Anselm Grün (1945) è un monaco benedettino
tedesco, che dirige il centro di spiritualità (Recollectio Haus) annesso
all’abbazia di Münsterschwarzach nei pressi di Würzburg. Scrittore,
conferenziere e terapeuta, è oggi uno dei più apprezzati maestri di spiritualità,
le cui opere sono tradotte nelle principali lingue.
Con ciò che vedo in modo
nuovo posso relazionarmi anche in modo nuovo. Il modello interpretativo della
fede conduce al modello comportamentale dell’amore. Ciò che ho riconosciuto
come buono lo tratto anche bene, lo amo anche; ciò che mi è diventato caro a
causa del nuovo modo di vedere, lo tratto con cautela e con dolcezza. La fede è
la scoperta della soluzione di secondo ordine mediante la diversa
interpretazione della situazione. L’amore è la realizzazione di questa
soluzione. La fede vede, l’amore agisce. L’amore non solo tratta bene, ma fa
anche bene; risveglia il bene che la fede ha scoperto nella diversa
interpretazione della realtà, per la vita. L’amore cambia la realtà, la rende
buona, configura il bene che c’è in essa. La fede interpreta diversamente,
l’amore trasforma.
Su nessun altro termine si è
scritto tanto come sul termine amore. Non intendo analizzare le varie
definizioni dell’amore; mi limito a evidenziare l’aspetto suggerito
dall’etimologia del termine: amore come avere caro e fare bene. Da questo punto
di vista il sentimento gioca un ruolo subordinato. L’aspetto decisivo è
l’azione, ma non un’azione esteriore, che ci si impone dall’esterno come
comandamento o dovere, bensì un’azione che scaturisce da una visione. L’amore
deve essere autentico, non artificiale, non deve essere una benevolenza di
facciata. Ma ciò che rende autentico l’amore non è un traboccante sentimento di
simpatia o di innamoramento, ma la fede nel bene che c’è nell’altro. L’amore
non riguarda solo le persone ma, come affermava già Gesù, anche noi stessi e
Dio. Ora vogliamo considerare brevemente questi tre aspetti.
Amare se stessi
Se credo di essere stato
creato buono da Dio, se credo che lui mi vuole bene, mi accetta così come sono,
devo comportarmi bene anche con me stesso. A cominciare dall’ascolto dei miei
desideri e aneliti più intimi e dal godimento di ciò che mi fa veramente bene.
Può essere anche una buona cena e un buon bicchiere di vino. Ma questo non
soddisfa i miei bisogni più profondi. Devo ascoltare i miei veri desideri e
aneliti. Devo ascoltare ciò che c’è nelle profondità del mio essere al punto da
incontrarvi Dio e comprendere ciò che egli vuole da me.
È questo ciò che mi fa
veramente bene, che risveglia in me la mia vita personale, assolutamente unica,
non basata sulle aspettative degli altri e sulle richieste del mio SuperIo, ma
originaria e autentica. È questa vita che devo godermi e cercare di sviluppare.
Posso essere aiutato in questo dall’adozione di uno stile di vita personale,
uno stile di vita sano che mi fa sentire bene, mi dà la sensazione di vivere
personalmente e non fatto vivere da altri, di organizzare personalmente le mie
giornate e la mia vita, di vivere nel momento presente, pienamente me stesso,
pienamente presente a ciò che sto facendo e in grado di imprimere la mia forma
a tutto ciò che faccio.
La sensazione di essere
fatti vivere, trascinati e determinati da altri, ci rende infelici. L’amore per
noi stessi consiste nell’usare bene il nostro tempo, affrontare le sue sfide e
fare veramente nostro ciò che ci viene offerto dall’esterno. Quando abbiamo
l’impressione di essere programmati da altri, di essere inseguiti dai nostri
appuntamenti e dalle scadenze proviamo un senso di estraniazione. C’è qualcosa
di estraneo che domina la nostra vita. L’amore dovrebbe trasformare ciò che è
estraneo in qualcosa di proprio, di personale.
