22-25
marzo 1945.
Incomincia
il doloroso cammino per la stradetta sassosa che conduce dalla
piazzetta dove Gesù fu catturato al Cedron e da questo, per altra
stradetta, alla città. E subito incominciano i lazzi e le sevizie.
Gesù,
legato come è ai polsi e persino alla cintura come fosse un pazzo
pericoloso, con i capi delle funi affidati a degli energumeni briachi
di odio, è stiracchiato qua e là come un cencio abbandonato
all'ira di una torma di cuccioli. Ma, fossero cani coloro che così
agiscono, sarebbero ancora scusabili. Invece hanno nome di uomini,
sebbene dell'uomo non abbiano altro che l'aspetto. Ed è per dare
maggior dolore che hanno pensato a quella legatura di due funi
opposte, di cui una si occupa soltanto di imprigionare i polsi, e li
sgraffia e sega col suo ruvido attrito, e l'altra, quella della
cintura, comprime i gomiti contro il torace, e sega e opprime l'alto
dell'addome, torturando il fegato e le reni, dove è fatto un enorme
nodo e dove, ogni tanto, chi tiene i capi delle funi dà, con gli
stessi, delle sferzate dicendo: «Arri! Via! Trotta, somaro!», e
unisce anche dei calci, menati al dietro dei ginocchi del Torturato,
che ne barcolla e non cade del tutto solo perché le funi lo tengono
in piedi. Ma non evitano però che, stiracchiato verso destra da
quello che si occupa delle mani e verso sinistra da quello che tiene
la fune della cintura, Gesù vada ad urtare contro muretti e tronchi,
e cada duramente contro la spalletta del ponticello per un più
crudele strattone, ricevuto quando sta per valicare il ponticello sul
Cedron. La bocca contusa sanguina. Gesù alza le mani legate per
tergersi il sangue che brutta la barba, e non parla. È veramente
l'agnello che non morde chi lo tortura.
Della
gente è scesa intanto a prendere selci e ciottoli nel greto, e dal
basso inizia una sassaiola sul facile bersaglio. Perché l'andare è
stentato sul ponticello stretto e insicuro, su cui la gente si
accalca facendo ostacolo a se stessa, e le pietre colpiscono Gesù
sul capo, sulle spalle, e non Gesù solo. Ma anche i suoi aguzzini,
che reagiscono lanciando bastoni e le stesse pietre. E tutto serve
per colpire di nuovo Gesù sul capo e sul collo. Ma il ponte ha ben
fine, ed ora la viuzza stretta getta ombre sulla mischia, perché la
luna, che inizia il tramonto, non scende in quel vicolo contorto, e
molte torce nel parapiglia si sono spente.
Ma l'odio fa da lume per vedere il povero Martire, al quale fa da torturatrice anche la sua alta statura. È il più alto di tutti. Facile quindi il percuoterlo, l'acciuffarlo per i capelli obbligandolo a rovesciare violentemente indietro il capo, sul quale viene lanciata una manata di immonda materia, che gli deve per forza andare in bocca e negli occhi dando nausea e dolore.
Si
inizia la traversata del sobborgo di Ofel, del sobborgo in cui tanto
bene e tante carezze Egli ha sparso. La turba vociante richiama i
dormenti sulle soglie, e se le donne hanno gridi di dolore e fuggono
terrorizzate vedendo l'avvenuto, gli uomini, gli uomini che pure da
Lui hanno avuto guarigioni, soccorsi, parole d'Amico, o chinano il
capo rimanendo indifferenti, affettando noncuranza per lo meno, o
passano dalla curiosità all'astio, al ghigno, all'atto di minaccia,
e anche si accodano al corteo per seviziare. Satana è già
all'opera...
Un
uomo, un marito che vuole seguirlo per offenderlo, viene abbrancato
dalla moglie urlante che gli grida: «Vigliacco! Se sei vivo è per
Lui, lurido uomo pieno di marciume. Ricorda lo!». Ma la donna viene
sopraffatta dall'uomo, che la picchia bestialmente gettandola al
suolo e che poi corre a raggiungere il Martire, sulla cui testa
scaglia un sasso.
Un'altra
donna, vecchia, cerca di sbarrare la strada al figlio, che accorre
con un volto di iena e con un bastone per colpire lui pure, e gli
grida: «Assassino del tuo Salvatore tu non sarai finché io vivo!».
Ma la misera, colpita dal figlio con un calcio brutale all'inguine,
stramazza gridando: «Deicida e matricida! Per il seno che squarci
una seconda volta e per il Messia che ferisci, che tu sia
maledetto!».
La
scena aumenta sempre più in violenza man mano che ci si avvicina
alla città. Prima di giungere alle mura -e già sono aperte le
porte, ed i soldati romani con le armi al piede osservano dove e come
si svolge il tumulto, pronti ad intervenire se il prestigio di Roma
ne fosse lesovi è Giovanni con Pietro. Io credo che siano giunti lì
da una scorciatoia presa va- licando il Cedron più su del ponte e
precedendo velocemente la turba, che va lenta, tanto da sé si
ostacola. Stanno nella penombra di un androne, presso una piazzetta
che precede le mura. E hanno sul capo i mantelli a far velo al volto.
Ma, quando Gesù giunge, Giovanni lascia cadere il suo mantello e
mostra la sua faccia pallida e sconvolta al libero chiarore della
luna, che lì ancora fa lume prima di scomparire dietro il colle, che
è oltre le mura e che sento designare come Tofet dagli sgherri
catturatori. Pietro non osa scoprirsi. Ma però viene avanti per
essere visto...
Gesù
li guarda... ed ha un sorriso di una bontà infinita. Pietro gira su
se stesso e torna nel suo angolo buio, con le mani sugli occhi,
curvo, invecchiato, già un cencio d'uomo. Giovanni resta
coraggiosamente dove è, e solo quando la turba vociante è passata
raggiunge Pietro, lo prende per un gomito, lo guida come fosse un
ragazzo che guida il padre cieco, ed entrano ambedue in città dietro
alla folla schiamazzante.
Sento
le esclamazioni stupite, derisorie, addolorate dei soldati romani.
Chi fra essi maledice per essere stato levato dal letto per quel
«pecorone stolto»; chi deride i giudei capaci di «prendere una
mezza femmina»; chi compassiona la Vittima che «ha sempre visto
buona»; e chi dice: «Preferirei mi avessero ucciso che vedere Lui
in quelle mani. È un grande. La mia de- vozione è per due nel
mondo: Egli e Roma».
«Per
Giove!», esclama il più alto in grado. «Io non voglio noie. Ora
vado dall'alfiere. Pensi lui a dirlo a chi deve. Non voglio essere
mandato a combattere i Germani. Questi ebrei puzzano e sono serpi e
rogne. Ma qui è sicura la vita. Ed io sto per finire il tempo, e
presso Pompei ho una fanciulla!...».
Perdo
il resto per seguire Gesù, che procede per la via che fa un arco in
salita per andare al Tempio. Ma vedo e comprendo che la casa di Anna,
dove lo vogliono portare, è e non è in quel labirintico agglomerato
che è il Tempio e che occupa tutto il colle di Sion. Essa ne è agli
estremi, presso una serie di muraglioni, che paiono delimitare qui la
città e da questo luogo si estendono con portici e cortili per il
fianco del monte sino a giungere nel recinto del Tempio vero e
proprio, ossia di quello in cui vanno gli israeliti per le loro
diverse manifestazioni di culto.
