Premessa
Questa
favola è nata in un campo di concentramento del Nordovest
germanico, nel dicembre del 1944, e le muse che l'ispirarono si
chiamavano Freddo, Fame e Nostalgia. Questa favola io la scrissi
rannicchiato nella cuccetta inferiore di un "castello"
biposto, e sopra la mia testa c'era la fabbrica della melodia. Io
mandavo su da Coppola versi di canzoni nudi e infreddoliti, e Coppola
me li rimandava giù rivestiti di musica soffice e calda come lana
d'angora. "Adesso la nonna racconta una fiaba al bambino per
farlo addormentare", dicevo alle assicelle del soffitto. Oppure:
"Adesso la nonna, il bambino e il cane montano in treno e fanno
un lungo viaggio nella notte." E le muse ispiratrici salivano al
piano superiore e dal soffitto piovevano semi biscrome. Si avvicinava
il secondo Natale di prigionia: Fame, Freddo e Nostalgia. Tra i sei o
settemila ufficiali prigionieri nel lager c'erano professionisti e
dilettanti di musica e di canto. Qualcuno era riuscito a salvare il
suo strumento, qualche strumento lo prestarono i prigionieri francesi
del campo vicino. Coppola concertò le musiche e istruì orchestra,
coro e cantanti. I violinisti non riuscivano a muovere le dita per il
gran freddo; per l'umidità i violini si scollavano, perdevano il
manico. Le voci faticavano a uscire da quella fame vestita di stracci
e di freddo. Ma la sera della vigilia, nella squallida baracca del
"teatro", zeppa di gente malinconica, io lessi la favola e
l'orchestra, il coro e i cantanti la commentarono egregiamente, e il
"rumorista" diede vita ai passaggi più movimentati. La
nostalgia l'hanno inventata i prigionieri perché in prigionia tutto
quello che appartiene al mondo precluso diventa favola, e gente
ascolta sbalordita qualcuno raccontare che le tendine della sua
stanza erano rosa. In prigionia anche i colori sono una favola,
perché nel lager tutto è bigio, e il cielo, se una volta è
azzurro, o se un rametto si copre di verde, sono cose di un altro
mondo. Anche la realtà presente diventa nostalgia. Noi pensavamo
allora alle cose più umili della vita consueta come meravigliosi
beni perduti, e rimpiangevamo il sole, l'acqua, i fiori come se
oramai non esistessero più: e per questo uomini maturi trovarono
naturale che io, per Natale, raccontassi loro una favola, e
giudicarono originalissimo il fatto che, nella favola, un uomo
s'incontrasse con sua madre e col suo bambino. "Che fantasia",
dicevano. "Come fai a pensare tutte queste strane faccende?"
E la banalissima vicenda interessava i prigionieri forse più ancora
del contenuto polemico della fiaba stessa. Perché La favola di
Natale ha anche un contenuto polemico che le illustrazioni rendono
oggi evidente anche al meno avvertito dei lettori, sì che io potrei
premettere alla fiaba: "I personaggi di questo racconto sono
tutti veri e i fatti in esso accennati hanno tutti un preciso
riferimento con la realtà." La "realtà" era
tutt'intorno a noi, e io la vedevo seduta a tre metri da me, in prima
fila, vestita da Dolmetscher: e quando il "rumorista-imitatore"
cantava con voce roca la canzoncina delle tre Cornacchie e il
poliziotto di servizio sghignazzava divertito, io morivo dalla voglia
di dirgli che non c'era niente da ridere: "Guardi, signore, che
quella cornacchia è lei." "Io vi racconterò una favola,
e voi la racconterete al vento di questa sera, e il vento la
racconterà ai vostri bambini. E anche alle mamme e alle nonne dei
vostri bambini, perché è la nostra favola: la favola malinconica
d'ognuno di noi", Io, la sera della vigilia del '44, conclusi
con queste parole la premessa: ma il vento avrà sentito? O, se ha
sentito, sarà riuscito poi a superare i baluardi della censura? O,
lungo la strada, avrà perso qualche periodo? Ci si può fidare del
vento in un affare così delicato? Di qui l'idea di stampare la
fiaba: il papà ex internato potrà così raccontarla al suo
bambino, e da queste povere parole che sanno di fame, di freddo e di
nostalgia il bambino capirà forse quel che il papà soffriva,
lassù, nei desolati campi del Nord. E se non capirà il bambino,
capirà la mamma. E - ripensando alle ultime parole della favola -
anche per un mio orgoglietto personale: E se non v'è piaciuta - non
vogliatemi male, ve ne dirò una meglio - il prossimo Natale, e che
sarà una favola - senza malinconia: "C'era una volta - la
prigionia..." Ho mantenuto la promessa e pago il mio debito:
eccovi la favola. C'era una volta un prigioniero...
La
favola di Natale
C'era
una volta un prigioniero... No: c'era una volta un bambino... Meglio
ancora: c'era una volta una Poesia... Anzi, facciamo così: c'erauna
volta un bambino che aveva il papà prigioniero. "E la Poesia?"
direte voi. "Cosa c'entra?" La Poesia c'entra perché il
bambino l'aveva imparata a memoria per recitarla al suo papà, la
sera di Natale. Ma, come abbiamo spiegato, il papà del bambino era
prigioniero in un Paese lontano lontano. Un Paese curioso, dove
l'estate durava soltanto un giorno e, spesso, anche quel giorno
pioveva o nevicava. Un Paese straordinario dove tutto si tirava fuori
dal carbone: lo zucchero, il burro, la benzina, la gomma. E perfino
il miele, perché le api non suggevano corolle di fiori, ma
succhiavano pezzi d'antracite. Un Paese senza l'uguale, dove tutto
quello che è necessario all'esistenza era calcolato con così
mirabile esattezza in milligrammi, calorie, erg e ampère, che
bastava sbagliare un'addizione - durante il pasto - per rimanerci
morti stecchiti di fame. Stando così le cose, arrivò la sera
della vigilia, e la famigliola si trovò radunata attorno al desco,
ma una sedia rimase vuota. E tutti guardavano pensierosi quel posto
vuoto, e tutto era muto e immobile nella stanza perché anche
l'orologio aveva interrotto il suo ticchettare, e la fiamma era
ferma, come gelata nel camino. Allora il bambino - chi sa perché -
si levò ritto sul suo sgabello, davanti alla sedia vuota, e recitò
ad alta voce la Poesia di Natale: Din-don-dan: la campanella questa
notte suonerà e una grande, argentea stella su nel del
s'accenderà.,. Il bambino recitò la sua Poesia davanti alla sedia
vuota del papà e, com'ebbe finito, la finestra si spalancò ed
entrò una folata di vento. E la Poesia aperse le ali e volò via
col Vento. "La Poesia aperse le ali?" direte voi. "E
come faceva ad aprire le ali? La Poesia è forse una farfalla?"
