Introduzione
Ogni
giorno celebro l’eucaristia. A volte nella mia chiesa parrocchiale
con centinaia di persone presenti, a volte nella cappella di Daybreak
con dei membri della mia comunità, a volte nell’ appartamento di
un hotel con pochi amici e a volte nel soggiorno di mio padre con lui
e me solamente.
Veramente pochissimi giorni passano senza che io dica: «Signore, pietà», senza le letture quotidiane e un po’ di riflessione, senza professione di fede, senza partecipare al corpo e al sangue di Cristo e senza preghiera per una giornata fruttuosa.
Eppure mi chiedo: So quello che sto facendo?
E quelli che stanno o siedono intorno alla mensa con me sanno a che cosa prendono parte? Avviene veramente qualcosa che dà forma alla nostra vita quotidiana -anche se è così familiare?
E che cosa ne è di tutti quelli che non sono lì con noi?
L’eucaristia è ancora qualcosa di cui sanno, a cui pensano o che desiderano? Come si collega questa celebrazione quotidiana alla vita quotidiana degli uomini e delle donne comuni, siano essi presenti o meno? È più di una bella cerimonia, di un rituale consolante o di una tranquilla routine? E infine, l’eucaristia dona vita, vita che ha la forza di superare la morte? Tutte queste domande sono molto reali per me; chiedono costantemente una risposta. Oh, sì! Ho avuto delle risposte, ma sembra che non durino molto a lungo nel mio mondo che cambia così velocemente.
L’eucaristia dà senso alla mia esistenza nel mondo, ma in quanto il mondo cambia, l’eucaristia continua a dargli significato?
Ho letto molti libri sull’eucaristia. Sono stati scritti dieci, venti, trenta, persino quaranta anni fa. Benché contengano molte profonde intuizioni, non mi aiutano più a fare l’esperienza dell’eucaristia come il centro della mia vita.
Oggi le vecchie domande sono lì di nuovo: come può tutta la mia vita essere eucaristica e come può la celebrazione quotidiana dell’eucaristia renderla tale? Devo raggiungere una mia risposta. Senza questa risposta l’ eucaristia può diventare poco più che una bella tradizione.
Veramente pochissimi giorni passano senza che io dica: «Signore, pietà», senza le letture quotidiane e un po’ di riflessione, senza professione di fede, senza partecipare al corpo e al sangue di Cristo e senza preghiera per una giornata fruttuosa.
Eppure mi chiedo: So quello che sto facendo?
E quelli che stanno o siedono intorno alla mensa con me sanno a che cosa prendono parte? Avviene veramente qualcosa che dà forma alla nostra vita quotidiana -anche se è così familiare?
E che cosa ne è di tutti quelli che non sono lì con noi?
L’eucaristia è ancora qualcosa di cui sanno, a cui pensano o che desiderano? Come si collega questa celebrazione quotidiana alla vita quotidiana degli uomini e delle donne comuni, siano essi presenti o meno? È più di una bella cerimonia, di un rituale consolante o di una tranquilla routine? E infine, l’eucaristia dona vita, vita che ha la forza di superare la morte? Tutte queste domande sono molto reali per me; chiedono costantemente una risposta. Oh, sì! Ho avuto delle risposte, ma sembra che non durino molto a lungo nel mio mondo che cambia così velocemente.
L’eucaristia dà senso alla mia esistenza nel mondo, ma in quanto il mondo cambia, l’eucaristia continua a dargli significato?
Ho letto molti libri sull’eucaristia. Sono stati scritti dieci, venti, trenta, persino quaranta anni fa. Benché contengano molte profonde intuizioni, non mi aiutano più a fare l’esperienza dell’eucaristia come il centro della mia vita.
Oggi le vecchie domande sono lì di nuovo: come può tutta la mia vita essere eucaristica e come può la celebrazione quotidiana dell’eucaristia renderla tale? Devo raggiungere una mia risposta. Senza questa risposta l’ eucaristia può diventare poco più che una bella tradizione.
Questo
piccolo libro è un tentativo di parlare a me stesso e ai miei amici
dell’eucaristia e di intessere una rete di relazioni tra la
celebrazione quotidiana dell’eucaristia e la nostra esperienza
umana quotidiana.
Ci inoltriamo in ogni celebrazione con un cuore pentito e preghiamo il Kyrie eleison. Ascoltiamo la Parola -le letture della Sacra Scrittura e l’omelia -, professiamo la nostra fede, offriamo a Dio i frutti della terra e del lavoro dell’uomo e riceviamo da Dio il corpo e il sangue di Gesù e, infine, siamo inviati al mondo con il compito di rinnovare la faccia della terra. L’evento eucaristico rivela le esperienze umane più profonde, quelle della tristezza, della sollecitudine, dell’invito, dell’intimità e dell’impegno.
Riassume la vita che siamo chiamati a vivere nel Nome di Dio. Solamente quando riconosciamo la ricca rete di connessioni tra l’eucaristia e la nostra vita nel mondo l’eucaristia può essere del mondo e la nostra vita ‘eucaristica’.
Ci inoltriamo in ogni celebrazione con un cuore pentito e preghiamo il Kyrie eleison. Ascoltiamo la Parola -le letture della Sacra Scrittura e l’omelia -, professiamo la nostra fede, offriamo a Dio i frutti della terra e del lavoro dell’uomo e riceviamo da Dio il corpo e il sangue di Gesù e, infine, siamo inviati al mondo con il compito di rinnovare la faccia della terra. L’evento eucaristico rivela le esperienze umane più profonde, quelle della tristezza, della sollecitudine, dell’invito, dell’intimità e dell’impegno.
Riassume la vita che siamo chiamati a vivere nel Nome di Dio. Solamente quando riconosciamo la ricca rete di connessioni tra l’eucaristia e la nostra vita nel mondo l’eucaristia può essere del mondo e la nostra vita ‘eucaristica’.
Come
base per le mie riflessioni sull’eucaristia e sulla vita
eucaristica userò la storia dei due discepoli che — andarono da
Gerusalemme a Emmaus e tornarono indietro.
Dal momento che il racconto parla di perdita, presenza, invito, comunione e missione, abbraccia i cinque aspetti principali della celebrazione eucaristica.
Insieme formano un movimento, il movimento che va dal risentimento alla gratitudine, vale adire, da un cuore indurito a un cuore grato.
Mentre l’eucaristia esprime questo movimento spirituale in modo molto conciso, la vita eucaristica è una vita in cui siamo invitati a far esperienza di e ad affermare questo movimento in ogni momento della nostra esistenza quotidiana.
Dal momento che il racconto parla di perdita, presenza, invito, comunione e missione, abbraccia i cinque aspetti principali della celebrazione eucaristica.
Insieme formano un movimento, il movimento che va dal risentimento alla gratitudine, vale adire, da un cuore indurito a un cuore grato.
Mentre l’eucaristia esprime questo movimento spirituale in modo molto conciso, la vita eucaristica è una vita in cui siamo invitati a far esperienza di e ad affermare questo movimento in ogni momento della nostra esistenza quotidiana.
In
questo libricino spero di sviluppare le cinque fasi di questo
movimento che va dal risentimento alla gratitudine in modo che
diventi chiaro che ciò che celebriamo e ciò che siamo chiamati a
vivere sono essenzialmente la stessa cosa.
Sulla
strada di Emmaus
Ed
ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un
villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus,
e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre
discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e
camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.
Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo
fra voi durante il cammino?". Si fermarono, col volto triste;
uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così
forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in
questi giorni?".
Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;
come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.
Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto". Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?". E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone".
Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane. (Luca 24,13-35)
Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;
come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.
Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto". Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?". E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone".
Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane. (Luca 24,13-35)
«Signore,
pietà»
Due
persone camminano insieme. Si può vedere dal modo in cui camminano
che non sono felici. I loro corpi sono ripiegati, il volto è
triste, i movimenti lenti. Non si guardano in faccia. Ogni tanto
pronunciano qualche parola, ma che non è diretta all’altro; Le
parole svaniscono nell’aria come suoni vani. Anche se seguono il
sentiero lungo il quale camminano, sembrano non aver alcuna meta.
Ritornano a casa, ma la loro casa non è più casa. Semplicemente
non hanno un altro luogo dove andare. La casa è diventata vuoto,
disillusione, disperazione.
Riescono
a malapena a immaginare che è stato soltanto pochissimi anni prima
che incontrarono qualcuno che aveva cambiato la loro vita, qualcuno
che aveva interrotto radicalmente la loro routine quotidiana
portando una vitalità nuova in ogni parte della loro esistenza.
Avevano
lasciato il loro paese, avevano seguito quel forestiero con i suoi
amici e avevano scoperto tutta una nuova realtà nascosta dietro il
velo delle loro ordinarie attività -una realtà in cui il perdono,
la guarigione e l’amore non erano più delle mere parole, ma delle
forze che toccavano la vera essenza della loro umanità. Il
forestiero di Nazareth aveva reso tutto nuovo.
Li
aveva trasformati in persone per le quali il mondo non era più un
peso, ma una sfida, non più una terra piena di insidie, ma un luogo
con infinite opportunità. Egli aveva portato gioia e pace nella
loro esperienza quotidiana. Aveva trasformato la loro vita in una
danza !
Ora
è morto, il suo corpo che aveva irradiato luce è stato distrutto
sotto le mani dei suoi torturatori. Le sue membra erano state
solcate dagli strumenti della violenza e dell’odio, i suoi occhi
erano diventati dei buchi vuoti, le sue mani avevano perduto la loro
presa, i piedi la stabilità.
Egli
era diventato un nessuno in mezzo a tanti nessuno. Tutto era
diventato nullità. Essi lo avevano perduto. Non soltanto lui, ma,
con lui, anche se stessi. L’energia che li aveva pervasi di giorno
e di notte li aveva lasciati completamente. Erano diventati due
esseri umani perduti che camminavano verso casa senza avere una
casa, ritornando a ciò che era diventato un ricordo triste.
Per
molti aspetti noi siamo come loro. Lo capiamo quando osiamo guardare
dentro il centro del nostro essere e là incontriamo il nostro
smarrimento.
Non
siamo sperduti anche noi?
Se
c’è una parola che riassume bene il nostro dolore questa è
‘perdita’. Abbiamo perduto così tanto! Alle volte sembra
persino che la vita sia soltanto una lunga serie di perdite.
Quando
siamo nati abbiamo perso la protezione del grembo materno, quando
siamo andati a scuola abbiamo perso la sicurezza della nostra vita
familiare, quando abbiamo ottenuto il nostro primo lavoro abbiamo
perso la libertà della giovinezza, quando ci siamo sposati o siamo
stati ordinati abbiamo perso la gioia di molte altre opzioni e
quando siamo invecchiati abbiamo perso la bellezza, i nostri vecchi
amici o la nostra fama.
Quando
ci siamo indeboliti o ammalati abbiamo perso l’indipendenza fisica
e quando moriremo perderemo tutto! E queste perdite fanno parte
della vita ordinaria! Ma la vita di chi è ordinaria?
Le
perdite che si sistemano in profondità nel nostro cuore e nella
nostra mente sono la perdita di intimità a causa delle separazioni,
la perdita di sicurezza a causa della violenza, la perdita
dell’innocenza a causa di maltrattamenti, la perdita di amici a
causa del tradimento, la perdita dell’amore a causa
dell’abbandono, la perdita della casa a causa della guerra, la
perdita del benessere a causa della fame, del caldo, del freddo, la
perdita dei bambini a causa delle malattie o di incidenti, la
perdita del proprio paese a causa di cambiamenti politici e la
perdita della vita a causa di terremoti, alluvioni, incidenti aerei,
bombardamenti e malattie.
Forse
molte di queste perdite terribili sono lontane dalla maggior parte
di noi; forse appartengono al mondo dei giornali e agli schermi
televisivi, ma nessuno può sfuggire alle dolorose perdite che fanno
parte della nostra esistenza quotidiana -la perdita dei nostri
sogni.
Avevamo
pensato così a lungo di noi stessi come persone di successo che
piacciono e che sono profondamente amate.
Avevamo
sperato una vita di generosità, di servizio e di abnegazione.
Avevamo
progettato di diventare persone pronte al perdono, disponibili e
sempre gentili.
Avevamo
una visione di noi stessi come di persone che portano la
riconciliazione e la pace.
Ma
in qualche modo -non siamo nemmeno certi di quello che sia successo
-abbiamo perduto il nostro sogno. Siamo diventati persone inquiete e
ansiose e ci aggrappiamo alle poche cose che avevamo raccolto e ci
scambiamo notizie di scandali politici, sociali ed ecclesiastici del
giorno. È questa perdita di spirito ad essere spesso la più dura
da riconoscere e la più difficile da confessare.
Ma
al di là di tutte queste cose c’ è la perdita di fede -la
perdita della convinzione che la nostra vita abbia significato. Per
un certo tempo siamo stati capaci di sopportare le nostre perdite e
di viverle persino con forza d’animo e con perseveranza perché le
abbiamo vissute come perdite che ci avrebbero portato più vicino a
Dio.
