lunedì 27 gennaio 2020

Meditazioni sulla vita eucaristica - (Henri J.M. Nouwen)



Introduzione

Ogni giorno celebro l’eucaristia. A volte nella mia chiesa parrocchiale con centinaia di persone presenti, a volte nella cappella di Daybreak con dei membri della mia comunità, a volte nell’ appartamento di un hotel con pochi amici e a volte nel soggiorno di mio padre con lui e me solamente.
Veramente pochissimi giorni passano senza che io dica: «Signore, pietà», senza le letture quotidiane e un po’ di riflessione, senza professione di fede, senza partecipare al corpo e al sangue di Cristo e senza preghiera per una giornata fruttuosa.
Eppure mi chiedo: So quello che sto facendo?
E quelli che stanno o siedono intorno alla mensa con me sanno a che cosa prendono parte? Avviene veramente qualcosa che dà forma alla nostra vita quotidiana -anche se è così familiare?
E che cosa ne è di tutti quelli che non sono lì con noi?
L’eucaristia è ancora qualcosa di cui sanno, a cui pensano o che desiderano? Come si collega questa celebrazione quotidiana alla vita quotidiana degli uomini e delle donne comuni, siano essi presenti o meno? È più di una bella cerimonia, di un rituale consolante o di una tranquilla routine? E infine, l’eucaristia dona vita, vita che ha la forza di superare la morte? Tutte queste domande sono molto reali per me; chiedono costantemente una risposta. Oh, sì! Ho avuto delle risposte, ma sembra che non durino molto a lungo nel mio mondo che cambia così velocemente.
L’eucaristia dà senso alla mia esistenza nel mondo, ma in quanto il mondo cambia, l’eucaristia continua a dargli significato?
Ho letto molti libri sull’eucaristia. Sono stati scritti dieci, venti, trenta, persino quaranta anni fa. Benché contengano molte profonde intuizioni, non mi aiutano più a fare l’esperienza dell’eucaristia come il centro della mia vita.
Oggi le vecchie domande sono lì di nuovo: come può tutta la mia vita essere eucaristica e come può la celebrazione quotidiana dell’eucaristia renderla tale? Devo raggiungere una mia risposta. Senza questa risposta l’ eucaristia può diventare poco più che una bella tradizione.
Questo piccolo libro è un tentativo di parlare a me stesso e ai miei amici dell’eucaristia e di intessere una rete di relazioni tra la celebrazione quotidiana dell’eucaristia e la nostra esperienza umana quotidiana.
Ci inoltriamo in ogni celebrazione con un cuore pentito e preghiamo il Kyrie eleison. Ascoltiamo la Parola -le letture della Sacra Scrittura e l’omelia -, professiamo la nostra fede, offriamo a Dio i frutti della terra e del lavoro dell’uomo e riceviamo da Dio il corpo e il sangue di Gesù e, infine, siamo inviati al mondo con il compito di rinnovare la faccia della terra. L’evento eucaristico rivela le esperienze umane più profonde, quelle della tristezza, della sollecitudine, dell’invito, dell’intimità e dell’impegno.
Riassume la vita che siamo chiamati a vivere nel Nome di Dio. Solamente quando riconosciamo la ricca rete di connessioni tra l’eucaristia e la nostra vita nel mondo l’eucaristia può essere del mondo e la nostra vita ‘eucaristica’.
Come base per le mie riflessioni sull’eucaristia e sulla vita eucaristica userò la storia dei due discepoli che — andarono da Gerusalemme a Emmaus e tornarono indietro.
Dal momento che il racconto parla di perdita, presenza, invito, comunione e missione, abbraccia i cinque aspetti principali della celebrazione eucaristica.
Insieme formano un movimento, il movimento che va dal risentimento alla gratitudine, vale adire, da un cuore indurito a un cuore grato.
Mentre l’eucaristia esprime questo movimento spirituale in modo molto conciso, la vita eucaristica è una vita in cui siamo invitati a far esperienza di e ad affermare questo movimento in ogni momento della nostra esistenza quotidiana.
In questo libricino spero di sviluppare le cinque fasi di questo movimento che va dal risentimento alla gratitudine in modo che diventi chiaro che ciò che celebriamo e ciò che siamo chiamati a vivere sono essenzialmente la stessa cosa.