No, la Poesia è un uccellino. Un uccellino fatto di cielo azzurro
impastato in un raggio di luna. Un uccellino che nasce (come sboccia
un fiore) nel tiepido cuore del poeta, e subito scappa fuori dalla
sua rossa gabbietta e va a saltare sul foglio bianco che sta sopra la
scrivania. Ma non può ancora volare perché gli mancano le ali: e
allora il poeta intinge la penna e gli fabbrica le ali con le più
belle parole che gli vengono alla mente. E ogni verso diventa una
piuma. E quando tutto è finito, l'uccellino spicca il volo e porta
per il mondo le parole del poeta. E tutti le leggono perché
l'uccellino si posa - ad ali spiegate dovunque scorge un foglio
bianco, e le parole si vedono benissimo perché l'uccellino è
fatto d'aria trasparente, mentre le parole sono scritte con
l'inchiostro di Cina. La Poesia, dunque, spiccò il volo e via col
Vento. "Dove vuoi che ti porti?" le domandò il Vento.
"Portami nel Paese dov'è adesso il papà del mio bambino",
disse la Poesia. "Stai fresca!" rispose il Vento. "Perché
prendano anche me e mi mandino al lavoro obbligatorio a far girare le
pale dei loro mulini a vento! Niente da fare: scendi!" Ma la
Poesia tanto pregò che il Vento acconsentì a portarla almeno alla
frontiera.
E
cammina, cammina, cammina nella notte di pece, finalmente arrivarono
al confine e il Vento fermò il motore, e la Poesia scese e si
avviò a piedi verso la siepe che divideva i due Paesi. Faceva tanto
freddo che la povera poesiola aveva tutte le rime gelate e non
riusciva neppure a spiccare il volo. "Dove vai?" le chiese
un vecchio il quale, con uno stoppino legato in cima a una pertica,
cercava invano d'accendere qualche stellina nel cielo nero. "Dove
vai?" "Al campo di concentramento", rispose la Poesia
senza fermarsi. "Ohimè", sospirò il vecchio. "Internano
anche la Poesia, adesso? Cosa ci resterà più?" La Poesia
continuò zampettando il suo cammino e finalmente arrivò al
confine ma, appena attraversata la siepe, una rete le piombò
addosso ed eccola prigioniera. "Ah! Ah!" sghignazzò un
omaccio vestito di ferro avvicinandosi con una lanterna. "Dove
vai? Chi sei? Cosa porti scritto sulle ali? Spionaggio?" E la
Poesia a spiegargli chi fosse e dove andava, e quello a insistere
sospettoso. Alla fine parve convinto e, inforcati gli occhiali,
cominciò a leggere i versi scritti sulle ali. Din-don-dan: la
campanella questa notte suonerà... "No!" disse. "Proibito
fare segnalazioni acustiche notturne in tempo di guerra!" E, con
un pennello intinto nell'inchiostro di Cina, cancellò molte parole.
Poi, di lì a poco, scosse ancora il capo. Una grande, argentea
stella su nel ciel s'accenderà... "Niente! Contravvenzione
all'oscuramento!" disse. E giù pennellate nere. Latte e miele
i pastorelli al Bambino porteranno... "Niente! Contravvenzione
al razionamento!" borbottò. E giù ancora col pennello.
I
Re Magi immantinente sul cammello saliranno... "Niente!"
urlò furibondo. "Basta coi re! Guai a chi parla ancora di re!"
E
giù pennellate grosse così. Poi, afferrato un grosso timbro, le
timbrò le ali e disse che poteva entrare. La Poesia si mise a
piangere. "E come faccio a entrare così? Con tutte queste
cancellature io non sono più una poesia..." "O così, o
niente!" disse l'omaccione mostrandole un foglio. "Guarda
qui: il regolamento parla chiaro."
E
il regolamento diceva infatti tra l'altro che, in quel Paese dove
tutto è prosa, era proibito l'ingresso alla Poesia. La nostra
poverella ritornò malinconicamente indietro e adesso, anche se
avesse voluto volare, non l'avrebbe potuto più perché le
pennellate nere le avevano tarpate le ali. "Non ti rattristare,
piccolina", le disse un vecchio dalla lunghissima barba bianca
che stava seduto su un sasso, vicino alla siepe di confine."Non
ti rattristare se non t'hanno lasciata entrare. Figurati che non
lasciano entrare neanche me che ho ingresso libero nei Paesi più
importanti del mondo! E sono anni che aspetto qui fuori." "E
chi sei tu?" domandò la Poesia. "Sono il Buonsenso",
rispose il vecchio. Passò il Vento e la Poesia lo scongiurò ad
ali giunte: "Vento, Vento, portami via con te! Riconducimi a
casa: le mie ali sono tarpate... Ti pagherò doppia corsa!"
"Non posso", rispose il Vento. "Ho troppo da fare,
adesso. Debbo portare dolci ricordi e nostalgie in tutte le case del
mondo. Questa è l'ora dei ricordi e il servizio è duro." La
Poesia riprese il suo cammino nella notte fredda, ed ecco qualcuno
apparire sulla strada deserta. Uno strano personaggio il quale
borbottava pieno di malumore: Oh, che bel Natale! Oh, che bel Natale!
Quest'arietta maledetta soffia dentro i polmoni Oh, che bel Natale!
Oh, che bel Natale! Con la guerra sulla Terra disperazioni... Chi era
il vecchio brontolone? Era proprio Babbo Natale, tutto vestito di
rosso e con una gran barba candida, con la gerla sulle spalle e la
lanterna in mano. "Ehilà!" esclamò Babbo Natale,
fermandosi a guardare curiosamente la Poesia. E, inforcati gli
occhiali, si chinò a leggere le poche parole rimaste sulle ali del
nostro povero uccellino: La campanella e una grande argentea stella
sul cammello saliranno e al Bambino porteranno ... "Guarda,
guarda!" esclamò. "Una poesia ermetica!" La Poesia
spiegò che lei non era una poesia ermetica, ma il poco rimasto di
una onesta poesiola di Natale, e Babbo Natale allora si commosse e
disse: "Ti riporterò a casa io. Salta pure dentro la gerla:
tanto è vuota!" "Vuota la gerla di Babbo Natale?" si
stupì la Poesia. "Vuota, sì", sospirò il vecchio. Chi
più pensa ai giocattoli in questa triste Terra? Tutti adesso
lavorano soltanto per la guerra! Non più trenini elettrici per i
bambini buoni: il ferro, ora, si adopera solo per far cannoni! Cercar
cavalli a dondolo? Sono pretese strane: adesso, il legno, l'usano per
fabbricare il pane!Tu vorresti una bambola? Niente, bambina mia: la
cartapesta e i trucioli servon per l'autarchia! Cercar dolciumi è
stupido: le chicche son proibite. Adesso, con lo zucchero, ci fan la
dinamite! la ricerca è inutile: dal Motta andar, non vale:
"Panettone?" rispondono. "Neppur questo Natale..."
E tutt'al più ti spiegano, in tono riservato, che di servirti
sperano la Colomba Pasquale col rametto simbolico nel becco
mandorlato.,. Babbo Natale scosse il capo e sospirò: "E così,
cara la mia Poesia, la gerla è piena soltanto di speranze.
Pazienza: vuol dire che sarà per il Natale prossimo. Andiamo pure."
Ma, intanto, cosa succede nella casa lontana? Niente di
straordinario: Albertino - cosi si chiama il nostro bambinello - va a
letto e la nonnina, per farlo addormentare, gli racconta una favola.
Vogliamo ascoltarla anche noi quella favola? Siamo abituati ad
ascoltarne tante, di favole, che una di più non ci potrà recare
danno. Però non è bello stare ad ascoltare i fatti altrui.