Le
pene e la sofferenza della vita erano sopportabili perché le
vivevamo come sistemi per mettere alla prova la nostra forza di
volontà e per rendere più profonda la nostra convinzione. Ma
andando avanti con l’età scopriamo che quello che ci ha sorretto
per molti anni -preghiera, devozione, sacramenti, vita di comunità
e una chiara conoscenza dell’ amore di Dio che guida -ha allentato
la sua presa su di noi.
Idee
a lungo serbate, discipline a lungo r praticate e abitudini a lungo
mantenute di celebrare la vita non riescono più a riscaldare il
nostro cuore e non comprendiamo più perché e come fossimo così
motivati. Ricordiamo il tempo in cui Gesù era così reale per noi
da non esserci alcun dubbio circa la sua presenza nella nostra vita.
Era
il nostro amico più intimo, nostro consigliere e nostra guida. Ci
dava conforto, coraggio e fiducia in noi stessi. Potevamo sentirlo,
sì, gustarlo e toccarlo.
E
ora? Non pensiamo più a lui molto a lungo, non desideriamo più
passare molte ore alla sua presenza. Non abbiamo più quella
speciale sensazione su di lui. Ci chiediamo persino se egli sia
qualcosa di più che semplicemente un personaggio di un libro di
racconti. Molti dei nostri amici ridono di lui, dileggiano il suo
nome o semplicemente lo ignorano. Gradualmente siamo arrivati a
renderci conto che anche per noi è diventato un estraneo -in
qualche modo lo abbiamo perso.
Non
sto cercando di dire che tutte queste perdite toccheranno la vita di
ognuno di noi. Ma mentre camminiamo insieme e ci ascoltiamo l’un
l’altro possiamo ben presto scoprire che molte, se non la maggior
parte di queste perdite fanno parte del viaggio, del nostro viaggio
o del viaggio dei nostri compagni.
Che
cosa fare di fronte alle nostre perdite?
Questa
è la prima domanda che ci troviamo ad affrontare. Le nascondiamo?
Dobbiamo
vivere come se non fossero reali?
Le
dobbiamo tenere lontane dai nostri compagni di viaggio?
Dobbiamo
convincere noi stessi o gli altri che le nostre perdite sono minime
rispetto a quanto abbiamo acquisito?
Dobbiamo
biasimare qualcuno?
Facciamo
tutto ciò la maggior parte delle volte, ma c’è un’altra
possibilità: la possibilità di piangere. Sì! Dobbiamo piangere le
nostre perdite. Non possiamo dire o fingere che non ci siano, ma
possiamo versare lacrime su di loro e permettere a noi stessi di
affliggerci profondamente.
Affliggersi
significa permettere alle nostre perdite di lacerare i sentimenti di
sicurezza e protezione e di condurci alla dolorosa verità della
nostra rottura, della nostra prostrazione. Il nostro dolore ci fa
sperimentare l’abisso della nostra vita in cui nulla c’è di
sistemato, chiaro, ovvio e tutto è in costante movimento e
cambiamento.
E
mentre sentiamo il dolore per le nostre perdite, il nostro cuore
afflitto apre il nostro occhio interiore ad un mondo in cui le
perdite sono sofferte molto al di là del nostro piccolo mondo della
famiglia, degli amici e dei colleghi.
È
il mondo dei carcerati, dei rifugiati, dei malati di AIDS, dei
bambini che muoiono di fame e degli innumerevoli esseri umani che
vivono in costante paura. Allora il dolore del nostro cuore affranto
ci collega al pianto e all’afflizione di un’umanità sofferente.
Allora il nostro pianto diventa più grande di noi.
Ma
in mezzo a tutto questo dolore c’è una voce strana, scioccante e
tuttavia sorprendente.
È
la voce di colui che dice: «Beati gli afflitti, perché saranno
consolati».
È
la notizia inaspettata: c’è una benedizione nascosta nella nostra
sofferenza. Non coloro che consolano sono beati, ma coloro che sono
afflitti! In qualche modo, in mezzo alle nostre lacrime è nascosto
un dono. In qualche modo, in mezzo alla nostra afflizione hanno
luogo i primi passi della danza. In qualche modo, il pianto che
sgorga dalle nostre perdite appartiene ai nostri canti di
gratitudine.
Arriviamo
all’eucaristia con il cuore spezzato da molte perdite, le nostre
ed anche quelle del mondo. Come i due discepoli che tornavano a casa
alloro villaggio diciamo: «Noi speravamo… ma abbiamo perso la
speranza. Tortura e morte sono invece venute». La nostra testa non
è più eretta, guardando in avanti, ma triste e rivolta a terra.
È
così che comincia il viaggio. La questione è se le nostre perdite
ci conducono al risentimento o alla gratitudine. Il risentimento è
un’opzione reale. Molti lo scelgono. Quando siamo colpiti da una
perdita dietro l’altra, è molto facile diventare disillusi,
arrabbiati, amareggiati e sempre più pieni di risentimento. Più
avanzano gli anni, più è grande la tentazione di dire:
«La
vita mi ha ingannato. Non c’è futuro per me, niente per cui
sperare. L’unica cosa da fare è di difendere il poco che mi è
rimasto, in modo da non perdere proprio tutto».
Il
risentimento è una delle forze più distruttive della nostra vita.
È
la rabbia fredda che si è sistemata al centro del nostro essere
indurendo il nostro cuore. Il risentimento può diventare un modo di
vita che pervade a tal punto le nostre parole e azioni da non
riconoscerlo più come tale.
Spesso
mi chiedo come potrei vivere se non ci fosse per niente del
risentimento nel mio cuore. Sono così abituato a parlare delle
persone che non mi piacciono, a nutrire i ricordi degli eventi che
mi hanno causato tanto dolore o ad agire con sospetto e paura tanto
che non so come sarebbe se non ci fosse nulla di cui lamentarsi e
nessuno di cui brontolare!
Il
mio cuore ha ancora molti angoli che nascondono i miei risentimenti
e mi chiedo se voglio veramente esserne privo. Che cosa farei senza
questi risentimenti? Ci sono molti momenti nella vita in cui ho l’
opportunità di alimentarli. Prima di colazione ho già avuto molti
sentimenti di sospetto e gelosia, molti pensieri riguardo a persone
che preferisco evitare e molti piccoli progetti per vivere la mia
giornata con varie difese.
Mi
chiedo se ci siano delle persone senza risentimenti.
Il
risentimento è una risposta così spontanea alle nostre molte
perdite. La tragedia è che c’è molto risentimento nascosto
all’interno della chiesa. È uno degli aspetti più paralizzanti
della comunità cristiana.
Eppure,
l’eucaristia presenta un’altra opzione. È la possibilità di
scegliere non risentimento, ma gratitudine. Piangere le nostre
perdite è il primo passo dal risentimento verso la gratitudine. Le
lacrime del nostro dolore possono ammorbidire il nostro cuore
indurito e aprirci alla possibilità di dire ‘grazie’.
La
parola ‘eucaristia’ significa letteralmente “azione di
rendimento di grazie”. Celebrare l’eucaristia e vivere una vita
eucaristica ha tutto a che fare con la gratitudine. Vivere
eucaristicamente significa. vivere la vita come un dono, un dono per
il quale si è grati. Ma la gratitudine non è la risposta più
spontanea alla vita, certamente non quando sperimentiamo la vita
come una serie di perdite!
Tuttavia,
il grande mistero che celebriamo nell’eucaristia e che viviamo in
una vita eucaristica è precisamente questo: attraverso il pianto
per le nostre perdite giungiamo a conoscere la vita come un dono.
La
bellezza e la preziosità della vita sono intimamente connesse alla
sua fragilità e mortalità. Possiamo farne esperienza ogni giorno –
quando prendiamo in mano un fiore, quando vediamo una farfalla
danzare nell’aria, quando accarezziamo un bambino piccolo.
Fragilità e doti ci sono entrambe e la nostra gioia è connessa ad
entrambe.
Ogni
eucaristia inizia con una forte richiesta di misericordia a Dio.
Probabilmente
non c’è preghiera nella storia del cristianesimo che sia stata
pregata così frequentemente e intimamente come l’invocazione
«Signore, pietà». È la preghiera che non solo sta all’inizio
di tutte le liturgie eucaristiche occidentali, ma che risuona anche
come un grido continuo in tutte le liturgie orientali. «Signore,
pietà», «Kyrie eleison», «Gospody Pomiloe». È il grido del
popolo di Dio, il grido del popolo dal cuore contrito.
Questa
accorata richiesta di misericordia è possibile soltanto quando
siamo disposti a confessare che in qualche modo, da qualche parte,
noi stessi abbiamo qualcosa a che fare con le nostre perdite.
Chiedere
pietà è riconoscere che prendersela con Dio, con il mondo o con
gli altri per le nostre perdite non rende piena giustizia alla
verità di chi noi siamo. Al momento siamo disposti ad assumerci la
responsabilità anche del dolore che non abbiamo causato diretta-
mente; il biasimo viene allora convertito in un riconoscimento del
nostro ruolo nella rottura e nella prostrazione umane.
La
preghiera per la misericordia di Dio procede da un cuore che sa che
questa rottura e questa prostrazione umane non sono una condizione
fatale della quale siamo diventati le tristi vittime, ma il frutto
amaro della scelta umana di dire ‘no’ all’amore.
I
discepoli che tornavano a casa a Emmaus erano tristi perché avevano
perduto colui nel quale avevano riposto tutte le loro speranze, ma
erano anche del tutto consapevoli che erano stati i loro capi a
crocifiggerlo. In qualche modo sapevano che il loro dolore era
collegato al male, un male che essi potevano riconoscere nel loro
stesso cuore.
Celebrare
l’ eucaristia richiede che noi, stando in questo mondo, accettiamo
la nostra corresponsabilità per il male che ci circonda e ci
pervade. Finché rimaniamo attaccati al lamentarci dei tempi
terribili in cui viviamo, alle terribili situazioni che dobbiamo
sopportare e al destino terribile che dobbiamo soffrire, non
possiamo giungere alla contrizione.
La
contrizione può svilupparsi soltanto da un cuore contrito. Quando
le nostre perdite sono semplicemente destino, i nostri miglioramenti
sono pura fortuna! Il destino non conduce alla contrizione, ne la
fortuna alla gratitudine.
In
realtà, i conflitti nella nostra vita personale come pure i
conflitti su scala regionale, nazionale o mondiale sono i nostri
conflitti e soltanto assumendoci la responsabilità per essi
possiamo andare al di là di essi scegliendo una vita di perdono,
pace e amore.
Il
Kyrie eleison -Signore, pietà -deve emergere da un cuore pentito. A
differenza di un cuore indurito, un cuore pentito è un cuore che
non biasima, ma riconosce la propria parte nella colpevolezza del
mondo, venendo così preparato a ricevere la misericordia di Dio.
Ricordo
ancora una meditazione serale alla televisione olandese durante la
quale il presentatore versava dell’acqua su della terra indurita e
inaridita, dicendo: «Guardate: questo terreno non può ricevere
l’acqua e in esso non può crescere nessun seme». Poi, dopo aver
frantumato il terreno con le sue mani e avervi versato di nuovo
dell’acqua, disse: «È soltanto il terreno frantumato che riesce
a ricevere l’ acqua e a far crescere e fruttificare il seme».
Dopo
aver visto questo, compresi cosa significasse iniziare l’
eucaristia con un cuore pentito, un cuore frantumato e aperto a
ricevere l’acqua della grazia di Dio.
Ma
come è possibile iniziare una celebrazione di ringraziamento con un
cuore spezzato? Il riconoscimento del nostro stato di peccato e la
consapevolezza della nostra co-responsabilità nel male del mondo
non ci paralizzano? Una vera ammissione di peccati non è troppo
debilitante? Sì; lo è!
Ma
nessun peccato può essere affrontato senza una qualche conoscenza
della grazia. Nessuna perdita può essere rimpianta senza una
qualche intuizione che troveremo nuova vita.
Quando
i discepoli sulla via di Emmaus raccontarono la loro storia
riguardante la loro grande perdita, essi raccontarono anche quella
strana storia delle donne che avevano trovato la tomba vuota e che
avevano visto degli angeli. Ma essi erano scettici e dubbiosi. Non
era stato crocifisso alcuni giorni prima? Non era finito tutto? Alla
fine non aveva vinto il male? Allora che cosa erano queste storie di
donne, secondo le quali egli era vivo ? Chi poteva crederci sul
serio? Ma poi hanno dovuto aggiungere ancora: «Alcuni dei nostri
sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne,
ma lui non l’hanno visto».
Questo
è in genere il nostro approccio all’eucaristia. Con uno strano
miscuglio di disperazione e speranza. Una parte di noi, guardando la
nostra vita e quella di chi ci circonda, vuol dire: «Dimentichiamo
tutto. È tutto finito.
