mercoledì 16 luglio 2014

Dossier : LA CONFESSIONE – Il timone n.61 Marzo 2007






Santi in confessionale

di Giovanni Zenone
È lungo l’elenco dei sacerdoti che si sono santificati “in confessionale”. Dal santo Curato d’Ars a Padre Pio da Pietrelcina. Da san Giovanni Bosco a san Leopoldo Mandic. Il loro ministero fu ricco di frutti straordinari. Un esempio mirabile per tanti preti dei nostri giorni.



Il sacramento della remissione dei peccati subì sin dai primordi molti attacchi. Tale accanimento aveva ed ha radice nella volontà diabolica di far perire nell’impenitenza i cristiani, sì da dannarli per tutta l’eternità.
Il primo attacco si ebbe con il rigorismo di coloro che non volevano perdonare i lapsi, i cattolici cioè che, di fronte alla prospettiva del martirio avevano rinnegato la fede, ma poi chiedevano di essere riammessi nella Chiesa. San Cipriano, morto martire nel 258, difese il sacramento e la sua universalità salvifica anche di fronte a peccati gravissimi come l’apostasia, l’adulterio, l’infanticidio e l’omicidio. Questa era la pratica costante delle Chiese sia Romana che Orientali, pratica che non venne annullata da qualche eccezione locale di rigore usato specialmente verso coloro che erano caduti nella apostasia una seconda volta.
Altri attentati al sacramento avvennero per interesse e con la violenza, come nel caso di san Giovanni Nepomuceno (1330/1340 circa - 1393), sacerdote e predicatore alla corte di re Venceslao che lo fece uccidere, dopo lunghe torture, per annegamento, a causa del suo rifiuto di rivelare le confessioni della regina. Il martire della libertà ecclesiastica è perciò venerato anche come testimone del sigillo sacramentale, il segreto assoluto cui è per sempre tenuto il confessore riguardo a notizie conosciute in confessione, sotto pena di scomunica. L’attacco più duro e durevole, però, si ebbe con l’eresia luterana e le sue ramificazioni che eliminarono la Confessione dal novero dei Sacramenti. Si volle togliere ai cristiani l’unico mezzo sacramentale per riconciliarsi con Dio dopo il Battesimo, quello che Tertulliano definisce un “secondo battesimo”, perché riporta la veste battesimale al candore originario.
La Provvidenza rispose donando alla Chiesa fulgidi esempi di martirio nel dispensare questa grazia insuperabile. Togliendo la Confessione, infatti, si consegnava l’uomo al moralismo farisaico più rigoroso o, in caso di caduta nel peccato, alla sfrenatezza di chi ormai crede di non essere più recuperabile.
San Carlo Borromeo (1538-1584), nel pieno della Riforma cattolica di cui fu instancabile promotore, introdusse l’uso della grata al confessionale, per aiutare i peccatori ad accedere senza vergogna alla grazia del perdono. I Gesuiti diffusero in tutto il mondo la pratica della confessione frequente e della direzione spirituale.
San Filippo Neri (1515-1595) accettò di essere ordinato prete per obbedienza al suo direttore spirituale e confessore. Per le sue bizzarrie fu definito il buffone di Dio, fu devotissimo di Savonarola e del suo rigore estremo, ma al contempo pieno di dolcezza e di allegria anche nel dispensare la grazia sacramentale. Dedicava lunghe ore al giorno alla penitenza, ricevendo i peccatori sino a tarda notte. Usava l’umorismo anche in confessionale, come quando diede ad una donna che peccava di maldicenza la penitenza di spennare una gallina morta per strada e poi di raccoglierne tutte le piume sparse dal vento. Nel turbine dell’infezione illuminista San Pompilio Maria Pirrotti (1710-1766) sostenne e difese la pratica della Comunione frequente e quotidiana e perciò della confessione abituale, cui si dedicò senza riserve. Subì accuse calunniose e due volte fu sospeso dalle funzioni sacerdotali, venendo però sempre poi riabilitato. Morì subito dopo essere stato portato fuori dal confessionale dove aveva avuto un malessere.

