1.
A questo punto sembra utile fornire un’esposizione più chiara e
dettagliata di quanto detto prima. Ho mostrato come i nostri appetiti
provochino nell’anima due danni principali. Il primo lo priva dello
spirito di Dio; l’altro la stanca, la tormenta, la oscura, la
sporca, l’indebolisce e la ferisce, proprio come afferma Geremia:
Duo
mala fecit populus meus: dereliquerunt fontem aquae vivae, et
foderunt sibi cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas,
cioè: Il
mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me,
sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate
che non tengono l’acqua
(Ger 2,13). Questi due mali, privativo e positivo, sono provocati da
qualsiasi atto disordinato dell’appetito. Parlando, in primo luogo,
di quello privativo, è chiaro che, per lo stesso motivo per cui
l’anima si affeziona a qualsiasi bene creato, quanto più
quell’appetito è radicato in essa, tanto meno è capace di unirsi
a Dio. Infatti, come dicono i filosofi e come ho già riferito nel
capitolo 4, due contrari non possono coesistere in uno stesso
soggetto. Ora, l’amore per Dio e quello per le creature sono
contrari; quindi non possono coesistere in una stessa volontà
l’affetto per le cose create e quello per Dio. Cosa ha a che
vedere, infatti, la creatura con il Creatore, il sensibile con lo
spirituale, il visibile con l’invisibile, il temporale con
l’eterno, il cibo celestiale, puro e spirituale, con il nutrimento
grossolano dei sensi, lo spogliamento del Cristo con l’attaccamento
alle cose?
2.
Pertanto, come nell’ordine naturale delle cose non si può
introdurre una forma senza aver prima espulso dal soggetto la forma
contraria, preesistente, la cui presenza è d’impedimento
all’altra, perché ad essa opposta, così l’anima, finché è
soggetta alle attrattive del senso, non può accogliere il puro
spirito di Dio. Per questo il Salvatore ha detto per bocca di san
Matteo: Non
est bonum sumere panem filiorum et mittere canibus,
cioè: Non
è bene prendere il pane dei figli per darlo ai cani
(Mt 7,6). Con queste affermazioni il Signore paragona ai figli di Dio
coloro che, negando l’attaccamento alle cose create, si dispongono
ad accogliere in purezza lo spirito di Dio; ai cani, invece, paragona
quelli che vogliono trovare nutrimento nelle cose create attraverso i
loro appetiti. Ai figli, infatti, è concesso mangiare alla mensa e
allo stesso piatto del Padre, cioè nutrirsi del suo spirito; mentre
ai cani sono lasciate le briciole che cadono dalla tavola.
3.
A tale riguardo occorre notare che tutte le cose create sono briciole
che cadono dalla mensa di Dio. A buon diritto, dunque, sono chiamati
cani coloro che si pascono delle cose create; per questo viene tolto
loro il pane dei figli, perché non vogliono elevarsi al di sopra di
esse, vere briciole, fino alla mensa dello spirito increato del
Padre. Proprio per questo vagano sempre affamati come cani, perché
le briciole servono più a stimolare gli appetiti che a sedare la
fame. Di costoro Davide afferma: Famem
patientur ut canes, et circuibunt civitatem. Si vero non fuerint
saturati, et murmurabunt: Ringhiano come cani, per la città si
aggirano, vagando in cerca di cibo; latrano, se non possono saziarsi
(Sal 58,15-16). Questa, infatti, è la caratteristica di chi è
dominato dagli appetiti: è sempre scontento e inquieto, come un
famelico. Ora, che relazione c’è tra la fame causata da tutte le
cose create e la sazietà prodotta dallo spirito di Dio? Ma questa
sazietà increata non può entrare nell’anima se prima non viene
cacciata via l’altra; come ho detto, infatti, non possono
coesistere due contrari nello stesso soggetto, in questo caso la fame
e la sazietà.
4.
Da quanto detto si può notare come Dio fa più, per così dire, per
purificare e liberare un’anima da queste opposizioni che per
crearla dal nulla. Queste sregolatezze degli affetti e degli appetiti
contrari contrastano e resistono a Dio più che il nulla, che non
oppone resistenza. Avendone già parlato a lungo più sopra, basti
questo circa il primo danno principale prodotto nell’anima dagli
appetiti, che consiste nel resistere allo spirito di Dio.
5.
Ora parlerò del secondo danno che tali appetiti causano nell’anima.