Se accetto liberamente come
una sfida proveniente da Dio un lavoro che mi viene imposto dall’esterno, esso
non è più per me un peso che mi grava sullo stomaco, del quale sbarazzarmi il
prima possibile, ma diventa il mio lavoro. L’oggetto del lavoro mi è imposto da
altri e al riguardo io non posso fare nulla. Ma il come lo faccio dipende da
me. E prendendo personalmente in mano il come, trasformo anche l’oggetto. La
pietra che scolpisco esprime ciò che c’è dentro di me. Il lavoro che mi viene
imposto dall’esterno è una pietra in cui posso esprimere ciò che c’è dentro di
me attraverso il mio modo di lavorarla. L’amore modella e plasma il dato,
trasformandolo in una parte di me.
Amare se stessi significa
accettarsi. Oggi ci si imbatte continuamente e ovunque in questo consiglio di
accettarsi. Ma il problema è come farlo concretamente. Amare significa avere
caro, maneggiare bene: è qualcosa che ha a che fare con le mani. Anche
l’accettare richiede le mani; posso accettare solo con le mani: quando prendo
qualcosa in mano, esso diventa parte di me. Accettare se stessi significa
prendersi in mano, trattarsi affettuosamente, bene. L’amore è qualcosa di
manuale, qualcosa di fisico. Mi tratto bene, quando tratto bene il mio corpo;
non devo rammollirlo, ma fare in modo che possa lasciare trasparire Dio. Devo
ascoltarlo. Attraverso la malattia, le menomazioni, le sofferenze mi dice qualcosa
su me stesso. Devo accettare, prendere in mano, far diventare una parte di me
ciò che mi dice e riconciliarmi con esso.
Lo stesso vale per i
pensieri che affiorano in me. Devo accoglierli e accettarli come una parte di
me. Ma devo anche rendermi conto se i pensieri mi assalgono dall’esterno e mi
impediscono di essere me stesso. In questo caso devo combattere anche contro i
pensieri e introdurre in me solo i pensieri buoni, quelli che possono guarirmi.
I monaci cercavano di riempirsi di buoni pensieri leggendo la Bibbia. La loro
lettura della Bibbia non era dettata solo dall’amore per Dio, ma anche
dall’amore per se stessi. Infatti, la Bibbia scaccia i nostri pensieri negativi
e ci guarisce con i pensieri di Dio, che ci permettono di scoprire il nostro
vero nucleo. Ogni forma di ascesi è, in definitiva, amore di se stessi. Ci
trattiamo bene, cerchiamo di incrementare il nucleo buono e di ridurre con gli
strumenti ascetici ‑ disciplina, preghiera, lettura della Bibbia, digiuno, ecc.
‑ quel groviglio di spine che ci impedisce di svilupparci e di fiorire.
Amare Dio
Che cosa vuole dire Gesù
quando afferma che dobbiamo amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima,
con tutti i nostri pensieri e con tutte le nostre forze? (Mc 12,30). Tutti
conosciamo questi comandamenti. Ma che cosa accade se amo Dio con tutto il
cuore? Nel suo discorso di addio Gesù dice: «Se mi amate, osserverete i miei
comandamenti» (Gv 14,15). Gesù definisce l’amore in termini di comportamento,
di azione. Osservare i comandamenti significa trattare se stessi, la propria
vita, il proprio tempo, la creazione e gli altri in modo corrispondente a Dio.
L’amore di Dio si manifesta nel giusto trattamento delle realtà che lo
riflettono, della sua creazione, soprattutto della sua creazione più alta,
l’uomo.
Noi rischiamo continuamente
di scambiare le realtà in cui Dio si riflette per Dio stesso, di perderci in
esse al punto da conferire loro un significato e valore assoluto. Così
diventano per noi degli idoli. Ciò sconvolge e sovverte ogni cosa. Diventiamo
schiavi, schiavi del successo, del danaro, dei beni materiali, del
riconoscimento, schiavi degli uomini che adoriamo, che diventano tutto per noi.