Il prete più famoso di questo periodo fu senza dubbio San Giovanni Maria Vianney (1786-1859), meglio conosciuto come il curato d’Ars. Considerato troppo stupido e incapace di studiare per diventare prete, fu ordinato tuttavia grazie all’appoggio di un parroco amico. Come molti mistici conobbe per grazia l’abisso della sua miseria e ne fu talmente spaventato da chiedere subito a Dio che gliela facesse dimenticare. Per tutta la vita di prete fu parroco di Ars ed ebbe a cuore la conversione dei suoi fedeli. Per essi, sull’esempio di Gesù Cristo, si offriva a Dio compiendo egli stesso l’espiazione per i loro peccati. Dormiva pochissimo su nude assi, mangiava poche patate bollite, si flagellava sino a svenire perché sapeva che, come parroco, doveva dare la sua vita per le proprie pecore, per espiare ciò che per esse sarebbe stato troppo pesante. «Mio Dio, – diceva – concedetemi la conversione della mia parrocchia. Io sono disposto a soffrire tutto quello che Voi vorrete, per tutta la durata della mia vita… purché si convertano». Tale zelo per la conversione e tale offerta di sé gli portò nel confessionale decine di migliaia di persone da tutta la Francia, tanto che trascorse gli ultimi vent’anni della vita passando 15-17 ore al giorno in confessionale a partire dalle due di notte, col caldo soffocante o al gelo. Rude nella predicazione per fustigare il peccato, era dolcissimo e misericordioso nell’incontro con i peccatori. Spessissimo – soprattutto quando si trovava davanti peccatori scarsamente consapevoli del proprio peccato e dunque scarsamente pentiti – il santo Curato cominciava a piangere. Il “martirio del confessionale” era testimonianza e visibilizzazione del dolore di Dio per il peccato. Il curato d’Ars leggeva nei penitenti come in un libro e, soprattutto, convertiva gli animi. Di lui papa Giovanni Paolo II nel libro Dono e mistero scrive: «Dall’incontro con la sua figura trassi la convinzione che il sacerdote realizza una parte essenziale della sua missione attraverso il confessionale, attraverso quel volontario “farsi prigioniero del confessionale”». San Giuseppe Cafasso (1811-1860), nella Torino massonica e anticlericale, era popolarmente conosciuto come il “prete della forca”, a motivo del delicato ministero esercitato nell’assistenza spirituale dei carcerati e dei condannati a morte che accompagnò alla forca non prima di averli convertiti, e che era solito chiamare affettuosamente i miei “santi impiccati”. A lui Torino ha dedicato un monumento proprio all’incrocio dove si trovava la forca sino alla quale esercitava il suo ministero della misericordia.
Del suo amico san Giovanni Bosco (1815-1888) è memorabile l’episodio di uno dei suoi ragazzini che, in punto di morte, non poté averlo come confessore e morì senza confessare un peccato mortale, per vergogna, davanti ad un altro sacerdote. Quando giunse don Bosco lo resuscitò e lo confessò di nuovo. Il fanciullo raccontò di essersi trovato alle porte dell’inferno e di essere stato in punto di entrarvi per tale omissione, fino al momento in cui don Bosco l’aveva richiamato in vita. Dopo l’asso-luzione chiuse gli occhi e morì in grazia di Dio.
San José Maria Rubio Peralta (1864-1929), gesuita canonizzato da Giovanni Paolo II nel 2003, dal confessionale dispensò il perdono di Dio e una direzione spirituale così feconda che formò molti cristiani che poi sarebbero morti martiri durante la persecuzione comunista della repubblica in Spagna.
S. Leopoldo Mandic (1866-1942) ebbe chiara la sua vocazione di sacerdote e confessore a otto anni, quando, per una lieve colpa, fu aspramente rimproverato dal parroco e messo in ginocchio in mezzo alla chiesa. Rimase molto addolorato e disse a se stesso: «Quando sarò grande voglio farmi frate, diventare confessore, e avere tanta bontà e misericordia con i peccatori!». Divenuto prete era così misericordioso da essere tacciato di usare troppo la manica larga. A tal punto che i suoi superiori sconsigliavano i giovani di andare a confessarsi da lui, perché non approfittassero della sua bontà. In un tempo in cui le penitenze erano ancora significative e non solo simboliche, in effetti, nella logica espiativa di Gesù e in modo simile al curato d’Ars, spesso concedeva dispense e diceva: «Farò io penitenza per voi, pregherò io per voi». Per tutta la vita si votò alla conversione degli scismatici orientali, tuttavia mai poté esercitare nella sua Dalmazia il ministero. Comprese che il suo “oriente” erano i penitenti che lo assediavano nella sua celletta-confessionale per 10-15 ore al dì per trent’anni. Se qualche penitente era impacciato o vergognoso egli stesso si alzava e lo accoglieva a braccia aperte, ma la sua non era certo una dolcezza a buon mercato. Un uomo che era entrato da lui senza vera conversione cercando di difendere i propri peccati, dopo che san Leopoldo le aveva provate tutte per ammorbidirlo, l’aveva visto levarsi in piedi (era alto un metro e 35 centimetri!), piccolo ma terribile, ed esclamare: «Se ne vada, se ne vada! Lei si mette dalla parte dei maledetti da Dio!». Quel poveretto era quasi svenuto dalla paura e s’era prostrato a terra piangendo; solo allora il santo l’aveva sollevato, abbracciato e gli aveva detto: «Vedi, ora sei di nuovo mio fratello!». Non era dolce quando qualcuno si voleva giustificare o minimizzava il peccato, ma lo diventava quando si riconosceva umilmente peccatore. Compiva miracoli portentosi, ma negava di esserne lui la causa. «Ma che colpa ne ho – diceva – se vengono con tanta fede e se, per la loro fede, il Padrone Dio li esaudisce?». Tuttavia in un altro momento, citando san Giovanni Bosco, spiegò che i miracoli costano moltissimo, a tal punto che sarebbe meglio non avere il dono di farne. Continuò spiegando che i santi, quando si trovano davanti ad un infelice, si mettono davanti a Dio e Gli dicono: «Signore, getta su di me la pena di quest’anima. Mi offro io per lei» ed essi sono così uniti a Lui che sanno con certezza quando il cambio viene accettato. Insegnava che «Un sacerdote deve morire di fatiche apostoliche: non c’è altra morte degna di un sacerdote». E così avvenne. Nell’ultima notte della sua vita, infatti, un religioso andò a bussare tardissimo alla sua porta per confessarsi ed egli, pur stremato dal tumore all’esofago, lo invitò ad entrare con la sua solita formula-preghiera «Eccomi, eccomi». Durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale che quasi rasero al suolo il suo convento, come egli aveva profetizzato, la sua celletta-confessionale rimase miracolosamente intatta.
Il santo che più di altri è conosciuto per il “martirio del confessionale” è senza dubbio san Padre Pio da Pietrelcina (18871968), straordinario taumaturgo e apostolo del confessionale. Un numero incalcolabile di uomini accorrevano al suo confessionale, dove egli trascorreva anche quattordici-sedici ore al giorno, per lavare i peccati e ricondurre le anime a Dio. Il 20 settembre 1918, il cappuccino ricevette le stimmate della Passione di Cristo che resteranno aperte, dolorose e sanguinanti per ben cinquant’anni e che gli causarono innumerevoli visite e persecuzioni anche da parte di religiosi. Venne sospeso a divinis e solo dopo diversi anni, prosciolto dalle accuse calunniose, poté essere reintegrato appieno nel suo ministero sacerdotale. Il card. Tarcisio Bertone disse nell’omelia del 14 ottobre 2006 ai pellegrini delle opere di Padre Pio: «Proprio il ministero di confessore costituisce il maggior titolo di gloria e il tratto distintivo di questo Frate Cappuccino. Chi lo incontrava avvertiva in lui la compassione di Cristo, ed anche quando veniva talora rimandato senza l’assoluzione, il penitente sapeva che se, sinceramente pentito, ritornava al suo confessionale, sarebbe stato accolto con paterna tenerezza».