Un
alto portone ferrato si apre nella muraglia. A questo accorrono delle
iene volonterose e bussano forte. E non appena si apre uno spiraglio
irrompono dentro, quasi atterrando e calpestando la serva venuta ad
aprire, e lo spalancano tutto perché la turba vociante, con il
Catturato al centro, possa entrare. Ed entrata che è, ecco che
chiudono e sprangano, paurosi forse di Roma o dei partigiani del
Nazareno.
I
suoi partigiani! Dove sono?... Percorrono l'atrio di ingresso e poi
traversano un ampio cortile, un corridoio, e un altro portico e un
nuovo cortile, e trascinano Gesù su per tre scalini, facendogli
percorrere quasi di corsa un porticato sopraelevato sul cortile per
giungere più presto ad una ricca sala, dove è un uomo anziano
vestito da sacerdote.
«Dio
ti consoli, Anna», dice colui che pare l'ufficiale, se ufficiale può
chiamarsi il manigoldo che ha comandato quei briganti. «Eccoti il
colpevole. Alla tua santità l'affido perché Israele sia mondato
dalla colpa».
«Dio
ti benedica per la tua sagacia e la tua fede». Bella sagacia! Era
bastata la voce di Gesù a farli cadere per terra al Getsemani. «Chi
sei Tu?». «Gesù di Nazaret, il Rabbi, il Cristo. E tu mi conosci.
Non ho agito nelle tenebre». «Nelle tenebre, no. Ma hai traviato le
folle con dottrine tenebrose. E il Tempio ha il diritto e il dovere
di tutelare l'anima dei figli di Abramo».
«L'anima!
Sacerdote di Israele, puoi dire che per l'anima del più piccolo o
del più grande di questo popolo tu hai sofferto?».
«E
Tu allora? Che hai fatto che possa chiamarsi sofferenza?». «Che ho
fatto? Perché me lo chiedi? Tutto Israele parla. Dalla città santa
al più misero borgo anche le pietre parlano per dire quanto ho
fatto. Ho dato la vista ai ciechi: la vista degli occhi e del cuore.
Ho aperto l'udito ai sordi: alle voci della Terra e alle voci del
Cielo. Ho fatto camminare gli storpi e i paralitici, perché
iniziassero la marcia verso Dio dalla carne e poi pro- cedessero con
lo spirito. Ho mondato i lebbrosi, dalle lebbre che la Legge mosaica
segnala e da quelle che rendono infetti presso Dio: i peccati. Ho
risuscitato i morti, né dico che grande è il richiamare alla vita
una carne, ma grande è redimere un peccatore, e l'ho fatto. Ho
soccorso i poveri insegnando agli avidi e ricchi ebrei il precetto
santo dell'amore del prossimo e, rimanendo povero nonostante il rio
d'oro che mi passò fra le mani, ho asciugato più lacrime Io solo
che non tutti voi, possessori di ricchezze. Ho dato infine una
ricchezza che non ha nome: la conoscenza della Legge, la conoscenza
di Dio, la certezza che siamo tutti uguali e che agli occhi santi del
Padre uguale è il pianto o il delitto, sia che siano fatti o versati
dal Tetrarca e dal Pon- tefice, o dal mendicante e dal lebbroso che
muore sulla carraia. Questo ho fatto. Nulla più».
6«Sai
che da Te stesso ti accusi? Tu dici: le lebbre che rendono infetti a
Dio e non sono se
gnalate
da Mosè. Tu insulti Mosè e insinui che vi sono lacune nella sua
Legge...».
«Non
sua: di Dio. Così è. Più della lebbra, sventura della carne e che
ha un termine, Io dico grave, e tale è, la colpa che è sventura ed
eterna dello spirito».
«Tu
osi dire che puoi rimettere i peccati. Come lo fai?». «Se con un
poco di acqua lustrale e il sacrificio di un ariete è lecito e
credibile annullare una colpa, espiarla ed esserne mondati, come non
lo potrà il mio pianto, il mio Sangue e il mio volere?».
«Ma
Tu non sei morto. Dove è allora il Sangue?». «Non sono ancora
morto. Ma lo sarò perché è scritto. In Cielo da quando Sionne non
era, da quando non era Mosè, da quando non era Giacobbe, da quando
non era Abramo, da quando il re del Male morse al cuore l'uomo e lo
avvelenò in lui e nei suoi figli. È scritto in Terra nel Libro in
cui sono le voci dei profeti. È scritto nei cuori. Nel tuo, in
quello di Caifa e dei sinedristi che non mi perdonano, no, questi
cuori non mi perdonano di essere buono. Io ho assolto, anticipando
sul Sangue. Ora compio l'assoluzione col lavacro in esso».
«Tu
ci dici avidi e ignoranti del precetto d'amore...». «E non è forse
vero? Perché mi uccidete? Perché avete paura che Io vi detronizzi.
Oh! non temete. Il mio Regno non è di questo mondo. Vi lascio
padroni di ogni potere. L'Eterno sa quando dire il "Basta"
che vi farà cadere fulminati...».
«Come
Doras, eh?». «Egli morì d'ira. Non per fulmine celeste. Dio lo
attendeva dall'altra parte per fulminarlo». «E lo ripeti a me? Suo
parente? Osi?». «Io sono la Verità. E la Verità non è mai vile».
«Superbo e folle!». «No: sincero. Mi accusi di farvi offesa. Ma
non odiate forse voi tutti? L'un coll'altro vi odia- te. Ora l'odio
per Me vi unisce. Ma domani, quando mi avrete ucciso, tornerà l'odio
fra voi, e più fiero, e vivrete con questa iena alle spalle e questo
serpente nel cuore. Io ho insegnato l'amore. Per pietà del mondo. Ho
insegnato ad essere non avidi, ad avere misericordia. Di che mi
accusi?».
«Di
avere messo una dottrina nuova». «O sacerdote! Israele pullula di
nuove dottrine: gli esseni hanno la loro, i sadochiti la loro, i
farisei la loro; ognuno ha la sua segreta, che per uno ha nome
piacere, per l'altro oro, per l'al- tro potere; e ognuno ha il suo
idolo. Non Io. Io ho ripreso la calpestata Legge del Padre mio, del
Dio eterno, e sono tornato a dire semplicemente le dieci proposizioni
del Decalogo, asciugandomi i polmoni per farle entrare nei cuori che
non le conoscevano più».
«Orrore!
Bestemmia! A me, sacerdote, dire questo? Non ha un Tempio, Israele?
Siamo come i percossi di Babilonia? Rispondi».
«Questo
siete. E più ancora. Vi è un Tempio. Sì. Un edificio. Dio non c'è.
È fuggito davanti all'abominio che è nella sua casa. Ma a che mi
interroghi tanto, se tanto è decisa la mia morte?».
«Non
siamo assassini. Uccidiamo se ne abbiamo il diritto per colpa
provata. Ma io ti voglio salvare. Dimmi, e ti salverò. Dove sono i
tuoi discepoli? Se Tu me li consegni, io ti lascio libero. Il nome di
tutti, e più gli occulti che i palesi. Di': Nicodemo è tuo? E' tuo
Giuseppe? E Gamalie- le? E Eleazaro? E... Ma di questo lo so... Non
occorre. Parla. Parla. Lo sai: ti posso uccidere e salvare. Sono
potente».
