Il re cerca altri commensali
Giunti a questo punto dobbiamo costatare che nessuno di quelli che avevano un campo da lavorare o un affare da curare ha risposto all’invito, e il banchetto di nozze con i suoi cibi prelibati rimarrebbe senza commensali; ma il re non si arrende e dice ai suoi servi: La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. L’invito è rivolto ad altri. Se gli occupati non l’hanno accolto, ora l’invito è rivolto ai disoccupati, a coloro che stanno ai crocicchi delle strade e non hanno un campo da lavorare o un affare a cui pensare.
Chi è il disoccupato? È uno che, per vari motivi, o non ha ancora trovato un lavoro, oppure l’ha perso; in quest’ultimo caso ha perso il contatto con la fonte da cui traeva le risorse per vivere lui e la sua famiglia, è uno che si trova sempre a un crocicchio della strada, ossia non sa quale strada prendere per risolvere il suo problema, non sa quale strada prendere per trovare di nuovo una fonte di sostentamento, una fonte di vita per sé e per coloro che ama. Inoltre, un disoccupato o non ha ancora trovato, oppure ha perso la dignità che un lavoro onesto dà e di conseguenza vive in uno stato di vergogna e di angoscia dovuto all’impossibilità di guadagnarsi il necessario per vivere. Se lungo la via passasse qualcuno a offrire un lavoro sarebbe accolto come un salvatore. Ora, lungo la via non passa qualcuno a offrire un lavoro, ma passa qualcuno a invitare a una festa di nozze, e non a una festa di nozze qualunque, ma alla festa di nozze del figlio del re dei re.
Possiamo osservare qui qualcosa di tipico nei rapporti fra Dio e l’uomo, ossia che Dio generalmente non risponde alle nostre attese, ma ci sorprende proponendoci molto di più di quello che noi desideriamo e speriamo dalla vita. Questo ci sbilancia, ci sconcerta e ci mette in difficoltà, la difficoltà di rinunciare ai nostri desideri per accogliere i suoi desideri, la difficoltà di rinunciare alla nostra festa per aderire alla sua festa. Ora, proprio coloro che non hanno risorse per allestire una festa umana, rispondono all’invito degli inviati del re e si incamminano verso la festa divina. Coloro che non possono più sperare in una festa della terra sono invitati a sperare nella festa del cielo; chi accoglie l’invito entrerà nella sala da pranzo del re, ossia nella sua intimità. Ecco perché il Signore proclama: Beati i poveri, beati gli afflitti, beati quelli che hanno fame e sete, beati quelli che piangono (cfr. Lc 6, 20-21; Mt 5, 4-6). Beati perché rischiano molto meno di altri di non rispondere all’invito del re.
Un invito accolto con poco entusiasmo
Un aspetto su cui conviene ora riflettere è contenuto nel versetto: Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala di nozze si riempì di commensali (v. 10). Se coloro che stanno per le strade disoccupati accolgono l’invito, non appare però che lo accolgano con molto entusiasmo, il loro atteggiamento è piuttosto passivo. Questo fatto è strano ed è sottolineato in modo esplicito nella versione della parabola raccontata dall’evangelista Luca. Il padrone che per la terza volta manda il servo a invitare alla festa dice: Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare (Lc 14, 23). Questo sta a indicare che c’era negli invitati una certa indecisione, una certa resistenza ad accogliere l’invito. Le reazioni all’invito del re che vediamo nelle parabole sono quindi: un rifiuto garbato o violento, oppure un’accoglienza tiepida o recalcitrante.
Come mai queste perplessità, come mai questa titubanza ad accogliere un invito alla gioia e alla festa? Penso che non dobbiamo trascurare o sottovalutare queste domande. Per cercare una risposta conviene esaminare chi sono coloro che rispondono all’invito nella versione della parabola raccontata da Luca. Dopo le scuse e il rifiuto dei primi invitati, il padrone dice al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi (Lc 14, 21), e dopo questa prima raccolta, ne vengono chiamati altri che sembrano essere ancora più poveri, storpi, ciechi e zoppi, perché non stanno in città ma per le strade e lungo le siepi come se, a causa del loro stato, si vergognassero più degli altri a farsi vedere in città. Possiamo allora individuare un motivo di perplessità o indecisione ad accogliere con entusiasmo l’invito alla festa del re, proprio nella condizione disastrata in cui si trovano sia gli invitati della parabola di Matteo, sia quelli della parabola di Luca. Un disoccupato, uno che ha perso la dignità di chi si guadagna onestamente la vita, si sente spiazzato e fuori luogo in una festa di nozze regale, così i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi di Luca, disastrati nelle finanze e nella salute si sentirebbero forse più a loro agio presso qualche ente caritativo. È come se gli invitati ragionassero in questo modo: “Come è possibile che io partecipi a una festa regale? Io che sono angosciato perché non riesco a guadagnarmi da vivere, io che sono povero, cieco, storpio, zoppo, io che non ho un abito decente e nemmeno posso permettermelo, io che non ho risorse per portare un regalo, come posso partecipare alla festa di un re in cui ci saranno nobili, ricchi, bella gente vestita elegantemente che avrà onorato il re offrendo preziosi regali? Io non sono degno e non posso partecipare a una festa simile”.