Aspettiamo dietro la porta che Albertino si sia addormentato. Ecco:
il bambino s'è addormentato, la nonna se ne è andata e il
silenzio ha disteso il suo mantello di velluto nero su tutta la casa.
Ed ecco che, dopo un po', si ode un ticchettio contro il cristallo
della finestra. Albertino si sveglia, scende dal letto, apre cauto la
finestra. E' la Poesia che è ritornata. "Ebbene? L'hai visto
papà?" "No", risponde la Poesia. E narra la sua
triste avventura. Allora Albertino si mette le scarpine felpate e la
mantellina col cappuccio e si avvia deciso alla porta. "Andrò
io dal babbo", esclama risoluto. Scende cauto per la scala,
gradino per gradino. La casa è buia e piena di mistero. "Mio
Dio!" grida a un tratto. "Cosa sono quei due puntini di
fuoco che mi fissano?... Ah, il gattino bianco. Che paura m'hai
fatto! Micino, fammi luce fino alla porta del giardino!..."
E
il micio, con i suoi occhi fosforescenti, illumina la strada ad
Albertino.
I
sogni dei bambini sono tutti illuminati da occhi di gattini, da
lucciole, da stelline. E' un tipo di illuminazione molto conveniente
perché ci si vede a sufficienza e il contatore non gira. Mentre
attraversa le stanze deserte, voci si levano sommesse. Oramai tutti
sanno: quando Albertino complottava con la Poesia, il Grillo Parlante
stampato a pagina 27 del libro di Pinocchio ha udito ed è scappato
via dal foglio, ed è corso per la casa a dare la grande notizia:
"Il bambino va a trovare il babbo!..." Così, mentre
Albertinopassa, le cose gli parlano: "Digli che conto i minuti
che ci separano dal suo ritorno!" sussurra l'orologio. "Digli
che divoro i giorni per abbreviargli l'attesa!" sussurra il
calendario. "Digli che senza di lui non riesco più a
spiccicare una parola!" sussurra la macchina per scrivere. Sul
rullo della macchina c'è un foglio scritto a tre quarti: una
novellina interrotta proprio sul finale. "Digli, per l'amor di
Dio, che torni presto", implora la novella. "Da diciotto
mesi Lauretta aspetta. Giacemmo sotto l'orologio della piazzetta. Non
si può lasciare una povera ragazza così, per degli anni, esposta
alle intemperie. Digli che venga a concludere!..."
E
Albertino promette che riferirà tutto. Ed eccolo alfine nel
giardino. Flik, il vecchio cane da guardia, lo aspetta sulla porta.
"Vengo anch'io dal padrone", dice Flik. Il gattino s'è
fermato sulla porta. Perché dovrebbe avventurarsi in quella gelida
notte dicembrina? Per il bel gusto di vedere la faccia del marito
della padrona? I gatti non sono dei sentimentali. E' tanto buio,
fuori, e si fatica a camminare, ma Flik va a svegliare una lucciola
che sverna dentro un buchetto del muro. Quella protesta: è freddo,
e soprattutto non ha petrolio per accendere il fanalino posteriore.
"Ma hai bene la tua dinamo!" osserva Flik. "Sì, ma
è già una dannata fatica per chi le può far funzionare con la
mano, queste benedette dinamo! Figurati poi la fatica che debbo fare
io..." Ma poi la Lucciola cede e - presa la lampadina - si avvia
con Flik e Albertino. Ma non camminano molto: sul cancellino si
trovano a fianco a fianco con qualcuno che sta uscendo. E' un essere
ammantato in una lunga palandrana e sembra un fantasma. Albertino
lancia un piccolo grido di paura, ma poi la Lucciola illumina il viso
del presunto fantasma. "Tu, nonnina?" "Tu, Albertino?
E dove vai a quest'ora?" "E tu, nonnina?" "Io
vado a trovare il mio bambino", risponde la nonna. Per le mamme
i figli restano sempre dei bambini e - se stesse soltanto in loro -
continuerebbero a farli dormire eternamente nella culla. E, vedendo
un metro e mezzo di gambe uscir fuori dal lettuccio, non direbbero:
"Mio figlio è cresciuto." Direbbero: "La culla del
mio bambino si è ristretta."Le mamme sono sempre in lotta col
tempo e se, talvolta, si tingono i capelli quando incanutiscono, non
è per vanità, ma per illudersi che il tempo non è passato e che
il loro bambino - perciò - è ancora un bambino. "Tu hai un
bambino, nonna? E chi è?" "Il tuo papà..."
Avanzano nella notte al tenue lume della Lucciola: Flik, la nonnina e
Albertino. E la mamma? La mamma è rimasta a letto: ha paura del
buio e ha tanto freddo; è un po' come il gattino bianco, la mamma,
e si muoverebbe, in questa notte, solo se si trattasse del suo
bambino.
I
figli lontani bisogna andarli a trovare a ogni costo. I mariti
lontani basta saperli aspettare. I papà, invece, fanno migliaia di
chilometri in sogno anche per rivedere le mamme dei loro figli.
L'uomo è un sentimentale come Flik. Non per niente l'uomo è detto
l'amico del cane. cammina, cammina, cammina, ecco che arrivano a una
piccola e solitaria stazione dove una locomotiva, dopo aver fatto una
bella scorpacciata di carbone, sta facendoci sopra una buona pipata.
"Signora locomotiva", chiede Albertino, "ci porti da
papà?" "Impossibile", risponde la locomotiva. "Crisi
dei trasporti, mitragliamenti, mancanza di personale..."
"Signora locomotiva", prega la nonnina, "portami dal
mio bambino. Non sai cosa rappresenti per una mamma il suo bambino?
Tu non hai figli?" "E come no?" risponde la
locomotiva. "Non sono forse miei figli tutti questi vagoni che
tu vedi? E so anch'io, signora, cosa voglia dire avere dei figli
lontani! Sapessi, vecchia signora, quanti e quanti miei figlioli sono
costretti a lavorare laggiù, nel Paese dove si trova tuo
figlio!..." "Se sai dov'è, vuol dire che tu lo conosci il
mio padrone!" esclama Flik. "Effettivamente tu lo devi
conoscere: era un tuo ottimo cliente, aveva l'abbonamento..." La
locomotiva mandò fuori un sospirone di fumo nero. "Lo conosco
sì, ma non per l'abbonamento. Purtroppo l'ho dovuto portare io,
lassù, assieme agli altri. Quando mi ricordo, mi monta il vapore
alla testa del cilindro! Non mi ci far pensare!" La locomotiva
s'era commossa e sospirava con tutti i suoi stantuffi, e allora
Albertino la pregò ancora e quella cedette. "Salite, vi
porterò fin dove mi sarà possibile. Non si sa mai quel che
possono combinarti lungo la linea quei monellacci della montagna! In
carrozza, signori! Si parte..."
E
cammina, cammina, cammina, a un tratto il treno si arrestò
bruscamente. "Fine del viaggio", disse la locomotiva. "Il
ponte è saltato in aria. Ah, monellacci: sempre voglia di
scherzare! Beata gioventù..." Il treno fece macchina indietro
e Albertino, la nonnina e Flik e la Lucciola si trovarono soli in
piena campagna. Dove si va? A destra o a sinistra? E come si fa poi a
capire quale è ladestra e quale la sinistra quando c'è buio?