«Sei
fango. Lascio al fango il mestiere della spia. Io sono Luce». Uno
sgherro gli sferra un pugno. «Io sono Luce. Luce e Verità. Ho
parlato apertamente al mondo, ho insegnato nelle sinagoghe e nel
Tempio, dove si radunano i giudei, e nulla ho detto in segreto. Lo
ripeto. Perché interroghi Me? Interroga quelli che hanno sentito ciò
che Io ho detto. Essi lo sanno».
Un
altro sgherro gli lascia andare un ceffone urlando: «Così rispondi
al Sommo Sacerdote?».
«Ad
Anna Io parlo. Il Pontefice è Caifa. E parlo col rispetto dovuto per
il vecchio. Ma se ti pare che abbia parlato male, dimostramelo. Se
no, perché mi percuoti?».
«Lascialo
fare. Io vado da Caifa. Voi tenetelo qui fino a mio comando. E fate
che non parli con nessuno». Anna esce.
Non
parla, no, Gesù. Neppure con Giovanni, che osa stare sulla porta
sfidando tutta la plebe sgherrana. Ma Gesù, senza parole, gli deve
dare un comando, perché Giovanni, dopo uno sguardo accorato, esce di
lì e lo perdo di vista.
Gesù
resta fra gli aguzzini. Colpi di corda, sputi, lazzi, calci,
stiracchiate ai capelli, sono quanto gli resta. Finché un servo
viene a dire di portare il Prigioniero in casa di Caifa.
E
Gesù, sempre legato e malmenato, esce di nuovo sotto il portico, lo
percorre fino ad un androne e poi traversa un cortile in cui molta
folla si scalda ad un fuoco, perché la notte si è fatta rigida e
ventosa in queste prime ore del venerdì. Vi è anche Pietro con
Giovanni, mescolati fra la folla ostile. E devono avere un bel
coraggio a stare lì... Gesù li guarda e ha un'ombra di sorriso
sulla bocca già enfiata dai colpi ricevuti.
Un
lungo cammino fra portici e atri e cortili e corridoi. Ma che case
avevano questa gente del Tempio?
Ma
nel recinto pontificale la folla non entra. Viene respinta nell'atrio
di Anna. Gesù va solo, fra sgherri e sacerdoti. Entra in una vasta
sala, che pare perdere la sua forma rettangolare per i molti scanni
messi a ferro di cavallo su tre pareti, lasciando al centro uno
spazio vuoto oltre il quale sono due o tre seggi alzati su predelle.
Mentre
Gesù sta per entrare, rabbi Gamaliele lo raggiunge e le guardie
danno uno strattone al Prigioniero perché ceda l'entrata al rabbi di
Israele. Ma questo, rigido come una statua, ieratico, rallenta e,
muovendo appena le labbra senza guardare nessuno, chiede: «Chi sei?
Dimmelo». E Gesù dolcemente: «Leggi i profeti e ne avrai risposta.
Il segno primo è in essi. L'altro verrà».
Gamaliele
raccoglie il suo manto ed entra. E dietro a lui entra Gesù. Mentre
Gamaliele va su uno scanno, Gesù viene trascinato al centro
dell'aula, di fronte al Pontefice: una faccia da delinquente vera e
propria. E si attende finché entrano tutti i membri del Sinedrio.
Poi
ha inizio la seduta. Ma Caifa vede due o tre seggi vuoti e chiede:
«Dove è Eleazaro? E dove Giovanni?».
Si
alza un giovane scriba, credo, si inchina e dice: «Hanno ricusato di
venire. Qui è lo scritto».
«Si
conservi e si scriva. Ne risponderanno. Che hanno i santi membri di
questo Consiglio da dire sopra costui?».
«Io
parlo. Nella mia casa Egli violò il sabato. Me ne è testimonio Dio
se io mento. Ismael ben Fabi non mente mai».
«È
vero, accusato?». Gesù tace. «Io lo vidi convivere con meretrici
note. Fingendosi profeta, aveva fatto del suo covo un lupanare e con
donne pagane per colmo. Con me erano Sadoc, Callascebona e Nahum
fiducia- rio di Anna. Dico il vero, Sadoc e Callascebona? Smentitemi,
se lo merito».
«Vero
è. Vero è». «Che dici?». Gesù tace. «Non mancava occasione per
deriderci e farci deridere. La plebe più non ci ama per Lui». «Li
odi? Hai profanato i membri santi». Gesù tace. «Quest'uomo è
indemoniato. Reduce dall'Egitto, esercita la magia nera». «Come lo
provi?». «Sulla mia fede e sulle tavole della Legge!». «Grave
accusa. Discolpati». Gesù tace. «Illegale è il tuo ministero, lo
sai. E passibile di morte. Parla». «Illegale è questa nostra
seduta. Alzati, Simeone, e andiamo», dice Gamaliele. «Ma rabbi,
ammattisci?». «Rispetto le formule. Lecito non è procedere come
procediamo. E ne farò pubblica accusa». E rabbi Gamaliele esce,
rigido come una statua, seguito da un uomo sui trentacinque anni che
gli somiglia.Vi è un poco di tumulto, di cui approfittano Nicodemo e
Giuseppe per parlare in favore del Martire.
«Gamaliele
ha ragione. Illecita è l'ora e il luogo, e non consistenti le
accuse. Può uno accusarlo di noto vilipendio alla Legge? Io gli sono
amico e giuro che sempre lo trovai rispettoso alla Legge», dice
Nicodemo.
«Ed
io pure. E per non sottoscrivere ad un delitto mi copro il capo, non
per Lui, ma per noi, ed esco». E Giuseppe fa per scendere dal suo
posto e uscire.
Ma
Caifa sbraita: «Ah! così dite? Vengano i testimoni giurati, allora.
E udite. Poi ve ne andrete».Entrano due tipi da galera. Sguardi
sfuggenti, ghigni crudeli, subdole mosse. «Parlate». «Non è
lecito udirli insieme», urla Giuseppe. «Io sono il Sommo Sacerdote.
Io ordino. E silenzio!». Giuseppe dà un pugno su un tavolo e dice:
«Si aprano su te le fiamme del Cielo! Da questo momento sappi che
l'Anziano Giuseppe è nemico del Sinedrio e amico del Cristo. E con
questo passo vado a dire al Pretore che qui si uccide senza ossequio
a Roma», ed esce violentemente dando uno spintone ad un magro e
giovane scriba che lo vorrebbe trattenere.
Nicodemo,
più pacato, esce senza dire parola. E nell'uscire passa davanti a
Gesù e lo guarda...
Nuovo
tumulto. Si teme Roma. E la vittima espiatoria è sempre e ancora
Gesù. «Per Te, vedi, tutto questo! Tu corruttore dei migliori
giudei. Prostituiti li hai». Gesù tace. «Parlino i testimoni»,
urla Caifa. «Sì, costui usava il... il... Lo sapevamo... Come si
chiama quella cosa?». «Il tetragramma forse?». «Ecco! L'hai
detto! Evocava i morti. Insegnava ribellione al sabato e profanazione
all'altare. Lo giuriamo. Diceva che Egli voleva distruggere il Tempio
per riedificarlo in tre giorni con l'aiuto dei demoni».
«No.