Sulla strada di Emmaus


Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?". Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?".
Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;
come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.
Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto". Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?". E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone".
Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
(Luca 24,13-35)

«Signore, pietà»

Due persone camminano insieme. Si può vedere dal modo in cui camminano che non sono felici. I loro corpi sono ripiegati, il volto è triste, i movimenti lenti. Non si guardano in faccia. Ogni tanto pronunciano qualche parola, ma che non è diretta all’altro; Le parole svaniscono nell’aria come suoni vani. Anche se seguono il sentiero lungo il quale camminano, sembrano non aver alcuna meta. Ritornano a casa, ma la loro casa non è più casa. Semplicemente non hanno un altro luogo dove andare. La casa è diventata vuoto, disillusione, disperazione.
Riescono a malapena a immaginare che è stato soltanto pochissimi anni prima che incontrarono qualcuno che aveva cambiato la loro vita, qualcuno che aveva interrotto radicalmente la loro routine quotidiana portando una vitalità nuova in ogni parte della loro esistenza.
Avevano lasciato il loro paese, avevano seguito quel forestiero con i suoi amici e avevano scoperto tutta una nuova realtà nascosta dietro il velo delle loro ordinarie attività -una realtà in cui il perdono, la guarigione e l’amore non erano più delle mere parole, ma delle forze che toccavano la vera essenza della loro umanità. Il forestiero di Nazareth aveva reso tutto nuovo.
Li aveva trasformati in persone per le quali il mondo non era più un peso, ma una sfida, non più una terra piena di insidie, ma un luogo con infinite opportunità. Egli aveva portato gioia e pace nella loro esperienza quotidiana. Aveva trasformato la loro vita in una danza !
Ora è morto, il suo corpo che aveva irradiato luce è stato distrutto sotto le mani dei suoi torturatori. Le sue membra erano state solcate dagli strumenti della violenza e dell’odio, i suoi occhi erano diventati dei buchi vuoti, le sue mani avevano perduto la loro presa, i piedi la stabilità.
Egli era diventato un nessuno in mezzo a tanti nessuno. Tutto era diventato nullità. Essi lo avevano perduto. Non soltanto lui, ma, con lui, anche se stessi. L’energia che li aveva pervasi di giorno e di notte li aveva lasciati completamente. Erano diventati due esseri umani perduti che camminavano verso casa senza avere una casa, ritornando a ciò che era diventato un ricordo triste.
Per molti aspetti noi siamo come loro. Lo capiamo quando osiamo guardare dentro il centro del nostro essere e là incontriamo il nostro smarrimento.
Non siamo sperduti anche noi?
Se c’è una parola che riassume bene il nostro dolore questa è ‘perdita’. Abbiamo perduto così tanto! Alle volte sembra persino che la vita sia soltanto una lunga serie di perdite.
Quando siamo nati abbiamo perso la protezione del grembo materno, quando siamo andati a scuola abbiamo perso la sicurezza della nostra vita familiare, quando abbiamo ottenuto il nostro primo lavoro abbiamo perso la libertà della giovinezza, quando ci siamo sposati o siamo stati ordinati abbiamo perso la gioia di molte altre opzioni e quando siamo invecchiati abbiamo perso la bellezza, i nostri vecchi amici o la nostra fama.
Quando ci siamo indeboliti o ammalati abbiamo perso l’indipendenza fisica e quando moriremo perderemo tutto! E queste perdite fanno parte della vita ordinaria! Ma la vita di chi è ordinaria?
Le perdite che si sistemano in profondità nel nostro cuore e nella nostra mente sono la perdita di intimità a causa delle separazioni, la perdita di sicurezza a causa della violenza, la perdita dell’innocenza a causa di maltrattamenti, la perdita di amici a causa del tradimento, la perdita dell’amore a causa dell’abbandono, la perdita della casa a causa della guerra, la perdita del benessere a causa della fame, del caldo, del freddo, la perdita dei bambini a causa delle malattie o di incidenti, la perdita del proprio paese a causa di cambiamenti politici e la perdita della vita a causa di terremoti, alluvioni, incidenti aerei, bombardamenti e malattie.
Forse molte di queste perdite terribili sono lontane dalla maggior parte di noi; forse appartengono al mondo dei giornali e agli schermi televisivi, ma nessuno può sfuggire alle dolorose perdite che fanno parte della nostra esistenza quotidiana -la perdita dei nostri sogni.
Avevamo pensato così a lungo di noi stessi come persone di successo che piacciono e che sono profondamente amate.
Avevamo sperato una vita di generosità, di servizio e di abnegazione.
Avevamo progettato di diventare persone pronte al perdono, disponibili e sempre gentili.
Avevamo una visione di noi stessi come di persone che portano la riconciliazione e la pace.