Oh!
Sicuro che pensavamo a un mondo migliore, che immaginavamo una nuova
comunità d’amore e che sognavamo un tempo in cui tutta la gente
sarebbe vissuta insieme in pace.
Ma
ora sappiamo tutta la verità. Ora noi sappiamo che tutto questo era
poco più che un’illusione. Il nostro carattere immutabile e le
persistenti cattive abitudini, le nostre gelosie e i risentimenti, i
nostri momenti di rabbia e di vendetta, la nostra violenza
incontrollabile, gli innumerevoli sintomi di crudeltà umana, i
crimini, la tortura, le guerre, gli sfruttamenti -tutto ciò ci ha
sicuramente risvegliato all’amara verità che la nostra giovanile
speranza è stata crocifissa».
Tuttavia,
le altre storie rimangono e continuano a fare la loro comparsa.
Storie di alcune persone che 1’hanno vista diversamente, storie di
gesti di perdono e guarigione, storie di bontà, di bellezza e di
verità.
E
mentre ascoltiamo attentamente le voci più profonde nel nostro
cuore, ci rendiamo conto che sotto al nostro scetticismo e cinismo
c’è un desiderio ardente di amore, unità e comunione che non
scompare nemmeno quando ci rimangono così tanti argomenti per
abbandonarlo tra i ricordi sentimentali .dell’infanzia.
«Signore,
pietà; Signore, pietà; Signore, pietà». È la preghiera che
continua ad emergere dalla profondità del nostro essere e a
sfondare le pareti del nostro cinismo.
Sì!
Siamo peccatori, peccatori senza speranza; tutto è perduto e non
rimane niente delle nostre speranze e dei nostri sogni.
Eppure
c’è una voce: «Ti basta la mia grazia» e noi chiediamo di nuovo
la guarigione del nostro cuore cinico e osiamo credere che
veramente, in mezzo al nostro pianto, possiamo trovare un dono di
cui essere grati.
Ma
per questa scoperta abbiamo bisogno di un compagno speciale!
«Parola
di Dio»
Mentre
i due viaggiatori sono in cammino verso casa piangendo ciò che hanno
perduto, Gesù si accosta e cammina con loro, ma i loro occhi sono
incapaci di riconoscerlo. All’improvviso non ci sono più due, ma
tre persone che camminano e tutto diventa diverso.
I
due amici non guardano più in basso la strada davanti a loro, ma
negli occhi dello sconosciuto che si è unito a loro e che ha
chiesto: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo fra voi
durante il cammino?».
C’è
dello stupore, persino dell’agitazione: «Tu solo sei così
forestiero da non sapere ciò che è accaduto! ».. Poi segue un
lungo racconto: la storia riguardo a ciò che hanno perduto, la
storia riguardo a una notizia sconcertante di una tomba vuota.
Qui
almeno c’è qualcuno ad ascoltare, qualcuno che è disponibile ad
ascoltare le parole di disillusione, di tristezza e di totale
confusione. Niente sembra aver senso. Ma è meglio raccontarlo a uno
sconosciuto che raccontarsi l’un l’altro i fatti noti.
Poi
avviene qualcosa! Qualcosa cambia. Lo sconosciuto comincia a parlare
e le sue parole richiedono una seria attenzione. Egli li aveva
ascoltati; ora sono loro ad ascoltare lui. Le sue parole sono molto
chiare e dirette. Egli parla di cose che già sapevano: il loro lungo
passato con tutto quello che era accaduto durante i secoli prima che
essi nascessero, la storia di Mosè che condusse il loro popolo alla
libertà e la storia dei profeti che hanno richiamato il loro popolo
a non abbandonare la libertà acquistata a caro prezzo.
Era
una storia tutta troppo familiare. Eppure suonava come se la stessero
ascoltando per la prima volta.
La
differenza stava nel narratore! Uno sconosciuto , comparso da non si
sa dove eppure uno che, in qualche modo, sembra più vicino di
chiunque avesse sempre raccontato quella storia.
La
perdita, il dolore, la colpa, la paura, i barlumi di speranza e le
molte domande senza risposta che esigevano attenzione nella loro
mente inquieta, tutto ciò è stato innalzato da questo sconosciuto e
posto nel contesto di una storia molto più ampia della loro.
Ciò
che era sembrato confondere così tanto cominciava ad offrire
orizzonti nuovi; ciò che era sembrato così opprimente cominciava a
farsi sentire liberante; ciò che era sembrato così estremamente
triste cominciava ad assumere l’aspetto della gioia!
Mentre
parlava loro, pian piano cominciarono a capire che la loro piccola
vita non era poi così piccola come essi pensavano, ma parte di un
grande mistero che non solo abbracciava molte generazioni, ma che si
estendeva dall’eternità all’eternità.
Lo
sconosciuto non ha detto che non c’ era motivo di tristezza, ma che
la loro tristezza era parte di una tristezza più ampia in cui era
nascosta la gioia.
Lo
sconosciuto non ha detto che la morte che stavano piangendo non fosse
reale, ma che si trattava di una morte che inaugurava persino più
vita -vita vera. Lo sconosciuto non ha detto che non avevano perso un
amico che aveva dato loro nuovo coraggio e nuova speranza, ma che
questa perdita avrebbe creato una via per una relazione che sarebbe
andata molto al di là di qualsiasi amicizia di cui essi avessero mai
fatto esperienza.
Ne
lo sconosciuto ha mai negato ciò che essi gli hanno detto. Al
contrario, egli lo ha considerato come parte di un evento più ampio
nel quale ad essi era permesso svolgere un ruolo unico.
Tuttavia,
questa non è stata una conversazione consolante.
Lo
sconosciuto era forte, diretto e tutt’altro che sentimentale. Non
c’erano consolazioni facili. È sembrato persino che egli rendesse
ancora più profonda la loro afflizione, con una verità che
potrebbero aver preferito non conoscere. Dopo tutto, un continuo
lamentarsi attrae di più che affrontare la realtà.
Ma
lo sconosciuto non aveva la minima paura di sfondare le loro difese e
di chiamarli oltre la loro ristrettezza di mente e di cuore.
«Stolti»,
disse, «tardi di cuore nel credere». Queste parole vanno dirette al
cuore dei due uomini. ‘Stolti’ è una parola dura, una parola che
ci offende e che ci mette sulle difensive.
Ma
può anche sfondare una copertura fatta di paura e di imbarazzo e
condurre poi a tutta una nuova conoscenza dell’essere umani.
È
una chiamata al risveglio, è uno strappare via le bende dagli occhi,
un demolire gli inutili dispositivi di protezione. Voi stolti, non
vedete -non sentite – non capite?
Continuate
a guardare una piccola boscaglia e non vi rendete conto che state in
cima a una montagna che vi offre una visione universale.
Continuate
a fissare lo sguardo su un ostacolo e non siete disposti a
considerare che l’ ostacolo è stato messo lì per mostrarvi la
strada giusta.
Continuate
a lamentarvi delle vostre perdite e non vi rendete conto che queste
perdite ci sono per mettervi in grado di ricevere il dono della vita.
Lo
sconosciuto ha dovuto chiamarli ‘stolti’ per farli vedere. E qual
è la sfida? Aver fiducia. Non credevano che la loro esperienza fosse
qualcosa di più che l’esperienza di una perdita irrecuperabile.
Credevano
che non ci fosse altro da fare che tornare a casa e riprendere il
loro vecchio modo di vivere. «Stolti e tardi di cuore nel credere».
Tardi nel credere: tardi nel confidare nel piano più ampio delle
cose; tardi nello scavalcare i loro molti lamenti per scoprire
l’ampio spettro di opportunità nuove; tardi nell’ andare oltre
le sofferenze del momento, per vederle come parte di un processo di
guarigione molto più ampio.
Questa
lentezza non è una lentezza innocente perché ci può intrappolare
nei nostri lamenti e nella nostra ristrettezza di mente e di cuore.
È
la lentezza che può impedirci di scoprire il panorama in cui
viviamo. È possibile giungere al termine della nostra vita senza
aver mai saputo chi siamo e cosa dovremmo diventare. La vita è
breve.
Non
possiamo aspettarci semplicemente che il poco che vediamo, sentiamo e
sperimentiamo ci possa rivelare tutta la nostra esistenza. Abbiamo la
vista troppo corta e siamo troppo duri di orecchi per questo.
Qualcuno
deve aprire i nostri occhi e i nostri orecchi per aiutarci a scoprire
cosa c’ è I al di là della nostra percezione. Qualcuno deve far
ardere i nostri cuori !
Gesù
si unisce a noi mentre camminiamo nella tristezza e ci spiega le
Scritture. Ma non sappiamo che è Gesù. Pensiamo che sia uno
sconosciuto che conosce meno di noi ciò che sta avvenendo nella
nostra vita.
Eppure,
discerniamo qualcosa, percepiamo qualcosa, intuiamo qualcosa: il
nostro cuore comincia ad ardere. Nel momento stesso in cui è con noi
non riusciamo a capire del tutto ciò che sta succedendo. Non
possiamo parlarne insieme.
Più
tardi, sì, più tardi, quando tutto è finito, potremmo essere in
grado di dire: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre
conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le
Scritture?». Ma quando cammina con noi è tutto troppo vicino per la
riflessione.
È
con questa presenza misteriosa che la ‘liturgia della Parola vuole
metterci in contatto durante ogni eucaristia ed è questa stessa
presenza misteriosa che ci viene costantemente rivelata mentre
viviamo la nostra vita eucaristicamente.
Le
letture dall’Antico e dal Nuovo Testamento e l’omelia che segue
queste letture ci vengono fornite per discernere la sua presenza
mentre cammina con noi nella nostra tristezza.
Ogni
giorno ci sono letture diverse; ogni giorno c’ è una parola
diversa di spiegazione o esortazione.
Ogni
giorno ci sono parole ad accompagnarci. Non possiamo vivere senza
parole che vengono da Dio, parole per tirarci fuori dalla nostra
tristezza ed innalzarci fino ad un luogo da dove possiamo scoprire
ciò che stiamo veramente vivendo.
È
importante sapere che, per quanto queste parole, lette o parlate,
siano là per informarci, istruirci o ispirarci, il loro primo
significato è che ci rendono presente Gesù stesso.
Nel
nostro viaggio Gesù ci spiega i brani che si riferiscono a lui. Sia
che leggiamo il libro dell’Esodo, dei Salmi, i Profeti o i Vangeli,
sono tutti lì per far ardere il nostro cuore.
La
presenza eucaristica è, prima di tutto, una presenza attraverso la
parola. Senza quella presenza attraverso la parola, non saremmo
capaci di riconoscere la sua presenza nello spezzare il pane.
Viviamo
in un mondo in cui le parole sono a buon mercato.
Le
parole ci divorano. Nelle pubblicità, nel- le affissioni e nei
segnali stradali, negli opuscoli, nei dépliant e nei libri, sulle
lavagne, sulle lavagne luminose, sulle lavagne a fogli girevoli,
sugli schermi e pannelli informatori.
Le
parole si muovono, vibrano, si girano, diventano più grandi, più
luminose e più piene. Ci vengono presentate in tutte le misure e in
tutti i colori -ma alla fine diciamo: «Beh! Sono solo parole».
Aumentate
in quantità, le parole sono diminuite di valore. Il loro valore
principale sembra essere informativo.
Le
parole ci informano. Abbiamo bisogno delle parole al fine di sapere
cosa fare o come farlo, dove andare e come andarci.
Non
sorprende, dunque, che le parole nell’eucaristia siano ascoltate
principalmente come parole che ci informano. Ci raccontano una
storia, istruiscono, ammoniscono.
Dal
momento che la maggior parte di noi ha già sentito queste parole,
raramente queste ci toccano in profondità. Spesso prestiamo loro
poca attenzione; sono diventate troppo familiari. Non ci aspettiamo
di essere sorpresi o toccati.
Le
ascoltiamo come <<da solita vecchia storia>> -tanto lette
da un libro che pronunciate da un pulpito.
La
tragedia, allora, è che la parola perde la sua qualità
sacramentale.
La
parola di Dio è sacramentale. Ciò significa che è sacra e in
quanto parola sacra produce ciò che significa.
Quando
Gesù parlava ai due tristi viaggiatori lungo la strada e spiegava
loro le parole delle Scritture che si riferivano a lui stesso, i loro
cuori hanno cominciato ad ardere, vale a dire, hanno fatto esperienza
della sua presenza. Parlando di se si è reso loro presente. Con le
sue parole ha fatto molto di più che farli semplicemente pensare a
lui o istruirli su di se o infondere loro il suo ricordo. Con le sue
parole è diventato veramente presente per loro.
Questo
è ciò che intendiamo per qualità sacramentale della parola.
La
parola crea ciò che esprime. La parola di Dio è sempre
sacramentale. Nel libro della Genesi ci viene detto che Dio ha creato
il mondo, ma in ebraico le parole per ‘parlare’ e per ‘creare’
sono identiche. Tradotto letteralmente: «Dio disse luce e luce fu».