Diceva: non sarà fabbricato dall'uomo». Caifa scende dal suo seggio
e viene presso Gesù. Piccolo, obeso, brutto, pare un enorme rospo
vicino ad un fiore. Perché Gesù, nonostante sia ferito, contuso,
sporco e spettinato, è ancora tanto bello e maestoso. «Non
rispondi? Che accuse ti fanno! Orrende! Parla, per levare da Te la
loro onta».
Ma
Gesù tace. Lo guarda e tace. «Rispondi a me, allora. Sono il tuo
Pontefice. In nome del Dio vivo io ti scongiuro. Dimmi: sei Tu il
Cristo, il Figlio di Dio?».
«Tu
lo hai detto. Io lo sono. E vedrete il Figliuolo dell'uomo, seduto
alla destra della Potenza del Padre, venire sulle nubi del cielo. Del
resto, a che mi interroghi? Ho parlato in pubblico per tre anni.
Nulla ho detto di occulto. Interroga quelli che mi hanno udito. Essi
ti diranno ciò che ho detto e ciò che ho fatto».
Uno
dei soldati che lo tengono lo colpisce sulla bocca, facendola
sanguinare di nuovo, e urla: «Così rispondi, o satana, al Sommo
Pontefice?».
E
Gesù, mite, risponde a questo come a quello di prima: «Se ho
parlato bene, perché mi percuoti? Se male, perché non mi dici dove
erro? Ripeto: Io sono il Cristo, Figlio di Dio. Non posso mentire. Il
sommo Sacerdote, l'eterno Sacerdote Io sono. E Io solo porto il vero
Razionale su cui è scritto: Dottrina e Verità. E a queste Io sono
fedele. Sino alla morte, ignominiosa agli occhi del mondo, santa agli
occhi di Dio, e sino alla beata Risurrezione. Io sono l'Unto.
Pontefice e Re Io sono. E sto per prendere il mio scettro e con esso,
come con ventilabro, mondare l'aia. Questo Tempio sarà distrutto e
risorgerà, nuovo, santo. Perché questo è corrotto e Dio lo ha
lasciato al suo destino».
«Bestemmiatore!»,
urlano tutti in coro. «In tre giorni lo farai, folle e posseduto?».
«Non questo. Ma il mio risorgerà, il Tempio del Dio vero, vivo,
santo, tre volte santo». «Anatema!», urlano di nuovo in coro.
Caifa alza la sua voce chioccia, e si strappa le vesti di lino con
atti di studiato orrore, e dice: «Che altro abbiamo da udire dai
testimoni? La bestemmia è detta. Che dunque facciamo?».
E
tutti in coro: «Sia reo di morte». E con atti di sdegno e di
scandalo escono dalla sala, lasciando Gesù alla mercede degli
sgherri e della plebaglia dei falsi testimoni, che con schiaffi, con
pugni, con sputi, legandogli gli occhi con uno straccio e poi
tirandogli violentemente i capelli, lo sbalestrano qua e là a mani
legate, di modo che urta contro tavoli, scranni e muri, e intanto gli
chiedono: «Chi ti ha percosso? Indovina». E più volte, facendogli
sgambetto fra le gambe, lo fanno stramazzare bocconi, e ridono
sgangheratamente vedendo come, a mani legate, Egli stenti a
rialzarsi.
Passano
così le ore, e i carnefici, stanchi, pensano di prendere un poco di
riposo. Portano Gesù in uno sgabuzzino, facendogli attraversare
molte corti fra i lazzi della plebe, già folta nel recinto delle
case ponteficali.
Gesù
giunge nella corte dove è Pietro presso al suo fuoco. E lo guarda.
Ma Pietro ne sfugge lo sguardo. Giovanni non c'è più. Io non lo
vedo. Penso sia andato via con Nicodemo...
L'alba
viene avanti stentata e verdolina. Un ordine è dato: riportare il
Prigioniero nella sala del Consiglio per un più legale processo. È
il momento che Pietro nega per la terza volta di conoscere il Cristo
quando Questi passa, già segnato dai patimenti. E nella luce
verdognola dell'alba le lividure sembrano ancor più atroci sul volto
terreo, gli occhi più fondi e vitrei, un Gesù offuscato dal dolore
del mondo... Un gallo getta nell'aria appena mossa dell'alba il suo
grido irridente, sarcastico, monello. E in questo momento di gran
silenzio, che si è fatto all'apparizione del Cristo, non si sente
che l'aspra voce di Pietro dire: «Lo giuro, donna. Non lo conosco»:
affermazione recisa, sicura, alla quale, come una risata beffarda,
subito risponde il birichino canto del galletto.
Pietro
ha un sussulto. Gira su se stesso per fuggire e si trova di fronte a
Gesù che lo guarda con infinita pietà, con un dolore così accorato
e intenso che mi spezza il cuore, come se dopo quello dovessi vedere
dissolversi, e per sempre, il mio Gesù. Pietro ha un singhiozzo ed
esce barcollando come fosse ebbro. Fugge dietro a due servi che
escono nella via e si perde giù per la strada ancora semibuia.
Gesù
è riportato nell'aula. E gli ripetono in coro la domanda capziosa:
«In nome del Dio vero, di' a noi: sei il Cristo?».
E,
avutane la risposta di prima, lo condannano a morte e danno ordine di
condurlo a Pilato. Gesù, scortato da tutti i suoi nemici meno Anna e
Caifa, esce ripassando da quei cortili del Tempio in cui tante volte
aveva parlato e beneficato e guarito, valica la cinta merlata, entra
nelle vie cittadine e, più strascinato che condotto, scende verso la
città che si fa rosa in un primo annuncio d'aurora.
Credo
che, con l'unico scopo di tormentarlo più a lungo, gli facciano fare
un lungo giro vi zioso per Gerusalemme, passando ad arte dai mercati,
davanti agli stallaggi e agli alberghi colmi di gente per la Pasqua.
E tanto le verdure di scarto dei mercati, come gli escrementi degli
animali degli stallaggi, divengono proiettili per l'Innocente, il cui
volto appare con sempre maggiori lividi e piccole lacerazioni
sanguinanti, e velato dalle sudicerie varie che su di esso si sono
sparse. I capelli, già appesantiti e lievemente stesi dal sudore
sanguigno e resi più opachi, ora pendono spettinati, sparsi di
paglie e immondezze, cadenti sugli occhi perché glieli scompigliano
per velargli la faccia.
La
gente dei mercati, compratori e venditori, lasciano tutto in asso per
seguire, e non con amore, l'Infelice. Gli stallieri e i servi degli
alberghi escono in massa, sordi ai richiami e agli ordini delle
padrone, le quali, a dire il vero, come quasi tutte le altre donne,
sono, se non contrarie tutte alle offese, almeno indifferenti al
tumulto, e si ritirano brontolando per essere lasciate sole con tanta
gente che hanno da servire.
Il
codazzo urlante ingrossa così di minuto in minuto e sembra che, per
una improvvisa epidemia, animi e fisionomie cambino natura,
divenendo, i primi, animi di delinquenti e, le seconde, maschere di
ferocia in volti verdi di odio o rossi di ira; e le mani artigliano,
e le bocche prendono forma e ululo di lupo, e gli occhi divengono
biechi, rossi, strabici come quelli di folli. Solo Gesù è sempre
quello, sebbene ormai velato dalle immondezze sparse sul suo corpo e
alterato da lividure e gonfiori.