Esso si manifesta sotto svariate forme, perché gli appetiti stancano
l’anima, la tormentano, la oscurano, la sporcano e la
indeboliscono. Parlerò dettagliatamente di questi cinque effetti.
6.
Quanto alla prima forma, è chiaro che gli appetiti stancano e
affaticano l’anima. Assomigliano a bambini inquieti e scontenti,
che chiedono sempre qualcosa alla mamma e non si contentano mai.
Peraltro, come si stanca colui che scava, spinto dalla cupidigia di
un tesoro, così si stanca e si affatica l’anima per conseguire ciò
che le chiedono gli appetiti. E anche se ottiene quel che vuole, alla
fine si stanca sempre, perché non è mai soddisfatta. In fondo,
quelle che scava, sono cisterne
screpolate
che non
tengono l’acqua
per spegnere la sete (Ger 2,13). A tale riguardo così si esprime
Isaia: Lassus
adhuc sitit, et anima eius vacua est: Langue ancora per sete e si
sente vuoto
(Is 29,8), che significa: il suo appetito è insoddisfatto, perciò
l’anima che ha appetiti si stanca e si affatica. È come il malato
con la febbre: non sta bene finché questa non sparisce, ad ogni
istante gli cresce la sete. Si legge, infatti, nel libro di Giobbe:
Cum
satiatus fuerit, arctabitur, aestuabit, et omnis dolor irruet super
eum,
che vuol dire: Quando
l’anima avrà appagato i suoi appetiti, nel colmo della sua
abbondanza si ritroverà più oppressa e appesantita, dentro di essa
crescerà l’arsura dell’appetito e così ogni sorta di sciagura
le piomberà addosso
(Gb 20,22). L’anima si stanca e si affatica a causa dei suoi
appetiti, perché è ferita, mossa e turbata da essi, come i flutti
sotto l’azione dei venti. Al pari di quelli, l’anima è turbata
senza trovare da nessuna parte o in qualche cosa un momento di
riposo. Di tali anime così afferma Isaia: Cor
impii quasi mare fervens: Il cuore del malvagio è come il mare che
agitato ribolle
(Is 57,20); e cattivo è chi non vince gli appetiti. L’anima che
vuole appagare i suoi appetiti si stanca e si affatica. Somiglia a
colui che, avendo fame, apre la bocca per saziarsi di vento, ma
invece di saziarsi rimane con più voglia, perché il vento non è il
suo cibo. A questo proposito dice Geremia: In
desiderio animae suae attraxit ventum amoris sui,
cioè: Nell’ardore
del suo desiderio aspira l’aria
(Ger 2,24). E subito dopo, per spiegare l’arsura in cui si trova
quell’anima, le offre questo consiglio: Prohibe
pedem tuum a nuditate, et guttur tuum a siti,
che significa: Bada
che il tuo piede,
cioè il tuo pensiero, non
resti scalzo e la tua gola non si inaridisca
(Ger 2,25), ossia preserva la tua volontà dal soddisfare gli
appetiti, che generano una più profonda aridità. Come si sente
esausto e crolla l’innamorato che vede andare in fumo i suoi
progetti proprio nel giorno in cui sperava di realizzarli, così si
stanca e si affatica l’anima che cede ai suoi appetiti e li
soddisfa, perché le procurano un vuoto maggiore e una fame più
acuta. Come si dice comunemente, l’appetito è come il fuoco:
cresce se gli si aggiunge legna, ma è destinato a spegnersi appena
l’ha consumata.
7.
Ora, la condizione degli appetiti è ancora peggiore. Il fuoco,
infatti, si spegne quando si esaurisce la legna, mentre gli appetiti
non perdono l’intensità raggiunta quando sono stati soddisfatti,
sebbene sia venuto meno il loro oggetto; invece di diminuire, come il
fuoco quando si è consumata la legna, restano sfiniti dalla fatica
perché la cupidigia è cresciuta e diminuito il cibo. A tale
proposito afferma Isaia: Declinabit
ad dexteram, et esuriet; et comedet ad sinistram, et non saturabitur:
Dilania a destra, ma è ancora affamato; mangia a sinistra, ma senza
saziarsi
(Is 9,19). Coloro, infatti, che non mortificano i loro appetiti,
proprio quando si voltano vedono la sazietà, non a loro concessa,
dello spirito di soavità di coloro che sono alla destra di Dio;
quando, poi, corrono a sinistra, cioè si lasciano andare al piacere
di qualche cosa creata, non si saziano affatto, perché mettono da
parte l’unica cosa che può saziare e si nutrono di ciò che
accresce la loro fame. È chiaro, dunque, che gli appetiti stancano e
affaticano l’anima.
