Il
XIX secolo è stato quello delle speranze messianiche e prometeiche,
il XX secolo quello dei castighi e della disperazione. Dopo
l‟Olocausto e l‟Arcipelago Gulag, davanti ai milioni di bambini
che muoiono di fame, o sono condannati ai lavori forzati dal
capitalismo selvaggio, davanti alle atrocità che si perpetuano, i
fanatismi che si sbranano a vicenda, le vittime dell‟Aids, si ha
ancora il diritto di cercare la felicità, oppure il solo porsi tale
questione è indecente? E tuttavia Arthur Rimbaud, profeta di questo
XX secolo folle, ha cantato “la magique étude du bonheur, que nul
n’élude.” Non si crede più alla felicità, ma si crede alla
magia: magia dei ciarlatani e magia degli artisti, che portò Rimbaud
a passare una “stagione all‟inferno.” Il sesso, l‟alcool, la
droga, il rock, dispensano ai disperati delle ore di sogno, dei
momenti di estasi, degli istanti di euforia e dei giorni di sballo.
Più che della poesia, Rimbaud aveva bisogno di camminare: ha fatto
delle fughe nella sua infanzia, ha continuato da adulto, era la sua
unica droga o la sua sola felicità. Quando si è visto condannato
all‟immobilità, a Marsiglia, si è veramente disperato: “sono
troppo infelice.” Ha sopportato delle sofferenze fisiche
incredibili finché ha potuto camminare: non ha sopportato di doversi
fermare. Sul letto di morte ha ritrovato il dono poetico della sua
infanzia, era trasfigurato, diceva la sorella, più bello che mai...
forse ha ritrovato Dio ma questo è avvenuto attraverso la porta
stretta di una vera disperazione umana. Un altro grande camminatore
fu Charles de Foucault. Ha conosciuto l‟ebbrezza del piacere: le
feste folli, il foie gras, le prostitute... del piacere non gli
interessava che l‟ebbrezza e non si curava del piacere stesso,
divorato com‟era da un fuoco interiore. “Il magico studio della
felicità, cui nessuno sfugge,” tratto da Arthur Rimbaud, La
Felicità (ndt). Dopo il piacere ha conosciuto le marce attraverso le
montagne del Marocco, ha scoperto l‟adorazione, ha tremato davanti
a qualcosa che superava la sua disperazione. L‟unica possibilità
che abbiamo di trovare la felicità è l‟adorazione.
Quelli che
adorano non sono necessariamente felici, un cupo orgoglio li può
accecare ancora a lungo, ma hanno una possibilità quelli che non
adorano non ne hanno alcuna. Chi vuol salvare quaggiù la sua
felicità la perderà, ma chi la perde a favore dell‟infinito la
ritroverà e avrà il centuplo fin da quaggiù (queste sono le
beatitudini), e riceverà la vita eterna, che è la Beatitudine. In
questo tempo di disperazione e d‟indicibile miseria le beati-
tudini sono la sola risposta a chi è infastidito davanti alla
ricerca della felicità come se si trattasse di un‟indecenza. Le
beatitudini sono la promessa folle, fatta ai “dannati della terra,”
che sono in verità i beati, i soli beati, in questa valle di lacrime
e di orrore. I miliardi di vittime che popolano il pianeta hanno una
sola cosa da fare, o piuttosto da non fare: cancellare, con la
libertà di una rivolta sempre possibile, la beatitudine inaudita che
è loro offerta su un piatto d‟argento. Il vero problema incombe
su coloro che non sono proprio vittime, e che hanno il tempo, il
pericoloso tempo, di dedicarsi al “magico studio della felicità
cui nessuno sfugge”... salvo precisamente quelli che piangono e
sono perseguitati, quelli che hanno fame e sete, i poveri e i miti, i
misericordiosi, gli operatori di pace, che non hanno nient‟altro da
fare che gemere senza perdere ogni speranza, perché il Regno dei
Cieli appartiene a loro. Gli altri... ah! Gli altri, e cioè voi ed
io, quelli che hanno la ricchezza del tempo, della cultura, di un
minimo di salute, come so- no in pericolo! “È più facile per un
cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel
Regno dei Cieli.” Questi ricchi siamo noi, è la prima cosa da
sapere e da dire in merito alla felicità. In altre parole, siamo