Finalmente videro avanzarsi un lumicino rosso ed era il fornelletto
d'una grossa pipa, e dietro la pipa procedeva un tipo strano con
baffoni, giacca nera, calzoni a righe e tubino. "Signore, per
cortesia, insegnaci la strada per arrivare dal papà", implorò
Albertino. Ma il tipo rispose che lui non sapeva niente, e che non
aveva visto niente, e che non si occupava di politica ma badava ai
fatti suoi, e che era ancora in giro soltanto perché s'era
attardato al caffè con gli amici. Poi, quando si fu convinto che
quella era brava gente inoffensiva, si tolse i baffi che erano finti,
e si vide che si trattava di una gallina. "Sono una gallina
padovana residente all'estero", disse. "E, così
travestita, rimpatrio clandestinamente per fare l'uovo. Voglio che il
mio uovo sia italiano!" "Stupendo!" esclamò la
nonnina che era romantica. "Stupendo! Sembra una gallina del
Risorgimento!..." Poi, siccome s'era commossa anche lei, la
Gallina disse: "Camminate lungo questa strada, contate 1490
passi, poi voltate a destra, andate sempre diritto e troverete quello
che fa per voi. " Uno, due, tre, quattro, cinque, sei...
millequattrocentonovanta passi. Poi voltata a destra, quindi eccoli
in un bosco. E cammina, cammina, cammina, d'un tratto sboccarono in
una bella radura illuminata da grosse stelle pendenti dai rami degli
alberi, come frutti di fuoco. Era un campo di aviazione: però non
uno dei soliti campi coi soliti aeroplani, ma un campo d'atterraggio
per Angeli. Angeli d'ogni tipo, Angeli monomotori, bimotori,
trimotori, quadrimotori prendevano terra o decollavano. Gran lavoro,
durante la guerra, per l'aviazione del buon Dio. Angeli da
ricognizione incrociano sui luoghi delle battaglie e segnalano
eventuali concentramenti d'anime. Angeli da trasporto accorrono e
caricano le anime e le portano in cielo. Angeli da caccia difendono
le formazioni dagli attacchi di neri diavoli alati. Mentre gli Angeli
bombardieri rovesciano sulle case, sopra gli ospedali, sopra i campi
di prigionia, grossi carichi di sogni, distruggendo così le opere
nefaste della disperazione. "Vi porterò al campo di
concentramento", disse un Angelo che era appunto addetto ai
sogni. "Salite." Era un bell'Angelo con tre paia d'ali, un
trimotore, e Albertino e la nonna e Flik e la Lucciola si trovarono
ben presto altissimi nel cielo.
E
nel cielo nero ogni tanto si spalancava una finestrella e
s'affacciava una stellina che salutava sventolando il fazzoletto. A
un tratto si aprirono anche le imposte d'un grande balcone e la Luna
venne fuori a curiosare e tutto il cielo s'illuminò. "Ritirati,
pettegolona!" esclamò l'Angelo. Ma non fece in tempo a finire
che si sentì uno schianto e l'Angelo si inabissò con un'ala in
fiamme. La Flak l'aveva scoperto e colpito. La nonnina, Albertino,
Flik e la Lucciola precipitarono nel baratro buio."Aiuto!"
gridò Albertino. E il Vento lo udì e accorse, e prese a bordo i
naufraghi dell'aria e li portò dolcemente giù, giù, deponendoli
alla fine sulla neve soffice. Poi se ne andò borbottando:
"Benedetti sogni! Se non vi si stesse attenti, chi sa come
andreste a finire!" Dov'erano andati a cadere i nostri
naufraghi? In un bosco. Un immenso bosco con grandi alberi carichi di
neve. E neve copriva la terra, soffice e bianca come panna montata.
Un bosco buio, pieno di freddo mistero. "E adesso, nonnina?"
domandò Albertino. "Come si fa?" "Non temere",
lo rassicurò la nonnina. "Domandando si arriva dappertutto.
Guarda, arriva proprio qualcuno: buona sera, signora!..." "Chi
è, nonnina?" "E' la Formica", spiegò la nonna. "E'
la buona Formica che lavora tutta l'estate per mettere da parte roba.
E così, quando viene l'inverno, la brava formichina è tranquilla,
mentre la Cicala, che ha trascorso tutta l'estate cantando, deve
andare da lei a implorare un po' d'aiuto. E la Formica le risponde:
"Se hai cantato, adesso balla!" Bisogna sempre lavorare e
risparmiare, bambino mio. Il risparmio..." "A morte il
risparmio!" urlò la Formica. "Peste e dannazione a chi ha
inventato la Giornata del Risparmio, i salvadanai e la previdenza! Ho
lavorato trent'anni come una negra economizzando il centesimo, mi
sono fatta a costo di spaventosi sacrifici un gruzzoletto per la
vecchiaia, ed ecco il magnifico risultato: le mie cinquantamila lire
valgono oggi come settantacinque lire di prima della guerra!... E
debbo andare io a elemosinare dalla Cicala la quale, adesso, fa soldi
a palate perché avendo trascorso i suoi giorni guardando il
panorama - ora tutti vengono da lei a farsi descrivere le albe
rugiadose e i tramonti di fuoco e i placidi meriggi e le profumate
notti del felice tempo che fu. Adesso chi ha in magazzino articoli di
nostalgia fa quattrinoni!... Abbasso il risparmio!... Abbasso i
capitalisti!... La proprietà degli altri è un furto!..."
E
si allontanò cantando inni sovversivi. "Orrenda guerra che
distrugge tante belle favole!" sospirò la nonna. "Non vi
rattristate, signora", esclamò un gufo, affacciandosi al
balconcino che si apriva sul tronco di un pino. "Favole vecchie
muoiono, favole nuove nascono. C'è sempre la contropartita."
"Dove siamo, signor Gufo?" domandò Albertino.
E
il Gufo inforcò gli occhiali e spiegò. "Esistono sulla Terra
il Paese della Pace e il Paese della Guerra. Il Paese della Pace è
tutto sole e azzurro, e i campi sono pieni di bionde messi, e fiori
sbocciano dovunque, in riva ai fiumi, nei boschi e perfino sulle
nevose cime delle montagne. E i suoi abitanti lavorano la terra e
tutti - dietro la casetta - hanno un orticello nel quale coltivano
amorosamente i grossi cavoli sotto i quali, in tutte le stagioni,
nascono bambini bellissimi. Il Paese della Guerra è tutto il
contrario: perché non c'è mai il sole e il cielo è color del
catrame, e nei campi non fiori o messi spuntano, ma baionette; e
sugli alberi maturano bombe. E gli uomini si vestono di ferro, e i
bambini non nascono sotto i cavoli, ma li fabbricano a macchina e
perciò hanno tutti il cuore di ferro e la testa di ghisa. Eproprio
sul confine tra il Paese della Pace e quello della Guerra si
incrociano la strada che va dai Paesi del sole ai Paesi senza sole, e
la strada che va dalle terre dove nasce la luce alle terre dove la
luce diventa ombra." "Signor Gufo", disse Flik,
"perdona me, povero cane di campagna, ma mi sembri piuttosto
ermetico." "E' semplice", rispose il Gufo. "Qui
si incrociano la strada che dal Sud va al Nord, e la strada che
dall'Est va all'Ovest. E in questo bosco si incontrano perciò
creature dell'un Paese e dell'altro: si incontrano gli abitanti del
mondo della Pace e del mondo della Guerra. Quindi non vi stupite.