Per
Dio parlare è creare. Quando diciamo che la parola di Dio è sacra,
intendiamo dire che la parola di Dio è piena della presenza di Dio.
Sulla strada di Emmaus Gesù è diventato presente attraverso la sua
parola ed è stata quella presenza a trasformare la tristezza in
gioia e il pianto in danza.
Questo
è ciò che accade in ogni eucaristia. La parola letta e pronunciata
vuole condurci alla presenza di Dio e trasformare il nostro cuore e
la nostra mente. Spesso pensiamo alla parola come ad un’esortazione
ad uscire per cambiare la nostra vita. Ma la vera forza della parola
si trova non in come la applichiamo alla nostra vita dopo che l’
abbiamo udita, ma nel suo potere di trasformazione che la sua azione
‘divina opera mentre ascoltiamo.
I
Vangeli sono pieni di esempi della presenza di Dio nella parola.
Personalmente, sono sempre toccato dal racconto di Gesù nella
sinagoga di Nazareth. Là lesse da Isaia:
Lo
Spirito del Signore è sopra di me.
per
questo mi ha consacrato con l’unzione
e
mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio
per
proclamare ai prigionieri la liberazione
e
ai ciechi la vista;
per
rimettere in libertà gli oppressi
e
predicare un anno di grazia del Signore.
(Luca
4) 18-19)
Dopo
aver letto queste parole, Gesù disse: «Oggi si è adempiuta questa
Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi». Immediatamente
diventa chiaro che i poveri, i prigionieri, i ciechi e gli oppressi
non sono delle persone da qualche parte fuori dalla sinagoga che,
prima o poi, saranno liberate; sono le persone che ascoltano. È
nell’ascolto che Dio si fa presente e guarisce.
La
parola di Dio non è una parola da impiegare nella nostra vita
quotidiana a una qualche data posteriore; è una parola per sanarci
attraverso e nel nostro ascolto, qui e ora.
Le
domande quindi sono:
come
viene Dio a me, mentre ascolto la parola?
dove
posso discernere la mano risanatrice di Dio, che mi tocca attraverso
la parola?
come
vengono trasformati la mia tristezza, il mio dolore e il mio pianto,
proprio in questo momento?
percepisco
il fuoco dell’amore di Dio, che purifica il mio cuore e che mi dà
vita nuova?
Queste
domande mi conducono al sacramento della parola, il luogo sacro della
presenza reale di Dio.
All’inizio
tutto questo può suonare davvero nuovo per una persona che vive in
una società in cui il valore principale della parola è la sua
applicabilità.
Ma
la maggior parte di noi già conosce, generalmente in modo inconscio,
la forza risanatrice o distruttiva della parola parlata.
Quando
qualcuno mi dice: «Ti voglio bene» o «Ti odio», non ricevo
semplicemente una qualche utile informazione. Queste parole fanno
qualcosa in me. Fanno agitare il sangue, battere il cuore, accelerare
il respiro. Mi fanno sentire e pensare diversamente. Mi innalzano a
un nuovo modo di essere e mi danno un’ altra conoscenza di me
stesso.
Queste
parole hanno il potere di sanarmi odi distruggermi.
Quando
Gesù si unisce a noi sulla strada e ci spiega le Scritture, dobbiamo
ascoltare con tutto il nostro essere, confidando nel fatto che la
parola che ci ha creato ci sanerà anche. Dio vuole farsi presente a
noi e così trasformare radicalmente il nostro cuore pieno di paura.
La
qualità sacramentale della parola rende Dio presente non soltanto
come un’intima presenza personale, ma anche come una presenza che
ci dà un posto nella grande storia della salvezza.
Il
Dio che si fa a noi presente non è solo il Dio del nostro cuore, ma
anche il Dio di Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lia, il
Dio di Isaia e Geremia, il Dio di Davide e Salomone, il Dio di Pietro
e Paolo, di S. Francesco e Dorothy Day -il Dio il cui amore
universale ci viene rivelato in Gesù, il compagno del nostro
viaggio.
La
parola dell’eucaristia ci fa partecipi della grande storia della
nostra salvezza. Le nostre piccole storie vengono innalzate nella
grande storia di Dio e là viene assegnato il loro posto, che è
unico.
La
parola ci innalza e ci fa vedere che la nostra vita quotidiana e
ordinaria è in effetti vita sacra che svolge un ruolo necessario
nell’adempimento delle promesse di Dio. La parola scritta e parlata
dell’eucaristia ci permette di dire insieme a Maria: «Ha guardato
1’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi
chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente…
ricordandosi della sua misericordia come aveva promesso ai nostri
padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre». .
Qui
vediamo che l’eucaristia, come la celebriamo nella sacra liturgia,
ci chiama a una vita eucaristica, una vita in cui siamo sempre
consapevoli del nostro ruolo nella storia sacra della presenza
redentrice di Dio attraverso tutte le generazioni.
La
grande tentazione della nostra vita è di negare il nostro ruolo come
popolo eletto e così ci lasciamo intrappolare dalle preoccupazioni
della nostra vita quotidiana.
Senza
la parola che in continuazione ci innalza come popolo eletto di Dio,
rimaniamo, o diventiamo, persone piccole attaccate ai lamenti che
emergono dalla nostra lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Senza
la parola che fa ardere il nostro cuore, non possiamo fare molto di
più che tornare a casa, rassegnati al triste fatto che non c’è
niente di nuovo sotto il sole.
Senza
la parola, la nostra vita ha poco senso, poca vitalità e poca
energia.
Senza
la parola rimaniamo persone di poco conto che si interessano solo di
cose di poco conto, che vivono una vita di poco conto e muoio- no una
morte di poco conto.
Senza
la parola possiamo anche fare notizia nel giornale locale o persino
nazionale per un giorno o due, ma non ci sarà nessuna generazione a
chiamarci beati.
Senza
la parola le nostre pene e sofferenze isolate possono estinguere lo
Spirito che è in noi e renderci vittime dell’amarezza e del
risentimento.
Abbiamo
bisogno della parola parlata e spiegata da colui che si unisce a noi
lungo la strada e che ci fa conoscere la sua presenza -una presenza
possibile da discernere dapprima nel nostro cuore ardente. È questa
presenza che ci incoraggia a lasciar andare il nostro cuore indurito
per diventare grati. Come persone grate possiamo invitare
nell’intimità della nostra casa colui che ha fatto ardere il
nostro cuore.
«Credo»
Mentre
ascoltano lo sconosciuto, qualcosa cambia dentro i due viaggiatori
tristi. Non solo percepiscono una speranza nuova e una gioia nuova
che toccano il loro essere più intimo, ma la loro andatura è
diventata meno esitante. Lo sconosciuto ha dato loro un nuovo senso
di direzione. “Andare a casa” non significa più ritornare
all’unico luogo rimasto. La casa è diventata più che un riparo
necessario, una casa dove possono stare fin quando non sanno che
altro fare..
Lo
sconosciuto ha dato alloro viaggio un significato nuovo. La loro casa
vuota è diventata un luogo di accoglienza, un luogo per ricevere gli
ospiti, un luogo per continuare la conversazione che avevano iniziato
in modo così inaspettato.
Quando
senti solo le tue perdite, allora tutto intorno a te parla di queste.
Gli alberi, i fiori, le nuvole, le colline e le valli, tutto riflette
la tua tristezza. Tutto sembra nel pianto.
Quando
la tua amica più cara è morta, tutto nella natura parla di lei. Il
vento sussurra il suo nome, i rami, appesantiti dalle foglie,
piangono per lei e le dalie e i rododendri offrono i loro petali per
coprire il suo corpo.
Ma
se continui a camminare avanti con qualcuno al tuo fianco, aprendo il
cuore alla verità misteriosa che la morte della tua amica non era
solo la fine, ma anche un nuovo inizio, non soltanto la crudeltà del
destino, ma la via necessaria alla libertà, non soltanto una brutta
e orribile distruzione, ma una guida sofferente verso la gloria,
allora puoi discernere gradualmente una nuova canzone che risuona
attraverso il creato e andare a casa corrisponde al desiderio più
profondo del tuo cuore.
Di
tutte le parole che lo sconosciuto ha detto, ce ne è stata una che
resiste nella mente dei viaggiatori: ‘gloria’. «Non bisognava»,
aveva detto, «che il Cristo sopportasse queste sofferenze per
entrare nella sua gloria?».
Il
loro cuore e la mente erano ancora così pieni di immagini di morte e
distruzione e ora ecco quella parola: ‘gloria’. Non sembrava
adatta e tuttavia, detta da questo sconosciuto, incendia il loro
cuore e fa loro vedere ciò che non erano riusciti a vedere prima.
Era come se avessero visto soltanto il letame che copriva la terra e
mai i frutti degli alberi che ne erano derivati. Gloria, luce,
splendore, bellezza, verità -tutto sembrava così irreale e
irraggiungibile!
Ma
ora c’erano dei suoni nuovi nell’aria e colori nuovi nei campi.
Andare a casa era diventata una buona cosa. La casa ci chiama. La
casa è dove c’ è il tavolo -il tavolo per sedervisi intorno, per
mangiare e bere con gli amici !
E
lo sconosciuto? non è diventato un amico?
Egli
fa ardere il nostro cuore, ci apre gli occhi e gli orecchi.
È
il nostro compagno di viaggio! La casa è diventata un bel posto per
far venire l’amico. Allora dicono: «Resta con noi perché si fa
sera e il giorno già volge al declino». Egli non chiede un invito.
Non domanda un posto dove stare. In effetti, egli fa come se dovesse
andare più lontano. Ma essi insistono per farlo entrare; quasi lo
spingono per farlo stare con loro. Egli accetta. Entra per rimanere
con loro.
Forse
non siamo abituati a pensare all’eucaristia come a un invito a Gesù
di rimanere con noi. Siamo più inclini a pensare a Gesù che invita
noi alla sua casa, alla sua tavola, al suo pasto.
Ma
Gesù vuole essere invitato. Senza un invito proseguirà per altri
luoghi. È molto importante rendersi conto che Gesù non si impone
mai su di noi.
Finché
non lo invitiamo, egli rimarrà sempre uno sconosciuto, forse uno
sconosciuto molto affascinante e intelligente con il quale abbiamo
avuto una conversazione interessante, ma comunque uno sconosciuto.
Anche
dopo che ha portato via molta della nostra tristezza e dopo che ci ha
mostrato che la nostra vita non è così piccola e insignificante
come pensavamo, egli può ancora rimanere quello che abbiamo
incontrato per strada, la persona straordinaria che ha attraversato
la nostra strada e che ha parlato con noi per un po’, la
personalità insolita di cui possiamo parlare alla nostra famiglia e
agli amici.
Ricordo
molti incontri con persone che mi hanno fatto ardere il cuore, ma che
io non ho invitato a casa mia. A volte avviene durante un lungo
viaggio in aereo, a volte in treno, a volte a una festa.
Successivamente dico ai miei amici: «Fatemi raccontare chi ho
incontrato oggi. Una persona proprio affascinante. Ha detto cose così
straordinarie che non potevo credere ai miei orecchi. Sembrava che mi
conoscesse intimamente. Sì! Riusciva a leggere i miei pensieri e a
parlarmi come se mi conoscesse da tanto tempo.
Molto
speciale, proprio unico, persino stupefacente. Mi sarebbe piaciuto
che anche voi lo aveste potuto incontrare! Ma ha proseguito… Non so
per dove!».
Per
quanto questi sconosciuti possano essere interessanti, stimolanti e
ispiranti, se non li invito a entrare in casa mia, in realtà non
succede niente. Potrei avere alcune nuove idee, ma la mia vita rimane
fondamentalmente la stessa.
Senza
un invito, che è l’espressione del desiderio di una relazione
duratura, la buona notizia che abbiamo udito non può portare dei
frutti duraturi. Rimane ‘notizia’ tra i tanti tipi di notizie che
ci bombardano ogni giorno.
È
una delle caratteristiche della nostra società contemporanea che gli
incontri, per quanto possano essere belli, non diventano relazioni
profonde.
E
così la nostra vita è piena di buoni consigli, idee utili,
prospettive meravigliose, ma tutto ciò si aggiunge semplicemente
alle tante altre idee e prospettive lasciandoci “non compiuti”.
In
una società con un tale sovraccarico informativo, anche gli incontri
più significativi possono essere ridotti soltanto a ‘qualcosa
d’interessante’ in mezzo a tante altre cose interessanti.
Soltanto
con un invito a «entrare per rimanere con me» un incontro
interessante può svilupparsi in una relazione trasformante.
Uno
dei momenti più decisivi dell’eucaristia -e della nostra vita -è
il momento dell’invito. Diciamo: «È stato bello incontrarti;
grazie per la tua capacità di penetrazione, del tuo consiglio e del
tuo incoraggiamento. Spero che il resto del tuo viaggio vada bene.