Ove
si mostra come l’anima sia tormentata dagli appetiti. Lo si prova
anche con paragoni e l’autorità della sacra Scrittura.
1.
Vi è una seconda forma di male positivo che gli appetiti provocano
nell’anima. Questi la tormentano e l’affliggono, come tormentato
è il condannato al supplizio della corda, legato a qualche sostegno,
che non trova riposo finché non viene liberato. A tale riguardo
afferma Davide: Funes
peccatorum circumplexi sunt me: Le funi dei peccati,
che sono i miei appetiti, mi
hanno stretto da ogni parte
(Sal 118,61). Come è tormentato e afflitto chi si distende nudo su
spine e aculei, così è tormentata e afflitta l’anima quando si
lascia andare ai suoi appetiti. Questi, infatti, come spine, la
feriscono, la pungono, si attaccano ad essa e la torturano. Di essi
Davide dice ancora: Circumdederunt
me sicut apes, et exarserunt sicut ignis in spinis: Mi hanno
circondato come api, come fuoco che divampa tra le spine
(Sal 117,12). Negli appetiti, infatti, che sono le spine, divampa il
fuoco dell’angoscia e del tormento. Come l’agricoltore, spinto
dalla cupidigia della messe, pungola e tormenta il bue aggiogato
all’aratro, così la concupiscenza affligge l’anima sotto il
pungolo dell’appetito per ottenere ciò che vuole. Di ciò abbiamo
un esempio molto evidente in quel desiderio che aveva Dalila di
sapere in che cosa consistesse la forza di Sansone. La sacra
Scrittura dice che lo stancava e lo tormentava tanto da indebolirlo
fin quasi alla morte: Defecit
anima eius, et ad mortem usque lassata est
(Gdc 16,16).
2.
Quanto più forte è l’appetito, tanto più grande è il tormento
per l’anima, cosicché l’uno è proporzionato all’altro; più
numerosi sono gli appetiti, più numerosi sono i suoi tormenti.
Nell’anima, infatti, si realizza, già in questa vita, ciò che
l’Apocalisse dice di Babilonia: Quantum
glorificavit se, et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et
luctum,
cioè: Tutto
ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso, restituiteglielo
in tanto tormento e afflizione
(Ap 18,7). È proprio vero che come è tormentato e afflitto chi cade
nelle mani del suo nemico, così è tormentata e afflitta l’anima
che si lascia trasportare dai suoi appetiti. Di tale realtà abbiamo
un’immagine nel libro dei Giudici (16,21). Ivi si legge che il
robusto Sansone, prima forte, libero e giudice di Israele, una volta
caduto nelle mani dei suoi nemici perse la forza, fu accecato e
costretto a girare una macina. Così lo tormentarono e lo fecero
soffrire molto. Tale è la sorte dell’anima quando questi nemici,
gli appetiti, sono vivi e vittoriosi su di essa; incominciano prima a
indebolirla e ad accecarla; poi, come dirò più avanti, l’affliggono
e la tormentano, legandola alla macina della concupiscenza; i legami
che la tengono avvinta sono i suoi stessi appetiti.
3.
Ora, Dio ha pietà delle anime che con tanta fatica e a loro spese
cercano di placare la sete e la fame dei loro appetiti nelle cose
create. Ad esse dice per bocca di Isaia: Omnes
sitientes, venite ad aquas; et qui non habetis argentum, properate,
emite et comedite: venite, emite absque argento vinum et lac. Quare
appenditis argentum non in panibus, et laborem vestrum non in
saturitate?
(Is 55,1-2), come a dire: O
voi tutti assetati
di appetiti, venite
all’acqua; chi non ha il denaro
della propria volontà e dei propri appetiti, venga
ugualmente, comprate da me e mangiate: comprate e mangiate senza
denaro e senza spesa vino e latte,
cioè la pace e le dolcezze spirituali, senza
il denaro
della propria volontà e senza darmi in cambio interesse né alcun
lavoro, come fate per i vostri appetiti. Perché offrite il denaro
della vostra volontà per
ciò che non è pane,
che non appartiene cioè allo spirito divino? Perché mettete
il lavoro
dei vostri appetiti in
ciò che non può saziare?