Amare Dio con tutto il cuore significa mettere Dio al primo posto, trattare
tutto in modo rispondente alla realtà, come ciò che ci è stato donato da Dio e
non come Dio stesso. Perciò, amare Dio significa, in ultima analisi,
relazionarci in modo rispondente alla realtà con le persone e le cose, con il
nostro tempo e la nostra vita. Se la mia salute diventa il sommo bene, ruoto
esageratamente attorno a me stesso, tutte le mie energie sono impegnate a
evitare che qualcosa mi faccia male e così la salute diventa per me un idolo. E
io non mi tratto già più come dovrei. Se amo Dio, faccio attenzione anche alla
mia salute, non mi distruggo con il voler raggiungere a tutti i costi questo o
quell’obiettivo, ma mi concedo anche tempo libero e riposo. E tuttavia non ruoto
attorno a me stesso e alla mia salute. Sono libero di svolgere anche un
servizio, di accettare anche la malattia dalle mani di Dio come qualcosa in cui
egli mi parla, mi indica i miei limiti, il mio disordine interiore, o
semplicemente come qualcosa che egli nel suo imperscrutabile disegno pretende
da me, forse per espiare un po’ di male in questo mondo.
L’amore di Dio si dimostra
anche nel comportamento verso la sua creazione. Se tratto il mondo che mi
circonda come dono di Dio, lo curo e custodisco, non lo saccheggio, non mi
atteggio a suo padrone. Il Signore della creazione è Dio. Nella mia relazione
con la creazione faccio sempre attenzione a incontrarvi qualcosa di Dio. La sua
creazione è impregnata del suo Spirito, essa riflette la sua gloria e la sua
potenza. Perciò, nella creazione incontro tangibilmente, nel senso più vero del
termine, Dio. In essa tocco veramente un lembo di Dio, pieno di rispetto
reverenziale e sapendo che il mio amore per Dio, Signore della creazione, si
manifesta nel modo in cui amo la sua creazione.
Ma posso amare Dio solo
nelle realtà che lo riflettono, nei miei simili, nella creazione, in me stesso?
Non esiste anche una relazione diretta con Dio? I salmi affermano che noi
amiamo Dio meditando i suoi comandamenti, osservando i suoi grandi interventi
nella storia, concordando con ciò che ha creato nella creazione e ha fatto
nella storia. L’amore di Dio si manifesta quindi nel tempo che gli dedichiamo.
In questo tempo ci intratteniamo consciamente con colui che sta dietro ogni creazione
e ogni storia e anche dietro la nostra vita. Ora questo mistero che oltrepassa
ogni realtà visibile viene visto nella Bibbia come una persona, viene descritto
con tratti molto umani, come un Dio degno di amore, ma spesso anche come un Dio
incomprensibile, sulla cui azione bisogna riflettere a lungo, con il quale
bisogna combattere e lottare a lungo, prima di arrendersi e credere di potersi
affidare alle sue mani amorose. Il mondo e gli uomini lasciano trasparire Dio
solo quando riserviamo del tempo unicamente a lui, lo ascoltiamo nel silenzio
per poterci avvicinare maggiormente a questo mistero, comprenderlo meglio e
diventare infine una cosa sola con lui. Amare Dio significa in ultima analisi
diventare una cosa sola con lui.
L’amore non solo interpreta
diversamente, ma trasforma. Prende in mano Dio e il suo indescrivibile mistero
in modo tale da diventare una cosa sola con lui. L’amore mira proprio a questo:
diventare una cosa sola con lui, sperimentare che la nostra vita è sana solo
quando diventiamo una cosa sola con Dio. E per sperimentarlo dobbiamo
dimenticare il mondo, gli uomini e noi stessi e abbandonarci unicamente a Dio,
immergerci in lui, cadere in ginocchio davanti a lui e adorarlo.
Nell’adorazione non vogliamo raggiungere più nulla per noi stessi. Non
chiediamo nulla a Dio, neppure la soluzione dei nostri problemi. Dimentichiamo
noi stessi e i nostri problemi, non ci rimproveriamo e non ci giustifichiamo
davanti a Dio. Smettiamo di ruotare attorno a noi stessi e ci prostriamo
semplicemente, perché Dio ci tocca, perché egli è più importante della nostra
costituzione personale. In tutti noi si nasconde questo ardente desiderio di
poterci finalmente dimenticare e di essere toccati da Dio al punto da
esclamare: Dio solo basta. Allora possiamo presagire ciò che significa amare
Dio per se stesso.
