Tutti
conoscono Don Bosco, l'apostolo della gioventù, pochi però sanno
qualcosa del suo padre Spirituale, Giuseppe Cafasso, di soli quattro
anni più grande di lui. La sua vita fu una lode unica alla
misericordia di Dio. Si adoperò soprattutto per la salvezza delle
anime abbandonate da tutti.
Nel
nome di Dio prometteva loro, e anche subito, il paradiso!
Nella
metà del XIX secolo, don Cafasso, umile professore di morale e
instancabile sacerdote, divenne un modello e l'educatore di una
generazione di santi sacerdoti nella città di Torino e in Piemonte.
Ma c'è un altro aspetto della sua vita: la sua speciale
sollecitudine per i casi senza speranza, per i carcerati e i
condannati a morte, abbandonati da tutti a causa dei loro vizi e dei
loro peccati. Don Giuseppe non lasciava senza assistenza i “suoi
condannati”
Tre
volte a settimana visitava le quattro prigioni torinesi, nelle quali
infuriavano terrificanti condizioni morali e sanitarie. Egli,
“l'amico delle loro anime immortali”, chiamava gli assassini, i
ladri, gli imbroglioni e tutti i carcerati, i suoi “prediletti,
amici e beniamini” e non risparmiava nessuno sforzo per la loro
conversione.
Diceva:
"I miei carcerati e i condannati all'impiccagione sono
il campo di lavoro del mio cuore ... tra loro mi trovo a mio agio:
qui non ho più alcun fastidio, una sola cosa desidererei: avere qui
una camera anche per me per stare giorno e notte con i miei amici”.
Di
solito saliva lentamente e attentamente le scale, ma in carcere era
“come un pesce nell'acqua, correva lungo i corridoi, saliva e
scendeva lieto e felice i gradini umidi e bui”, che quasi si
dimenticava di tornare a casa. Pensando sicuramente ai suoi
prigionieri, don Cafasso disse in un'omelia: "Il Signore è
sempre disposto ad usare misericordia, ed è tale
questa sua volontà, che si tiene più offeso del
disperare, che non del peccato stesso di cui si dispera”.
Conquistava
i più induriti e contrari per mezzo di un amore costante ed una
perseverante bontà. Nessuna bestemmia, nessuna parola cattiva,
nessun insulto rivolto alla sua piccola statura e alla sua gobba
impedivano a don Cafasso di portare ripetutamente regali ai suoi
“prediletti”: tabacco, pane, vino, vestiti oppure frutta. Se alle
volte veniva derubato, taceva e non esitava a dare del denaro alle
guardie affinché trattassero meglio “i Suoi figli. Persino quando
una volta i carcerati cominciarono a bombardarlo con i noccioli della
frutta, da lui stesso appena ricevuta, tranquillizzò i secondini
indignati: "Lasciateli un po fare, non hanno altri
divertimenti, poveretti!”.
Racconta
Don Bosco: “Nessuno era in grado di resistere alla tenera bontà
di don Cafasso. Sapeva consolare ed assistere come
nessun altro e attribuiva ogni merito a Dio. A lui devo tutto!".
Attraverso
queste opere di misericordia corporali, con tenacia e pazienza, il
santo si apriva una strada nei cuori induriti. Un sacerdote curioso
chiese una volta ad un gruppetto di detenuti il segreto del successo
di don Cafasso; questi gli risposero: “Ci fa pregare, ci
istruisce, ci confessa. Vi sono, è vero, dei restii,
ma non tardano molto ad essere accalappiati da lui”.
Un'altra
volta un carcerato, stanco della vita, prese la decisione di uccidere
don Cafasso per essere così a sua volta condannato a morte. Si
dichiarò malato e chiese di potersi confessare. Appena entrato don
Giuseppe percepì lo strano e agitato modo di comportarsi del
paziente. Con serenità totale e quasi materna tenerezza trovò
accesso a quel povero cuore, cosicché il disgraziato consegnò di
sua volontà l'arma pronta per il delitto e si confessò con vera
contrizione.
I
condannati a morte, che egli addirittura chiamava “i miei santi
impiccati”, furono i più cari a don Cafasso. Nella causa di
beatificazione leggiamo che tra questi, tutti coloro che mostravano
una certa buona volontà, chiedevano del “prete della forca”
(come era conosciuto). Da quelli che non chiedevano un sacerdote,
andava egli stesso per conto suo. Ai suoi tempi furono 68 i
condannati a morte da lui assistiti.