Venite, ascoltatemi e mangerete il bene che desiderate, e l’anima
vostra si rallegrerà nell’abbondanza.
4.
Quest’abbondanza significa la liberazione da tutti i piaceri per le
cose create, perché queste tormentano l’anima, mentre lo spirito
di Dio la vivifica. Quest’invito ci rivolge il Signore in san
Matteo: Venite
ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos, et
invenietis requiem animabus vestris
(11,28-29), come a dire: Voi
tutti che siete
tormentati, afflitti
e oppressi
dal peso delle vostre preoccupazioni e dei vostri appetiti,
liberatevene, venite
a me, e io vi ristorerò, e troverete per le vostre anime il riposo
che i vostri appetiti vi tolgono. Questi sono certamente un carico
pesante, come dice Davide: Sicut
onus grave gravatae sunt super me: Come un grave peso mi opprimono
(Sal 37,5).
Ove
si mostra come gli appetiti oscurano e accecano l’anima.
1.
Vi è una terza forma di danno causato dagli appetiti all’anima:
l’accecano e annebbiano la ragione. Come i vapori oscurano l’aria
e non lasciano filtrare il sole che splende; come lo specchio
appannato non può riprodurre limpidamente il volto; o come l’acqua
fangosa non lascia vedere la faccia che in essa si specchia, così
l’anima prigioniera degli appetiti ha l’intelletto annebbiato:
non lascia che il sole della ragione naturale né quello
soprannaturale della Sapienza di Dio la investano e la illuminino
completamente. Così dice Davide a tale proposito: Comprehenderunt
me iniquitates meae, et non potui, ut viderem: Le mie colpe mi
opprimono e non posso più vedere
(Sal 39,13).
2.
Nello stesso tempo in cui si offusca l’intelletto, s’intorpidisce
anche la sensibilità e la memoria diventa rozza, in una parola
s’introduce il disordine nel modo naturale di operare dell’anima.
Poiché queste potenze, nelle loro operazioni, dipendono
dall’intelletto, quando questo è impedito, esse risultano
necessariamente disordinate e sconvolte. Davide, infatti, così si
esprime: Anima
mea turbata est valde: L’anima mia è tutta sconvolta
(Sal 6,4), ossia le sue potenze sono nel disordine. Difatti, come ho
detto, l’intelletto non ha la capacità di accogliere
l’illuminazione della sapienza di Dio, come l’aria cupa non può
ricevere la luce del sole. Anche la volontà non è in grado di amare
Dio con puro amore, come lo specchio appannato dall’alito non può
riflettere nitido il volto cha ha di fronte; meno ancora la memoria
offuscata dalle tenebre degli appetiti è in grado di riflettere in
sé, con chiarezza, l’immagine di Dio, come l’acqua torbida non
può mostrare nitidamente il volto di colui che vi si specchia.
3.
Gli appetiti, inoltre, accecano e ottenebrano l’anima perché, in
quanto tali, sono ciechi; per parte loro, infatti, non comprendono
nulla: devono essere guidati sempre dalla ragione. Così, ogni volta
che l’anima si lascia guidare dai suoi appetiti, diventa cieca;
assomiglia a colui che vede e si fa guidare da un non vedente, il che
equivale a essere entrambi ciechi. Di conseguenza risulta vero quanto
il Signore dice nel vangelo di Matteo: Si
caecus caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadunt: Quando un cieco
guida un altro cieco, tutti e due cadono in un fosso
(Mt 15,14). Giovano poco gli occhi alla farfalletta che, abbagliata
dal desiderio della bellezza della luce, si lascia attrarre dalla
fiamma. Possiamo ancora aggiungere che chi si nutre degli appetiti è
come il pesce abbagliato, al quale la luce funge piuttosto da tenebra
che non gli permette di vedere le insidie tesegli dai pescatori. Fa
capire molto bene tutto questo Davide rivolgendosi così a un tal
genere di persone: Supercecidit
ignis, et non viderunt solem
(Sal 57,9 Volg.), cioè cadde
su di loro il fuoco
che riscalda con il suo calore e
abbaglia con la sua luce.