LA DOTTRINA CRISTIANA. DAL COMPENDIO DEL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

298. Quando fu istituito questo sacramento?
Il Signore risorto ha istituito questo Sacramento quando la sera di Pasqua si mostrò ai suoi Apostoli e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23).
302. Quali sono gli elementi essenziali del Sacramento della Riconciliazione?
Sono due: gli atti compiuti dall’uomo, che si converte sotto  l’azione dello Spirito Santo, e l’assoluzione del sacerdote, che nel Nome di Cristo concede il perdono e stabilisce le modalità della soddisfazione.
303. Quali sono gli atti del penitente?
Essi sono: un diligente esame di coscienza; la contrizione (o pentimento), che è perfetta quando è motivata dall’amore verso Dio, imperfetta se fondata su altri motivi, e che include il proposito di non peccare più; la confessione, che consiste nell’accusa dei peccati fatta davanti al sacerdote; la soddisfazione, ossia il compimento di certi atti di penitenza, che il confessore impone al penitente per riparare il danno causato dal peccato.
304. Quali peccati si devono confessare?
Si devono confessare tutti i peccati  gravi non ancora confessati, dei quali ci si ricorda dopo un diligente esame di coscienza. La confessione dei peccati gravi è l’unico modo ordinario per ottenere il perdono.
305. Quando si è obbligati a confessare i peccati gravi?
Ogni fedele, raggiunta l’età della ragione, ha l’obbligo di confessare propri peccati gravi almeno una volta all’anno, e comunque prima di ricevere la santa Comunione.
306. Perché i peccati veniali possono essere anch’essi oggetto della confessione sacramentale?
La confessione dei peccati veniali è vivamente raccomandata dalla Chiesa, anche se non è strettamente necessaria, perché ci aiuta a formarci una retta coscienza e a lottare contro le cattive inclinazioni, per lasciarci guarire da Cristo e per progredire nella vita dello spirito.
310. Quali sono gli effetti di questo sacramento?
Gli effetti del Sacramento della Penitenza sono: la riconciliazione con Dio e quindi il perdono dei peccati; la riconciliazione con la Chiesa; il recupero, se perduto, dello stato di grazia; la remissione della pena eterna meritata a causa dei peccati mortali e, almeno in parte, delle pene temporali che sono conseguenza del peccato; la pace e la serenità della coscienza, e la consolazione dello spirito; l’accrescimento delle forze spirituali per il combattimento cristiano. 

Dossier: La Confessione

IL TIMONE - N.61 - ANNO IX - Marzo 2007 pag. 39-41

Un dono grande

di Don Claudio Crescimanno



Quanto è grande Dio! Con la Confessione sacramentale offre il perdono ad ogni peccatore pentito. Eppure non manca chi la contesta. A torto, perché la dottrina cattolica è vera, fondata sulla Scrittura e la Tradizione. Come conferma la storia.
Peccato e redenzione
Dio ha creato l’uomo per la vita, per la felicità, per la piena realizzazione di tutte le potenzialità di bene che ha posto in lui. L’uomo trova tutto questo nella comunione con il suo Creatore. Questa comunione è poi un’amicizia che eleva l’uomo ad una dimensione umanamente insperata ed irraggiungibile: la partecipazione alla vita di Dio stesso, quale suo figlio adottivo.
Con il primo peccato i nostri progenitori, istigati da Satana, hanno reciso questa amicizia, hanno creduto di poter trovare la propria realizzazione fuori da Dio, anzi, contro Dio. In questo modo l’uomo si è ritrovato in un mondo ostile, incapace di ritrovare armonia con Dio, con se stesso e con gli altri.
Tremenda conseguenza della separazione da Dio è la morte spirituale dell’uomo, che si manifesta in questa vita con l’abiezione nei vizi, e nella vita futura con l’inferno.
Ma Dio nella sua infinita misericordia non ha abbandonato l’uomo nella condizione di schiavitù e di infelicità alla quale si è condannato, ma per pura benevolenza ha voluto soccorrerlo e liberarlo. Cristo morto e risorto è la causa e il modello della nostra salvezza. Infatti per il grande amore che egli ha espresso al Padre nel sacrificio della croce ha riparato l’immenso male del peccato e ci ha ottenuto il dono di una vita nuova. Con questa vita nuova, che è la grazia, Dio
-ci rende suoi amici, cambiandoci da peccatori in santi;
-ci rende capaci di vincere il male e fare il bene;
-ci rende possibile la felicità in questa vita e ci fa eredi della felicità eterna nel Cielo.

Il sacramento della Confessione
La grazia della vita nuova, però, non coarta la nostra libertà di scelta, poiché Dio non obbliga nessuno a perseverare nella sua amicizia. Per questo anche il cristiano può disgraziatamente decidere di voltare le spalle al Signore e ripiombare nel male. A questa caduta possono cooperare due fattori:
-l’instancabile opera di seduzione del demonio, che cerca di allontanare l’uomo da Dio;
-la fragilità della nostra natura, segnata dalla concupiscenza che ingigantisce il fascino del male e la fatica del bene.
Al peccatore che si converte, però, Dio offre la possibilità di recuperare la grazia: per questo il nostro Redentore ha istituito il sacramento della penitenza.
Un dono così grande, che ci manifesta la bontà di Dio proprio nel momento in cui mostriamo tutta la nostra miseria, dovrebbe riempirci di gratitudine e spingerci al ricorso ad esso. E in realtà sono tanti i fedeli che, specialmente presso i santuari, ricorrono a questo potentissimo mezzo di grazia.
Ma non di meno, purtroppo, la confessione è da più parti svilita e osteggiata.

