti coloro che per fedeltà a Cristo hanno saputo
sacrificare il bene più grande in loro possesso, la propria vita;
-
esprimere gratitudine e riconoscenza per il bene spirituale che la
testimonianza dei martiri apporta alla Chiesa e a ciascun fedele.
Il loro
ricordo, infatti, ravviva la fede, riaccende la speranza, rinnova la
carità.
Ravviva
la fede. Martire è colui che non solo a parole, ma anche con la
vita concreta di ogni giorno ha fatto di Gesù l’unica ragione
della propria esistenza, per cui, con la stessa generosità con
cui ha saputo vivere per Cristo, per Lui sa anche morire.
L’esempio
dei martiri ricorda a tutti i cristiani la grandezza e la forza
della fede.
L’esempio
di p. Francesco Zirano, anche se lontano nel tempo, è ancora più
eloquente per il genere di morte che egli ha saputo affrontare.
Nonostante fosse a conoscenza delle atrocità a cui stava per essere
sottoposto, rimase fermo nel suo proposito di fedeltà a Cristo.
Miracolo della fede! Il suo esempio non può lasciarci indifferenti;
inevitabilmente ravviva la nostra fede.
Riaccende
la speranza. Sul momento la morte del martire provoca un senso di
grande frustrazione e di impotenza perché da’ l’impressione
che la violenza, l’ingiustizia e l’oppressione siano vincenti,
poi, gradatamente, il pensiero che nel mondo ci sono uomini e donne
che non si piegano alla violenza e alla prepotenza, ma dalla fede in
Cristo attingono la forza per resistere al male fino alla morte,
riaccende la speranza che il bene e tutti i valori cristiani si
affermeranno, e il Regno di Dio si imporrà nelle coscienze al di là
di ogni cattiveria umana.
Rinnova
la carità. Le virtù teologali non possono essere mai
disgiunte l’una dall’altra. E evidente che il martire,
nell’offerta della sua vita, è sostenuto dalla fede in Dio e
dall’amore verso di Lui.
Alla
base di molti martini poi c’è anche la volontà esplicita di
venire in aiuto dei fratelli, di difendere i diritti dei più deboli,
di sostenere la fede, ecc. In altre parole: la carità verso il
prossimo.
Come non
sentire di fronte al loro esempio il dovere di uscire dal nostro
egoismo e, in nome dell’amore che abbiamo per Dio, curarci di più
dei nostri fratelli e dei loro problemi?
A tutto
questo ci conduce, in particolare, il ricordo del nostro servo di
Dio. In lui risplendono le virtù della fede, della speranza e della
carità. Sono le virtù fondamentali del cristiano; egli ne da’
testimonianza non in un contesto di serenità e di pace, ma mentre è
sottoposto ad indicibili atrocità.
Infine
il ricordo del martirio di p. Francesco Zirano ci porta,
inevitabilmente, ad un’altra considerazione: tanti nostri
confratelli vivono la propria fede in situazione di ingiustizia
e di repressione.
Non
possiamo dirci veri cristiani se viviamo dimentichi di tali realtà.
Il mistero dell’incarnazione, grazie al quale Gesù Cristo non
ha sorvolato la nostra condizione umana ma l’ha assunta in
pienezza, spinge la Chiesa e noi singoli cristiani ad
immergerci nella realtà concreta, a renderci presenti dove si
soffre violenza e oppressione, dove si patisce ingiustizia o si è
privati di libertà. Dobbiamo uscire allo scoperto, levare la nostra
voce, denunciare le situazioni inumane ancora presenti nel mondo e
lavorare perché siano superate, anche a costo di restare noi stessi
vittime della violenza e dell’ingiustizia, come avvenne per p.
Zirano. Non si dica che ci mancano gli strumenti. Nel nostro piccolo
tutti possiamo e dobbiamo fare qualcosa.
Forse, è
soprattutto questo l’impegno a cui ci richiama il 4° centenario
della morte di p. Francesco Zirano.
Alcune
iniziative concrete
Per
valorizzare adeguatamente la grazia di questo anniversario è
necessario dare concretezza ad alcune suggestioni espresse nel
corso della lettera ed indicare qualche iniziativa in cui
impegnarci.
1)
Perché non renderci promotori di un dialogo intereligioso nella
nostra Isola? Il problema del dialogo intereligioso in
Sardegna è quasi del tutto ignorato. Eppure gli interlocutori non
mancano. Perché non farcene promotori presso le sedi più
opportune?
2)
Dobbiamo, inoltre, organizzare una buona commemorazione di p.
Francesco Zirano almeno in tutte le città in cui siamo presenti, in
collaborazione con la Facoltà teologica, gli Istituti di scienze
religiose, i Centri culturali di varia natura (Rotary, Lions,
Soroptimist, ecc.).
3) Nelle
nostre chiese sia stabilito un giorno particolare nel quale in tutte
le messe venga ricordata la figura di p. Francesco Zirano e
proposto come modello di vita cristiana ai fedeli.
4)
Possiamo poi, proporre ai nostri gruppi ecclesiali in cerca di una
qualche attività caritativa o sociale, un’attenzione particolare
verso gli emigrati che provengono dal mondo islamico.
- Altre
iniziativa concrete potranno essere individuate nel corso dell’anno.
Conclusione
Ma più
di ogni altra cosa il 4° centenario del martirio di p. Francesco
Zirano deve rappresentare per noi frati, per i nostri gruppi
ecclesiali e per tutti i fedeli che frequentano le nostre chiese e
per quelli di tutta la Sardegna un forte richiamo a saper
testimoniare con umile fermezza la nostra fede in Gesù Cristo e a
ricercare con più decisione la santità: la ricerca esplicita,
convinta e costante della santità deve essere sempre presente
nei nostri propositi; lo esigono la fedeltà alle promesse
battesimali, la coerente appartenenza a qualche gruppo ecclesiale e,
per noi frati, il rinnovato impegno assunto con la professione
religiosa.
Lasciamo
risuonare nel nostro animo, frequentemente, l’esortazione di
san Paolo ai tessalonicesi: “Questa è la volontà di Dio,
la vostra santificazione” (1 Ts 4, 3) e diamole ascolto.
Così facendo, commemoreremo nel modo migliore il 4° centenario
del martirio di questo nostro eroico confratello.
Oristano,
11 maggio 2003
fra
Giuseppe Simbula
Ministro
provinciale
Note:
1
GAVIN0 PINNA E MARGHERITA ESCANO, Supplica a Filippo III,
conservata da P. GUISO PIRELLA. Chronica Provinciae Sardiniae,
Roma, Archivio generale OFM, ms T\34, c. 137rv.
2
Regola non bollata, cap. 16, in Fonti Francescane 42-45,
Movimento Francescano, Assisi 1978. Questa regola, scritta nel
1221, è chiamata non bollata perché non fu sottoposta
all’approvazione di alcuna bolla pontificia, a differenza di
quella scritta nel 1223, detta Regola bollata che fu approvata
dal papa Onorio III con la bolla Solet annuere dcl 29 novembre
1223.
La
Regola del 1221, pur non avendo carattere giuridico, è ritenuta da
tutti i francescani un documento di grande importanza spirituale, a
cui orientare il proprio comportamento.
Dal sitohttp://www.smbsassari.com/
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