Tutto questo causano gli appetiti nell’anima, accendendo la
concupiscenza e abbagliando l’intelletto in modo da non fargli
vedere la luce. L’abbagliamento, infatti, è dovuto al fatto che
quando si presenta agli occhi una luce diversa, la vista viene così
catturata da questa tanto da non vedere più l’altra. Così è dei
nostri appetiti: si accostano talmente all’anima da insediarvisi;
essa incappa in questa prima luce e se ne nutre in modo da non vedere
chiaramente quella della sua ragione, né la vedrà finché non si
sottrarrà all’accecamento degli appetiti.
4.
Per questo motivo non si può non deplorare profondamente l’ignoranza
di alcune persone che si danno a molte penitenze straordinarie e a
molti altri esercizi volontari, convinte che basti questo per
arrivare all’unione con la Sapienza divina, mentre poi non si
preoccupano affatto di mortificare accuratamente i loro appetiti. Se
invece procurassero di impiegare la metà di quegli sforzi in questo
lavoro, farebbero più progressi in un mese che non con tutti gli
altri esercizi in molti anni. Come, infatti, è necessario lavorare
la terra perché porti frutti, altrimenti produrrebbe solo erbacce,
così è necessaria la mortificazione degli appetiti perché l’anima
progredisca. Altrimenti oso dire che, per progredire nella perfezione
e nella conoscenza di Dio e di se stessa, non le giova mai quanto
farà, come non produce il seme sparso sulla terra incolta. Di
conseguenza l’anima resterà nelle tenebre e nella rozzezza fin
quando non avrà smorzato gli appetiti. Questi sono per l’anima
come la cateratta o la pagliuzza negli occhi: impediscono di vedere
finché non vengono tolte.
5.
Davide, per mostrare la cecità degli appetiti, quanto essi
impediscano all’anima di vedere la luce della verità e quanto
irritino Dio, si esprime in questi termini: Priusquam
intelligerent spinae vestrae rhamnum: sicut viventes, sic in ira
absorbet eos
(Sal 57,10 Volg.), come a dire: Prima
che le vostre spine,
cioè i vostri appetiti, si
sentan fatte un roveto, così (Dio) nel suo sdegno li divorerà quasi
ancora vivi.
Quando gli appetiti dell’anima sono ancora vivi e impediscono di
comprendere Dio, vengono da lui distrutti in questa vita o
nell’altra, con il castigo e la correzione, che avverrà attraverso
la purificazione. Dice che li consumerà nella sua ira, perché ciò
che si soffre nella mortificazione degli appetiti è punizione per i
danni causati all’anima.
6.
Oh, se gli uomini conoscessero tutto il bene della luce divina di cui
questa cecità causata dagli affetti e dagli appetiti li priva! Se
sapessero in quanti mali e in quanti danni cadono ogni giorno, per
non volerli mortificare! Non devono fidarsi della loro buona
intelligenza o di altri doni ricevuti da Dio, convinti che qualche
affetto o appetito non possa accecare od oscurare e farli cadere a
poco a poco in basso. Chi avrebbe detto, infatti, che un uomo tanto
saggio e ricco di doni di Dio come Salomone sarebbe arrivato, ormai
vecchio, a tanta cecità e debolezza di volontà da erigere altari a
numerosi dei e ad adorarli lui stesso (1Re 11,4-8)? Per indurlo a
tanto, bastò la passione per le donne e l’incuria nel mortificare
gli appetiti e i piaceri del cuore. Egli stesso dice di sé
nell’Ecclesiaste di non aver negato nulla al suo cuore (Qo 2,10). È
fuori dubbio che in principio agisse con prudenza, ma si lasciò
trascinare dai suoi appetiti, perché non li mortificava affatto, al
punto che questi a poco a poco lo accecarono e oscurarono la sua
intelligenza, fino a soffocare del tutto quella grande luce di
sapienza che Dio gli aveva concesso; e così, ormai vecchio,
abbandonò Dio.
7.
Ora, se gli appetiti poterono tanto in un uomo che conosceva a fondo
la distanza vigente tra il bene e il male, cosa non potranno fare
contro la nostra ignoranza se non li mortifichiamo? Ebbene, come
disse Dio a Giona parlando dei niniviti, noi non conosciamo la
differenza tra la sinistra e la destra (Gio 4,11), e ad ogni istante
confondiamo il male con il bene e il bene con il male: ecco cosa
siamo capaci di fare da soli! Cosa avverrà, allora, se alla tenebra
naturale si aggiungerà l’appetito? Accadrà ciò che dice Isaia:
Palpavimus
sicut caeci parietem, et quasi absque oculis attrectavimus: impegimus
meridie, quasi in tenebris
(Is 59,10). Il profeta parla di coloro che amano seguire i loro
appetiti ed è come se dicesse: Tastiamo
come ciechi la parete, come privi di occhi camminiamo a tastoni;
inciampiamo a mezzogiorno come al crepuscolo.