I “nemici” di questo sacramento
È davvero paradossale che un sacramento di cui l’uomo ha tanto bisogno sia oggetto di un così pressante e variegato attacco. Eppure proprio questo accade. Giungono attentati a questo sacramento da tre direzioni: dall’uomo emancipato, dal cristiano riformato, dal cattolico adulto.
1. Nella nostra società, il senso della grandezza di Dio si è ampiamente eclissato, e la confidenza ispirata dal Vangelo verso Colui che comunque resta il Signore dell’universo è degenerata abusivamente in una perdita del senso delle proporzioni tra chi è Dio e chi sono io; di conseguenza anche il giusto senso del peccato ha finito per oscurarsi ed è stato sostituito dal rispetto per un nuovo decalogo, il politicamente corretto, con le sue diramazioni ecologista, pacifista, ecc… In tale contesto è facile sentir dire che la Confessione è il retaggio di un passato moralista, nel quale il clero si serviva di questo strumento per assoggettare la gente. L’uomo emancipato del terzo millennio non si inginocchia più, né alla grata di un confessionale né al-trove: sta in piedi, e non ha nulla di cui scusarsi davanti a Dio; caso mai tocca a Dio (se c’è) rendere conto del proprio operato davanti all’Uomo moderno (sempre più “maiuscolo”!) per come vanno le cose nel mondo.
2. Ma anche i figli della riforma, o i suoi figliastri (avventisti, testimoni di Geova, mormoni, ecc…), che pure non dovrebbero aver perso il senso della misura riguardo a Dio e al peccato, da cinquecento anni lottano senza tregua contro la natura sacramentale della Chiesa e la sua più splendida manifestazione: i sette sacramenti. Certo, la loro somma indignazione è riservata all’Eucaristia, ma anche verso la Confessione non sono teneri. Riguardo ad essa il protestantesimo e i suoi derivati negano che sia stata istituita da Cristo, e di conseguenza che sia mai stata creduta e praticata dagli apostoli e dai primi cristiani; negano che la remissione dei peccati sia legata al ministero sacerdotale e affermano al contrario che i peccati sono da “confessare” a Dio direttamente.
3. Ma persino tra i cattolici la Confessione è in ribasso. L’eclissi del senso di Dio e del peccato ha colpito anche loro. Il più contagiato è il cattolico adulto, che scimmiotta le pose del non credente nel tentativo di vincere il complesso di non essere abbastanza moderno, e snobba con sussiego le verità del proprio catechismo per rincorrere i nuovi dogmi del politicamente corretto. Il cattolico adulto guarda con disagio al sacramento della penitenza perché “il prete è un uomo come me” (come insegna il mondo), e “i miei peccati li discuto direttamente con Dio” (come dice Lutero); sempre ammesso che di peccato si possa ancora parlare. Per molti credenti aggiornati, infatti, l’unico vero peccato è l’indifferenza verso gli emarginati o gli immigrati, a cui logicamente si rimedia più con un adeguato impegno per l’accoglienza, che non frequentando un confessionale. Si capisce allora come la Confessione sia ritenuta da molti ormai superata; tutt’al più, complice qualche prete alla moda, la si può considerare un dialogo tra amici, con un vago sfondo psicologizzante. Pur non condividendo, grazie a Dio, queste posizioni, forse però anche noi siamo influenzati da questo clima; e così, spinti anche dalla naturale ritrosia ad aprici davanti ad un sacerdote, ci ritroviamo in alcune di queste obiezioni. Per consolidare le nostre convinzioni ed essere in grado di rispondere a chi ci chiede conto, vediamo di capire meglio l’origi-ne e il valore di questo sacramento.

L’istituzione divina della Confessione
Gesù di Nazareth è Dio fatto uomo per riconciliare gli uomini con Dio. Dunque è proprio della sua missione perdonare i peccati (cf. ad esempio Mc 2,3-12).
Dopo la sua risurrezione dai morti, prima di lasciare questo mondo, Gesù comunica questo incarico ai suoi apostoli perché lo esercitino in sua vece: «Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi… Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,21-23). Questo incarico si fonda sul potere delle chiavi, conferito a Pietro (Mt 16,19) e a tutti gli apostoli (Mt 18,18).
Questo potere viene da essi effettivamente esercitato, come ac-cade ad esempio a Corinto, quando l’apostolo Paolo giudica un caso di immoralità e, invocando il potere conferitogli dal Signore Gesù, incarica i presbiteri (sacerdoti) della comunità locale di amministrare la sentenza (1 Cor 5,3-5).
Poiché la Chiesa deve realizzare la sua missione sino alla fine del mondo, è naturale che gli apostoli abbiano a loro volta trasmesso questo incarico ai loro successori, ai vescovi, che lo esercitano personalmente o mediante coloro che con il sacramento dell’Ordine partecipano del loro ministero, cioè i sacerdoti.