Ad
un archivolto che stringe la via come un anello, mentre tutto si
ingorga e rallenta, un grido fende l'aria: «Gesù!». È Elia, il
pastore, che cerca di farsi largo roteando un pesante randello.
Vecchio, potente, minaccioso e forte, riesce a giungere quasi dal
Maestro. Ma la folla, sgominata dall'improvviso assalto, restringe le
sue file e separa, respinge, soverchia il solo contro tutta una
plebe. «Maestro!», urla mentre il gorgo della folla lo assorbe e
respinge.
«Vai!...
La Madre... Ti benedico...». E il corteo supera il punto ristretto.
E, come acqua che ritrova il largo dopo una chiusa, si rovescia
tumultuando in un ampio viale sopraelevato sopra una depressione fra
due colli, ai cui termini sono splendidi palazzi di gran signori.
Torno
a vedere il Tempio sull'alto del suo colle e comprendo che il cerchio
ozioso fatto fare al Condannato, per darlo in berlina a tutta la
città e permettere a tutti di insultarlo, aumentando passo per passo
gli insultatori, sta per conchiudersi di nuovo tornando sui luoghi di
prima.
Da
un palazzo esce al galoppo un cavaliere. La gualdrappa porpurea sopra
il candore del cavallo arabo e l'imponenza del suo aspetto, la spada
brandita nuda, e menata di piatto e di taglio su schiene e su teste
che sanguinano, lo fanno parere un arcangelo. Quando in un caracollo,
in un'impennata del cavallo che corvetta, facendo degli zoccoli
un'arma di difesa per se stesso e per il padrone e il più valido
degli strumenti di apertura per farsi largo fra la folla, gli cade
dal capo il velo di porpora e oro che lo copriva, tenuto stretto da
una striscia in oro, riconosco Manaen.«Indietro!», urla. «Come vi
permettete turbare i riposi del Tetrarca?». Ma questo non è che una
finta per giustificare il suo intervento e il suo tentativo di
giungere a Gesù. «Quest'uomo... lasciatemelo vedere... Scostatevi,
o chiamo le guardie...».
La
gente, e per la grandine delle piattonate, e per i calci del cavallo,
e per la minaccia del cavaliere, si apre, e Manaen raggiunge il
gruppo di Gesù e delle guardie del Tempio che lo tengono.
«Via!
Il Tetrarca è da più di voi, luridi servi. Indietro. Gli voglio
parlare», e lo ottiene cari cando con la sua spada il più accanito
dei carcerieri.
«Maestro!...».
«Grazie. Ma vai! E Dio ti conforti!». E, come può con le mani
legate, Gesù fa un cenno di benedizione.
La
folla fischia da lontano e, non appena vede che Manaen si ritira, si
vendica d'essere stata respinta con una grandine di pietre e di
immondezze sul Condannato.
Per
il viale, che è in salita ed è già tutto tiepido di sole, ci si
avvia verso la torre Antonia, la cui mole già appare lontano.
Un
grido acuto di donna: «Oh! il mio Salvatore! La mia vita per la sua,
o Eterno!», fende l'aria.
Gesù
gira il capo e vede, dall'alto della loggia fiorita che incorona una
casa molto bella, Giovanna di Cusa fra serve e servi, coi piccoli
Maria e Mattia intorno, tendere le braccia al cie- lo. Ma il Cielo
non sente preghiera oggi! Gesù solleva le mani e traccia un gesto di
benedicente addio.
«A
morte! A morte il bestemmiatore, il corruttore, il satanasso! A morte
gli amici di esso», e fischi e sassi vengono frombolati verso l'alta
terrazza. Non so se qualcuno sia ferito. Sento un grido acutissimo e
poi vedo scomporsi il gruppo e scomparire.
E
avanti, avanti, salendo... Gerusalemme mostra le sue case al sole,
vuote, svuotate dall'odio che spinge tutta una città, coi suoi
effettivi abitanti e coi posticci qui convenuti per la Pasqua, contro
un inerme.
Dei
soldati romani, tutto un manipolo, esce di corsa dall'Antonia con le
aste puntate con tro la plebaglia, che urlando si sperde. Restano in
mezzo alla via Gesù con le guardie e i capi dei sacerdoti, degli
scribi e degli anziani del popolo.
«Quest'uomo?
Questa sedizione? Ne risponderete a Roma», dice altezzoso un
centurione. «È reo di morte secondo la nostra legge». «E da
quando vi è stato reso l'jus gladii et sanguinis?», chiede sempre
il più anziano dei centurioni, un volto severo, veramente romano,
con una guancia divisa da una cicatrice profonda. E parla con lo
sprezzo e il ribrezzo con cui avrebbe parlato a galeotti pidocchiosi.
«Lo
sappiamo che non lo abbiamo questo diritto. Siamo i fedeli dipendenti
di Roma...». «Ah! Ah! Ah! Sentili, Longino! Fedeli! Dipendenti!
Carogne! Le frecce dei miei arcieri vi darei per premio».
«Troppo
nobile tal morte! Le schiene dei muli vogliono solo il flagrum!...»,
risponde con ironica flemma Longino.
I
capi dei sacerdoti, scribi e anziani spumano veleno. Ma vogliono
ottenere lo scopo loro e tacciono, inghiottono l'offesa senza
mostrare di capirla e, inchinandosi ai due capi, chiedono che Gesù
sia portato da Ponzio Pilato perché «giudichi e condanni con la ben
nota e onesta giustizia di Roma».
«Ah!
Ah! Odili! Siamo divenuti più saggi di Minerva... Qui! Date! E
marciate avanti! Non si sa mai. Voi siete sciacalli e fetenti. Avervi
alle spalle è un pericolo. Avanti!».
«Non
possiamo». «E perché? Quando uno accusa deve essere davanti al
giudice coll'accusato. Questa è la regola di Roma».
«La
casa di un pagano è immonda agli occhi nostri, e noi già siamo
purificati per la Pasqua».
«Oh!
miserini! Si contaminano a entrare!... E l'uccisione dell'unico ebreo
che uomo sia, e non sciacallo e rettile vostro pari, non vi sporca?
Va bene. State dove siete, allora. Non un passo avanti o sarete
infilzati sulle aste. Una decuria intorno all'Accusato. Le altre
contro que- sta marmaglia sitente di becco mal lavato».
Gesù
entra nel Pretorio in mezzo ai dieci astati, che fanno un quadrato di
alabarde intor- no alla sua persona. I due centurioni vanno avanti.
Mentre Gesù sosta in un largo atrio, oltre il quale è un cortile
che si intravvede dietro una tenda che il vento sommuove, essi
scompaiono dietro una porta.
Rientrano
col Governatore, vestito di una toga bianchissima sulla quale però è
un manto scarlatto. Forse così erano quando rappresentavano
ufficialmente Roma. Entra indolentemente, con un sorrisetto scettico
sul volto sbarbato, stropiccia fra le mani delle fronde di erba
cedrina e le fiuta con voluttà. Va ad una meridiana, si rivolge dopo
averla guardata. Getta dei grani d'incenso nel braciere posto ai
piedi di un nume. Si fa portare acqua cedrata e si gargarizza la
gola. Si rimira la pettinatura tutta a onde in uno specchio di
metallo tersissimo. Pare che abbia dimenticato il Condannato che
aspetta la sua approvazione per essere ucciso. Farebbe venire l'ira
anche alle pietre.