Buona notte." "Signor Gufo! Ancora una parola, vi prego..."
Ma il Gufo era sparito dentro la sua casetta e Albertino e la nonna e
Flik e la Lucciola si trovarono ancora soli nel bosco. Presero a
camminare tra i cespugli e cammina, cammina, s'imbatterono in tre
Funghi Buoni rannicchiati ai piedi di una ceppaia. Erano tre buoni
funghi: tanto buoni che erano perfino mangerecci, ma non sapevano
niente di niente. Spiacentissimi, ma essi facevano una vita così
ritirata e si occupavano tanto poco di politica... Più avanti si
imbatterono in tre rossi Funghi Velenosi con le teste aguzze aguzze
come capocchie di chiodi, e domandarono anche a loro, ma quelli
scrollarono sgarbatamente il gambo borbottando: "Weg! Weg! Via,
via!"
E
avanti, avanti, incontrarono anche un vecchio tutto bianco che andava
in giro con un'accetta in spalla e una valigetta in mano. Si fermava
presso gli alberelli e con una lente guardava ramo per ramo. Poi,
quando scopriva un ramo cariato, lo tagliava adagio adagio con
l'accetta. Ma prima, con una grossa siringa, faceva alla pianta
l'anestesia locale perché non sentisse dolore, e, dopo,
disinfettava e bendava il ramo troncato. Appressava lo stetoscopio al
tronco delle vecchie piante, e auscultava attento. E massaggiava con
olio canforato i grossi nodi, e ungeva con pomate contro i geloni le
radici non coperte dalla terra. Era il Guardia boschi Buono, il quale
innaffiava col Proton i quercioli deperiti, e metteva guanti di lana
alle cime dei rami di pino che avevano perso il rivestimento di verdi
aghi. Ma anche lui non sapeva niente di niente: per quanto riguardava
la guerra, poi, si ricordava benissimo di Garibaldi, ma non sapeva se
fosse guarito o no dalla sua ferita d'Aspromonte.
E
via, via, e ancora via fra i tronchi neri, con la Lucciola in testa
alla piccola schiera. A un tratto si fermano spaventati. Giù tutti
dietro il cespuglio! Un omaccio dalla barba rossa si avanzava
sbraitando e brandendo un grosso fucile. "A posto!" gridava
prendendo a calci e a schiaffi gli alberi. "A posto!"
E
tutti gli alberi si mettevano in riga per cinque tremando per la
paura, e quello li contava e li ricontava e guai se ne mancava uno!
Poi, se una stellina si affacciava alla sua finestrina nel cielo
nero, "Oscuramento!" gridava, e le sparava addosso una
schioppettata. E se una lucciola accendeva il suo lumino, l'afferrava
con un balzo e le svitava la lampadina. E metteva gli occhiali neri
ai gatti perché i loro occhi fosforescenti non brillassero nel buio
regolamentare.Mamma mia che paura! Non era certo il caso di rivolgere
domande al Guardiaboschi Cattivo. Meglio starsene ben nascosti.
Quando si fu allontanato, la Lucciola riaccese la sua lampadina e i
quattro si rimisero in cammino.
E
via, via, e via, finalmente si trovarono davanti a una piccola radura
in mezzo alla quale due sentieri si intersecavano. "Che sia il
crocicchio famoso?" disse la nonnina. "Fermiamoci qui:
qualcuno dovrà pure passare." E, difatti, poco dopo apparvero
zampettando sul sentiero che veniva dal Sud tre Passerotti, ognuno
dei quali portava sulla spalla un fagottello legato in cima a un
bastone. E cantavano allegramente: La famiglia vagabonda guarda qua:
la mammina, il pargoletto ed il papà che vanno in cerca di mangiar,
ma neve sol si trova ohimè! Com'è triste sulla neve andare a pie
quando calza né stivale più non c'è! Ma non importa: la va a
pochi, il tempo bello presto verrà! E, contemporaneamente, ecco
arrivare, dalla parte opposta, tre Cornacchie col kepi e il cinturone
con la daga, che camminavano impettite come baccalà. Tre Cornacchie
nere, con una lampadina appesa sul petto. Tre Cornacchie di ronda, le
quali borbottavano: Chi, alle dieci, ancora in giro se ne va? L'ora
ormai del coprifuoco è già suonata! Noi siam la ronda che va a
caccia di nottambuli e beon: chi non ha le carte a posto va in
prigion. Non è posto, questo qui, per fannullon: chi non fa niente,
sull'istante al lavor mandato sarà! "Altolà: documenta!"
ordinarono con malgarbo le tre Cornacchie ai Passerotti: e vollero
sapere dove andassero e cosa facessero. E i Passerotti spiegarono che
andavano alla ventura e vivevano alla giornata nell'attesa che
tornasse il bel tempo. "Pessima vita!" borbottarono le
Cornacchie. "Perché non venite con noi, invece? Vi daremo
prima di tutto miglio e orzo a volontà per rimettervi in carne..."
"E poi?" chiesero i Passerotti. "E poi vi infilzeremo
in uno spiedo nuovissimo, sterilizzato, d'acciaio inossidabile, e vi
cuoceremo con fuoco di legna di primissima scelta. Sentirete che bel
calduccio!" "Preferiamo rimanere al freddo", risposero
i tre Passerotti. Ma le Cornacchie insistettero. "Non vi piace
forse l'arrosto? Possiamo accontentarvi col bollito! Vi cuoceremo in
una splendida pentola in duralluminio cromato... No? Vi dà forse
noia il fumo? Noi abbiamo ogni riguardo per i nostri amici! Se vi dà
noia il fumo vi cuoceremo su un potente fornello elettrico di 200
watt. Anzi, facciamo 300: non badiamo a spese, noi!..." Ma i
Passerotti dissero ancora di no. "Magri ma crudi!"
esclamarono. Allora le Cornacchie se ne andarono indignate
borbottando con disprezzo: "Fannulloni!" E quando si furono
allontanate, Albertino domandò ai Passerotti se conoscevano la
strada per andare dal babbo."E' una di queste quattro",
risposero i Passerotti. "Ma chi lo sa qual è? Noi siamo poveri
passerotti di paese e non sappiamo niente di punti cardinali. Ci
regoliamo col sole, ma, adesso, il sole non c'è. Però se
aspettate, passerà certo qualcuno. Buona notte."
E
rieccoli soli. E la notte era buia e fredda e il bosco pieno di
mistero. Si sedettero sulla neve ai piedi d'un grosso tronco, stretti
l'uno all'altro per stare più caldi. E il tempo passava, e nessuno
appariva sul sentiero, e si udiva soltanto la gelida voce del bosco.
Ma, improvvisamente, Flik si levò d'un balzo drizzando le orecchie.
"Cosa c'è, Flik? Cosa c'è?" Apparve un uomo che
camminava curvo con una sacca sulle spalle e, quando fu vicino, la
Lucciola gli illuminò il viso. Flik non aveva sbagliato: era lui.
Era il babbo. Era il babbo che, nella notte di Natale, era fuggito
dal suo triste recinto e ora camminava in fretta verso la sua casa.
Voleva ritornare, almeno quella notte, e girare tutte le stanze e
affacciarsi ai sogni di tutti i dormienti.