La pratica della Confessione nei primi secoli cristiani
Questa consapevolezza è chiara sin dalle prime generazioni cristiane. Nella prima metà del III secolo il grande teologo Origene spiega che i peccatori sono incatenati ai loro peccati «sino a quando non li sciolgono, per volere di Gesù, quelli che ne han-no la facoltà» (Omelia su Lazzaro) e chi siano questi è chiaro quando dice: «Il peccatore non deve arrossire quando indica al sacerdote del Signore il suo peccato e ne riceve la medicina» (Omelia sul Levitico).
Intorno al 250 san Cipriano, vescovo di Cartagine, dice che ai peccatori «viene lavata la coscienza con la mano del sacerdote» e li esorta a «confessare ciascuno il proprio delitto … poiché la remissione fatta per mezzo dei sacerdoti è gradita al Signore» (De Lapsis, 16 e 29).
Nella seconda metà del III secolo la Didascalia Apostolorum dà al vescovo questa incombenza: «Imporrai le mani (al peccatore pentito) mentre tutto il popolo prega per lui; quindi lo farai rientrare, restituendogli la comunione della Chiesa. L’imposizione della mano sarà come un secondo battesimo» (II, 41,1).
Nello stesso periodo l’opuscolo Contra Novatianum spiega che il penitente «ottiene la remissione in virtù di Cristo, per mezzo del sacerdote».
Nella prima metà del IV secolo il biografo di sant’Ambrogio ci riferisce che il santo vescovo di Milano «delle colpe che venivano a lui confessate parlava solo a Dio presso cui intercedeva» (Vita di s. Ambrogio, 39).
Poco dopo il vescovo san Basilio parla dei sacerdoti come di coloro che «ricevono dai colpevoli la confessione dei loro segreti, di cui solo Dio è stato testimone» (In Isaia, 10,19).
Nella stessa epoca san Giovanni Crisostomo ammonisce il peccatore: «Ti vergogni di confessare i peccati? Vergognati piuttosto di commetterli» (De Labaro, 4, 4).
È evidente che non ritroviamo in questi antichi testi l’identica disciplina penitenziale dei nostri giorni, poiché nel corso dei secoli si è perfezionata e arricchita; ma vi ritroviamo i medesimi elementi fondamentali: l’esistenza di una prassi di riconciliazione del peccatore nella Chiesa, la mediazione dei ministri sacri che ascoltano e giudicano l’entità della colpa, la riammissione alla comunione ecclesiale dopo un’adeguata espiazione.

Attualità della Confessione
Dunque la Confessione non è un’invenzione dei preti, ma un dono fatto da Cristo alla sua Chiesa e da essa sempre praticato per il bene delle anime.
Un bene che conserva il suo valore anche nella società moderna. E che ha le sue ragioni, anche antropologiche. Il peccato esiste. E anche l’uomo contemporaneo lo sa, perché ne sente il peso. Che cos’è l’esplosione attuale delle nevrosi e delle ansie se non il frutto del continuo soffocare i rimorsi? Che cos’è l’ondata di buonismo e di filantropia di massa, tipo “Theleton”, se non il surrogato di un rituale di purificazione collettiva? Dunque anche l’uomo di oggi sente che c’è il male in lui. Il rimedio vero non è negarlo o depistarlo, ma consegnarlo a Dio in un rito penitenziale, che infatti il Signore ha “inventato” per noi.
E questo rito ha bisogno del sacerdote. Infatti esso è pacificante solo se comunica la certezza del perdono. Ma perché vi sia tale certezza è necessario che esca dai confini della soggettività, che venga oggettivizzato grazie alla mediazione di uno in carne ed ossa che prenda le mie colpe e le consegni a Dio e prenda il perdono di Dio e lo consegni a me. E infatti chi non si accosta più al confessionale ha bisogno di raccontare la sua vita ad uno psicologo, o ad uno sconosciuto “chattando” in internet. La nostra fede, ancora una volta, ci mostra lo splendore del dono di Dio che appaga pienamente il bisogno dell’uomo.


Dossier: La Confessione

IL TIMONE - N.61 - ANNO IX - Marzo 2007 pag. 36-38

Confessarsi fa bene

di Roberto Beretta



Nella legge dell’Incarnazione, la Confessione è il momento più umanizzante. Sperimentiamo la vicinanza dolcissima del Signore. Che, perdonandoci, mette nell’animo tenerezza, forza e fiducia. Così l’esistenza diventa una vera gioia, anche nel dolore. Intervista al vescovo Maggiolini.
All’atto di «andare in pensione» per limiti di età, alla fine dell’anno scorso, monsignor Alessandro Maggiolini ha chiesto un privilegio che gli fa onore: disporre di un confessionale nel Duomo di Como, la sua diocesi, per esercitare il ministero della penitenza. Un bel gesto, di significato spirituale profondo, per un vescovo che è stato l’unico redattore italiano del Catechismo della Chiesa universale e che con i molti suoi libri e scritti giornalistici ha influito a lungo e profondamente sul pensiero e sulla vita della cristianità del nostro Paese. Ma – invece di una cattedra da «intellettuale» – monsignor Maggiolini ha chiesto un confessionale.

Eppure sono anni ormai che lo si dice: la Confessione è in crisi. E sui motivi, e sui rimedi da adottare, i pareri sono molto diversi. Lei che ne pensa, degli uni e degli altri?
«Anzitutto io sarei cauto nell’affermare che la Confessione è in crisi. È in crisi una confessione fatta meccanicamente che non pesca nel fondo del cuore e non raggiunge il fondo del cuore per cambiarlo. Quante volte abbiamo visto gente che si avvicinava al confessionale e se ne staccava quasi subito! Ha fatto in tempo, questa gente, a esprimere con pacatezza e fiducia nel Signore la propria situazione? Non è capitato, invece, che il penitente avesse già una sorta di lista di peccati stabilita magari da anni, sempre più abbreviata, e recitata come se si trattasse di una formula vuota? Quando il cuore è lontano, anche il Signore non si avvicina: o meglio si avvicina, ma trova le porte dell’animo chiuse. E allora è come se si ripetesse in modo anonimo una tiritera perché ad essa risponda il confessore con un’altra tiritera, magari sempre la stessa: “Io ti assolvo...”. Questa formula dovrebbe esprimere la presenza reale di Cristo che ascolta e comunica fiducia e speranza, mentre può essere recitata come una filastrocca per bambini un po’ tonti. Dopo di che, che significato ha che uno si accosti alla confessione? Che frutti ne trae? E, ancor prima, il penitente incontra il Signore a tu per tu, occhi negli occhi, ascoltandone la voce sentendo la sua pace che invade l’animo, oppure si è limitato a fare un gesto rituale senza troppo senso?».