partiti male. Per fortuna che si tratta di arrivare e non di partire:
l‟operaio dell‟ultima ora riceve quanto quelli della prima, il
Buon Ladrone si è salvato in extre mis, chi vuole camminare al
seguito di Cristo deve calcolare la spesa, nel timore di partire
bene, ma di non perseverare. Il magico studio della felicità, per i
ricchi, è quello della rinuncia da cui i miserabili sono appunto
dispensati. L‟amore chiede tutto, ma la misericordia pazienta con
la situazione pietosa dei ricchi: il minimo bicchiere d‟acqua non
resterà senza ricompensa, il più piccolo gesto gratuito porta già
sulla strada del Cielo, anche se l‟amore che si accontenta di una
goccia d‟acqua finisce sempre per divorare tutto. Ma la rinuncia
più crudele richiesta ai ricchi è appunto quella della sicurezza
promessa ai poveri. Ecco perché ho sempre detto che la prima cosa
richiesta da Gesù Cristo ai ricchi che noi sia- mo, è il coraggio
d‟aver paura: paura dell‟inferno, paura del Purgatorio, paura
dell‟illusione, paura dell‟orgoglio, paura delle tene- bre, paura
di ferire il cuore di Dio. Se questa paura diventa morbosa e
ossessiva fino a generare il martirio degli scrupoli conosciuto da
Teresa, allora smettiamo di colpo di essere ricchi, per diventare uno
di quei poveri cui il Regno è promesso senza condizioni. Non abbiamo
però il diritto di gettarci nella miseria e nella malattia: dobbiamo
aver paura nella calma, direi anche gioiosamente, perché è la
condizione della fiducia straordinaria cantata da Teresa e offerta da
Maria fin dall‟inizio. Questa fiducia va più lontano, è più
bella di quella dei poveri: è la fiducia dei ricchi che hanno paura
della loro ricchezza, ma che si gettano nella misericordia, perché
“ciò che è impos- sibile agli uomini è possibile a Dio,” e si
rallegrano di cantarlo in un Alleluia eterno. Ben pochi, ahimè,
accettano di aver paura in questo modo, nella calma e nella gioia. I
più vogliono delle assicurazioni, vogliono essere tranquillizzati,
vogliono il burro e i soldi del burro: la ricchezza dei sazi e la
sicurezza dei poveri. Ebbene no, non si può avere tutto, il meglio e
il peggio. La sicurezza dei poveri è meno bella, in fin dei conti,
meno regale e meno esplosiva dell‟insicurezza tremante dei ricchi,
che lavorano, gemendo, tutta la vita per divenire alla fine, a forza
di lacrime, degli operai dell‟ultima ora, e che vogliono in questa
corsa travolgente, folle, verso la Beatitudine, attraverso le
beatitudini, raggiungere il Buon Ladrone, per sentire un giorno con
lui: “Questa sera sarai con me in Paradiso.” Allora esplode in
loro il Magnificat della Beata Vergine Maria: “Ha guardato l‟umiltà
della sua serva.” Il Magnificat è un inno all‟umiltà, come c‟è
un inno alla carità nella Prima lettera ai Corinzi, e un inno alla
fede nella Lettera agli Ebrei l‟umiltà dei ricchi che hanno
saputo trovare la porta stretta: L‟umiltà non è una saggezza, è
una follia. Non è una debolezza, è una forza terribile. Non è una
prostrazione, è una Resurrezione, la gioia del nulla che esplode
nell‟infinito, la gioia del ribelle che si dissolve nella dolcezza
di Dio. L‟umiltà non è una dolcezza, è una violenza, la più
implacabile di tutte le violenze, capace di divorare quella dei
potenti. Non è acqua, è fuoco: l‟umiltà, in fondo, è Dio... è
anche il solo punto in comune fra la creatura e Dio. Queste verità
sono fondamentalmente trinitarie: ogni Persona divina non è che
Relazione all‟altra, la sua umiltà infinita dissolve
implacabilmente quello che chiamiamo affermazione della nostra
personalità. Ma è soprattutto necessario sperimentare queste verità
come Dostoevskij, Teresa di Gesù Bambino, san Giovanni della Croce:
“Così in basso, così in basso mi abbassai...” C‟è una
violenza cattiva che si svilisce e si denigra, e che viene dal
demonio: “Sono un essere ignobile, non valgo niente, sono una
nullità, un fallito, sono un rifiuto, un essere immondo,” ecc.