Arrivederci!». O diciamo: «Ti ho sentito, il mio cuore sta
cambiando… Per favore entra in casa mia per vedere dove e come
vivo!». Questo invito a venire a vedere è l’invito che fa tutta
la differenza.
Gesù
è una persona molto interessante; le sue parole sono piene di
sapienza. La sua presenza riscalda il cuore. La sua gentilezza e
benevolenza sono profondamente commoventi. Il suo messaggio è una
vera sfida.
Ma
lo invitiamo in casa nostra?
Vogliamo
che lui venga a conoscerci dietro le pareti della nostra vita più
intima?
Vogliamo
presentarlo a tutte le persone con cui viviamo?
Vogliamo
che ci veda nella nostra vita di tutti i giorni?
Vogliamo
che ci tocchi dove siamo più vulnerabili?
Vogliamo
che entri nelle nostre camere nel retro di casa nostra, camere che
noi stessi preferiamo tenere chiuse al sicuro?
Vogliamo
veramente che lui resti con noi quando si fa sera e il giorno già
volge al declino?
L’eucaristia
richiede questo invito. Avendo ascoltato la sua parola, dobbiamo
essere capaci di dire di più che: «Tutto questo è interessante!».
Dobbiamo osare dire:
«Mi
fido di te; mi affido a te con tutto il mio essere, corpo, mente e
anima.
Non
voglio tenerti nascosto alcun segreto.
Puoi
vedere ogni cosa che faccio e sentire ogni cosa che dico.
Non
voglio più che tu sia uno sconosciuto.
Voglio
che tu diventi il mio amico più intimo.
Voglio
che tu mi conosca, non soltanto per come cammino lungo la strada e
come parlo ai miei compagni di viaggio, ma anche per come mi trovo
solo con i miei sentimenti e pensieri più profondi.
E,
soprattutto, voglio arrivare a conoscerti non solo come mio compagno
di viaggio, ma come il compagno della mia anima».
Dire
questo non è facile, poiché siamo persone piene di paure e non
affidiamo facilmente ogni parte di noi stessi agli altri. La nostra
paura di aprirci completamente e anche la paura della nostra
vulnerabilità è uguale al nostro desiderio di conoscere e di essere
conosciuti.
Nascondo
persino a me stesso alcune mie parti! Ci sono pensieri, sentimenti ed
emozioni che mi turbano così tanto che preferisco vivere come se non
ci fossero.
Se
non mi fido di me stesso come posso fidarmi di chiunque altro? Eppure
il mio desiderio più profondo è di amare e di essere amato e ciò è
possibile sol- tanto se sono disposto a conoscere e a essere
conosciuto.
Gesù
si rivela a noi come il Buon Pastore che ci conosce intimamente e ci
ama. Ma vogliamo essere conosciuti da lui?
Vogliamo
che entri liberamente in ogni stanza della nostra vita interiore?
Vogliamo
che veda il nostro lato cattivo come anche quello buono, le nostre
luci e le nostre ombre?
O
preferiamo che prosegua oltre, senza entrare in casa nostra? Infine,
la domanda è: «Ci fidiamo realmente di lui affidandogli ogni parte
di noi stessi?».
Quando,
dopo le letture e l’omelia, diciamo: «Credo in Dio, Padre, Figlio
e Spirito Santo, nella chiesa cattolica, la comunione dei santi, il
perdono dei peccati, la resurrezione dei morti e la vita del mondo
che verrà», invitiamo Gesù a casa nostra e ci affidiamo alla sua
Via.
Come
momento della celebrazione eucaristica e, ancora di più, della
nostra vita eucaristica, il Credo è molto di più che un riassunto
della dottrina della chiesa. È una professione di fede. E la ‘fede’,
come mostra la parola greca pistis, è un atto di fiducia.
È
il grande ‘Sì’. Dice ‘Sì’ a colui che ci ha spiegato le
Scritture come Scritture che si riferiscono a lui. È questo ‘Sì’
profondo, non soltanto alle parole che ha detto, ma anche a lui che
le ha dette, che ci porta finalmente alla mensa. Se riusciamo a dire:
«Sì! Ci fidiamo di te e affidiamo a te la nostra vita», andiamo
oltre il semplice camminare alla sua presenza; abbiamo il coraggio di
aprirci alla comunione con lui.
I
due amici di viaggio invitano, anzi, insistono affinché lo
sconosciuto rimanga con loro. «Sii nostro invitato», dicono.
Vogliono essere i suoi ospiti. Invitano lo sconosciuto a mettere da
parte il suo essere sconosciuto per diventare un loro amico. Ecco
cosa significa la vera ospitalità: offrire un posto sicuro, dove lo
sconosciuto può diventare un amico. C’erano due amici e uno
sconosciuto. Ma ora ci sono tre amici, i quali partecipano alla
stessa mensa.
La
tavola è il luogo dell’intimità.
Intorno
alla tavola ci scopriamo a vicenda.
È
il luogo dove preghiamo.
È
il luogo dove chiediamo: «Come ti è andata la giornata?».
È
il luogo dove mangiamo e beviamo insieme dicendo: «Avanti, prendine
ancora!».
È
il luogo delle storie vecchie e nuove.
È
il luogo per il sorriso e le lacrime. La tavola è anche il luogo in
cui viene sentita nel modo più doloroso la distanza.
È
il luogo in cui i figli sentono la tensione tra i genitori, dove
fratelli e sorelle esprimono la loro rabbia e le loro gelosie, dove
si formulano accuse e dove piatti e bicchieri diventano strumenti di
violenza. Intorno alla tavola, sappiamo se c’ è amicizia e
comunità o odio e divisione.
Proprio
perché la tavola è il luogo dell’intimità per tutti i membri
della casa, è anche il luogo in cui l’assenza di quella intimità
viene rivelata nel modo più doloroso.
Quando,
la sera prima della sua morte, Gesù si riunì con i suoi discepoli
intorno alla tavola, rivelò sia intimità che distanza. Egli
condivise il pane e il calice come segno di amicizia, ma disse anche:
«Ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola».
Quando
ripenso alla mia giovinezza, molto spesso penso ai pasti della nostra
famiglia, specialmente nei giorni di festa. Ricordo le decorazioni
natalizie, le torte di compleanno, le candele pasquali e i volti
sorridenti. Ma ricordo anche le parole di rabbia, l’andarsene via,
le lacrime, l’imbarazzo e i silenzi apparentemente infiniti.
Siamo
più vulnerabili quando dormiamo o mangiamo insieme. Letto e tavola
sono i due luoghi di intimità. Anche i due luoghi di più grande
dolore.
E,
forse, di questi due luoghi, la tavola è il più importante perché
è il luogo dove si riuniscono tutti coloro che fanno parte della
casa e dove la famiglia, la comunità, l’amicizia, l’ospitalità
e la vera generosità possono esprimersi ed essere rese reali.
Gesù
accetta l’invito a entrare nella casa dei suoi compagni di viaggio
e siede a tavola con loro. Gli offrono il posto d’onore. Egli è al
centro. Loro gli stanno a fianco. Loro lo guardano. Lui li guarda.
C’è intimità, amicizia, comunità. Poi avviene qualcosa di nuovo.
Qualcosa difficile da notare per un occhio non allenato. Gesù è
l’inviato dei suoi discepoli, ma non appena entra nella loro casa,
egli diventa il loro ospite! E in quanto loro ospite li invita a
entrare nella piena comunione con lui.
«Prendete
e mangiate»
Quando
Gesù entra nella casa dei suoi discepoli, questa diventa la sua
casa. L’invitato diventa ospite. Lui che prima è stato invitato
ora invita. I due discepoli che si sono fidati dello sconosciuto fino
a farlo entrare nel loro spazio intimo ora sono condotti nella vita
intima del loro padrone di casa.
«Mentre
mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e
lo diede loro». Così semplice, così ordinario, così ovvio e
-tuttavia -così diverso!
Che
altro puoi fare quando condividi il pane con i tuoi amici?
Lo
prendi, lo benedici, lo spezzi e lo dai. Per questo è fatto il pane:
essere preso, benedetto, spezzato e dato. Niente di nuovo, niente di
sorprendente. Avviene ogni giorno, in innumerevoli case. È parte
essenziale della vita.
Non
possiamo vivere veramente senza il pane che viene preso, benedetto,
spezzato e dato. Senza di esso non c’è commensalità, non c’è
comunità, non c’è alcun legame d’amicizia, non c’ è pace, ne
amore e nemmeno speranza. Ma con esso, tutto può diventare nuovo.
Forse
ci siamo dimenticati che l’eucaristia è un semplice gesto umano. I
paramenti, le candele, gli accoliti,. i libri grandi, le braccia
tese, il grande altare, i canti, la gente -niente sembra molto
semplice, molto ordinario, molto ovvio. Spesso abbiamo bisogno di un
libretto per seguire la cerimonia e per capirne il significato.
Tuttavia,
niente vuole essere diverso da ciò che accadde in quel piccolo
villaggio tra i tre amici. C’è del pane sulla mensa; c’è del
vino sulla mensa. Il pane viene preso, benedetto, spezzato e dato. Il
vino viene preso, benedetto e dato. Questo è ciò che avviene
attorno ad ogni mensa che voglia essere una mensa di pace.
Ogni
volta che invitiamo Gesù nella nostra casa, cioè adire nella nostra
vita con tutte le sue luci e ombre, e gli offriamo il posto d’onore
alla nostra tavola, egli prende il pane e il calice e li dà a noi
dicendo:
«Prendete
e mangiate, questo è il mio corpo. Prendete e bevete questo è il
mio sangue. Fate questo in memoria di me». Siamo sorpresi? Veramente
no.
Non
ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il
cammino?
Non
sapevamo già che egli non era uno sconosciuto per noi?
Non
eravamo già consapevoli che colui che era stato crocifisso dai
nostri capi era vivo e stava con noi?
Non
lo avevamo visto prima prendere il pane, benedirlo, spezzarlo e
darcelo? Fece così davanti a una grande folla che aveva ascoltato
per ore la sua parola, lo fece nella sala al piano superiore prima
che Giuda lo consegnasse alla sofferenza e lo ha fatto innumerevoli
volte quando siamo giunti al termine di una giornata lunga ed egli si
unisce a noi intorno alla mensa per un pasto semplice.
L’eucaristia
è il gesto più comune e più divino immaginabile.
Questa
è la verità di Gesù. Così umano, eppure così divino; così
familiare, eppure così misterioso; così nascosto, eppure così
rivelante!
Ma
questa è la storia di Gesù che, «pur essendo di natura divina, non
considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò
se stesso, assumendo la con- dizione di servo e divenendo simile agli
uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi
obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).
È
la storia di Dio che vuole venire vicino a noi, così vicino che
possiamo vederlo con i nostri oc- chi, udirlo con i nostri orecchi,
toccarlo con le nostre mani; così vicino che non c’è niente tra
noi e lui, niente che separi, niente che divida, niente che crei
distanza.
Gesù
è Dio-per-noi, Dio-con-noi, Dio-in-noi. Gesù è Dio che si dona
completamente, che elargisce se stesso a noi senza riserve. Gesù non
trattiene e non si aggrappa ai suoi beni.
Egli
dona tutto ciò che c’è da dare. «Mangiate, bevete, questo è il
mio corpo, questo è il mio sangue… Eccomi per voi!».
Tutti
conosciamo questo desiderio di dare noi stessi a tavola.
Diciamo:
«Mangia e bevi; l’ho fatto per te. Prendine di più; è lì per
te, per goderne, per esserne fortificato, sì, per farti sentire
quanto ti voglio bene».
Ciò
che desideriamo non è semplicemente dare del cibo, ma dare noi
stessi. «Sii mio ospite», diciamo. E mentre incoraggiamo i nostri
amici a mangiare alla nostra mensa, vogliamo dire: «Sii mio amico,
mio compagno, il mio amore -sii parte della mia vita -voglio darti me
stesso».
Nell’eucaristia
Gesù dona tutto.
Il
pane non è semplicemente un segno del suo desiderio di diventare il
nostro cibo; il calice non è solo un segno della sua volontà di
essere la nostra bevanda. Il pane e il vino diventano il suo corpo e
il suo sangue nel darsi. Veramente il pane è il suo corpo dato per
noi, il vino il suo sangue versato per noi.
Come
Dio si fa completamente presente per noi in Gesù, così Gesù si fa
completamente presente a noi nel pane e nel vino dell’eucaristia.
Dio non soltanto si è fatto carne per noi tanti anni fa in un paese
lontano. Dio si fa anche cibo e bevanda per noi ora in questo momento
della celebrazione eucaristica, proprio dove siamo insieme intorno
alla tavola. Dio non si tira indietro; Dio dona tutto.
Questo
è il mistero dell’incarnazione.
Questo
è anche il mistero dell’eucaristia.