Secondo queste considerazioni c’è da chiedersi come abbiano potuto i disoccupati di Matteo e i disastrati di Luca seguire gli inviati del re e incamminarsi verso la festa! Le parabole, soprattutto quella di Luca, mettono in scena un formidabile contrasto fra il massimo della ricchezza e della bontà nella figura e nelle iniziative del re, e il massimo di povertà e deformità negli invitati; la situazione è tale per cui è umanamente impossibile per gli invitati rispondere degnamente all’invito del re.
Situazioni impossibili
Ancora una volta ci troviamo di fronte a un modo tipico dell’agire di Dio. Quando Dio entra nella vita dell’uomo, l’uomo si trova coinvolto in situazioni impossibili. Di questo si trovano innumerevoli esempi sia nell’antico sia nel nuovo testamento. Possiamo pensare alla storia di Abramo, alla liberazione di Israele dall’Egitto, al suo cammino nel deserto, alla conquista della terra promessa, a tutta la storia di Israele fino alla venuta di Gesù. E il nuovo testamento inizia ancora con le nascite miracolose di Giovanni Battista e di Gesù e prosegue con le situazioni inverosimili in cui vengono a trovarsi Maria, Giuseppe, gli apostoli, i discepoli …
Poi la parabola prosegue mostrandoci un altro fatto piuttosto strano, vale a dire che il re si presenta per esaminare gli invitati: per vedere se indossavano l’abito nuziale; ma come poteva un povero, un cieco, uno storpio, uno zoppo, un disoccupato, ossia gente che non sapeva come togliersi la fame, avere le risorse per procurarsi un abito nuziale? … Eppure è anche vero che non si può partecipare a una festa di nozze vestiti da straccioni o con abito non adatto alla circostanza. Inoltre, la riunione di una moltitudine di poveri, ciechi, storpi, zoppi, non sembra essere un’assemblea molto adatta a rendere piacevole una festa. Siamo sempre invitati a renderci conto di trovarci coinvolti in una situazione impossibile. Impossibile per un povero cieco avere un abito nuziale e impossibile partecipare a una festa di nozze regale senza di esso. Impossibile per un cieco, uno storpio, uno zoppo, rimediare alla propria disabilità e infelicità e impossibile che una festa sia una bella festa, sia il massimo della festa, se chi vi partecipa ha dei motivi di sofferenza. Impossibile per un povero avere qualcosa da offrire a un re e decisamente sconveniente presentarsi a una festa di nozze senza un regalo. Impossibile, per chi ha un campo da lavorare o un affare a cui pensare, rispondere all’invito del re.
Ora, per coloro che accettano di rendersi conto della situazione, per coloro che non cercano scappatoie e non si accontentano di teorie strampalate sul mistero della condizione umana, per coloro che accettano di macerare e di soffrire per l’impossibilità di trovare una soluzione umana soddisfacente alla situazione in cui si trovano, il Signore prima o poi darà la sua risposta, offrirà la sua soluzione e dirà: Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio … e nulla è impossibile a Dio (Lc 1, 30; 37). Il che significa che l’abito nuziale richiesto per la festa di nozze del figlio del re, abito che noi non possiamo permetterci, il re in persona darà disposizioni perché ci sia donato e che ogni nostra stortura, cecità, infermità, sarà guarita perché possiamo partecipare con gioia al banchetto celeste. Questo è confermato da quanto leggiamo nel vangelo.
Quando il figlio prodigo ritorna dal paese lontano alla casa paterna, porta con sé la sua povertà, la sua afflizione, il suo fallimento, non certo un abito decente per rientrare dignitosamente in casa sua; è invece il padre che ordina ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa (Lc 15, 22-23). E ai dubbi di Giovanni Battista in prigione il Signore risponde: Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona notizia (Lc 7, 22). La buona notizia che, se vogliamo, tutti i nostri mali possono essere sanati e possiamo avere l’onore e la gioia di partecipare al banchetto del Re.