E
il bambino, e la nonna, e il papà si incontravano a metà strada
nel bosco dove, la notte di Natale, si incontrano creature e sogni di
due mondi nemici. "Tu qui?" chiese la nonnina con
apprensione. "Cosa ti succederà? Lo sai: adesso la fuga dalla
prigionia non è più uno sport!" "Ma la fuga in sogno è
sempre uno sport, mamma! E' l'unico sport che ci rimane. Sognare. I
sogni non hanno piastrino; non c'è l'appello notturno dei sogni;
non esistono "zone della morte" per i sogni. Nella stufa il
fuoco è spento e nelle stanze squallide si respira aria gelida come
ghiaccio liquefatto, ma i sogni non hanno freddo perché gli basta,
per scaldarsi, il tenue focherello d'una stella, o un sottile raggio
di luna. Sognare. Quante notti ho percorso la strada che porta alla
nostra casetta? Lo so, anche tu, mamma, tante volte hai percorso la
strada che porta al mio lager. Ma non ci siamo mai incontrati perché
solo nella santa notte di Natale è concesso ai sogni di
incontrarsi. E' un miracolo che si rinnova da secoli: nella santa
notte di Natale si incontrano e hanno corpo i sogni dei vivi e gli
spiriti dei morti..." Albertino si appressa. "Cosa c'è in
quel sacco che porti sulle spalle?" "C'è tutta la mia
ricchezza, figlio mio: gli zoccoli di legno, la gavetta, il
cucchiaio, i barattoli, le vostre lettere. I prigionieri non
abbandonano mai, neppure nei sogni, il loro sacco, perché in esso
è racchiusa la storia della loro miseria. C'è anche il mio
fornellino. Vedrai com'è bello: adesso lo accenderemo." "Non
farlo!" lo supplica la madre. "Lo sai che non si possono
accendere fuochi all'aperto dopo il secondo appello!""Ma
tu, mamma, com'è che sai tutte queste cose? Chi te l'ha detto? C'è
scritto forse sui giornali?" "No, queste cose non le
stampano nei nostri giornali. Quando la notte vengo a trovarti, giro
per le baracche e leggo tutti i cartelli. E guardo tutto: sapessi che
pena vedere le tue magliette piene di buchi!... Una volta ho portato
con me l'ago e il filo e ho provato a rammendarti il farsetto: ma le
mani, nei sogni, sono fatte d'aria." Il babbo depose la sacca
per terra e trasse il fornellino. "Com'è bello!" esclamò
Albertino. "Sembra la macchina del treno... C'è anche il
fischio, papà?" "Ci vorrebbe una scopa per togliere la
neve per terra", osservò il babbo. E non aveva ancora finito
di parlare che una strana creatura volò giù dal cielo. "Uh!
La Befana!" esclamò Albertino. Era effettivamente la vecchia
Befana: però non stava, come al solito, a cavalcioni della scopa,
ma d'una macchina luccicante. "Mi sono motorizzata",
spiegò la Befana. "E così ho abbandonata la scopa e viaggio
in aspirapolvere. Ma qui ci dovrebbe essere una presa di corrente..."
Cercò nel tronco d'un grosso pino e trovò l'attacco e innestò
la spina. Ecco fatto: in due minuti un grande cerchio di neve è
spazzato via e il muschio, sotto, è asciutto e soffice come un
velluto. "Buona notte", salutò la Befana decollando. Si
seggono attorno al fornellino ma, adesso, ci vorrebbe un po' di legna
e
Albertino, scortato da Flik, va in cerca di qualche ramoscello. Un
altissimo abete ha tutta la cima secca e Albertino gli domanda:
"Signor albero, mi dai un pochettino di legna?" "Se
vuoi la legna vientela a prendere", risponde l'albero sgarbato.
Lì vicino c'è un alberello secco completamente che non serve più
a niente e Albertino afferra un ramo e cerca di strapparlo.
"Sabotage!" urla l'albero. "Sabotage!" Mamma mia
che paura! Ma una vecchia quercia allunga ad Albertino uno dei suoi
rami: "Tieni, piccino: prendi tutta la legna che vuoi." Il
fornellino è acceso, e la sua fiamma si alza sicura verso il cielo
perché è un fornellino con doppia parete, a gassogeno e aria
preriscaldata. Gli alberi si scrollano la neve dal mantello e si
avvicinano per venire
a
scaldarsi i rami intirizziti, e fanno circolo tutt'attorno al
focherello. E così, stretti l'uno all'altro, formano una specie di
muro che non lascia passare l'aria gelida, e coi rami protesi sulla
fiamma formano uno spesso soffitto a festoni. "Si potrebbe
cucinare qualcosa, fare un pranzettino di Natale... Sarebbe bello,
così tutti insieme...", dice il papà.Ma non c'è niente e
Albertino si mette in giro con Flik per trovare qualche nocciolina o
qualche bacca dolce dimenticata sulle siepi dall'autunno. Ma cosa
succede? Cos'è questo segnale di tromba?
E
il più alto dei Funghi Velenosi che è di vedetta e che dà
l'allarme. "E' il momento giusto!" grida con voce
concitata. "Se noi riusciremo a farci cogliere e a farci
mangiare, noi moriremo, ma essi ne avranno atroci dolori viscerali!
Quale stupenda vittoria difensiva!"
E
tutt'e tre allungano il collo cercando con ogni sforzo di farsi
notare dal bambino: "Qui, qui", dicono. "Da questa
parte si mangia bene!"
I
tre Funghi Buoni però si avvedono della subdola manovra. "Non
bisogna permettere che i Funghi Velenosi riescano nel loro nefando
intento!" gridano i tre Funghi Buoni. E si avventano come un sol
uomo contro i Funghi Velenosi. La lotta è lunga e terribile, ma,
alla fine, i tre Funghi Velenosi giacciono esanimi coi cappelli
incalcati giù fino ai piedi. "E adesso andiamoci a costituire:
essi hanno fame!" dicono generosamente i tre Funghi Buoni. E si
avviano verso il bambino e il sacrificio cantando "Chi per la
patria muor vissuto è assai", come i fratelli Bandiera i
quali, però, erano due e non erano - nonostante tutto mangerecci
come i tre funghi. Ma il nobile sacrificio non è più necessario:
il papà si è ricordato che nella sua bisaccia c'è, ancora
intatta, la razione di pane. "Tu hai avuto il tuo panettone?"
chiede il papà ad Albertino. "No, papà." "Lo
avrai." "Sì, papà." Il papà grattugia il pane
col coltello: lo impasterà con acqua e farà una focaccina. "Come
sei bravo!" esclama la nonnina. "Quante belle cose hai
imparato in prigionia!..." Il gavettone è sul fuoco: un abete
allunga gentile un ramo carico di neve e lo scuote dentro il
recipiente che, ben presto, comincia a borbottare. Una scintilla esce
dal fornellino e va in giro per il bosco come una stellina in balia
del vento. Un'Ape (che è di vedetta sull'albero nel cavo del quale
è l'alveare) l'avvista. La scintilla fa la spia all'ape, e l'Ape
dà l'allarme. Le Api fanno rapidamente il pieno, accendono i motori
e decollano. Sono mille, duemila, diecimila, e navigano in perfetta
formazione a cuneo, tre per tre, verso la zona del fuoco. E' una nube
ronzante. Quando arrivano sull'obiettivo scendono in picchiata. E,
passando sopra il fornellino, ogni Ape lascia cadere nel gavettone
una goccia di miele. Mille, duemila, diecimila gocce: il recipiente
è quasi colmo. Intanto i tre Passerotti scuotono le cime degli
alberi e fanno piovere dentro il gavettone pinoli, bacche dolci,
noccioline croccanti.Un'Allodola del tipo stratosferico con un trillo
buca il manto nero della notte, si libra fin sopra le nubi, poi su su
tra le stelle, fino alla Via Lattea nella quale si immerge ritornando
giù carica di candida panna montata. Giunta sul gavettone, si
scuote la panna di dosso e la panna cade nella pasta dolce che già
è bollente. Ma il nemico non dorme. Le tre Cornacchie, dall'alto di
un pino, hanno seguito ogni manovra e adottano le contromisure. Si
lanciano sopra un mucchio di spazzatura e cominciano a mangiare sassi
aguzzi, chiodi, pezzettini di vetro, capocchie di fiammiferi.