Gli
ebrei, posto che l'atrio è tutto aperto sul davanti e sopraelevato
di tre alti scalini anche sul vestibolo, che si apre sulla via già
sopraelevato di altri tre sulla via stessa, vedono tutto benissimo e
fremono. Ma non osano ribellarsi per paura delle aste e dei
giavellotti.
Finalmente,
dopo avere girato e rigirato per l'ampio luogo, Pilato va diritto
incontro a Gesù, lo guarda e chiede ai due centurioni: «Questo?».
«Questo».
«Vengano i suoi accusatori», e va a sedersi sulla sedia posta sulla
predella. Sul suo capo le insegne di Roma si incrociano con le loro
aquile dorate e la loro sigla potente.
«Non
possono venire. Si contaminano». «Euè!!! Meglio. Eviteremo fiumi
d'essenze per levare il caprino al luogo. Fateli avvicinare, almeno.
Qui sotto. E badate non entrino, posto che non vogliono farlo. Può
essere un pretesto, quest'uomo, per una sedizione».
Un
soldato parte per portare l'ordine del Procuratore romano. Gli altri
si schierano sul davanti dell'atrio a distanze regolari, belli come
nove statue di eroi.
Vengono
avanti i capi dei sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili
inchini e si fermano sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio,
oltre i tre gradini del vestibolo.
«Parlate
e siate brevi. Già in colpa siete per avere turbato la notte e
ottenuto l'apertura delle porte con violenza. Ma verificherò. E
mandanti e mandatari risponderanno della disubbi dienza al decreto».
Pilato è andato verso di loro, rimanendo nel vestibolo.
«Noi
veniamo a sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino
Imperatore, il nostro giudizio su costui».
«Quale
accusa portate contro di lui? Mi sembra un innocuo...». «Se non
fosse malfattore non te lo avremmo portato». E nella smania di
accusare si fanno avanti.
«Respingete
questa plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza. Le due
centurie all'armi!».
I
soldati ubbidiscono veloci, allineandosi cento sul gradino esterno
più alto, con le spalle volte al vestibolo, e cento sulla piazzetta
su cui si apre il portone d'ingresso alla dimora di Pilato. Ho detto
portone: dovrei dire androne o arco trionfale, perché è una
vastissima apertura limitata da un cancello, ora spalancato, che
immette nell'atrio per il lungo corridoio del vestibolo largo almeno
sei metri, di modo che ben si vede ciò che avviene nell'atrio
sopraelevato. Oltre l'ampio vestibolo si vedono le facce bestiali dei
giudei guardare minacciose e sataniche verso l'interno, guardare
dall'al di là della barriera armata che, gomito a gomito, come per
una parata, presenta duecento punte ai conigli assassini. «Quale
accusa portate verso costui, ripeto». «Ha commesso delitto contro
la Legge dei padri». «E venite a seccare me per questo? Pigliatelo
voi e giudicatelo secondo le vostre leggi». «Noi non possiamo dar
morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è un pargolo
deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come ignoranti e
come soggetti di Roma, mae stra, abbiamo bisogno...».
«Da
quando siete miele e burro?... Ma avete detto una verità, o maestri
del mendacio! Di Roma avete bisogno! Sì. Per sbarazzarvi di costui
che vi dà noia. Ho compreso». E Pilato ride, guardando il cielo
sereno che si inquadra come una rettangolare lastra di cupa turchese
fra le marmoree e candide pareti dell'atrio. «Dite: in che ha
commesso delitto contro le vostre leggi?».
«Noi
abbiamo trovato che costui metteva il disordine nella nostra nazione
e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re
dei giudei».
Pilato
ritorna presso Gesù, che è al centro dell'atrio, lasciato là dai
soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua
mansuetudine. E gli chiede: «Sei Tu il re dei giudei?».
«Per
te lo chiedi o per insinuazione d'altri?». «E che vuoi che me ne
importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi
di essa mi ti hanno consegnato perché io giudichi. Che hai fatto? Ti
so leale. Parla. È vero che aspiri al regno?».
«Il
mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i
miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei
non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della Terra. E tu lo sai
che al potere Io non tendo».
«Ciò
è vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d'essere re?».
«Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per
rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità
ascolta la mia voce».
«E
che cosa è la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte.
Socrate morì lo stes so».
«Ma
gli servì di fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E
ad andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche
virtù».
«Per
Giove!». Pilato lo guarda ammirato qualche momento. Poi lo riprende
il sarcasmo scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna
verso i giudei. «Io non trovo in Lui alcuna colpa».
La
folla tumultua, presa dal panico di perdere la preda e lo spettacolo
del supplizio. E urla: «È un ribelle!», «Un bestemmiatore»,
«Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega
rispetto a Cesare», «Si finge profeta senza esserlo», «Compie
magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue dottrine
insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea
insegnando», «A morte!», «A morte!».
«Galileo
è? Galileo sei?». Pilato torna da Gesù: «Lo senti come ti
accusano? Discolpati». Ma Gesù tace. Pilato pensa... E decide. «Una
centuria, e da Erode costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco
il diritto del Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo.
Gli sia detto. Andate».
E
Gesù, inquadrato come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la
città e torna ad incontrare Giuda Iscariota, che già aveva
incontrato una volta presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di
dirlo, presa dal disgusto della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di
pietà sul traditore...
Ora
è più difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le
immondezze non mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire
sugli elmi e le corazze romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù,
che procede col solo vestito, avendo lasciato il mantello nel
Getsemani.
Nell'entrare
nel fastoso palazzo di Erode, Egli vede Cusa... che non sa guardarlo
e che fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi il capo col
mantello.
Eccolo
nella sala, davanti a Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i
farisei, che qui si sen- tono a loro agio, entrare da accusatori
mendaci. Solo il centurione con quattro militi lo scorta- no davanti
al Tetrarca.
Questo
scende dal suo seggio e gira intorno a Gesù, mentre ascolta le
accuse dei nemici suoi. E sorride e beffeggia. Poi finge una pietà e
un rispetto che non turbano il Martire come non lo hanno turbato i
motteggi.
«Sei
grande. Lo so. Ti ho seguito e ho avuto giubilo che Cusa ti fosse
amico e Manaem discepolo. Io... le cure di Stato... Ma che desiderio
di dirti: grande... di chiederti perdono... L'occhio di Giovanni...
la sua voce mi accusano e sempre davanti a me sono. Tu sei il santo
che annulla i peccati del mondo. Assolvimi, o Cristo».
Gesù
tace. «Ho sentito che ti accusano di esserti drizzato contro Roma.
Ma non sei Tu la verga promessa per percuotere Assur?».
Gesù
tace. «Mi hanno detto che Tu profetizzi la fine del Tempio e di
Gerusalemme. Ma non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto
da Chi eterno è?».
Gesù
tace. «Sei folle? Hai perduto il potere? Satana ti inceppa la
parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora.
Ma
poi dà un ordine. E dei servi accorrono portando un levriere dalla
gamba spezzata, che guaisce lamentosamente, e uno stalliere ebete
dalla testa acquosa, sbavante, un aborto d'uomo, trastullo dei servi.