Amare il Fratello e la Sorella
Il comandamento dell’amore
del prossimo sembra oltrepassare le nostre forze. Come posso amare una persona
che mi è antipatica, che suscita in me sentimenti negativi? Non posso dominare
i miei sentimenti, non posso essere falso con me stesso e con l’altro. Se si
parte dalla concezione dell’amore come trasformazione della realtà diversamente
interpretata o buon trattamento di ciò che è già stato visto come buono,
l’amore non ci costringe a rimuovere i nostri sentimenti negativi e ad adottare
un atteggiamento artificiosamente benevolo verso tutte le persone.
Dobbiamo unicamente
costringerci a vedere diversamente l’altro. Dobbiamo mettere in discussione i
nostri pregiudizi e cercare di vedere l’altro con gli occhiali della fede e di
credere all’esistenza in lui di un nucleo buono. Non possiamo costringerci ad
amare. L’amore deriva dalla fede. Il nostro dovere è quello di accordare il
nostro comportamento con il nostro modo di vedere. Altrimenti siamo divisi in
noi stessi. Ma non abbiamo bisogno di costringerci a provare sentimenti di
amore. La scoperta di un ardente desiderio del bene nell’altro genera anche in
noi sentimenti più positivi. Amare significa allora prendere sul serio
l’ardente desiderio di bene che esiste nell’altro, scoprire sempre più il bene
che c’è in lui, fare in modo che il bene che c’è in lui abbia il sopravvento su
ciò che c’è di malato e malsano, di malvagio e oscuro, in modo che tutto in lui
diventi buono. Amare significa rendere buono l’altro, trasformarlo sempre più
in una persona buona.
Se la fede è il
riconoscimento di una soluzione di secondo ordine, l’amore realizza questa
soluzione. Come la fede, anche l’amore oltrepassa il livello al quale ci si abbandona
a giochi senza fine. Un gioco senza fine è il gioco della vittoria e della
sconfitta. Molte persone possono relazionarsi fra loro solo a livello di
vittoria e sconfitta. O sono più forte o sono più debole dell’altro, o vinco io
o vince lui. Uno deve sempre perdere. Ma questo è un gioco senza fine. Infatti,
dopo aver perso lotto per vincere la volta successiva. E se non posso vincere
contro lo stesso avversario, cerco qualcun altro che posso vincere. Questo
perché non riesco a sopportare di essere un eterno perdente.
L’amore, abbandona questo
livello di vittoria e sconfitta, lo oltrepassa e si relaziona con l’altro a un
livello superiore. Lo vede non come concorrente, ma come qualcuno che nasconde
in sé molto bene. Ed è interessato a rafforzare il bene che c’è in lui, a
risvegliare le sue possibilità e a lasciarlo vivere. L’amore non ha bisogno
della sconfitta dell’altro per poter credere nel proprio valore e nella propria
forza. Chi ha trovato in se stesso, o meglio in Dio, il proprio fondamento e il
proprio valore può lasciare che anche l’altro affermi il suo valore. Questo è
meno faticoso della continua pressione di dover trionfare sull’altro.
Oltrepassando il livello di
vittoria e sconfitta evito la continua lotta per affermare me stesso. E d’un
tratto scopro molte possibilità più positive di relazionarmi con l’altro. Posso
gioire del suo valore.
Lungi dallo sminuire il mio
valore, questo mi permette di partecipare alla sua ricchezza. Occorre solo
molta fantasia per oltrepassare il livello di vittoria e sconfitta e pervenire
così a una soluzione di secondo ordine. In realtà, l’amore consiste
essenzialmente nel lasciarsi guidare dalle intuizioni, nell’escogitare
soluzioni fantasiose, nello scoprire nuove strade e possibilità. L’amore rende
inventivi. A volte è persino un po’ pazzo. Ma le sue soluzioni pazze sono più
umane del gioco infinito che si svolge a livello di vittoria e sconfitta.