Ma quale regalo possiamo mai portare noi alla festa di nozze del figlio del re? Secondo un pensiero di padre Molinié possiamo portare tutto ciò che abbiamo in abbondanza e che invece Dio non ha, vale a dire tutte le nostre povertà, infelicità, deformità, cecità, ferite, debolezze, fallimenti … ma in che senso tutto questo è un dono, e un dono gradito a Dio? È un dono perché offrendo a Dio le nostre malattie e povertà, gli offriamo anche la possibilità e la gioia di guarirci e di colmarci con i suoi doni, gli diamo cioè la possibilità di dare. Tuttavia, sempre secondo un pensiero di padre Molinié, c’è anche qualcos’altro che possiamo portare come regalo, vale a dire tutti i nostri piccoli atti di fede, di speranza e di carità ma, perché siano possibili questi doni, è necessario che ci sia un tempo sulla terra in cui siamo liberi di fare o non fare degli atti di fede, di speranza e di carità; più tardi, questi atti che non abbiamo sempre voglia di fare, ma che tuttavia facciamo anche fra difficoltà e contrasti, avranno valore di dono eterno, e Dio ci ringrazierà per questi doni e ci darà come risposta il suo dono.
Ciò che occhio non vide né orecchio udì
Ora tutto questo, prima di essere una beatitudine, è un guaio e una complicazione unica. Il guaio è che Dio vuole darci se stesso, la sua stessa vita, la sua stessa gioia, il suo stesso amore, vale a dire: quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore dell’uomo (1 Cor 2, 9). La complicazione sta nel fatto che noi viviamo in uno stato di contraddizione: da un lato, in profondità, il nostro essere è stato pensato perché possa ricevere la capacità di vivere in Dio della sua stessa vita; ma da un altro lato, per vari motivi, ci troviamo impegnati a cercare la vita al di fuori di Lui, e nella misura in cui la nostra ricerca ha un qualche successo, consideriamo come nemici coloro che ci invitano alla vera vita e alla vera festa, perché aderire all’invito significa rinunciare a ciò che noi consideriamo vera vita e vera festa.
Da un lato c’è l’evidenza incontestabile che dai nostri campi e dai nostri affari riusciamo a ottenere un po’ di vita e un po’ di festa, mentre dall’altro lato non è evidente che la vera vita e la vera festa sia proprio in ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrato nel cuore dell’uomo (1 Cor 2, 9). Ossia, come è possibile desiderare o disporsi ad accogliere ciò che non vediamo, ciò di cui abbiamo solo sentito parlare? Ascoltando i messaggeri del re e guardando il loro volto. Ma noi non crediamo che ci possa essere altra festa oltre a quella che possiamo procurarci coltivando i nostri campi e godendo dei profitti dei nostri affari. E siamo così orgogliosamente fissati nelle nostre convinzioni e nella nostra incredulità, che gli inviati del re rischiano grosso se insistono a volerci persuadere che la mensa del re è ormai pronta con ogni ben di Dio e che accogliere l’invito è per noi una grande fortuna che ci procurerà grande gioia.
Allora, vista la situazione, Dio lascia che le cose seguano il loro corso e che alla fine si manifestino le conseguenze non proprio brillanti della nostra cocciutaggine. Se uno non vuol capire con le buone, si spera che capisca con le cattive. Infatti, la nostra cocciutaggine e il nostro orgoglio faranno di noi dei ciechi, degli storpi, degli zoppi, dei disoccupati, dei falliti … ossia persone che, proprio perché disastrate, anche senza un grande entusiasmo, risponderanno forse in qualche modo all’incredibile invito dei messaggeri del re.
Singolare paradosso
La parabola di Luca è implacabile: solo i poveri, i ciechi, gli storpi, gli zoppi … parteciperanno alla fine alla festa del re. E questo è un formidabile paradosso perché: come un povero, un cieco, uno storpio, uno zoppo, ha un’acuta e dolorosa consapevolezza del proprio stato, così solo chi avrà un’acuta consapevolezza di essere indegno di partecipare alla festa, sarà reso degno di parteciparvi dal Signore stesso. Ecco perché la Chiesa ci educa in questo senso facendoci dire a ogni messa: “Signore, io non sono degno di partecipare alla tua mensa ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”. Solo dopo queste parole possiamo partecipare alla mensa del re. Più uno è consapevole della propria indegnità, più grande sarà la sua gioia e il suo onore alla mensa del re. Lo dice il Signore, mostrando come all’invitato che va a mettersi all’ultimo posto è poi assegnato un posto di maggior onore (cfr. Lc 14, 10). Mentre dei primi chiamati, che non avevano questa consapevolezza perché avevano escluso dal loro orizzonte la festa del cielo, il Signore dice: Gli invitati non erano degni (Mt 22, 8).