Gli scribi e i sacerdoti fuggono urlando al sacrilegio, quando vedono
la barella del cane.
Erode,
falso e beffardo, spiega: «È il preferito di Erodiade. Dono di
Roma. Si è spezzato ieri una zampa ed ella piange. Comanda che
guarisca. Fa' miracolo».
Gesù
lo guarda severo. E tace. «Ti ho offeso? Allora questo. È un uomo,
benché di poco sia più che una belva. Dagli l'intelligenza, Tu,
Intelligenza del Padre... Non dici così?». E ride, offensivo.
Altro
più severo sguardo di Gesù e silenzio. «Quest'uomo è troppo
astinente e ora è intontito dagli spregi. Vino e donne, qui. E sia
sle- gato».
Lo
slegano. E mentre servi, in gran numero, portano anfore e coppe,
entrano danzatrici... coperte di niente: una frangia multicolore di
lino cinge per unica veste la loro sottile persona, dalla cintura
alle anche. Null'altro. Bronzee perché africane, snelle come
gazzelle giovinette, iniziano una danza silenziosa e lasciva.
Gesù
respinge le coppe e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode
ride davanti al suo sdegno.
«Prendi
quella che vuoi. Vivi! Impara a vivere!...», insinua Erode. Gesù
pare una statua. A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote
neppure quando le impudiche danzatrici lo sfiorano coi loro corpi
nudi.
«Basta.
Ti ho trattato da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo
e non hai agito da uomo. Sei folle. Una veste bianca. Rivestitelo di
essa perché Ponzio Pilato sappia che il Tetrarca ha giudicato folle
il suo suddito. Centurione, dirai al Proconsole che Erode gli umilia
il suo rispetto e venera Roma. Andate».
E
Gesù, legato di nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge
al ginocchio, sopra la rossa veste di lana.
E
tornano da Pilato. Ora, quando la centuria fende a fatica la folla,
che non si è stancata di attendere davanti al palazzo proconsolare
ed è strano vedere tanta folla in quel luogo e nelle vicinanze,
mentre il resto della città appare vuoto di popolo Gesù vede in
gruppo i pastori, e sono al completo, ossia Isacco, Gionata, Levi,
Giuseppe, Elia, Mattia, Giovanni, Simeone, Beniamino e Daniele,
insieme ad un gruppetto di galilei di cui riconosco Alfeo e Giuseppe
di Alfeo, insieme a due altri che non conosco ma che direi giudei
alla acconciatura. E più oltre, scivolato fin dentro al vestibolo,
seminascosto dietro una colonna, insieme ad un romano che direi un
servo, vede Giovanni. Sorride a questo e a quelli... I suoi amici...
Ma che sono questi pochi, e Giovanna e Ma- naem e Cusa, in mezzo ad
un oceano di odio che bolle?...
Il
centurione saluta Ponzio Pilato e riferisce. «Qui ancora?! Auf!
Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui
l'Accusato. Euè! che noia!».
Va
verso la folla, sempre fermandosi a metà vestibolo. «Ebrei, udite.
Mi avete condotto quest'uomo come sobillatore del popolo. Davanti a
voi l'ho esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti di cui
lo accusate. Erode non più di me ha trovato. E a noi lo ha
rimandato. Non merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non
dispiacervi levandovi il sollazzo, vi darò in cambio Barabba. E Lui
lo farò colpire con quaranta colpi di fustigazione. Basta così».
«No,
no! Non Barabba! Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda!
Libera Barabba e condanna il Nazzareno».
«Ma
udite! Ho detto fustigazione. Non basta? Lo farò flagellare, allora!
È atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non
trovo nessuna colpa in Lui. E lo libererò».
«Crocifiggi!
Crocifiggi! A morte! Protettore dei delinquenti sei! Pagano! Satana
tu pure!». La folla si fa sotto e la prima schiera di soldati
ondeggia nell'urto, non potendo usare le aste. Ma la seconda fila,
scendendo d'un gradino, rotea le aste e libera i compagni.
«Sia
flagellato», ordina Pilato a un centurione. «Quanto?». «Quanto ti
pare... Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va'». Gesù
viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l'atrio. In esso,
tutto selciato di marmi colorati, è al centro un'alta colonna simile
a quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio
di ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A
questa viene legato Gesù con le mani congiunte sull'alto del capo,
dopo che fu fatto spogliare. Egli re- sta unicamente con delle
piccole brache di lino e i sandali. Le mani legate ai polsi vengono
alzate sino all'anello, di modo che Egli, per quanto sia alto, non
poggia al suolo che la punta dei piedi... E deve essere tortura anche
questa posizione.
Ho
letto non so dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà.
Io vedo così e così dico.
Dietro
a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico;
davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati del
flagello, fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico e
terminanti in un martelletto di piombo. Ritmicamente, come per un
esercizio, si danno a colpire. Uno davanti, l'altro di dietro, di
modo che il tronco di Gesù è in una ruota di sferze e di flagelli.
I
quattro soldati a cui è consegnato, indifferenti, si sono messi a
giocare a dadi con altri tre soldati sopraggiunti. E le voci dei
giocatori si cadenzano sul suono dei flagelli, che fischiano come
serpi e poi suonano come sassi gettati sulla pelle tesa di un
tamburo, percuotendo il po- vero corpo così snello e di un bianco
d'avorio vecchio, e che diviene prima zebrato di un rosa sempre più
vivo, poi viola, poi si orna di rilievi d'indaco gonfi di sangue, e
poi si crepa e rompe lasciando colare sangue da ogni parte. E
infieriscono specie sul torace e l'addome, ma non mancano i colpi
dati alle gambe e alle braccia e fin sul capo, perché non vi fosse
brano di pelle senza dolore.
E
non un lamento... Se non fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non
cade e non ge me. Solo la testa gli pende, dopo colpi e colpi
ricevuti, sul petto, come per svenimento.
«Ohe!
Fermati! Deve essere ucciso da vivo», urla e motteggia un soldato. I
due boia si fermano e si asciugano il sudore. «Siamo sfiniti»,
dicono. «Dateci la paga, che si possa bere per ristorarsi...». «La
forca vi darei! Ma prendete...», e un decurione getta una larga
moneta ad ognuno dei due boia.
«Avete
lavorato a dovere. Pare un mosaico. Tito, dici che era proprio questo
l'amore di Alessandro? Allora gliene daremo notizia perché faccia il
lutto. Sleghiamolo un poco».
Lo
slegano e Gesù si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là,
urtandolo ogni tanto col piede calzato dalle calighe per vedere se
geme. Ma Egli tace.
«Che
sia morto? Possibile? È giovane e artiere, mi hanno detto... e pare
una dama delicata».
«Ora
ci penso io», dice un soldato. E lo mette seduto con la schiena alla
colonna. Dove Egli era, sono grumi di sangue... Poi va ad una
fontanella che chioccola sotto al portico, empie un mastello d'acqua
e la rovescia sul capo e sul corpo di Gesù. «Così! Ai fiori fa
bene l'acqua».
Gesù
sospira profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi
chiusi. «Oh! bene. Su, bellino! Che ti aspetta la dama!...». Ma
Gesù inutilmente punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi.
«Su! Svelto! Sei debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato.
E con l'asta della sua alabarda mena una bastonata al viso e coglie
Gesù fra lo zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare.
