15
febbraio 1944.
Dice
Gesù: «La sofferenza della mia agonia spirituale tu l'hai
contemplata nella sera del Giovedì. Hai visto il tuo Gesù
accasciarsi come uomo colpito a morte che sente fuggire la vita
attraverso le ferite che lo svenano, o come creatura soverchiata da
un trauma psichico superiore alle sue forze. Ne hai visto le fasi
crescenti, di questo trauma, culminate nell'effusione sanguigna, pro-
vocata dallo squilibrio circolatorio causato dallo sforzo di vincermi
e di resistere al peso che mi si era abbattuto sopra.
Io
ero, sono, il Figlio del Dio Altissimo. Ma ero anche il Figlio
dell'uomo. Da queste pagine voglio che sgorghi nitida questa mia
duplice natura, ugualmente totale e perfetta.
Della mia
Divinità vi fa fede la mia parola, la quale ha accenti che solo un
Dio può avere. Della mia Umanità i bisogni, le passioni, le
sofferenze che vi presento e che patii nella mia carne di vero Uomo,
proposta a modello della vostra umanità, così come vi istruisco lo
spirito con la mia dottrina di vero Dio.
Tanto la
mia santissima Divinità come la mia perfettissima Umanità, nel
corso dei secoli e per l'azione disgregante della "vostra"
umanità imperfetta, sono risultate menomate, svisate nella loro
illustrazione. Avete resa irreale la mia Umanità, l'avete resa
inumana, così come avete resa piccola la mia figura divina,
negandola in tante parti che non vi faceva comodo riconoscere o che
non potevate più riconoscere con i vostri spiriti, menomati dalle
tabi del vizio e dell'ateismo, dell'umanismo, del razionalismo.
Io
vengo, in quest'ora tragica, prodromo di universali sventure, vengo a
rinfrescarvi nella mente la mia duplice figura di Dio e di Uomo,
perché voi la conosciate quale Essa è, perché voi la riconosciate
dopo tanto oscurantismo con cui l'avete coperta ai vostri spiriti,
perché voi la amiate e torniate ad Essa e vi salviate per mezzo di
Essa. È la figura del vostro Salvatore, e chi la conoscerà e
l'amerà sarà salvo.
In questi giorni ti ho fatto conoscere le mie sofferenze fisiche. Esse hanno torturato la mia Umanità. Ti ho fatto conoscere le mie sofferenze morali, connesse, intrecciate, fuse a quelle della Madre mia, così come sono le inestricabili liane delle foreste equatoriali, che non si possono separare per reciderne una sola, ma che si deve spezzarle con un unico colpo d'accetta per aprirsi il varco, uccidendole insieme; così come sono le vene di un corpo, che non se ne può privare di sangue una perché un unico umore le empie; così, meglio ancora, così come non si può impedire che nella creatura, che si forma nel seno della madre, entri la morte se la madre muore, perché è la vita, il calore, il nutrimento, il sangue della madre quello che, con ritmo sonante sul moto del materno cuore, penetra, attraverso le interne membrane, sino al nascituro e lo completa alla vita.
Ella, oh!
Ella, la pura Madre mia, mi ha portato non solo per i nove mesi con
cui ogni femmina d'uomo porta il frutto dell'uomo, ma per tutta la
vita. I nostri cuori erano uniti da spirituali fibre e hanno
palpitato insieme sempre, e non c'era lacrima materna che cadesse
senza rigarmi il cuore del suo salso, e non c'era mio interno lamento
che non risuonasse in Lei svegliando il suo dolore.
Vi fa pena
la madre di un figlio destinato alla morte per morbo insanabile, la
madre di un condannato al supplizio dal rigore dell'umana giustizia.
Ma pensate a questa Madre mia, che dal momento in cui mi ha concepito
ha tremato pensando che ero il Condannato, a questa Madre che quando
m'ha dato il primo bacio sulle carni morbide e rosee di neonato ha
sentito le future piaghe della sua Creatura, a questa Madre che
avrebbe dato dieci, cento, mille volte la sua vita per impedirmi di
divenire Uomo e di giungere al momento dell'Immolazione, a questa
Madre che sapeva e che doveva desiderare quell'ora tremenda per
accettare la volontà del Signore, per la gloria del Signore, per
bontà verso l'Umanità. No, non vi è stata agonia più lunga, e
finita in un dolore più grande, di quella della Madre mia.