Una complicazione, un paradosso, uno dei misteri della condizione umana sta in questo: siamo invitati alla festa di nozze del figlio del re, ma la condizione per parteciparvi è riconoscere dal profondo del cuore di esserne indegni.
Due volte indegni
La nostra indegnità è poi composta di due aspetti: uno innocente, l’altro dovuto al peccato. Per cercare di comprendere un po’ il primo aspetto possiamo aiutarci con la seguente similitudine. Immaginiamo che a una pastorella buona, umile e povera sia rivolto questo invito: “Il re sta preparando una grande festa e anche tu sei invitata, dovrai imparare a danzare, a cantare le lodi e gli inni del re, dovrai imparare muoverti e a parlare con grazia alla sua corte”. Ora, non è una colpa per la pastorella essere povera, non è colpa sua se non sa danzare, cantare, e non ha un abito adatto alla circostanza. Tutte le sue povertà e inabilità la rendono semplicemente e innocentemente inadatta o incapace di partecipare alla festa. La pastorella, che non è stupida, più che onorata si sente confusa e imbarazzata dall’invito, perché ha l’acuta consapevolezza della sua povertà e indegnità.
L’altro aspetto della nostra indegnità è molto più grave ed è dovuto al peccato, ossia al fatto di essere colpevolmente ciechi, storpi, zoppi … La festa a cui siamo invitati è la festa dell’amore per Dio e per i fratelli in tutto il suo splendore, uno splendore capace di incantare e di riempire il nostro cuore per l’eternità. Ora, questa festa dell’amore per cui siamo stati pensati - la gloria di partecipare alla vita stessa di Dio, l’amore di Dio per noi - sono come una forza gravitazionale che durante tutto il corso della nostra vita, in molti modi, esercita su di noi la sua attrazione e il suo influsso, attrazione e influsso che tendono a staccarci dai beni della terra per orientarci ai beni del cielo, e a educare, perfezionare, purificare, aumentare il nostro amore per Dio e per i fratelli; a quest’attrazione e a questo influsso noi resistiamo più o meno colpevolmente, e questo è il nostro peccato, peccato che ci rende indegni di partecipare alla festa, e la cosa è grave perché in definitiva resistiamo all’amore di Dio per noi.
Tuttavia le parabole ci invitano a non disperare e ad accogliere l’invito del re nonostante il nostro peccato, nonostante le nostre resistenze. In Matteo sono chiamati, infatti, sia i buoni sia i cattivi, e in Luca sono chiamati con insistenza i ciechi, gli storpi e gli zoppi che sono la figura del nostro peccato.
Un pericolo mortale
Se il peccato non è un fattore decisivo per impedirci di partecipare alla festa del re, le parabole dicono anche chiaramente che in noi ci potrebbe essere qualcosa di tanto pericoloso da escluderci definitivamente dalla festa e dalla gioia di Dio. Infatti, a colui che non aveva l’abito nuziale il re dice: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti (Mt 22, 13). E in Luca il padrone dice: Nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena (Lc 14, 24). Ci troviamo qui sulla soglia di un grande mistero sicuramente impegnativo per le forze umane, mistero in cui conviene avventurarsi con molta umiltà e prudenza. Il Signore lo propone perché ci riguarda a tal punto che la nostra beatitudine eterna si gioca intorno a questo mistero. Si tratta della libertà e del suo potere di dire a Dio un sì o un no definitivo.
La parabola di Matteo mostra due modi di dire un no definitivo a Dio, il primo è quello di coloro che non vogliono accogliere l’invito alle nozze, e il secondo è quello di chi, pur accogliendo l’invito, non vuole però indossare l’abito nuziale. In questo secondo caso la severità della punizione è dovuta al fatto che l’invitato non aveva l’abito nuziale non perché non poteva permetterselo, ma perché ha rifiutato di indossare quello che gratuitamente gli era offerto. Questo è confermato proprio dalla gravità della punizione, la quale sarebbe ingiusta se, senza sua colpa, l’invitato non avesse potuto indossare l’abito nuziale.