ecc. Altrettante formule demoniache che sono la caricatura
dell‟umiltà. Ancor prima che in Dostoevskij, la formula
dell‟umiltà l‟ho trovata inizialmente in un romanzo da quattro
soldi: “Si vive veramente solo quando si prova un sentimento di
dissolvimento, quando in apparenza non si è più se stessi, ma si è
interamente versati in un altro essere.” Forse i romanzi rosa sono
la scuola migliore: essi, infatti, raccontano la stupidità di amare,
di vivere per un altro, nel modo delle prostitute che hanno
cuore...Dimenticarsi non per virtù, ma per ebbrezza, perché si è
assa- porata la droga dell‟amore: Gesù, Maria, Maria Maddalena, la
lavanda dei piedi, Nazareth, le follie dei santi non fanno altro che
renderla fruttuosa. Non c‟è un cammino per arrivarci: una persona
possiede questa ebbrezza, oppure no. Ma se la possiede, più la
possiede, più è sbigottita dall‟orrore di essere abitata in tal
modo dall‟orgoglio, dalla durezza di cuore e dal demonio,
persecutori instancabili di questa umiltà. Allora cominciano il
combattimento spirituale, le strategie, la saggezza degli Antichi, i
consigli della Chiesa, le tradizioni monastiche, l‟ascesi
quotidiana, ecc. ecc. Al termine di questo periplo c‟è un oceano
di lacrime, che è nello stesso tempo l‟Oceano di Dio. Ma
all‟inizio bisogna piangere almeno una prima volta, come Zampanò
alla fine de La Strada. Non conosco ricetta per giungere a questo
punto: “Non è questione di sforzi né di correre, ma che Dio
s‟intenerisca” (Rm 9, 16). Perché, come dice san Giovanni, in
questo sta l‟amore: “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui
che ha amato noi e ci ha dato il suo Figlio” (1 Gv 4, 10). Dio dà
a ciascuno la Beati- tudine anche prima che abbia potuto solo
desiderarla o concepirla: non si sceglie di far parte dei
perseguitati, di coloro che muoiono di fame e si ritrovano nel cuore
delle beatitudini che portano alla Beatitudine. Non si sceglie di
piangere: o si piange, o non si piange, con lacrime che, troppo umane
forse in principio, diventano presto l‟inizio della beatitudine
delle lacrime. Non si sceglie di essere miti, umili, ecc. Però si
possono rifiutare tutti questi doni, si può rifiutare di essere
perseguitati, di aver fame, di piangere, di essere miti: ci si può
indurire. Il timore di questo potere terribile della libertà in-
dusse Dostoevskij a creare un Grande Inquisitore, che vuole
preservare gli uomini da una dignità così temibile, e propone
insie- me a tutti i tiranni di farne degli alienati, di
lobotomizzarli, di farne degli schiavi. È vero che questo dono
regale ha qualcosa di terribile, perché Dio non rifiuta mai la
grazia: siamo noi che, nove volte su dieci, rifiutiamo di
accoglierla. C‟è motivo di aver paura e di aver voglia di
diventare degli schiavi, di unirci ai porci soddisfatti per evitare i
travagli dei Socrate tormentati. Ma Dostoevskij ignora il segreto
suggerito da Teresa di Gesù Bambino: invece di respingere questa
libertà che ci fa, a ragione, così paura, doniamola... gettiamola
nell‟Oceano della Misericordia. E la Misericordia ci dirà (è la
grande Rivelazione cristiana che non comprendiamo mai abbastanza):
“Sì, tu mi respingi nove volte su dieci, e per questo piango
lacrime di sangue, per questo muoio sulla Croce. Ma purché soltanto,
purché almeno una sola volta, una sola piccola volta tu lasci
parlare il tuo cuore! Un secondo di dolcezza, un secondo di
disattenzione sfuggito alla prigione di questo cuore indurito in cui
il demonio ti tiene rinchiuso... questo istante basterà alla mia
misericordia per riversarsi in te e immergerti nella mia tenerezza!
Un secondo di disattenzione, un secondo in cui il nostro orgoglio
abbassa la guardia, in cui dimentica di indurirsi e tutto il Sangue
di Cristo ci inghiottirà nella sua Gloria: chiediamolo senza tregua,
questo secondo di disattenzione, per noi e per tutti gli altri, con
la Chiesa e con Maria, “adesso e nell‟ora della nostra morte.”
Padre
Marie Dominique Moliniè
O.P
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