L’incarnazione
e l’eucaristia sono le due espressioni dell’immenso amore di Dio
che dona se stesso. E così il sacrificio sulla croce e il sacrificio
sulla mensa sono un unico sacrificio, un dono di se divino e completo
che raggiunge tutta l’umanità nel tempo e nello spazio.
La
parola che meglio esprime questo mistero dell’amore totale di Dio
che dona se stesso è ‘comunione’. È la parola che contiene la
verità secondo la quale, in e attraverso Gesù, Dio vuole non
soltanto insegnarci, istruirci o ispirarci, ma farsi uno con noi. Dio
desidera essere pienamente unito a noi in modo che tutto di Dio e
tutto di noi possa essere unito insieme in un amore eterno.
Tutta
la lunga storia della relazione di Dio con noi esseri umani è una
storia di comunione che si approfondisce sempre di più.
Non
si tratta semplicemente di una storia di unioni, separazioni e unioni
restaurate, ma di una storia in cui Dio è in continua ricerca di
modi sempre nuovi per fare intimamente comunione con coloro che sono
stati creati a immagine di Dio.
Agostino
diceva: «Il mio cuore è inquieto finche non riposa in te, o Dio»,
ma quando esamino la storia tortuosa della nostra salvezza, vedo che
non soltanto noi desideriamo ardentemente appartenere a Dio, ma che
anche Dio anela appartenere a noi. Sembra come se Dio ci stesse
dicendo a gran voce: «Il mio cuore è inquieto fin che non potrà
riposare in voi, mie amate creature».
Da
Adamo ed Eva ad Abramo e Sara, da Abramo e Sara a Davide e Betsabea e
da Davide e Betsabea a Gesù e sempre da allora, Dio grida forte per
essere ricevuto dai suoi.
«Vi
ho creato, vi ho dato tutto il mio amore, vi ho guidato, offerto il
mio sostegno, promesso l’avveramento dei desideri del vostro cuore:
dove siete, dov’ è la vostra risposta, dov’è il vostro amore?
Cos’altro vi devo fare affinché mi amiate? Non cederò, continuerò
a tentare. Un giorno scoprirete quanto io desideri il vostro amore!».
Dio
desidera comunione: una unità che sia vitale e viva, un’intimità
che venga da entrambe le parti, un vincolo che sia veramente mutuo.
Niente di forzato o ‘voluto’, ma una comunione liberamente
offerta e liberamente ricevuta. Dio prova tutte le vie per rendere
possibile questa comunione.
Dio
si fa un bambino che dipende dalle cure umane, un ragazzo bisognoso
di una guida, un maestro in cerca di allievi, un profeta che chiede a
gran voce dei seguaci e, infine, un uomo morto trafitto dalla lancia
di un soldato e de- posto in una tomba.
Proprio
alla fine della storia, egli sta lì a guardarci e ci chiede con gli
occhi pieni di te- nere attese: «Mi ami?» e, di nuovo, «Mi ami?»
e, una terza volta, «Mi ami?».
È
questo intenso desiderio di Dio di entrare nella relazione più
intima con noi che costituisce il nucleo della celebrazione
eucaristica e della vita eucaristica. Dio non soltanto vuole entrare
nella storia umana divenendo una persona che vive in un’ epoca
specifica e in un paese specifico, ma egli vuole diventare il nostro
cibo e la nostra bevanda quotidiani in ogni tempo e in ogni luogo.
Quindi
Gesù prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà a noi. E
allora, quando vediamo il pane nelle nostre mani e lo portiamo alla
bocca per mangiarlo, sì, allora i nostri occhi si aprono e lo
riconosciamo.
L’eucaristia
è riconoscimento.
È
la piena comprensione che colui che prende, benedice, spezza e dona è
Colui che, dall’inizio del tempo, ha desiderato entrare in
comunione con noi.
La
comunione è ciò che Dio vuole e ciò che noi vogliamo.
È
il grido più profondo del cuore di Dio e del nostro, poiché siamo
fatti con un cuore che può essere soddisfatto soltanto da colui che
lo ha fatto.
Dio
ha creato nel nostro cuore una sete di comunione che nessuno ad
eccezione di Dio può, e vuole, appagare. Dio sa questo. Invece noi
raramente. Continuiamo a cercare da qualche altra parte
quell’esperienza di appartenenza. Guardiamo lo splendore della
natura, le agitazioni della storia e l’attrattiva delle persone, ma
quella semplice frazione del pane, così comune e non spettacolare,
sembra un luogo così improbabile per trovare la comunione cui
aneliamo.
Eppure,
se abbiamo pianto le nostre perdite, se lo abbiamo ascoltato lungo il
cammino e se lo abbiamo invitato a entrare nel nostro essere più
recondito, sapremo che la comunione che abbiamo aspettato di ricevere
è la stessa comunione che egli ha aspettato di dare.
C’è
una frase nel racconto di Emmaus che ci conduce proprio dentro il
mistero della comunione. È la frase: «… lo riconobbero. Ma lui
sparì dalla loro vista». Nello stesso momento in cui i due amici lo
riconoscono nello spezzare il pane, egli non è più con loro.
Quando
il pane viene dato loro per mangiarne, essi non lo vedono più sedere
con loro alla mensa. Quando mangiano, egli si è fatto invisibile.
Quando entrano nella comunione più intima con Gesù, lo sconosciuto
-divenuto amico -non è più con loro. Proprio quando egli si fa più
presente a loro, diventa anche colui che è assente.
Qui
tocchiamo uno degli aspetti più sacri dell’eucaristia: il mistero
per cui la comunione più profonda con Gesù è una comunione che
avviene in sua assenza. I due discepoli in cammino sulla strada per
Emmaus lo avevano ascoltato per molte ore, erano andati di villaggio
in villaggio, lo avevano aiutato nella sua predicazione, avevano
riposato e mangiato insieme a lui.
Nel
corso dell’anno, egli era diventato il loro maestro, la loro guida,
il loro capo. Tutte le loro speranze per un futuro nuovo e migliore
erano in- centrate su di lui. Tuttavia… non erano mai arrivati a
conoscerlo pienamente, a comprenderlo pienamente. Spesso aveva detto
loro: «… voi ora non lo capite, ma lo capirete più tardi». Essi
non capivano veramente cosa stesse cercando di dire. Pensavano di
essere più vicini a lui che a qualunque altra persona che avessero
mai conosciuto.
Tuttavia
egli continuava adire: «Ve l’ho detto adesso… cosicché quando
non sarò più con voi ricorderete e comprenderete». Un giorno aveva
persino detto che era bene che egli se ne andasse in modo che lo
Spirito potesse venire e condurli alla piena intimità con lui. Il
suo Spirito avrebbe aperto i loro occhi e avrebbe fatto loro
comprendere pienamente chi egli fosse e perché fosse venuto a stare
con loro.
Per
tutto il tempo trascorso con i discepoli non c’era stata piena
comunione.
Sì:
loro erano stati con lui ed erano stati seduti ai suoi piedi; sì:
erano stati suoi discepoli, persino suoi amici. Ma non erano ancora
entrati nella piena comunione con lui. Il suo corpo e il suo sangue e
il loro corpo e il loro sangue non erano ancora diventati uno.
In
molti sensi, egli era stato ancora l’ altro, quello lontano, colui
che va avanti a loro e mostra loro la via. Ma quando essi mangiano il
pane che egli dà loro e lo riconoscono, quel riconoscimento è una
profonda consapevolezza spirituale che, ora, egli dimora nel loro
essere più intimo, che, ora, egli respira in loro, parla in loro,
vive in loro.
Quando
mangiano il pane che egli dà loro, la loro vita viene trasformata
nella sua vita. Non sono più loro a vivere, ma Gesù, il Cristo, che
vive in loro. E proprio in quel momento più sacro di comunione, egli
è svanito dalla loro vista.
Questo
è ciò che viviamo nella celebrazione eucaristica. Questo è ciò
che viviamo anche quando viviamo una vita eucaristica. È una
comunione così intima, così santa, così sacra e così spirituale
che i nostri organi di senso non riescono più a percepirla. Non
riusciamo più a vederlo con i nostri occhi mortali, a sentirlo con i
nostri orecchi mortali o a toccarlo con i nostri corpi mortali. È
venuto a noi in quel luogo dentro di noi dove il potere delle tenebre
e del male non possono giungere, dove la morte non ha accesso.
Quando
ci raggiunge e mette il pane nelle nostre mani e porta il calice alle
nostre labbra, Gesù ci chiede di lasciare andare l’amicizia più
facile che abbia- mo avuto con lui finora e di lasciare andare i
sentimenti, le emozioni e anche i pensieri che appartengono a
quell’amicizia.
Quando
mangiamo del suo corpo e beviamo del suo sangue, accettiamo la
solitudine che viene dal non averlo più alla nostra tavola come un
compagno che ci consola nella conversazione, che ci aiuta ad
affrontare le perdite della nostra vita quotidiana. È la solitudine
della vita spirituale, la solitudine del sapere che egli ci è più
vicino di quanto noi possiamo mai esserlo a noi stessi. È la
solitudine della fede.
Continueremo
a invocare: «Signore, pietà»; continueremo ad ascoltare le
Scritture e il loro significato; continueremo a dire: «Sì, credo».
Ma la comunione con lui va molto al di là di tutto questo. Ci porta
al luogo in cui la luce acceca i nostri occhi e dove tutto il nostro
essere è avvolto nella cecità. È in quel luogo di comunione che
gridiamo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È,
inoltre, in quel luogo che il nostro vuoto ci fa pregare: «Padre,
nelle tue mani consegno il mio spirito».
La
comunione con Gesù significa diventare come lui.
Con
lui siamo inchiodati sulla croce, con lui siamo deposti nella tomba,
con lui siamo risuscitati per i accompagnare nel loro viaggio i
viaggiatori che si sono perduti. La comunione, il divenire Cristo, ci
conduce a un nuovo regno dell’essere. Ci introduce nel Regno.
Là
le vecchie distinzioni tra felicità e tristezza, successo e
fallimento, preghiera e maledizione, salute e malattia, vita e morte,
non esistono più. Là non apparteniamo più al mondo che continua a
dividere, giudicare, separare e valutare. Là apparteniamo a cri- sto
e Cristo a noi, e con Cristo apparteniamo a Dio.
All’improvviso
i due discepoli, che hanno mangiato il pane e lo hanno riconosciuto,
sono di nuovo soli. Ma non con l’isolamento con cui avevano
cominciato il viaggio. Sono soli, insieme, e sanno che è stato
creato un nuovo legame tra loro. Non guardano più in basso con il
volto triste. Si guardano in faccia e dicono: «Non ci ardeva forse
il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando
ci spiegava le Scritture?».
La
comunione crea comunità. Cristo, vivendo in loro, li ha uniti in un
modo nuovo. Lo Spirito del Cristo risorto, che è entrato in loro nel
mangiare il pane e nel bere dal calice, ha fatto loro riconoscere non
soltanto Cristo stesso, ma anche ognuno di loro come membro di una
nuova comunità di fede.
La
comunione ci fa guardare l’un l’altro e parlare l’uno all’altro
non delle notizie più recenti, ma di colui che camminava con noi. Ci
scopriamo tutti come perso- ne che si appartengono, perché ognuno di
noi appartiene a lui.
Siamo
soli, perché egli è scomparso dalla nostra vista, ma siamo insieme
perché ognuno di noi è in comunione con lui diventando così un
unico corpo attraverso di lui.
Abbiamo
mangiato il suo corpo, bevuto il suo sangue. Così facendo, tutti noi
che abbiamo preso dello stesso pane e dello stesso calice siamo
diventati un solo corpo.
La
comunione crea comunità, perché il Dio che vive in noi ci fa
riconoscere il Dio nei nostri simili. Noi non possiamo vedere Dio
nell’altra persona.
Soltanto
Dio in noi può vedere Dio nell’ altra persona. Questo è ciò che
intendiamo quando diciamo: «Lo Spirito parla allo Spirito, il Cuore
parla al Cuore, Dio parla a Dio». La nostra partecipazione alla vita
intima di Dio ci porta a un modo nuovo di partecipazione alla vita
l’uno dell’altro.
Tutto
ciò può suonare molto ‘irreale’, ma quando lo viviamo, diventa
più reale della ‘realtà’ del mondo. Come dice Paolo:
«Il
calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione
con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse
comunione con il corpo di Cristo? poiché c’ è un solo pane, noi,
pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo
dell’unico pane» (1 Cor 10,16- 17).
Questo
corpo nuovo è un corpo spirituale, foggiato dallo Spirito d’
amore. Si manifesta in modi molto concreti: nel perdono, nella
riconciliazione, nel mutuo sostegno, nell’aiuto alle persone nel
bisogno, nella solidarietà con tutti quelli che soffrono e in una
preoccupazione sempre maggiore per la giustizia e la pace. In questo
modo la comunione non crea soltanto comunità, ma la comunità
conduce sempre alla missione.