Dunque, se capisco bene, l’attuale «crisi» potrebbe essere addirittura provvidenziale...
«Se è la crisi di questa confessione – che non conserva nulla del sacramento –, sì, è una crisi salutare. Circa i motivi e i rimedi da adottare, i pareri sono molto diversi. Da parte mia vorrei semplicemente richiamare lo schema del perdono: l’accusa, l’ascolto attento – che è fondamentale e non è un giudizio di condanna – e la benedizione del perdono che prende il peccatore e lo ricrea di nuovo. Vorrei dire che il rimedio alla crisi della Confessione è semplicemente la Confessione come il Signore vuole che la si compia. Allora il penitente si sente interpretato nell’intimo dell’animo e si sente colto nel desiderio più profondo di essere liberato dalla schiavitù della colpa. Inizia una esistenza nuova: pulita, osante, intraprendente, lieta».

Anche i preti però avrebbero forse qualcosa da confessare, riguardo al loro atteggiamento di fronte alla penitenza: nella Chiesa in passato si è fatto del terrorismo probabilmente eccessivo sul senso del peccato, oggi invece sembriamo pagare lo scotto opposto. Quali sono gli errori che più allontanano dal confessionale, secondo lei?
«Non c’è dubbio: anche noi preti dobbiamo confessare circa il nostro modo di confessare. Si è fatto del terrorismo eccessivo sul senso del peccato? Forse sì. O forse no: non si è mai confusi e desiderosi di perdono a sufficienza. Mi pare comunque che oggi non stiamo pagando lo scotto opposto a un rigorismo quasi disumano. Stiamo, piuttosto, comprendendo che, nella legge dell’Incarnazione, la Confessione è il momento più umano e più umanizzante. Il Signore non ci ha chiamati e dire le nostre colpe perché ci sentissimo a disagio e avvertissimo una vergogna quasi insormontabile. Il Signore è il vero attore del sacramento. E ha una fiducia più grande della nostra. E ha il cuore più grande del nostro. E desidera perdonarci: non ci butta dietro la misericordia come se fosse una pratica giuridica; ci attende perché possa essere veramente se stesso, cioè il Dio che ridà fiducia per il domani, il Dio che ricrea la persona. Di solito dico ai penitenti che l’assoluzione non è come una passata di cancellino su una lavagna che rimane ancora imbrattata: uno può avere l’intera vita corrotta da rivedere e da farsi perdonare, da quando ha iniziato a capire qualcosa; eppure l’“io ti assolvo” manda via dal confessionale anche i peccatori più induriti con la limpidezza e la gioia di bambini della prima Comunione».



A volte, però, si incontrano all’opposto penitenti feriti dall’eccessiva durezza dei confessori.
«Sì, potrei dire che uno degli errori che più allontanano dal confessionale è l’insensibilità del sacerdote che concede il perdono ed è più preoccupato del “peso” di ogni peccato e del “numero” dei diversi peccati, piuttosto che della consolazione che il Signore vuole si conceda a chi lo accosta. Qui cade però un’osservazione importante: l’accusa delle colpe non è una lista della spesa da recitare come se si fosse dal droghiere: l’accusa delle colpe è preghiera, è liturgia, entra a far parte del sacramento. Questo significa che, come penitente, devo enunciare i miei peccati con la convinzione che sono ragione di allontanamento da Dio, ma con la certezza che Dio porrà Lui l’ultima parola; si enunciano i fatti compiuti contro il Signore come motivi per cui Cristo non dovrebbe perdonarci, ma con la certezza che ci perdonerà. “Signore io non merito la tua misericordia, per questo, per quest’altro, e per quest’altro, ma sono certo che vai al di là di tutto questo”. Altro che lista della spesa! È come piangere di commozione di fronte ad una tenerezza immeritata, ma certa».

Il confessionale è la «psicoanalisi dei poveri»: in che senso può essere vero, in che senso è falso?
«Non è la psicoanalisi dei poveri; anzi, ci si confessasse di più, molti grovigli della psicoanalisi diventerebbero inutili. Occorre, invece, dire che la Confessione non è l’applicazione di un metodo freudiano o lacaniano, eccetera; può essere invece una “psicoterapia di appoggio”, dove si sentono ripetere le certezze fondamentali della vita; si riceve un senso di speranza nuovo che inevitabilmente influisce anche, con il tempo, sulla struttura psicologica: perché introduce in una pace che capiscono soltanto coloro che la provano e offre una speranza che cava dalla persona anche capacità umane per costruire la vita».

«Non mi confesso perché non ho fatto grossi peccati». Invece, a suo parere, che cosa si perde il cristiano che non si confessa, oppure si confessa poco?
«Non vi sono peccati che non siano remissibili. La sola colpa che non vuol ricevere il perdono è il non invocare la misericordia di Dio: il peccato che non può essere rimesso né in questa vita, né nell’altra. Chi non si confessa o si confessa poco perde gradatamente il senso della prossimità bruciante e dolcissima del Signore. E il continuare a ripetere che non ci si confessa perché si devono dire sempre le stesse cose è atto di offesa al Signore. Gesù non misura col metro l’avanzamento della nostra vita spirituale. Se anche abbiamo l’impressione di essere sempre a quel punto, il solo fatto di non cedere e di riprendere la vita cristiana, anche se si sa che si ritornerà quasi da capo: già questo è amare il Signore. Si aggiunga che la grazia della Confessione è ciò che la teologia spirituale chiama “lo spirito di compunzione”, che non è l’assumere il tono corrucciato e smarrito di chi non sa dove sta andando: lo spirito di compunzione ci aiuta a vedere la strada che dobbiamo percorrere nella vita, senza fretta, un passo dopo l’altro; e ci mette nell’animo un senso di tenerezza, di forza, e di abbandono al Signore che fanno dell’esistenza una vera gioia anche nel dolore».

Dossier: La Confessione

IL TIMONE - N.61 - ANNO IX - Marzo 2007 pag. 42-43


Nella storia

di Alberto Torresani
Il sacramento della riconciliazione ha un fondamento nella dottrina bimillenaria della Chiesa. Fonti storiche ne attestano la pratica fin dai primi secoli. In Irlanda le origini della confessione auricolare e segreta.