Spesso ci rendiamo più
difficile l’amore per gli uomini, fissandoci ideali troppo alti. Ciò vale per
la nostra relazione con il prossimo. Ci proponiamo continuamente di amare
l’altro. E siamo mortalmente delusi dal fatto che l’altro adotta un
atteggiamento diametralmente opposto, ci resiste e addirittura ci combatte.
Spesso confondiamo l’amore con l’intesa, con l’armonia. Sarebbe così bello se
tutti potessero vivere armoniosamente insieme. Ma questa è un’utopia.
Desideriamo profondamente l’armonia e pensiamo normalmente che siano gli altri
a disturbarla o addirittura a distruggerla. Così d’un tratto troviamo difficile
continuare ad amare coloro che rovinano il gioco.
Il vero amore non pone
condizioni agli altri. Li prende così come sono. Vede con lucidità ciò che c’è
in loro: scontentezza, aggressività, sete di potere, brama di riconoscimento,
intrighi, ma anche un ardente desiderio di bene. L’amore non si illude,
trasforma il dato di fatto. Risveglia il bene nelle persone malate e distrutte.
L’amore non teme i conflitti, perché oltrepassa il livello del conflitto. Anche
nel conflitto si chiede che cosa faccia veramente bene all’altro. Poiché
l’amore supera il livello, nel conflitto non si aggrappa con i denti alle
emozioni, ma continua coerentemente a cercare la vera soluzione.
L’ardente desiderio di
armonia evita la dura realtà e si rifugia in un mondo apparente. L’amore
affronta la realtà, la accetta e la trasforma. Si può cambiare solo ciò che si è
accettato. L’amore segue questa legge fondamentale della vita, accettando ciò
che trova come dato di fatto.
Le concezioni utopiche
spesso rendono più difficile l’amore fra i coniugi o fra gli amici. Si stravede
per l’amore reciproco e poi si cade dalle nuvole quando il partner non ha
lavato i piatti. Il sublime volo dell’amore finisce nelle banalità della vita
quotidiana. Per Benedetto da Norcia l’amore fraterno si manifesta molto
concretamente nella disponibilità ad accettare i compiti quotidiani e a
svolgerli con coscienza e cura. L’amore deve incarnarsi e assumere la realtà
della vita. La realtà è spesso dura e formata da mille cose di poco conto.
Incontro l’altro non solo nei suoi sublimi pensieri e sentimenti, ma anche
nelle sue abitudini che mi innervosiscono.
Del resto, per Benedetto
l’amore si manifesta anche nel (sop)portare le reciproche debolezze e i
reciproci difetti (Regola di Benedetto 72). Invece di abbandonarsi a
concezioni utopiche, l’amore accetta la realtà dell’altro e la concreta
convivenza, non chiude gli occhi davanti alla realtà, ma oltrepassa il livello
al quale ci si urta reciprocamente. Esso vede oltre il visibile ciò che è
invisibile nell’altro, la sua buona intenzione, il suo nucleo buono, le sue
possibilità positive. E lo tratta a partire da questo livello. Così si
relativizzano molti screzi e piccoli conflitti che non diventano più così
tremendamente importanti, non vengono negati e rimossi, ma accettati e
trasformati. L’utopia finisce in rassegnazione, mentre l’amore affronta
attivamente i problemi della vita quotidiana, con molta fantasia, con pazienza,
con un respiro lungo e con umorismo, che costituisce una tipica soluzione di
secondo ordine. Queste peculiarità dell’amore sono state magistralmente
descritte da Paolo nella Lettera ai Corinti: «La carità è longanime (makrothymos,
magnanimitas, cuore grande, lungo respiro), la carità è benigna (chresteuetai,
rende buoni) [...] tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor
13,4.7).
L’amore affronta la realtà,
le tiene testa, la sopporta e la cambia, perché crede al bene che Dio vi ha
immesso. E perché confida che Dio può cambiare tutto con il suo amore.
[1]
A. Grün, Credere, amare,
lodare. Fede come diversa interpretazione, Messaggero, Padova 2005, pp.
42-53.
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