«Andate
e annunziate»
Tutto
è cambiato. Le perdite non sono più sentite come debilitanti; la
casa non è più un luogo vuoto. I due viaggiatori che hanno iniziato
il loro viaggio a te- sta bassa ora si guardano con occhi pieni di
luce nuova.
Lo
sconosciuto, che era diventato amico, ha dato loro il suo spirito, lo
spirito divino di gioia, pace, coraggio, speranza e amore. Non c’è
dubbio nella loro mente: egli è vivo! Non vivo come prima, non come
l’affascinante predicatore e guaritore di Nazareth, ma vivo come un
respiro nuovo dentro di loro. Cleopa e il suo amico sono diventati
persone nuove. Sono stati dati loro un cuore nuovo e uno spirito
nuovo.
Essi
sono diventati anche nuovi amici l’uno per l’altro -non più
persone che possono offrirsi consolazione e sostegno mentre piangono
le proprie perdite, ma persone con una nuova missione, persone che,
insieme, hanno qualcosa da dire, qualcosa d’importante, qualcosa
d’urgente, qualcosa che non può rimanere nascosto, qualcosa che
deve essere proclamato.
Felicemente
ognuno di loro ha l’altro. Nessuno crederebbe a uno soltanto di
loro. Ma quando parleranno insieme otterranno un bell’ascolto.
Gli
altri hanno bisogno di sapere poiché anch’essi avevano posto tutte
le loro speranze in lui. Ci sono gli undici che hanno mangiato con
lui la sera prima della sua morte; ci sono i discepoli, le donne e
gli uomini che erano stati con lui per anni.
Hanno
bisogno di sapere che cos’è loro successo.
Hanno
bisogno di sapere che non è tutto finito.
Hanno
bisogno di sapere che è vivo e che questi lo hanno riconosciuto
quando egli ha dato loro il pane.
Non
c’è tempo da perdere. «Sbrighiamoci», si dicono l’un l’altro.
In fretta si infilano i sandali, prendono il mantello e il bastone
per il viaggio e sono subito sulla via del ritorno verso i loro
amici, ritornano da coloro che ancora potrebbero non sapere che le
donne, le quali avevano sentito dagli angeli che egli è ancora vivo,
hanno ragione.
Il
racconto riassume tutto in pochissime parole: «Partirono
senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme».
Che
differenza tra il loro ‘ andare a casa ‘ e il loro ritorno.
È
la differenza che c’è tra il dubbio e la fede, la disperazione e
la speranza, la paura e l’amore.
È
la differenza tra due esseri umani scoraggiati che si trascinano
lungo la via e due amici che camminano in fretta, a volte persino
correndo, tutti eccitati per la notizia che hanno per i loro amici.
Ritornare
alla città non è senza pericolo. Dopo l’esecuzione di Gesù, i
suoi discepoli hanno paura. Si chiedono quale sarà il loro destino.
Ma avendo riconosciuto il loro Signore, la paura se ne è andata e
sono liberi di diventare testimoni della resurrezione – ad ogni
costo.
Si
rendono conto che le stesse persone che hanno odiato Gesù possono
odiare loro, che le stesse persone che hanno ucciso Gesù possono
uccidere loro. Ritornare, in effetti, può costar loro la vita. Può
essere richiesto loro di testimoniare, non solo a parole, ma con il
loro stesso sangue.
Ma
non temono più il martirio. Il Signore risorto, presente nel loro
essere più intimo, li ha resi pieni di un amore più forte della
morte. Niente può trattenerli dal ritornare a casa anche quando casa
non significa più un luogo ‘sicuro’.
L’eucaristia
si conclude con una missione. «Andate ora e annunciate!». Le parole
in latino, «Ite missa est», con cui il sacerdote concludeva la
messa, letteralmente significano: «Andate, questa è la vostra
missione».
La
comunione non è la conclusione.
La
missione lo è.
La
comunione, quella intimità sacra con Dio, non è il momento finale
della vita eucaristica. Lo abbiamo riconosciuto, ma quel
riconoscimento non è per noi solo da gustare oda tenere come un
segreto.
Come
Maria di Magdala, così anche i due amici avevano sentito nel
profondo di se stessi le parole «Andate e annunziate».
Questa
è la conclusione della celebrazione eucaristica; questa è anche la
chiamata finale della vita eucaristica.
«Andate
e annunziate. Quello che avete visto e sentito non è solo per voi. È
per i fratelli e le sorelle e per tutti quelli che sono pronti a
riceverlo.
Andate,
non indugiate, non aspettate, non esitate, ma mettetevi ora in
cammino e ritornate ai luoghi dai quali siete venuti e fate sapere a
quelli che avete lasciato nei loro nascondigli che non c’ è niente
di cui aver paura, che egli è risorto, veramente risorto».
È
importante rendersi conto che la missione, prima di tutto, è una
missione a coloro che non sono estranei per noi. Questi ci conoscono
e, come noi, hanno sentito di Gesù, ma si sono scoraggiati.
La
missione è sempre prima di tutto ai nostri, alla nostra famiglia, ai
nostri amici, a coloro che fanno parte intimamente della nostra vita.
Riconoscere questo non ci conforta.
Trovo
sempre che sia più difficile parlare di Gesù a quelli che mi
conoscono intimamente che a quelli che non hanno mai avuto a che fare
con i miei “peculiari modi di essere” .Eppure qui è presente una
grande sfida. In qualche modo l’ autenticità della nostra
esperienza viene messa alla prova dal nostri genitori, dai nostri
consorti, dai nostri figli, dai nostri i fratelli e sorelle, da tutti
quelli che ci conoscono fin troppo bene.
Molte
volte sentiremo: «Beh, eccolo di nuovo. Beh, eccola di nuovo.
Sappiamo di che si tratta. Abbiamo già visto tutto questo
eccitamento. Passerà… come sempre».
Spesso
c’è molta verità in questo. Perché si dovrebbero fidare di noi,
quando corriamo a casa tutti entusiasti? Perché ci dovrebbero
prendere sul serio? Non siamo poi così attendibili; non siamo poi
così diversi dal resto della nostra famiglia e dei nostri amici.
Inoltre, il mondo è pieno di storie, di rumori, pieno di predicatori
ed evangelisti.
Ci
sono buone ragioni per un certo scetticismo. Coloro che non sono
venuti con noi all’eucaristia non sono ne migliori ne peggiori di
noi.
Hanno
sentito il racconto di Gesù. Alcuni sono stati battezzati; alcuni
sono persino andati per un po’ o per lungo tempo in chiesa. Ma poi,
gradualmente, la storia di Gesù è diventata solo una storia.
La
chiesa è diventata un obbligo, l’eucaristia un rituale. In qualche
modo è diventato tutto un ricordo dolce o amaro. In qualche modo
qualcosa è morto in loro. E perché chiunque ci conosca bene
dovrebbe credere in noi immediatamente quando torniamo
dall’eucaristia?
Questa
è la ragione per cui non è solo l’eucaristia, ma la vita
eucaristica a fare la differenza.
Ogni
giorno, ogni momento del giorno, c’ è il dolore per le nostre
perdite e l’opportunità di ascoltare una parola che ci chiede di
scegliere di vivere queste perdite come una via alla gloria.
Ogni
giorno, inoltre, c’ è la possibilità di invitare lo sconosciuto
in casa nostra e di fargli spezzare il pane per noi; la celebrazione
eucaristica ci ha riassunto in che cosa consiste la nostra vita di
fede e dobbiamo andare a casa per viverla il più a lungo e il più
pienamente possibile. E questo è molto difficile, perché tutti a
casa ci conoscono molto bene: la nostra impazienza, le nostre
gelosie, i nostri risentimenti e i nostri tanti piccoli sotterfugi.
E
poi ci sono le nostre relazioni interrotte, le nostre promesse non
mantenute e i nostri impegni non rispettati. Possiamo davvero dire
che lo abbiamo incontrato per strada, che abbiamo ricevuto il suo
corpo e il suo sangue e che siamo diventati Cristi viventi? Tutti a
casa sono pronti a metterci alla prova.
Ma
c’è di più. C’è una grande sorpresa che aspetta i due compagni
eccitati che entrano di corsa nella stanza in cui erano riuniti i
loro amici… ansiosi di dare la notizia. Questi amici già la
sapevano! La buona notizia che dovevano portare non era nuova, dopo
tutto.
Prima
ancora che avessero la possibilità di raccontare la loro storia, gli
undici e gli altri che erano con loro dissero: «Davvero il Signore è
risorto ed è apparso al Simone». È piuttosto comico.
Questi
entrano di corsa, senza più fiato, tutti entusiasti. soltanto per
scoprire che quelli che stavano in città avevano già sentito la
notizia, anche se non lo avevano incontrato sulla strada e non si
erano seduti a tavola con lui.
Gesu
era apparso a Simone e Simone era molto più attendibile di questi
due discepoli che non erano rimasti con loro, ma che se ne erano
invece andati a casa pensando che fosse tutto finito. Sicuro: erano
felici e ansiosi di sentire la loro storia, ma loro due portavano
solo un’altra conferma che, davvero, egli era vivo.
Ci
sono molti modi in cui Gesù appare e molti modi in cui ci fa sapere
che è vivo. Ciò che celebriamo nell’eucaristia avviene in molti
modi diversi da quanto possiamo immaginare. Gesù, che ci ha già
dato il pane, ha toccato il cuore di altri molto prima di in-
contrarci sulla strada. Ha chiamato qualcuna per nome e lei lo ha
riconosciuto; ha mostrato le sue ferite ad alcuni e questi lo hanno
riconosciuto. Noi abbiamo le nostre storie da raccontare ed è
importante che le raccontiamo, ma non sono le uniche storie. Abbiamo
una missione da adempiere ed è bene che ne siamo entusiasti, ma
prima dobbiamo ascoltare quello che gli altri hanno da dire. Poi
possono essere raccontate le .nostre storie e portare gioia.
Tutto
questo dimostra comunità.
I
due amici, che erano in grado di parlarsi dei propri cuori ardenti,
sta- vano cominciando a entrare in una nuova relazione reciproca, una
relazione costruita sulla comunione di cui entrambi avevano fatto
esperienza, La loro comunione con Gesù era, invero, l’inizio della
comunità. Ma soltanto l’inizio.
Avevano
bisogno di incontrare gli altri, che anche credevano che egli era
risorto, lo avevano visto o avevano sentito che era vivo. Avevano
bisogno di ascoltare i loro racconti, ognuno diverso dagli altri, e
di scoprire i molti modi in cui Gesù e il suo Spirito agivano in
mezzo al suo popolo.
È
così facile ridurre Gesù al nostro Gesù, alla nostra esperienza
del suo amore, al nostro modo di riconoscerlo.
Ma
Gesù ci ha lasciati per mandare il suo Spirito e il suo Spirito
soffia dove vuole. La comunità di fede è il luogo dove vengono
narrati molti racconti sullo stile di Gesù. Questi racconti possono
essere molto diversi l’uno dall’altro.
Possono
persino sembrare in conflitto.
Ma
se continuiamo ad ascoltare attentamente lo Spirito che si manifesta
attraverso molte persone, sia nelle parole che nel silenzio, sia
attraverso il confronto che l’invito, sia nella dolcezza che nella
fermezza, sia con le lacrime che con i sorrisi, allora potremo
gradualmente discernere che ci apparteniamo, come un unico corpo
saldato dallo Spirito di Gesù.
Nell’eucaristia
ci viene richiesto di lasciare la tavola e di andare dai nostri amici
per scoprire insieme a loro che Gesù è veramente vivo e che ci
chiama tutti insieme a diventare un popolo nuovo -un popolo della
resurrezione.
Qui
termina il racconto di Cleopa e del suo amico.
Termina
con i due amici che raccontano la loro storia agli undici e agli
altri che stavano con loro. Ma la missione non termina qui; è appena
iniziata. Il racconto della storia di ciò che è successo lungo la
via e intorno alla tavola è l’inizio di una vita di missione,
vissuta tutti i giorni della nostra vita finché non lo vedremo di
nuovo faccia a faccia.
Formare
una comunità con la famiglia e gli amici, costruire un corpo d’
amore, formare un popolo nuovo della resurrezione: tutto questo non è
tanto per poter vivere una vita al riparo dalle forze oscure che
dominano il nostro mondo; è piuttosto per renderci capaci di
proclamare insieme a tutte le persone, giovani e vecchi, bianchi e
neri, poveri e ricchi, che la morte non ha 1’ultima parola, che la
speranza è reale e che Dio è vivo.
L’eucaristia
è sempre missione.
L’eucaristia,
che ci ha liberato dal nostro paralizzante senso di perdita e che ci
ha rivelato che lo Spirito di Gesù vive dentro di noi, ci dà la
forza di uscire nel mondo e di portare la buona notizia ai poveri, la
vista ai ciechi, la libertà ai prigionieri e di proclamare che Dio
ha mostrato di nuovo il suo favore a tutte le persone.
Ma
non siamo mandati fuori da soli; siamo inviati con i nostri fratelli
e le nostre sorelle, sapendo anch’essi che Gesù vive dentro di
loro.