Il tribunale di Dio, che si esplica nel sacramento della riconciliazione, è unico nel suo genere. Infatti, quanto più il reo ammette le sue colpe, tanto più viene perdonato e assolto dalla misericordia divina. Tuttavia, il sacramento non ha sempre ricevuto questa consolante presentazione. Quando Lutero, all’inizio del XVI secolo, eliminò cinque sacramenti su sette, compresa la Confessione, dicendo che essi non possedevano una sufficiente fondazione nella Sacra Scrittura, cancellava come ininfluente una pratica ecclesiale vissuta da quindici secoli e abbastanza chiara nelle sue linee generali.
La Chiesa, perciò, nel corso del Concilio di Trento, elaborò una teologia completa e dettagliata anche per il sacramento della Penitenza. In primo luogo il penitente doveva prepararsi mediante un serio esame di coscienza; doveva provare autentico dolore per le colpe commesse; esporle con precisione secondo la loro specie e numero; fare il proposito di non ricadere nello stesso peccato; accettare la pena che gli veniva inflitta dal sacerdote. Alla fine riceveva l’assoluzione delle sue colpe. Nella Confessione, perciò, sono implicati un penitente che abbia chiara consapevolezza delle sue colpe e ben deciso a liberarsene; un sacerdote in qualità di giudice che rappresenta la Chiesa; e Dio che perdona su intercessione della Chiesa. Lutero cancellò questa dottrina lasciando solo il peccatore davanti a Dio, giudice terribile e implacabile che l’ha giustamente condannato, ma che per grazia, ossia per un atto gratuito extragiudiziale, può sospendere una condanna che il peccatore merita in tutta la sua gravità.
Il metodo storico-critico ci ha abituato a sottoporre tutti i documenti del passato a un vaglio severo, accettando solamente le notizie riportate da fonti tra loro indipendenti. Perciò, le testimonianze che possiamo considerare sicure circa questo sacramento cominciano nel IV secolo. Tra le prime fonti ci sono due Sermoni (351 e 352) di sant’Agostino. Da lui veniamo a sapere che il Battesimo era chiamato anche «prima penitenza» perché, ricevuto da adulti, cancella anche le altre colpe del battezzato. Negli stessi sermoni Agostino parla anche della «penitenza quotidiana, nella quale l’esercizio ininterrotto della supplice umiltà accompagna tutta la nostra esistenza». Si tratta dell’atto penitenziale che ancora compare all’inizio della Santa Messa: «Non è forse per questo che ogni giorno ci battiamo il petto?».
Tuttavia nella Chiesa antica è sempre esistita una «seconda penitenza» richiesta per colpe gravi e notorie compiute dopo il Battesimo. Il caso più noto vede come protagonisti sant’Ambrogio e l’imperatore Teodosio. A Tessalonica Teodosio ha ordinato per rappresaglia l’uccisione di alcune migliaia di abitanti. Ambrogio abbandona Milano e si reca a Bologna e poi a Firenze, deciso a rimanervi finché l’im-peratore non avrà compiuto una pubblica penitenza. Dunque, per colpe gravi e notorie esisteva la penitenza pubblica, comprendente un gruppo di scomunicati che chiedevano la riammissione nella Chiesa. Costoro ascoltavano le letture e l’omelia della Messa e poi venivano congedati perché indegni di assistere ai sacri misteri fino al termine della loro pena.
San Paolo, in 1 Cor 5, affronta il caso di un peccatore notorio, allontanato dalla comunità dei credenti di Corinto finché non si fosse ravveduto. Possiamo concludere ricordando l’estremo rigorismo delle Chiese cristiane fino all’inizio del IV secolo. Dopo il Battesimo, c’era solamente una volta la possibilità di venire assolti da una colpa grave. Per questo motivo molti cristiani rimandavano il Battesimo fin quasi al termine della vita. Il problema era come rendere possibile una precoce ricezione del Battesimo e la protrazione della «seconda penitenza» fin verso la fine della vita.
In qualche modo la soluzione del problema venne dalla comunità cristiana più remota, dall’Irlanda. Quella comunità, fondata da san Patrizio verso il 432, visse per secoli in isolamento. Poiché non esistevano né città né diocesi, ogni Chiesa locale era formata dai membri di un clan, il cui capo era anche abate del monastero locale, con uno dei monaci che era consacrato vescovo, ma senza potere di giurisdizione che apparteneva al capo clan. Questi monaci praticanti un rude ascetismo migrarono per tutta l’Europa, senza preoccuparsi dei confini delle diocesi e fondarono monasteri famosi come Luxeuil e San Gallo, Bobbio e Nonantola. Ebbene, nei monasteri irlandesi si praticava con frequenza la Confessione auricolare e segreta, intesa anche come possibilità di praticare la direzione spirituale delle ani-me, senza dare alcuna pubblicità alle colpe. Il rude ascetismo era praticato non solo come espiazione delle proprie colpe, ma anche come impetrazione vicaria della grazia di Dio per tutti i peccatori. Dopo il VII secolo la Confessione auricolare e segreta per monaci e fedeli divenne un fatto abituale.
Con lo sviluppo della teologia scolastica nel XIII secolo si sentì il bisogno di spiegare meglio la dottrina del sacramento della Penitenza. Purtroppo, una certa rudezza di costumi e un eccesso di giuridicismo suggerì di evitare che la gravità della colpa fosse espiata da una pena altrettanto grave. Perciò furono frequenti le “indulgenze” ossia la remissione della pena da liquidare con denaro o con la partecipazione alla crociata o, addirittura, con la penitenza di un famigliare o di un servo. Sarà precisamente il ritardo con cui fu completata la teologia delle indulgenze a provocare la ribellione di Lutero. Come si è accennato, al Concilio di Trento fu apprestata una completa giustificazione teologica di questo sacramento e da allora sono stati numerosi i santi che l’han-no amministrato in modo eroico, per esempio Giovanni Maria Vianney o padre Pio, che trascorsero nel confessionale la maggior parte della loro vita.