Ingollano anche i resti dei tre funghi velenosi, e mangia che ti
mangia, si gonfiano come botti e riescono appena a levarsi in volo.
Hanno il loro piano: arriveranno fin sul gavettone e faranno come le
Api, scaricando nella pasta il loro micidiale carico. Fortunatamente
l'aviazione alleata sta sul chi vive: trecento Api da caccia partono
su allarme per intercettare la formazione nemica. Eccole che si
avventano sulle Cornacchie e le crivellano di punzecchiate. Le
Cornacchie precipitano in vite. "Bang!" Scoppiate come
vesciche di surrogato di grasso. Il gavettone borbotta dolcemente e
il papà, Albertino, la nonnina e Flik si scaldano le mani al fuoco.
E nessuno parla: la felicità non ha bisogno di parole.
A
un tratto il Vento porta le note di una musica lontana, carica di
accorati accenti. "Cos'è, babbo?" "E' la canzone
della malinconia. Alla finestra, una sera d'inverno: due occhi
guardano attraverso i cristalli la strada che rimane deserta, e il
cristallo gocciola e sembra stemperare le lacrime di quella vana
attesa. Sul muro bianco, nella stanza, l'ombra scarna della sedia
vuota davanti al fuoco. E' la canzone che dice la pena di tutti
coloro che attendono nelle tristi case. E' la canzone che - allo
spirare d'una stanca giornata d'attesa - affida le sue note al Vento
della notte e così giunge a tutti i lontani campi di prigionia, e
narra a tutti gli uomini la sua malinconia disperata." La
canzone si allontana nella notte e, di lì a poco, un altro canto
che viene da opposte contrade si appressa. Un canto anch'esso
malinconico, ma d'una malinconia dolce e sommessa. Altra gente che
attende e attende. Gente che da mesi e mesi e mesi guarda il cielo
grigio che incombe su quelle straniere lande, e aspetta invano che il
sole squarci la coltre cupa di nubi e ritorni a splendere. Ma che ha
tuttavia una luce segreta la quale illumina quei giorni senza sole e
quelle notti senza stelle. La luce tenuta viva dall'amore di chi
attende nelle case lontane. La luce della fede. E la canzone parte da
tutti i campi di prigionia, e naviga nella notte, e giunge alle dolci
contrade recando parole di dolce speranza a chi dalla speranza si
sente oramai abbandonato. Anche la seconda canzone s'allontana e
tutto ridiventa silenzioso. "Guarda, babbo!" grida
lietamente Albertino.Il miracolo è compiuto: la pasta dolce si è
gonfiata sino a diventare un grosso panettone profumato e soffice
come bambagia. Il babbo toglie dalla sacca la gamella, il coperchio
della gavetta, un coperchio di scatola, uno straccetto bianco
(l'involucro dell'ultimo lontanissimo pacco da casa), e la nonna
apparecchia sul muschio verde e taglia il panettone. "A chi
questa dolce illusione di antica felicità?" chiede la nonnina.
"A noi tutti che abbiamo tanto sofferto", risponde il
babbo. E vorrebbe che le fette fossero quattro (una anche per la
mamma, da portarle a casa), ma Albertino dice che è inutile.
"Gliela racconterò io, alla mamma, la sua parte di panettone",
afferma Albertino. Le fette sono tagliate e Flik ha le sue briciole e
il papà, mentre porge la sua gamella, scopre che, sotto, c'è una
lettera. Posta per il numero 6865! Finalmente! Da quattro mesi il
numero 6865 non riceveva posta ed eccolo generosamente ricompensato
della lunga, penosa attesa. Perché si tratta di una lettera
d'importanza eccezionale: una lettera piena di ricami, d'angioletti
d'oro, di stelle d'argento e di nere zampette di gallina: "Caro
papà, è Natale e io penso a te..." E' una lettera
importantissima perché l'hanno scritta un po' tutti: la nonna
dettava; la mamma guidava la mano d'Albertino il quale scriveva; il
nonno rileggeva parola per parola, ad alta voce; Flik acciuffava al
volo e riportava ad Albertino le virgole che, come farfalline,
volavano via dalla penna d'Albertino. E la Carlottina, seduta sul suo
seggiolone, lanciava in aria dei piccoli punti esclamativi d'argento
che ricadevano sul foglio e si appiccicavano qua e là tra le parole
per farle ancora più belle. "Caro papà, è Natale e io
penso a te..." Posta per il numero 6865: la prima lettera di
Natale d'Albertino. Il pranzo di Natale comincia, e il panettone sa
di cielo e di bosco. E tal meraviglia ancora non basta perché
questa è notte di miracoli. Un grande abete si è popolato di
fiammelle. Sono gli occhi di mille e mille uccellini che splendono
nel buio riflettendo il bagliore del focherello. Anche l'albero di
Natale! Ed è il più bello del mondo perché la stella che brilla
sulla sua cima non è una delle solite di cartapesta argentata, ma
è una stella vera, una stella viva che è scivolata giù dal
cielo e si è impigliata tra i rami col suo strascico scintillante.
Intanto il tempo trascorre. Sul sentiero deserto che viene da
Oriente, qualcuno s'avanza. E' un somarello, e sul somarello è una
donna bellissima dagli occhi dolci e splendenti. E davanti
all'asinello cammina un buon vecchio dalla barba bianca. L'asinello
è stanco: è tanto tempo che cammina senza fermarsi mai. Cammina,
cammina, somarello: bisogna ritrovare la solitaria capanna perché
il miracolo possa rinnovarsi. Perché il Figlio di Dio possa, ancora
una volta, schiudere gli occhi alla luce degli uomini.