Il
movimento che deriva dall’eucaristia è il movimento dalla
comunione alla comunità al ministero. La nostra esperienza di
comunione prima ci manda dai nostri fratelli e sorelle per
condividere con loro le nostre storie e per formare con loro un corpo
d’amore.
Poi,
come comunità, possiamo muoverci in tutte le direzioni e raggiungere
tutte le persone.
Sono
profondamente consapevole della mia tendenza di voler andare dalla
comunione al ministero senza fare comunità.
Il
mio individualismo e il desiderio di successo personale mi tentano
sempre a fare da solo e a rivendicare per me stesso il compito del
ministero. Ma Gesù stesso non predicò e non guarì da solo. Luca,
l’evangelista, ci racconta di come egli passasse la notte in
comunione con Dio, il mattino a fare comunità con i dodici apostoli
e il pomeriggio a uscire con loro per svolgere il suo ministero tra
le folle. Gesù ci chiama a seguire la stessa sequenza: dalla
comunione alla comunità al ministero.
Non
vuole che usciamo da soli. Ci invia insieme, a due a due, mai da
soli.
E
così possiamo testimoniare come persone che appartengono ad un corpo
di fede. Siamo inviati ad insegnare, a guarire, ad ispirare e ad
offrire speranza al mondo non come esercizio della nostra capacità
individuale, ma come l’espressione della nostra fede per la quale
tutto quello che abbiamo da dare viene da lui che ci ha messi
insieme.
La
vita vissuta eucaristicamente è sempre una vita di missione.
Viviamo
in un mondo che geme sotto il peso delle sue perdite: le guerre
spietate che distruggono popoli e paesi, la fame e il morire di fame
che decimano intere popolazioni, il crimine e la violenza che mettono
a repentaglio la vita di milioni di uomini, donne e bambini. Il
cancro e l’ AIDS, il colera, la malaria e molte altre malattie che
devastano il corpo di innumerevoli persone; terremoti, alluvioni e
disastri del traffico è la storia della vita di ogni giorno che
riempie i giornali e gli schermi televisivi.
È
un mondo di perdite infinite e molti, se non la maggior parte, dei
nostri simili camminano con la faccia rivolta a terra sulla
superficie di questo pianeta. Dico- no in un modo o in un altro: «Noi
speravamo che fosse… ma abbiamo perso la speranza».
Questo
è il mondo in cui siamo mandati a vivere eucaristicamente, cioè, a
vivere con il cuore ardente e con gli orecchi e gli occhi aperti.
Sembra
un compito impossibile.
Che
cosa può fare questo piccolo gruppo di persone che lo hanno
incontrato per la via, nel giardino o sulla riva del lago, in un
mondo così buio e violento? Il mistero dell’amore di Dio è che i
nostri cuori ardenti e i nostri orecchi e occhi recettivi saranno in
grado di scoprire che Colui che abbia- mo incontrato nell’intimità
delle nostre case continua a rivelarsi a noi tra i poveri, i malati,
gli affamati, i prigionieri, i rifugiati e tra tutti coloro che
vivono nel pericolo e nella paura.
A
questo punto ci rendiamo conto che missione non è solo andare ad
annunziare agli altri che il Signore è risorto, ma anche ricevere
quella testimonianza da coloro ai quali siamo inviati.
Spesso
la missione è pensata esclusivamente in termini di donazione, ma la
vera missione è anche ricevere. Se è vero che lo Spirito di Gesù
soffia dove vuole, non c’ è persona che non possa dare quello
Spirito.
A
lungo andare, la missione è possibile soltanto quando è tanto
ricevere che . dare, tanto essere presi a cuore che prendere a cuore.
Siamo
mandati agli ammalati, ai morenti, agli handicappati, ai carcerati e
ai rifugiati per portare loro la buona notizia della resurrezione del
Signore.
Ma
ci spegneremmo subito, se non potessimo ricevere lo Spirito del
Signore da coloro cui siamo mandati.
Quello
Spirito, lo Spirito d’amore, è nascosto nella loro povertà, nel
loro essere a pezzi e nella prostrazione, nel loro dolore. Ecco
perché Gesù ha detto: «Beati i poveri, i perseguitati e gli
afflitti». Ogni volta che li raggiungiamo, essi a loro volta -ne
siano consapevoli o meno -ci benedicono con lo Spirito di Gesù,
diventando così nostri ministri.
Senza
questa reciprocità del dare e del ricevere, missione e ministero
diventano facilmente manipolabili o violenti.
Quando
soltanto uno dà e l’altro riceve, colui che dà diventa presto un
oppressore e coloro che ricevono vittime.
Ma
quando colui che dà riceve e colui che riceve dà, il circolo
d’amore, iniziato nella comunità dei discepoli, può allargarsi
persino a tutto il mondo.
Fa
parte dell’ essenza della vita eucaristica far crescere questo
cerchio d’amore.
Essendo
entrati in comunione con Gesù e avendo creato comunità con coloro
che sanno che egli è vivo, ora possiamo andarci ad unire ai tanti
viaggiatori solitari per aiutarli a scoprire che anch’essi
partecipano al dono dell’amore.
Non
temiamo più la loro tristezza e il loro dolore e possiamo chieder
loro semplicemente: «Che sono questi discorsi che state facendo fra
voi durante il cammino?».
E
sentiremo racconti di solitudine, paura, rifiuto, abbandono e
tristezza immensi. Dobbiamo ascoltare, spesso a lungo, ma ci sono
anche le opportunità di dire a parole o con semplici gesti: «Non
sapevi che ciò per cui ti stai affliggendo può essere vissuto anche
come una via per qualcosa di nuovo? Probabilmente è impossibile
cambiare quello che ti è successo, ma sei ancora libero di scegliere
come viverlo».
Non
tutti ci ascolteranno e soltanto in pochi ci inviteranno nella loro
vita per unirci alla loro tavola. Solo raramente sarà possibile
offrire il pane che do- na la vita e guarire veramente un cuore che è
stato spezzato. Gesù stesso non guarì tutti, ne cambiò la vita di
tutti.
La
maggior parte della gente semplice- mente non crede che siano
possibili i cambiamenti radicali e non riesce a dare la sua fiducia
quando incontra gli sconosciuti.
Ma
ogni volta che c’è un incontro reale che conduce dalla
disperazione alla speranza e dall’amarezza alla gratitudine,
vedremo dissolversi parte delle tenebre e la vita, di nuovo,
oltrepassare i confini della morte.
Questa
è stata, e continua a essere, l’esperienza di coloro che vivono
una vita eucaristica. Essi vedono come loro missione sfidare
persistentemente i loro compagni di viaggio a scegliere la
gratitudine invece del risentimento e la speranza invece della
disperazione.
Le
poche volte in cui questa sfida viene accettata sono sufficienti per
rendere la loro vita degna di essere vissuta. Veder comparire un
sorriso in mezzo alle lacrime significa essere testimoni di un
miracolo -il miracolo della gioia.
Statisticamente
niente di tutto ciò è molto interessante.
Coloro
che chiedono: «Quante persone avete raggiunto? Quanti cambiamenti
avete apportato? Quanti mali avete curato? Quanta gioia avete
creato?», riceveranno sempre delle risposte deludenti. Gesù e i
suoi seguaci non ebbero grande successo.
Il
mondo è ancora un mondo buio, pieno di violenza, corruzione,
oppressione e sfruttamento. Probabilmente lo sarà sempre! La domanda
non è «Quanto presto e quanti?», ma «Dove e quando?». Dov’è
celebrata l’eucaristia, dove sono le persone che si mettono insieme
intorno alla mensa spezzando il pane insieme e quando ciò avviene?
Il
mondo si trova sotto il potere del male. Il mondo non riconosce la
luce che risplende nell’oscurità. Non lo ha mai fatto; mai lo
farà. Ma ci sono persone che, in mezzo a questo mondo, vivono !con
la consapevolezza che egli è vivo e dimora dentro di noi, che egli
ha superato il potere della morte e ha aperto la via della gloria.
Ci
sono persone che si riuniscono insieme, che si mettono intorno alla
tavola e che fanno quello che lui ha fatto, in memoria di lui?
Ci
sono persone che continuano a raccontarsi le storie di speranza e che
insieme vanno fuori a prendersi cura dei loro simili, senza
pretendere di risolvere tutti i problemi, ma di portare un sorriso a
un morente e una piccola speranza a un bambino abbandonato?
È
così piccola, così non spettacolare, così nascosta questa vita
eucaristica, ma è come lievito, come un granello di senape, come un
sorriso sul volto di un bambino. È ciò che tiene vivi la fede, la
speranza e l’amore in un mondo che è continuamente sull’orlo
dell’autodistruzione.
L’eucaristia,
a volte, è celebrata con grande cerimonia, in splendide cattedrali e
basiliche. Ma più spesso è un ‘piccolo’ evento di cui sanno
poche persone.
Avviene
in un soggiorno, nella cella di una prigione, in una soffitta
-lontano dalla vista dei grandi movimenti del mondo. Avviene in
segreto; senza paramenti, candele o incenso.
Avviene
con gesti così semplici che dall’esterno non si sa nemmeno che ha
luogo. Ma grande o piccolo, festivo o nascosto, è lo stesso evento,
il quale rivela che la vita è più forte della morte e l’amore più
forte della paura.
Conclusione
La
parola ‘eucaristia’ significa letteralmente ‘rendimento di
grazie. Una vita eucaristica è una vita vissuta nella gratitudine.
La
storia, che è anche la nostra storia, dei due amici in cammino per
Emmaus ha mostrato che la gratitudine non è un atteggiamento ovvio
verso la vita.
La
gratitudine va scoperta e va vissuta con grande attenzione interiore.
Le
nostre perdite, le nostre esperienze di rifiuto e di abbandono e i
nostri tanti momenti di disillusione continuano ad attirarci nella
rabbia, nell’amarezza e nel risentimento.
Quando
lasciamo semplicemente parlare i ‘fatti’ ci saranno sempre fatti
sufficienti a convincerci che la vita, dopo tutto, non conduce a
niente e che ogni tentativo di sconfiggere questo destino è soltanto
un segno di profonda ingenuità.
Gesù
ci ha dato l’ eucaristia per renderci capaci di scegliere la
gratitudine.
È
una scelta che noi stessi dobbiamo fare. Nessuno può farla per noi.
Ma
l’eucaristia ci induce a invocare la misericordia di Dio, ad
ascoltare le parole di Gesù, a invitarlo in casa nostra, a entrare
in comunione con lui e a proclamare buone notizie al mondo; apre alla
possibilità di lasciar andare gradualmente i nostri tanti
risentimenti e di scegliere di essere grati.
La
celebrazione eucaristica continua a invitarci a quest’atteggiamento.
Nella
nostra vita quotidiana abbiamo innumerevoli opportunità di essere
grati invece che pieni di risentimento.
All’inizio
potremmo non riconoscere queste opportunità. Prima che ce ne
rendiamo conto pienamente, abbiamo già detto: «Questo è troppo per
me. Non posso fare ameno di arrabbiarmi e di mostrare la mia rabbia.
La vita non è bella e non posso agire come se invece lo fosse».
Comunque,
c’è sempre la voce che in continuazione dice che siamo accecati
dal nostro stesso modo di comprendere e che ci attiriamo a vicenda in
un vicolo cieco.
È
la voce che ci chiama ‘stolti’, la voce che ci chiede di guardare
la nostra vita in modo nuovo, non di guardarla dal basso, dove
contiamo le nostre perdite, ma dall’alto, dove Dio ci offre la sua
gloria.
L’eucaristia
-il rendimento di grazie -, dopo tutto, viene dall’alto.
E
il dono che non possiamo fabbricarci da soli.
Deve
essere ricevuta. È offerta liberamente e chiede di essere ricevuta
liberamente. È qui che sta la scelta!
Possiamo
scegliere di lasciar continuare il viaggio allo sconosciuto,
rimanendo così egli uno sconosciuto. Ma possiamo anche invitarlo
nella nostra vita intima, lasciarlo toccare ogni parte del nostro
essere e quindi trasformare i nostri risentimenti in gratitudine.
Non
dobbiamo lasciarlo andare.
In
effetti la maggior parte della gente fa così. Ma ogni volta che
facciamo quella scelta, ogni cosa, anche le cose più insignificanti,
diventano nuove.
La
nostra vita di poco conto diventa grande -parte dell’opera
misteriosa della salvezza di Dio. Quando ciò avviene, niente è più
accidentale, casuale o futile. Persino l’evento più insignificante
parla il linguaggio della fede, della speranza e, soprattutto,
dell’amore. Questa è la vita eucaristica, la vita in cui ogni cosa
diventa un modo per dire ‘grazie’ a lui che si è unito a noi
lungo il cammino.
“La
forza della Sua presenza “ – Meditazioni sulla vita eucaristica
Henri
J.M.Nouwen
Nessun commento:
Posta un commento