Chi è accecato dall’appetito, anche se posto nella piena luce
della verità e del suo dovere, non vede nulla, perché è come se
fosse nelle tenebre.
Ove
si tratta del modo con cui gli appetiti sporcano l’anima. Lo si
prova con paragoni e l’autorità della sacra Scrittura.
1.
La quarta forma di danno che gli appetiti recano all’anima consiste
nello sporcarla e macchiarla, così come dice l’Ecclesiastico: Qui
tetigerit picem, inquinabitur, ab ea: Chi maneggia la pece si sporca
(13,1). Ora, chi si compiace di qualche cosa creata è come se
toccasse la pece. Occorre notare che il Saggio paragona le cose
create alla pece, perché tra l’eccellenza dell’anima e quanto di
meglio c’è in tali cose intercorre una differenza maggiore di
quella esistente tra il diamante puro o l’oro fino e la pece. Se si
versasse della pece bollente sull’oro o su un diamante, essi ne
verrebbero subito sporcati e unti, a seconda del calore più o meno
elevato della pece. Lo stesso avviene per l’anima che arde di
bramosia per qualche cosa creata: ne contrae la sporcizia e le
macchie. Per di più, tra l’anima e le altre creature corporee c’è
più differenza di quanta ve ne sia tra un liquido cristallino e il
fango più denso. Se quel liquido venisse mescolato al fango si
insudicerebbe; così si sporca l’anima che si accosta alle cose
create, perché rende se stessa simile a dette cose. Come i segni di
fuliggine deturpano un volto molto bello e perfetto, così gli
appetiti disordinati sporcano e deturpano l’anima che ne è
prigioniera, anche se per natura è bellissima e immagine perfetta di
Dio.
2.
Per questo Geremia, piangendo il danno e la bruttezza che simili
attaccamenti disordinati provocano nell’anima, prima ne esalta la
bellezza e poi ne deplora la bruttezza con queste parole: Candidiores
sunt nazaraei eius nive, nitidiores lacte, rubicundiores ebore
antiquo, saphiro pulchriores. Denigrata est super carbones facies
eorum, et non sunt cogniti in plateis: I suoi nazareni,
cioè i capelli dell’anima, erano
più splendenti della neve, più candidi del latte; avevano il corpo
più roseo dei coralli, era zaffiro la loro figura. Ora il loro
aspetto s’è fatto più scuro della fuliggine, non si riconoscono
più per le strade
(Lam 4,7-8). Per capelli intendiamo qui gli affetti e i pensieri
dell’anima; se restano nell’ordine stabilito da Dio, cioè in Dio
stesso, sono più candidi della neve, più bianchi del latte, più
lucidi dell’avorio e più splendenti dello zaffiro. Con queste
quattro cose s’intende ogni forma di bellezza e di eccellenza delle
cose terrene. Geremia dice che se le operazioni dell’anima –
corrispondenti ai nazarei o capelli – sono disordinate e rivolte a
un fine opposto alla legge di Dio, cioè utilizzate nelle cose
create, la faccia dell’anima, per così dire, diventa più nera del
carbone.
3.
Tutto questo male, e anche di più, è causato contro la bellezza
dell’anima dagli appetiti disordinati per le cose di questo mondo.
Se volessimo parlare espressamente dell’aspetto brutto e sporco al
quale gli appetiti riducono l’anima, non troveremmo un luogo, per
quanto pieno di ragnatele e di vermi, né un cadavere con tutta la
sua deformità, né qualsiasi altra cosa immonda e sporca che si
possa immaginare in questa vita, con cui paragonarla. L’anima
disordinata, infatti, sebbene per natura sia perfetta come Dio l’ha
creata, tuttavia in quanto essere razionale è divenuta brutta,
abominevole, sporca, priva di luce, piena di tutte le imperfezioni di
cui sto parlando e altre ancora. Un solo appetito disordinato,
infatti, come dirò più avanti, sebbene non costituisca materia di
peccato mortale, è sufficiente per rendere l’anima tanto schiava,
sudicia e brutta che in nessun modo può unirsi a Dio, finché non si
purifichi di quell’appetito. Quale sarà, allora, la bruttezza di
quella che è tutta disordinata, immersa nelle sue passioni e schiava
dei suoi appetiti? Quanto sarà lontana da Dio e dalla sua purezza?