E
non vi è stato un dolore più grande, più completo del mio. Ero Uno
col Padre, Egli mi aveva dall'eternità amato come solo Dio può
amare. Si era compiaciuto di Me ed aveva trovato in Me la sua divina
gioia. Ed Io l'avevo amato come solo un Dio può amare, e trovato
nell'unione con Lui la mia gioia divina. Gli ineffabili rapporti che
legano ab eterno il Padre col Figlio non possono esservi spiegati
neppure dalla mia parola, perché, se essa è perfetta, la vostra
intelligenza non lo è, e non potete comprendere e conoscere ciò che
è Dio finché non siete seco Lui nel Cielo.
Ebbene, Io
sentivo, come acqua che monta e preme contro una diga, crescere, ora
per ora, il rigore del Padre verso di Me. A testimonianza contro gli
uomini bruti, che non volevano comprendere chi ero, Egli aveva
aperto, durante il tempo della mia vita pubblica, tre volte il Cielo:
al Giordano, al Tabor e in Gerusalemme nella vigilia della Passione.
Ma l'aveva fatto per gli uomini, non per dare sollievo a Me. Io ormai
ero l'Espiatore.
Molte
volte, Maria, Dio fa conoscere agli uomini un suo servo perché essi
ne siano scossi e trascinati, attraverso esso, a Lui, ma ciò avviene
anche attraverso il dolore di quel servo. È desso che paga in
proprio, mangiando il pane amaro del rigore di Dio, i conforti e la
salvezza dei fratelli. Non è vero? Le vittime d'espiazione conoscono
il rigore di Dio. Poi viene la gloria. Ma dopo che la Giustizia è
placata. Non è come per il mio Amore, che alle sue vittime dà i
suoi baci. Io sono Gesù, Io sono il Redentore, Colui che ha sofferto
e sa, per personale esperienza, cosa sia il dolore d'esser guardato
con severità da Dio ed essere abbandonato da Lui, e non sono mai
severo, e non abbandono mai. Consumo ugualmente, ma in un incendio
d'amore.
Più l'ora
dell'espiazione si avvicinava e più Io sentivo allontanarsi il
Padre. Sempre più separato dal Padre, la mia Umanità si sentiva
sempre meno sorretta dalla Divinità di Dio. E ne soffrivo in tutte
le maniere.
La
separazione da Dio porta seco paura, porta seco attaccamento alla
vita, porta seco languore, stanchezza, tedio. Più è profonda e più
sono forti queste sue conseguenze. Quando è totale, porta
disperazione. E quanto più chi, per un decreto di Dio, la prova
senza averla meritata, più ne soffre, perché lo spirito vivo sente
la recisione da Dio così come una carne viva sente la recisione di
un arto. È uno stupore doloroso, accasciante, che chi non l'ha
provato non intende. Io l'ho provato. Tutto ho dovuto conoscere per
potere di tutto perorare presso il Padre in vostro favore. Anche le
vostre disperazioni. Oh, Io l'ho provato cosa vuol dire: "Sono
solo. Tutti mi hanno tradito, abbandonato. Anche il Padre, anche Dio
non m'aiuta più".
Ed
è per questo che opero misteriosi prodigi di grazia presso i poveri
cuori che la dispera- zione soverchia, e che chiedo ai miei
prediletti di bere il mio calice così amaro di esperienza, perché
essi, coloro che naufragano nel mare della disperazione, non ricusino
la croce che offro per àncora e per salvezza, ma vi si afferrino ed
Io li possa portare alla beata riva dove non vi- ve che pace.
5Nella
sera del Giovedì, Io solo so se avrei avuto bisogno del Padre! Ero
uno spirito già agonizzante per lo sforzo di aver dovuto superare i
due più grandi dolori di un uomo: l'addio ad una madre amatissima,
la vicinanza dell'amico infedele. Erano due piaghe che mi bruciavano
il cuore. Una col suo pianto, l'altra col suo odio.