E
l'asinello cammina e nel cielo lo scortano due Angeli che reggono un
grande nastro bianco su cui è scritto a lettere d'oro: Pace agli
uomini di buona volontà. Ed è, questo, lo stendardo del Dio della
Pace. Ma, sul sentiero opposto che viene da Occidente, dai Paesi dove
la luce diventa ombra, avanza sferragliando una grossa macchina
scortata da una quintuplice schiera di guerrieri, i quali procedono
cantando fieramente un loro inno: Col paltò corazzai col gilè
d'otton cromato coi calzon di lamier, col cappello di ferro smaltato,
com'è bello far sempre il soldato Su la gamba batti il tac batti il
tac fort sulla terra con lo schiopp su la spali, com'è bello far
sempre la guerra per la pace universale! La macchina sferragliante è
un carro armato, e lo guida un uomo con l'elmo in testa, e dietro di
lui sta seduta, tronfia e pettoruta, una grossa donna dai capelli
biondi come stoppa e con gli occhiali a stringinaso davanti agli
occhi piccoli e cattivi. Scortano il corteggio due feroci aquile che
reggono fra gli artigli un drappo nero con una scritta a caratteri di
sangue: Guerra agli uomini di buona volontà. Ed è, questa, la
bandiera del Dio della Guerra, del Dio che nascerà stanotte
(secondo gli ordini ricevuti dal suo governo) in un castello
d'acciaio col cannone sul tetto, il quale spara contro tutte le
stelle filanti e gli Angeli che passano nel cielo. Al crocicchio la
macchina e l'asinello si incontrano: l'asinello prende la strada che
porta ai Paesi del sole, la macchina quella che porta ai Paesi delle
gelide ombre. "La pace sia con voi", saluta il buon vecchio
dell'asinello. "La guerra sia con voi", risponde l'uomo del
carro armato. Notte santa, notte di miracoli. Si fa tardi ed ecco,
sul sentiero ridiventato deserto, apparire una strana cavalcata. Sono
tre vecchi Re seduti sulla gobba dei loro cammelli, e vengono
dall'Oriente. E li guida una stella che naviga lenta, facendo
fluttuare la sua scintillante coda d'argento nel cielo di velluto
nero. Notte santa, notte d'incontri: nel sentiero che viene da
Occidente, si avanza un curioso terzetto. Sono tre Nanerottoli
vestiti di rosso, con la barba bianca lunga fino ai piedi, e il naso
a patata. Tre Nanerottoli scappati fuori dal cartellone pubblicitario
di qualche fabbrica di posate, tanto è vero che il primo porta
sulla spalla, come un fucile, un coltello; il secondo una forchetta e
il terzo un cucchiaio. Li guida sibilando nel cielo non una stella,
ma una meteora alla dinamite con la coda di fuoco. Camminano
impettiti, al passo, levando le zampette come fanno le oche. Al
crocicchio anche i vecchi Re e i Nanetti si incontrano. "Dio sia
con voi", salutano i Magi."C'è già", rispondono
altezzosi i Nanetti. "Io porto al Figlio di Maria oro perché
Egli è il buon Re degli uomini di buona volontà", dice il
primo dei Magi. "Io gli porto incenso perché Egli è Dio
della bontà e sacerdote del Dio della bontà", dice il
secondo. "Io gli porto mirra perché Egli è Dio ma, nella sua
divina bontà, vuol soffrire e morire come un uomo", dice il
terzo.
I
Nanerottoli rispondono sghignazzando: "Io porto al nostro Dio il
coltello perché possa tagliare a fette il mondo!" "Io gli
porto la forchetta perché possa papparselo allegramente!" "Io
gli porto il cucchiaio perché possa raccogliere e mangiarsi anche
le briciole!" "Sia lode al Dio degli uomini buoni",
salutano i Magi prendendo la via del Sud. "Sia lode al Dio dei
guerrieri", rispondono i Nanetti prendendo la via del Nord.
Disparvero e il bosco ridiventò deserto. E il papà e il bambino e
la nonnina, stretti l'uno all'altro davanti al fornellino, tacevano,
e niente si muoveva - neanche una fogliolina - perché le cose e gli
uomini attendevano trepidanti. Mezzanotte... "E' nato!"
gridò un'allodola di vedetta su una nuvola. "Notizia
confermata!" disse il Vento. "C'è anche il commento!
Udite!"
E
portò un dolcissimo canto che veniva da lontane contrade. La
solitaria capanna è tutta risplendente ora, e sulla paglia vagisce
il Bambinello, e lo scaldano, col loro fiato, il bue e l'asinello.
Anche nel castello d'acciaio annidato nell'ombra del Nord, un bambino
è nato e piange, nella sua culla corazzata. Ma lo scaldano col loro
fiato micidiale un lanciafiamme e lo scappamento del carro armato. Ma
la sua voce è aspra e le sue mani hanno già piccoli artigli
perché è il Dio della Guerra e nessuno viene a portargli doni.
Mentre invece, alla capanna del Dio della Pace, giungono pastori e
pastorelle recando agnelli e anfore colme di latte. Latte scremato:
perché le pecorelle sono state tosate e la panna l'hanno adoperata
per fare alle pastorelle un mantello di lanital. E i pastori se ne
dolgono, ma san Giuseppe sorride: "Non importa: la colpa non è
vostra, la colpa è della guerra." E, dopo i pastori, ecco che
arrivano marciando anche i guerrieri vestiti di ferro. "Sia lode
a Dio", dicono in coro. "Dio è con noi." San
Giuseppe scuote il capo: "C'è un errore. Il vostro Dio non è
questo. Mai è stato questo. Il vostro Dio è l'altro che è nato
nel castellod'acciaio." "No", dicono i guerrieri.
"Adesso il nostro Dio è questo." "Troppo tardi",
risponde san Giuseppe. "Tenetevi il vostro Dio anche per
quest'anno..."
A
uno a uno gli occhietti che fiammeggiavano sull'abete nel bosco
solitario si sono spenti. Nel fornellino la fiamma dà gli ultimi
guizzi. Fa freddo. Gli alberi hanno riallargato il loro cerchio e il
Vento soffia gelido. Croci nere sono sparse nel bosco e attorno a
ogni croce si aggirano mute ombre. E le croci sono tante, e le ombre
sono infinite. "Chi sono, papà?" "Sono gli spiriti
dei vivi che vengono a cercare i loro morti. Guardano tutte le croci
che la guerra ha sparso nel mondo, leggono i nomi incisi sulle croci.
E quando una mamma ritrova la tomba del suo figliolo, si siede sotto
la croce e parla con lui di tempi felici che non torneranno mai
più." Il Vento, intanto, riporta la canzone che è stata fino
ai campi di prigionia e ritorna alle case, e la canzone che è stata
alle case e ritorna ai campi di prigionia. "Buon Natale, mamma,
buon Natale, Albertino", dice il babbo. "Ora ritornate a
casa: la vostra canzone vi riaccompagnerà." "E tu non
vieni, papà?" "Domani, Albertino..." "Domani o
morgen?" chiede la nonnina. "Morgen, mamma." "Papà,
perché non mi prendi con te?" "Neppure in sogno i bambini
debbono entrare laggiù. Promettimi che non verrai mai." "Te
lo prometto, papà." Se ne sono andati assieme alle loro
canzoni e il bosco è muto e deserto. Nevica e una nuova soffice
coltre si stende sull'altra indurita dal vento. Il cerchio verde
attorno al fuoco è ridiventato bianco. Scompare la traccia dei
sentieri. "Notte da prigionieri!" esclama il Passerotto
capofamiglia nascondendo la testa sotto l'ala.
E
nel muoversi fa cadere una foglia che scende volteggiando lentamente
e si posa nel bel mezzo della bianca radura. E si vede che, sulla
foglia, c'è scritto la parola FINE. Ed è una foglia stretta
stretta: Stretta la foglia - larga la via dite la vostra - che ho
detto la mia. E se non v'è piaciuta non vogliatemi male, ve ne
dirò una meglio - il prossimo Natale, e che sarà una favola senza
malinconia: "C'era una volta - la prigionia..."
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