4.
Le parole non potrebbero spiegare né tanto meno la ragione
comprendere le varie specie d’impurità che i diversi appetiti
provocano nell’anima. Se lo si potesse esprimere e farlo
comprendere, si rimarrebbe sorpresi e toccati da grande compassione
nel constatare come ogni appetito, a seconda della sua qualità e del
suo grado d’intensità, lasci la sua impronta e la sua patina
d’immondezza e bruttezza nell’anima. Vedremmo anche come gli
appetiti, in un disordine sostanzialmente unico, contengano in sé
innumerevoli specie di sozzure, maggiori o minori secondo la propria
natura. Come l’anima del giusto in un’unica perfezione, cioè
nella rettitudine, possiede innumerevoli e ricchissimi doni e molte
virtù, diverse e belle ognuna a suo modo, a seconda delle diverse
affezioni che la portano a Dio; così l’anima disordinata,
trascinata dalle diverse inclinazioni per le cose create, contiene in
sé una deplorevole varietà di sozzure e di bassezze che le derivano
dai suddetti appetiti.
5.
Questa varietà di appetiti è ben raffigurata nel libro di Ezechiele
(8,10-16), dove si legge che Dio gli mostrò, dipinti sulle pareti
interne del tempio, ogni sorta di rettili che strisciano sulla terra
e ogni genere abominevole di animali immondi. Dio disse, allora, a
Ezechiele: Hai
visto, figlio dell’uomo? Vedrai abomini peggiori di questi, che
ciascuno compie nella stanza recondita del proprio idolo.
Poi Dio ordinò al profeta d’inoltrarsi sempre più per vedere
nefandezze ancora peggiori. Il profeta racconta di aver visto donne
sedute che piangevano Adone, il dio dei loro amori. Quando Dio gli
ordinò di andare oltre per vedere abominazioni ancora più grandi
delle precedenti, vide venticinque anziani con le spalle rivolte al
tempio.
6.
Le diverse specie animali schifosi e immondi, ritratte nel primo
recesso del tempio, raffigurano i pensieri e i concetti che
l’intelletto elabora sulle cose vili della terra e su tutte le cose
create; queste, così come sono, s’imprimono nel tempio dell’anima,
quando se ne ingombra l’intelletto, che è la prima facoltà dello
spirito. Le donne che si trovavano più all’interno, nel secondo
locale, ove piangevano il dio Adone, simboleggiano gli appetiti, che
hanno sede nella seconda potenza dell’anima, cioè nella volontà.
Essi stanno piangendo, per così dire, perché bramano ciò a cui la
volontà è affezionata, cioè i rettili già rappresentati
nell’intelletto. Gli uomini che si trovavano nel terzo locale del
tempio, sono le immagini e le rappresentazioni delle cose create, che
la terza potenza dell’anima, cioè la memoria, conserva e rimugina
dentro di sé. Tali rappresentazioni volgono le spalle al tempio; ciò
vuol dire che l’anima, quando con le sue tre potenze si porta
totalmente e perfettamente verso qualche essere creato, rivolge le
spalle al tempio di Dio, cioè alla sua retta ragione, che non
ammette in sé alcuna cosa creata.
7.
Quanto è stato detto fin qui è sufficiente per darci un’idea del
disordine causato nell’anima dai suoi appetiti. Se, infatti,
dovessi trattare nei particolari della bruttezza, pur minore,
provocata nell’anima dalle imperfezioni e le loro varietà; o di
quella, più grande della precedente, causata dai peccati veniali in
tutta la loro varietà; o, infine, di quella prodotta dagli appetiti
del peccato mortale, in tutta la loro varietà, che rendono l’anima
completamente orrida, non finirei più. Neanche un’intelligenza
angelica sarebbe in grado di comprendere la varietà e la moltitudine
di queste tre cose. Mi limito a dire, a conferma del mio argomento,
che qualsiasi appetito, anche se ha per oggetto la più piccola
imperfezione, macchia e sporca l’anima.