Gesù
apre gli occhi, li gira. Uno sguardo velato... Fissa il soldato
percuotitore, si asciuga il sangue con la mano, e poi, con molto
sforzo, si pone in piedi.
«Vestiti.
Non è decenza stare così. Impudico!». Ridono tutti in cerchio
intorno a Lui. Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre si china e
solo Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così contuso
come è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono più
ancora, e altre che se ne formano per vesciche che si rompono un
soldato dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che
Gesù le raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato
le spinge o le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo
acutamente, le insegue senza una parola, mentre i soldati lo deridono
oscenamente.
Può
finalmente rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta
pulita in un angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste
rossa, solo ieri tanto bella ed ora lurida di immondizie e macchiata
del sangue sudato nel Getsemani. Anzi, prima di mettersi la
tunichella corta sulla pelle, con essa si asciuga il volto bagnato e
lo deterge così da polvere e sputi. Ed esso, il pove- ro, santo
volto, appare pulito, solo segnato da lividi e piccole ferite. E si
ravvia i capelli caduti scomposti e la barba per un innato bisogno di
essere ordinato nella persona.
E
poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù... La febbre
comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la
debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa
sentire.
Gli
legano di nuovo le mani. E la corda torna a segare là dove è già
un rosso braccialetto di pelle scorticata.
«E
ora? Che ne facciamo? Io mi annoio!». «Aspetta. I giudei vogliono
un re. Ora glielo diamo. Quello lì...», dice un soldato. E corre
fuori, in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio
di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili perché la
primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine
lunghe e acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a
cerchio i rami e li calcano sul povero capo. Ma la barbara corona
ricade sul collo.
«Non
ci sta. Più stretta. Levala». La levano e sgraffiano le guance,
risicando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La
stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la pigino conficcando
gli aculei nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando
altri capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti è un
triplice cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si
incrociano, è un vero nodo di spini che entrano nella nuca.
«Vedi
come stai bene? Bronzo naturale e rubini schietti. Specchiati, o re,
nella mia coraz za», motteggia l'ideatore del supplizio.
«Non
basta la corona a fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella
stalla è una canna e nella cloaca è una clamide rossa. Prendile,
Cornelio».
E,
avutele, mettono il sudicio straccio rosso sulle spalle di Gesù e,
prima di mettergli fra le mani la canna, gliela danno sul capo
inchinandosi e salutando: «Ave, re dei Giudei», e si sbellicano
dalle risa.
Gesù
li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul «trono» un mastello
capovolto, certo usato per abbeverare i cavalli si lascia colpire,
schernire, senza mai parlare. Li guarda solo... ed è uno sguardo di
una dolcezza e di un dolore così atroce che non lo posso sostenere
senza sentirne ferita al cuore.
I
soldati smettono lo scherno solo alla voce aspra di un superiore che
ordina la traduzio- ne davanti a Pilato del reo. Reo! Di che?
Gesù
è riportato nell'atrio, ora coperto da un prezioso velario per il
sole. Ha ancora la co rona, la clamide e la canna.
«Vieni
avanti. Che io ti mostri al popolo». Gesù, già franto, si
raddrizza dignitoso. Oh! che è veramente re! «Udite, ebrei. Qui è
l'uomo. Io l'ho punito. Ma Ora lasciatelo andare». «No, no!
Vogliamo vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!».
«Conducetelo fuori. E guardate non sia preso». E mentre Gesù esce
nel vestibolo e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato lo
accenna colla mano dicendo: «Ecco l'Uomo. Il vostro re. Non basta
ancora?».
Il
sole di una giornata afosa, che ormai scende quasi diritto perché si
è a metà tra terza e sesta, accende e dà risalto agli sguardi e ai
volti: sono uomini quelli? No: iene idrofobe. Urlano, mostrano i
pugni, chiedono morte...
Gesù
sta eretto. E le assicuro che mai ebbe la nobiltà di ora. Neppure
quando faceva i più potenti miracoli. Nobiltà di dolore. Ma
talmente divino che basterebbe a segnarlo del nome di Dio. Ma per
dire quel Nome bisogna essere almeno uomini. E Gerusalemme non ha
uomini, oggi. Ma solo demoni.
Gesù
gira lo sguardo sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi astiosi,
i volti amici. Quanti? Meno di venti amici in migliaia di nemici... E
curva il capo colpito da questo abbandono. Una lacrima cade...
un'altra... un'altra... La vista del suo pianto non genera pietà, ma
ancor più fiero odio.
Viene
riportato nell'atrio. «Dunque? Lasciatelo andare. È giustizia».
«No. A morte. Crocifiggi». «Vi do Barabba». «No. Il Cristo!».
«E allora prendetelo voi. E da voi crocifiggetelo. Perché io non
trovo alcuna colpa in Lui per farlo».
«Si
è detto Figlio di Dio. La nostra legge commina la morte al reo di
tale bestemmia». Pilato si fa pensoso. Rientra. Si siede sul suo
tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e
scruta Gesù. «Avvicinati», dice.
Gesù
va ai piedi della predella. «È vero? Rispondi». Gesù tace. «Da
dove vieni? Chi è Dio?». «È il Tutto». «E poi? Che vuol dire il
Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei folle... Dio non è. Io
sono».
Gesù
tace. Ha lasciato cadere la grande parola e poi torna a fasciarsi di
silenzio. «Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare.
Ha uno scritto per te».«Domine! Anche le donne ora! Venga». Entra
una romana e si inginocchia porgendo una tavoletta cerata. Deve
essere quella su cui Procula prega il marito di non condannare Gesù.
La donna si ritira a ritroso mentre Pilato legge.
«Mi
si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un
aruspice? Mi fai paura». Gesù tace. «Ma non sai che ho potere di
liberarti o di crocifiggerti?». «Nessun potere avresti, se non ti
fosse dato dall'alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è più
colpevole di te».
«Chi
è? Il tuo Dio? Ho paura...». Gesù tace. Pilato è sulle spine.
Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme quello di Roma,
teme le vendette giudee. Vince un momento la paura di Dio. Va sul
davanti dell'atrio e tuona: «Non è colpevole».
«Se
lo dici, sei nemico di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi
liberare il Nazzareno. Faremo sapere a Cesare questo».
Pilato
viene preso dalla paura dell'uomo. «Lo volete morto, insomma? E sia.
Ma il sangue di questo giusto non sia sulle mie mani», e fattosi
portare un catino si lava le mani alla presenza del popolo, che pare
preso da frenesia mentre urla: «Su noi, su noi il suo sangue. Su noi
ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!».
Ponzio
Pilato torna sul tronetto, chiama il centurione Longino e uno
schiavo. Dallo schiavo si fa portare una tavola su cui appoggia un
cartello e vi fa scrivere: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». E lo
mostra al popolo.
«No.
Non così. Non re dei Giudei. Ma che ha detto che sarebbe re dei
Giudei», così urlano in molti.
«Ciò
che ho scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi,
stende la mano a palma in avanti e volta in basso e ordina: «Vada
alla croce. Soldato, va'. Prepara la croce». (Ibis ad crucem! I,
miles, expedi crucem). E scende senza neppure più voltarsi verso la
folla in tumulto, né verso il pallido Condannato. Esce dall'atrio...
Gesù
resta al centro di esso, sotto la guardia dei soldati, in attesa
della croce.
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