È una cosa così difficile accogliere il dono di un abito nuziale? È una cosa facile se uno è umile, ma è una cosa difficilissima o impossibile se uno è orgoglioso. È umile chi accoglie la verità quando la verità si manifesta, chi la accoglie anche se è detta da altri, anche quando manifesta la propria povertà o il proprio peccato. L’orgoglioso invece vuole fare della sua verità la misura di tutte le cose, non accetta una verità detta da altri che sia in contrasto con la sua verità, non accetta che essa manifesti la sua povertà e il suo peccato. Ora, se uno accetta che la luce divina manifesti sempre più chiaramente sia la propria povertà sia il proprio peccato, non ci sono grossi problemi, perché accetterà anche di essere spogliato del suo abito vecchio, logoro e inadatto per una festa nuziale, accetterà di essere guarito dalle sue deformità, accetterà di rivestire l’abito della festa che gli viene offerto e così parteciperà con gioia alla festa del re.
Se uno invece dice: “Non ho peccato - Il suo peccato rimane” (cfr. Gv 9, 41). Se uno dice: “Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla, non ho bisogno di cambiarmi d’abito” (cfr. Ap 3, 17) e se insiste in questa convinzione contro il parere dei servi del re che lo invitano a cambiarsi per poter partecipare alla festa, allora, contro la verità vuole fare della sua verità la misura di tutte le cose, ma siccome la Verità è una sola e non è quella del suddito ma quella del Re, il Re non potrà che cacciare dalla sua casa chi dimostra tanta ostinazione.
Breve riassunto
Per riassumere un po’ le cose su cui stiamo riflettendo, potremmo dire che tutti coloro che accolgono l’invito alla festa nuziale del figlio del re, prima di entrare nella sala da pranzo, prima di entrare nella gloria, devono superare un momento critico. Questo momento critico è inevitabile per diversi motivi. Uno di questi è che dobbiamo renderci conto della situazione; in questa situazione ci sono due aspetti che si contraddicono e sono irrisolvibili con le risorse umane: da un lato c’è l’invito alla festa, il presentimento del suo splendore e della sua gloria e quindi il desiderio di parteciparvi; ma dall’altro lato - proprio a causa dello splendore che emana la dimora del Re, e più gli invitati si avvicinano, più aumenta anche in loro la consapevolezza di essere indegni di tale splendore - ecco la consapevolezza dei poveri, dei ciechi, degli storpi, degli zoppi.
Il momento non è facile, anzi è piuttosto disagevole perché ci si ritrova lacerati e impotenti. Coloro che accettano di essere lacerati e impotenti sono sulla buona strada, quella che renderà il loro cuore docile, contrito e umile. Chi ha un cuore contrito e umile riconoscerà facilmente sia di non avere un abito adatto alla circostanza, sia le proprie storture, le proprie piaghe, le proprie disabilità … chi ha un cuore contrito e umile accoglierà con grandissima riconoscenza l’offerta di un rimedio sorprendente a tutte le sue povertà e sarà reso degno di partecipare a una festa che non avrà mai fine.
Ma chi non ha un cuore contrito e umile, chi è orgoglioso, non riuscirà a sopportare di intravedere nello stesso tempo lo splendore della festa e della gloria e l’impossibilità di raggiungerla, non riuscirà a sopportare l’umiliazione di non poter fare niente per risolvere lo stato di contraddizione in cui si trova, l’umiliazione di dover attendere, per un tempo che non dipende da lui, un rimedio che gli sarà offerto da altri, non riuscirà a sopportare che qualcuno gli dica: “Le condizioni per entrare nella gloria non sono quelle che pensavi tu, ma sono quelle stabilite dal Re dei re, abbandona le tue convinzioni, lasciati spogliare del tuo abito vecchio, lasciati lavare e rivestire con l’abito della festa, l’abito che ti permetterà di muoverti con eleganza alla corte del Re”.
A questo estremo invito, la nostra libertà ha il terribile potere di dire no, un no che esclude per sempre dalla festa della vita beata. Per evitare di giungere a tale estremo è sommamente conveniente cercare le raccomandazioni del caso e chiedere con insistenza, senza stancarsi, il dono dell’umiltà e della docilità di cuore. Solo l’umiltà ci consentirà di accogliere l’invito e il cambiamento d’abito che esso comporta. Solo l’umiltà permetterà di sopportare l’eccesso di splendore, l’eccesso di vita, l’eccesso di amore che pesano su di noi. “Grandi cose ha pensato per me l’Onnipotente. La sua misericordia si compiace dell’umiltà della sua serva e si estende di generazione in generazione su coloro che lo temono” (cfr. Lc 1, 48-50).
Eugenio Pramotton Dal sito http://www.medvan.it/
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