CAPITOLO
10
Ove
si mostra come gli appetiti intiepidiscano e indeboliscano l’anima
nell’esercizio della virtù.
1.
La quinta forma di danno provocato dagli appetiti nell’anima
consiste nel renderla tiepida e debole a tal punto che non ha più la
forza di seguire la virtù e di perseverare in essa. Nel caso,
infatti, in cui la forza degli appetiti si divide verso più oggetti,
risulta più debole che se fosse concentrata su un oggetto unico; più
essa si divide, più s’indebolisce nei riguardi di ogni oggetto.
Per questo i filosofi dicono che la virtù unita ha più forza di
quella che è divisa. Pertanto, se l’appetito della volontà si
disperde verso qualcosa al di fuori della virtù, è chiaro che
diverrà più fiacca per praticare la stessa virtù. L’anima che
disperde la sua volontà dietro a inezie è come l’acqua che,
trovando un varco per scorrere a valle, non cresce verso l’alto, e
di conseguenza non serve a nulla. Per questo il patriarca Giacobbe
paragonò il figlio Ruben all’acqua versata, perché, nel
commettere un certo peccato, aveva lasciato libero corso ai suoi
appetiti: Ti
sei versato come l’acqua e non crescerai
(Gn 49,4), come se volesse dirgli: poiché ti sei disperso come
l’acqua, seguendo i tuoi appetiti, non crescerai nella virtù. Come
l’acqua bollente, se non viene coperta, facilmente perde il suo
calore, o come le specie aromatiche, se lasciate all’aria, perdono
a poco a poco la fragranza e la forza del loro profumo, così l’anima
non concentrata nell’unico desiderio di Dio perde l’ardore e il
vigore della virtù. Aveva ben compreso questa verità Davide,
quando, rivolgendosi a Dio, disse: Fortitudinem
meam ad te custodiam: Custodirò la mia forza per te
(Sal 58,10), cioè raccogliendo solo su di te la forza dei miei
appetiti.
2.
Gli appetiti indeboliscono la forza dell’anima, perché sono per
essa come i polloni che crescono attorno all’albero e gli
sottraggono vigore, impedendogli di portare molto frutto. Di queste
anime il Signore dice: Vae
praegnantibus et nutrientibus in illis diebus!,
cioè: Guai
alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni!
(Mt 24,19), alludendo alla gestazione e al nutrimento degli appetiti.
Se questi non verranno mortificati, sottrarranno continuamente forza
all’anima e cresceranno per la sua rovina, come i polloni attorno
all’albero. Per questo il Signore ci raccomanda: Siate
pronti, con la cintura ai fianchi
(Lc 12, 35), cioè mortificate gli appetiti. Questi, infatti, sono
come le sanguisughe che succhiano continuamente il sangue delle vene.
Così li chiama l’Ecclesiastico quando dice: Sanguisughe
sono le figlie,
cioè gli appetiti; dicono sempre: Dammi,
dammi
(Pro 30,15).
3.
È chiaro, quindi, che gli appetiti non procurano alcun bene
all’anima, anzi le tolgono quello che ha. Se non sono mortificati,
non si fermano finché non compiono in essa ciò che fanno i figli
della vipera: mentre crescono nel suo ventre la mordono e la
uccidono, restando essi vivi a prezzo della sua morte. Gli appetiti
non mortificati arrivano a tanto: uccidono la vita di Dio nell’anima,
perché questa non li ha uccisi per prima. Perciò l’Ecclesiastico
dice: Aufer
a me, Domine, ventris concupiscentias et concubitus concupiscentiae
ne apprehendant me: Togli da me le intemperanze del ventre e i
desideri della libidine non abbiano potere su di me
(Sir 23,6); infatti quel che vive nell’anima sono gli appetiti.
4.
Anche se non arrivano a tanto, è tuttavia cosa degna di compassione
il considerare lo stato in cui gli appetiti riducono l’anima e
quanto la rendono insopportabile a se stessa, insensibile verso il
prossimo, tarda e pigra nelle cose di Dio. Non esiste, infatti, umore
cattivo che renda al malato il camminare così pesante difficoltoso o
il mangiare così disgustoso, quanto l’appetito delle cose create
appesantisce e rattrista l’anima nell’esercizio della virtù.
Abitualmente, il motivo per cui molte anime non hanno zelo e costanza
nell’acquistare la virtù è che coltivano appetiti e affetti non
puri nei riguardi di Dio.
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