Avevo
dovuto spezzare il mio pane col mio Caino. Avevo dovuto parlargli da
amico per non accusarlo agli altri, della cui violenza non ero
sicuro, e per impedire un delitto, inutile d'altronde poiché tutto
era già segnato nel gran libro della vita: e la mia Morte santa, ed
il suicidio di Giuda. Inutili altre morti riprovate da Dio. Nessuno
altro sangue che non fosse il mio doveva esser sparso, e sparso non
fu. Il capestro strozzò quella vita chiudendo nel sacco immondo del
corpo del traditore il suo sangue impuro venduto a Satana, sangue che
non doveva mescolarsi, cadendo sulla Terra, al Sangue purissimo
dell'Innocente.
Sarebbero
bastate quelle due piaghe a fare di Me un agonizzante nel mio Io. Ma
ero l'Espiatore, la Vittima, l'Agnello. L'agnello, prima d'esser
immolato, conosce il marchio rovente, conosce le percosse, conosce lo
spogliamente, conosce la vendita al beccaio. Solo per ultimo conosce
il gelo del coltello che penetra nella gola e svena e uccide. Prima
deve lasciare tutto: il pascolo dove è cresciuto, la madre al cui
petto si è nutrito e scaldato, i compagni con cui ha vissuto. Tutto.
Io ho conosciuto tutto: Io, Agnello di Dio.
Perciò
è venuto Satana, mentre il Padre si ritirava nei Cieli. Era già
venuto all'inizio della mia missione, a tentarmi per sviarmi da essa.
Ora tornava. Era la sua ora. L'ora della tregenda satanica.
Torme e
torme di demoni erano quella notte sulla Terra, per portare a termine
la seduzione nei cuori e farli pronti a volere il domani l'uccisione
del Cristo. Ogni sinedrista aveva il suo, e il suo Erode, e il suo
Pilato, e il suo ogni singolo giudeo che avrebbe invocato su lui il
mio Sangue. Anche gli apostoli avevano il loro tentatore al fianco,
che li assopiva mentre Io languivo, che li preparava alla viltà.
Osserva il potere della purezza. Giovanni, il puro, si liberò primo
fra tutti della grinfia demoniaca e tornò subito presso il suo Gesù
e lo comprese nel suo inespresso desiderio, e mi condusse Maria. Ma
Giuda aveva Lucifero, ed Io avevo Lucifero. Egli nel cuore, Io al
fianco. Eravamo i due principali personaggi della tragedia, e Satana
si occupava personalmente di noi. Dopo aver condotto Giuda al punto
di non potere più retrocedere, si volse a Me.
Con
la sua astuzia perfetta, mi presentò le torture della carne con un
verismo insuperabile. Anche nel deserto aveva cominciato dalla carne.
Lo vinsi pregando. Lo spirito signoreggiò le paure della carne.
Mi presentò
allora l'inutilità del mio morire, l'utilità di vivere per Me
stesso senza occuparmi degli uomini ingrati. Vivere ricco, felice,
amato. Vivere per la Madre mia, per non farla soffrire. Vivere per
portare a Dio con un lungo apostolato tanti uomini, i quali, una
volta Io morto, m'avrebbero dimenticato, mentre se fossi stato
Maestro non per tre anni ma per lustri e lustri avrebbero finito ad
immedesimarsi della mia dottrina. I suoi angeli mi avrebbero aiutato
a sedurre gli uomini. Non vedevo che gli angeli di Dio non
intervenivano nell'aiutarmi? Dopo, Dio mi avrebbe perdonato vedendo
la messe di credenti che gli avrei portato. Anche nel deserto m'aveva
indotto a tentare Iddio con l'imprudenza. Lo vinsi con la preghiera.
Lo spirito signoreggiò la tentazione morale.