LA DOTTRINA CRISTIANA. DAL CATECHISMO DI SAN PIO X
135. Che cos’è il peccato?
Il peccato é un’offesa fatta a Dio disobbedendo alla sua legge.

142. Di quante specie è il peccato attuale?
Il peccato attuale è di due specie: mortale e veniale.

143. Che cos’è il peccato mortale?
Il peccato mortale è una disubbidienza alla legge di Dio in cosa grave, fatta con piena avvertenza e deliberato consenso.

144. Perchè il peccato grave si chiama mortale?
Il peccato grave si chiama mortale, perchè priva l’anima della grazia divina che è la sua vita, le toglie i meriti e la capacità di farsene dei nuovi, e la rende degna di pena o morte eterna nell’inferno.

148. Che cos’è il peccato veniale?
Il peccato veniale è una disubbidienza alla legge di Dio in cosa leggera, o anche in cosa di per sé grave, ma senza tutta l’av-vertenza e il consenso.

149. Perché il peccato non grave si chiama veniale?
Il peccato non grave si chiama veniale, cioè perdonabile, perchè non toglie la grazia, e può aversene il perdono col pentimento e con buone opere, anche senza la confessione sacramentale.

150. Il peccato veniale è dannoso all’anima?
Il peccato veniale è dannoso all’anima, perchè la raffredda nell’amore di Dio, la dispone al peccato mortale, e la rende degna di pene temporanee in questa vita e nell’altra.

Bibliografia

A.Piolanti (a cura di), I Sacramenti, Coletti, 1959.
A. Torresani, Storia della Chiesa, Ares, 2006.
Dossier: La Confessione

IL TIMONE - N.61 - ANNO IX - Marzo 2007 pag. 44-45

Concetti chiari

Confessione – direzione spirituale – psicoterapia: pratiche che sembrano avere qualche aspetto in comune. Chiariamo il significato per evitare confusioni.


In queste poche righe richiameremo le definizioni di confessione sacramentale, di direzione spirituale e di psicoterapia. Il contesto attuale, infatti, ci ha abituato ad un uso confuso delle parole, attribuendo ad esse significati errati, talora persino opposti (es. il mutamento del concetto di famiglia). Invece, le definizioni costituiscono i nostri cartelli segnaletici, servono per ben orientarci. Altrimenti, il rischio che si corre, metaforicamente parlando, è di arrivare in un luogo diverso da quello previsto con perdita di tempo e di mezzi o, nella peggiore delle ipotesi, della stessa vita. In altri termini, si rischia di utilizzare dei mezzi non adatti allo scopo. Venendo a noi, quindi, cominciamo col dire che la Confessione è il sacramento che prevede l’accusa dei propri peccati davanti al sacerdote, il quale, assolvendo nel Nome di Cristo, riconcilia con Dio e con la Chiesa il penitente, contrito, che si impegna a non peccare più per l’avvenire e a fare penitenza, cioè opere degne di conversione.
Per “direzione spirituale” si intende l’arte di condurre le anime progressivamente dagli inizi della vita spirituale fino alla sommità della perfezione cristiana.
Ministro del sacramento della Confessione è soltanto il sacerdote. La direzione spirituale può essere invece svolta anche da fratelli religiosi e da laici, purché opportunamente preparati.
Del tutto diverso è il caso della “psicoterapia”, per la quale assumiamo come definizione, benché non univoca, la seguente: un trattamento finalizzato a curare patologie per di più psichiche e situazioni di sofferenza attraverso l’interazione (parola, ascolto, pensiero, relazione,…) tra paziente e terapeuta. Qui, è chiaro, non si tratta di un cammino di perfezione cristiana, bensì di curare dei disturbi, percettivi di sé e del mondo esterno e comportamentali, attraverso l’opera di un professionista.
Seguono altre differenze. La Confessione è un sacramento istituito da Gesù, non una terapia umana. Il sacerdote agisce nel Nome di Cristo su un fondamento solido e oggettivo, la dottrina di Cristo e della Chiesa, non in nome proprio sulla base di una teoria, di simpatie o di qualsivoglia convenienza. Quanto all’efficacia, solo con la Confessione, rispettando le condizioni previste, si ha la certezza del perdono dei propri peccati, riacquistando la grazia elargitaci con il sacrificio e la resurrezione di Cristo.
Nelle pratiche psicoterapeutiche può verificarsi il non raggiungimento della guarigione anche per un’errata visione antropologica: l’uomo, ai nostri tempi, è visto non come unione di spirito e corpo, intimamente associati per formare una sola natura e una sola persona, bensì come un essere animale con un quoziente intellettivo superiore alla media. Giovanni Paolo II ricordava: «Il confessionale non è e non può essere un’alternativa allo studio dello (…) psicoterapeuta. Né dal sacramento della Penitenza si può attendere la guarigione da situazioni (…) patologiche». Ci sono, come si vede, differenze sostanziali.
Nessun punto di contatto, allora, tra questi mezzi? Non esattamente. È noto, infatti, quanto il benessere dell’anima, il saper dare o ricevere il perdono si riflettano positivamente sullo stato psicofisico agendo nelle più intime profondità (Lc18,26: «Abbi di nuovo la vista. La tua fede ti ha salvato»). Indimenticabili infine le parole dell’Innominato pentito: «eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!».

Bibliografia

Catechismo della Chiesa Cattolica, nr.1422-1484.
Antonio Royo Marin o.p., Teologia della perfezione cristiana, S. Paolo, 1997, par. 516.
Il sacramento della penitenza nei messaggi del sommo pontefice Giovanni Paolo II alla penitenzieria apostolica, Città del Vaticano, 2000, pag. 33.
Dossier: La Confessione

IL TIMONE - N.61 - ANNO IX - Marzo 2007 pag. 46


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