Durante
le prime ore, dopo la sentenza di condanna a morte, normalmente non
si può trattare con un detenuto. Grazie alla sua ricca esperienza,
il pastore delle anime sapeva dei loro scoppi d'ira fino allo
sfinimento e conosceva quella disperata, apatica rassegnazione che li
seguiva. Solo quando al condannato a morte veniva portato l'ultimo
pasto nel “Confortatorio” – una piccola cappella con accanto
una stanza per dormire – arrivava il momento di don Cafasso. Si
preparava a lungo in silenzio. Nessuno sapeva dei suoi digiuni, delle
veglie, delle Sante Messe offerte e delle flagellazioni per i suoi
più abbandonati. Si sedeva accanto al condannato sulla branda, lo
ascoltava, lo tranquillizzava e lo consolava come una madre.
Aspettava fino a che l'infelice finalmente non si addormentava
sereno. Fin da subito il giovane Don Bosco aiutò il suo padre
spirituale a confessare i condannati a morte. Un giorno però,
durante il percorso fino al luogo dell'esecuzione, svenne e da quella
volta in poi don Cafasso non lo prese più con sé sul luogo del
supplizio. Don Bosco scrisse: “Don Cafasso era
unico nell'ispirare grande confidenza in chi appariva
disperato, egli aveva il dono di mutare la disperazione in viva
speranza ed infiammato amor di Dio”.
“Oggi
sarai con me in Paradiso!”
Un
detenuto, che all'inizio si era opposto fortemente a don Giuseppe,
gli chiese: “Crede davvero che la mia anima si possa salvare
dopo tanti crimini?". Per risposta si sentì dire: “Non
solo io lo credo possibile, ma lo credo certo. Se voi
foste già nell'anticamera dell'inferno e vi restasse fuori ancora un
capello, ciò mi basterebbe per strapparvi dalle unghie del demonio e
trasportarvi al paradiso”.
Come
una volta Gesù al buon ladrone, così Giuseppe Cafasso prometteva ai
suoi condannati:
“Appena morto, voi andrete subito in paradiso".
- “Come
subito
in paradiso? Nemmeno in purgatorio?”:
chiese uno.
"Non
ci
andrete
ma andrete di volata in
paradiso pertanto, quando vi sarete giunto, vi recherete subito
a ringraziare la Madonna ... e le direte di preparare un posto anche
per me”.
Persino
quando il carro con il condannato e i carnefici attraversava la
città, don Cafasso restava fedelmente accanto al “figlio” e
rinnovava insieme a lui l'abbandono in Dio e l'atto di contrizione.
Per distrarlo dalla curiosità della folla chiassosa, sfogliava con
lui riviste con immagini della Madonna o gli mostrava scene della
vita dei Santi.
Il
generale Ramorino, accusato di alto tradimento e condannato a morte,
venne incoraggiato dal Santo durante il tragitto verso il luogo
dell'esecuzione: "Vede quanto popolo ci circonda? Non sarebbe
bene ch'ella gli facesse una predica? Varrebbe
più una parola delle sue che cento delle nostre”. Il generale
si scusò di non sapere cosa dire e don Giuseppe rispose: “Basta
baciare il Crocifisso, e la predica è fatta”.
Ramorino
acconsenti e subito baciò riverente il Crocifisso davanti a tutti,
con grande commozione della folla. Don Cafasso rimase con lui fino ai
colpi dei fucili. Allo stesso modo assisteva fino all'ultimo istante
i destinati a morire sulla forca, porgeva loro il Crocifisso per un
bacio, dava l'assoluzione generale, li accompagnava sul palco salendo
la scaletta. Tante volte la folla curiosa e stupita sentì parole
inaspettate dalla bocca dei giustiziati: “Pregate per me, ch'io
spero fra poco di pregare per voi". Un altro
disse: “Fratelli miei, sono il più tranquillo tra
voi !”.
Don
Cafasso disse poi che, tastatogli il polso, glielo aveva davvero
trovato sereno e tranquillo. Un'altra volta uno, contento e sicuro,
disse: "Finora le ho sbagliate tutte, ma spero
d'indovinar l'ultima, e questa mi compenserà delle altre. Vado in
Cielo ''.
Le
sere di tali giorni, nella ricreazione, don Giuseppe riferiva
dettagliatamente di queste conversioni ai seminaristi che avevano
pregato con fervore. Con grande gioia parlava di quelli che, anche se
all'ultima ora, avevano seguito Gesù e così erano stati pienamente
ricompensati con il Cielo. Per questa sua viva convinzione don
Cafasso chiedeva l'intercessione dei “suoi santi impiccati” e
testimoniò spesso: "Non mi hanno mai piantato in asso”.
Tratto
da “Trionfo del Cuore” -
IL
GIORNO PIÙ’ GRANDE DELLA MIA VITA -
Famiglia di Maria - Settembre-Ottobre
2016 n° 39
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