Mi
presentò l'abbandono di Dio. Egli, il Padre, non mi amava più. Ero
carico dei peccati del mondo. Gli facevo ribrezzo. Era assente, mi
lasciava solo. Mi abbandonava al ludibrio di una folla feroce. E non
mi concedeva neppure il suo divino conforto. Solo, solo, solo. In
quell'ora non c'era che Satana presso il Cristo. Dio e gli uomini
erano assenti, perché non mi amavano. Mi odiavano o erano
indifferenti. Io pregavo per coprire col mio orare le parole
sataniche. Ma la preghiera non saliva più a Dio. Ricadeva su Me come
le pietre della lapidazione e mi schiacciava sotto la sua macia. La
preghiera, che per Me era sempre carezza data al Padre, voce che
saliva, ed alla quale rispondeva carezza e parola paterna, ora era
morta, pesante, invano lan- ciata contro i Cieli chiusi.
Allora
sentii l'amaro del fondo del calice. Il sapore della disperazione.
Era questo che voleva Satana. Portarmi a disperare per fare di Me un
suo schiavo. Ho vinto la disperazione e l'ho vinta con le sole mie
forze, perché ho voluto vincerla. Con le sole mie forze di Uomo. Non
ero più che l'Uomo. E non ero più che un uomo non più aiutato da
Dio.
Quando
Dio aiuta è facile sollevare anche il mondo e sostenerlo come
giocattolo di bimbo. Ma quando Dio non aiuta più, anche il peso di
un fiore ci è faticoso.
Ho vinto la
disperazione e Satana suo creatore per servire Dio e voi dandovi la
Vita. Ma ho conosciuto la Morte. Non la morte fisica del crocifisso
quella fu meno atroce- ma la Morte tota- le, cosciente, del lottatore
che cade, dopo aver trionfato, col cuore spezzato e il sangue che si
stravasa nel trauma di uno sforzo superiore al possibile. Ed ho
sudato sangue. Ho sudato sangue per essere fedele alla volontà di
Dio,
Ecco
perché l'angelo del mio dolore mi ha prospettato la speranza di
tutti i salvati per il mio sacrificio come medicina al mio morire.
I
vostri nomi! Ognuno m'è stato una stilla di farmaco infuso nelle
vene per ridare loro tono e funzione, ognuno m'è stato vita che
torna, luce che torna, forza che torna. Nelle inumane torture, per
non urlare il mio dolore di Uomo, e per non disperare di Dio e dire
che Egli era troppo severo e ingiusto verso la sua Vittima, Io mi
sono ripetuto i vostri nomi. Io vi ho visti. Io vi ho benedetti da
allora. Da allora vi ho portati nel cuore. E quando è per voi venuta
la vostra ora di essere sulla Terra, Io mi sono proteso dai Cieli ad
accompagnare la vostra venuta, giubilando al pensiero che un nuovo
fiore di amore era nato nel mondo e che avrebbe vissuto per Me.
Oh!
miei benedetti! Conforto del Cristo morente! La Madre, il Discepolo,
le Donne pietose erano intorno al mio morire, ma voi pure c'eravate.
I miei occhi morenti vedevano, insieme al volto straziato della Mamma
mia, i vostri visi amorosi, e si sono chiusi così, beati di
chiudersi perché vi avevano salvati, o voi che meritate il
Sacrificio di un Dio».
16
febbraio 1944.
Dice
Gesù:
«Hai
conosciuto ormai tutti i dolori che hanno preceduto la Passione
propriamente detta. Ora ti farò conoscere i dolori della Passione in
atto. Quei dolori che più colpiscono la vostra mente quando li
meditate. Ma li meditate molto poco. Troppo poco. Non riflettete a
quanto mi siete costati e di quale tortura è fatta la vostra
salvezza.
Voi che vi
lamentate di una scorticatura, di un urto contro uno spigolo, di un
male di capo, non pensate che Io ero tutto una piaga, che quelle
piaghe erano invelenite da molte cose, che le cose stesse servivano a
tormento del loro Creatore, perché torturavano il già torturato Dio
Figlio senza rispetto a Colui che, Padre del creato, le aveva
formate.
Ma le cose
non erano colpevoli. Era ancora e sempre l'uomo il colpevole, Il
colpevole dal giorno che ascoltò Satana nel Paradiso terrestre. Non
spine, non tossico, non ferocia avevano sino a quel momento le cose
del creato per l'uomo creatura eletta. Dio lo aveva fatto re, questo
uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, e nel suo paterno amore non
aveva voluto che le cose potessero essere insidiose all'uomo. Satana
mise l'insidia. Nel cuore dell'uomo per pri- ma. Poi essa partorì
all'uomo, colla punizione del peccato, triboli e spine.
Ed
ecco che Io, l'Uomo, ho dovuto soffrire anche per le cose e dalle
cose, oltre che dalle persone. Queste mi dettero insulti e sevizie;
quelle ne furono arma.
La mano che
Dio aveva fatto all'uomo per distinguerlo dai bruti, la mano che Dio
aveva insegnato all'uomo ad usare, la mano che Dio aveva messo in
rapporto con la mente rendendola esecutrice dei comandi della mente,
questa parte di voi così perfetta e che avrebbe dovuto aver solo
carezze per il Figlio di Dio, dal quale aveva avuto solo carezze e
guarigione se era malata, si rivoltò contro il Figlio di Dio e lo
colpì di guanciate, di pugni, si armò di flagelli, si fece tenaglia
per strappare capelli e barba, e maglio per conficcare i chiodi.
I piedi
dell'uomo, che avrebbero dovuto unicamente correre solerti ad adorare
il Figlio di Dio, furono veloci per venire a catturarmi, a
sospingermi e trascinarmi per le vie dai miei carnefici, e per
colpirmi di calci come non è lecito fare con un mulo restìo.
La bocca
dell'uomo, che avrebbe dovuto usare della parola, la parola che è
dote data unicamente all'uomo su tutti gli animali creati, per lodare
e benedire il Figlio di Dio, si empì di bestemmie e menzogne e gettò
queste, insieme con la sua bava, contro la mia persona.
La
mente dell'uomo, quella che è la prova della sua origine celeste,
stancò se stessa per escogitare tormenti di un raffinato rigore.
L'uomo,
tutto l'uomo usò di se stesso, nelle sue singole parti, per
torturare il Figlio di Dio. E chiamò la terra, con le sue forme, ad
aiuto nel torturare. Fece, delle pietre dei torrenti, proiettili per
ferirmi; dei rami delle piante, randelli per percuotermi; della
ritorta canapa, laccio per trascinarmi, segandomi le carni; delle
spine, una corona di pungente fuoco al mio capo stanco; dei minerali,
un esasperato flagello; della canna, uno strumento di tortura; delle
pietre delle vie, un'insidia al piede vacillante di Colui che saliva,
morendo, per morire crocifisso.
E
alle cose della terra si unirono le cose del cielo. Il freddo
dell'alba al mio corpo già esausto dell'agonia dell'orto, il vento
che esaspera le ferite, il sole che aumenta arsione e febbre e porta
mosche e polvere, che abbacina gli occhi stanchi a cui le mani
prigioniere non possono far riparo.
E
alle cose del cielo si uniscono le fibre concesse all'uomo per
rivestire la sua nudità: nel cuoio che diviene flagello, nella lana
della veste che si attacca alle aperte piaghe dei flagelli e dà
tortura di confricamento e di lacerazione ad ogni mossa.
Tutto,
tutto, tutto ha servito per tormentare il Figlio di Dio. Egli, per
cui tutte le cose so- no state create, nell'ora in cui era l'Ostia
offerta a Dio ebbe tutte le cose nemiche. Non ha avuto sollievo,
Maria, il tuo Gesù da nessuna cosa. Come vipere inferocite, tutto
quanto è si volse a mordermi le carni e ad accrescere il patire.
Questo
occorrerebbe pensare quando soffrite e, paragonando le vostre
imperfezioni alla mia perfezione e il mio dolore al vostro,
riconoscere che il Padre ama voi come non amò Me in quell'ora, ed
amarlo perciò con tutti voi stessi, come Io l'ho amato nonostante il
suo rigore».
Nessun commento:
Posta un commento