Ma in qualche modo -non siamo nemmeno certi di quello che sia successo -abbiamo perduto il nostro sogno. Siamo diventati persone inquiete e ansiose e ci aggrappiamo alle poche cose che avevamo raccolto e ci scambiamo notizie di scandali politici, sociali ed ecclesiastici del giorno. È questa perdita di spirito ad essere spesso la più dura da riconoscere e la più difficile da confessare.
Ma al di là di tutte queste cose c’ è la perdita di fede -la perdita della convinzione che la nostra vita abbia significato. Per un certo tempo siamo stati capaci di sopportare le nostre perdite e di viverle persino con forza d’animo e con perseveranza perché le abbiamo vissute come perdite che ci avrebbero portato più vicino a Dio.
Le pene e la sofferenza della vita erano sopportabili perché le vivevamo come sistemi per mettere alla prova la nostra forza di volontà e per rendere più profonda la nostra convinzione. Ma andando avanti con l’età scopriamo che quello che ci ha sorretto per molti anni -preghiera, devozione, sacramenti, vita di comunità e una chiara conoscenza dell’ amore di Dio che guida -ha allentato la sua presa su di noi.
Idee a lungo serbate, discipline a lungo r praticate e abitudini a lungo mantenute di celebrare la vita non riescono più a riscaldare il nostro cuore e non comprendiamo più perché e come fossimo così motivati. Ricordiamo il tempo in cui Gesù era così reale per noi da non esserci alcun dubbio circa la sua presenza nella nostra vita.
Era il nostro amico più intimo, nostro consigliere e nostra guida. Ci dava conforto, coraggio e fiducia in noi stessi. Potevamo sentirlo, sì, gustarlo e toccarlo.
E ora? Non pensiamo più a lui molto a lungo, non desideriamo più passare molte ore alla sua presenza. Non abbiamo più quella speciale sensazione su di lui. Ci chiediamo persino se egli sia qualcosa di più che semplicemente un personaggio di un libro di racconti. Molti dei nostri amici ridono di lui, dileggiano il suo nome o semplicemente lo ignorano. Gradualmente siamo arrivati a renderci conto che anche per noi è diventato un estraneo -in qualche modo lo abbiamo perso.
Non sto cercando di dire che tutte queste perdite toccheranno la vita di ognuno di noi. Ma mentre camminiamo insieme e ci ascoltiamo l’un l’altro possiamo ben presto scoprire che molte, se non la maggior parte di queste perdite fanno parte del viaggio, del nostro viaggio o del viaggio dei nostri compagni.
Che cosa fare di fronte alle nostre perdite?
Questa è la prima domanda che ci troviamo ad affrontare. Le nascondiamo?
Dobbiamo vivere come se non fossero reali?
Le dobbiamo tenere lontane dai nostri compagni di viaggio?
Dobbiamo convincere noi stessi o gli altri che le nostre perdite sono minime rispetto a quanto abbiamo acquisito?
Dobbiamo biasimare qualcuno?
Facciamo tutto ciò la maggior parte delle volte, ma c’è un’altra possibilità: la possibilità di piangere. Sì! Dobbiamo piangere le nostre perdite. Non possiamo dire o fingere che non ci siano, ma possiamo versare lacrime su di loro e permettere a noi stessi di affliggerci profondamente.
Affliggersi significa permettere alle nostre perdite di lacerare i sentimenti di sicurezza e protezione e di condurci alla dolorosa verità della nostra rottura, della nostra prostrazione. Il nostro dolore ci fa sperimentare l’abisso della nostra vita in cui nulla c’è di sistemato, chiaro, ovvio e tutto è in costante movimento e cambiamento.
E mentre sentiamo il dolore per le nostre perdite, il nostro cuore afflitto apre il nostro occhio interiore ad un mondo in cui le perdite sono sofferte molto al di là del nostro piccolo mondo della famiglia, degli amici e dei colleghi.
È il mondo dei carcerati, dei rifugiati, dei malati di AIDS, dei bambini che muoiono di fame e degli innumerevoli esseri umani che vivono in costante paura. Allora il dolore del nostro cuore affranto ci collega al pianto e all’afflizione di un’umanità sofferente. Allora il nostro pianto diventa più grande di noi.
Ma in mezzo a tutto questo dolore c’è una voce strana, scioccante e tuttavia sorprendente.
È la voce di colui che dice: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati».
È la notizia inaspettata: c’è una benedizione nascosta nella nostra sofferenza. Non coloro che consolano sono beati, ma coloro che sono afflitti! In qualche modo, in mezzo alle nostre lacrime è nascosto un dono. In qualche modo, in mezzo alla nostra afflizione hanno luogo i primi passi della danza. In qualche modo, il pianto che sgorga dalle nostre perdite appartiene ai nostri canti di gratitudine.
Arriviamo all’eucaristia con il cuore spezzato da molte perdite, le nostre ed anche quelle del mondo. Come i due discepoli che tornavano a casa alloro villaggio diciamo: «Noi speravamo… ma abbiamo perso la speranza. Tortura e morte sono invece venute». La nostra testa non è più eretta, guardando in avanti, ma triste e rivolta a terra.
È così che comincia il viaggio. La questione è se le nostre perdite ci conducono al risentimento o alla gratitudine. Il risentimento è un’opzione reale. Molti lo scelgono. Quando siamo colpiti da una perdita dietro l’altra, è molto facile diventare disillusi, arrabbiati, amareggiati e sempre più pieni di risentimento. Più avanzano gli anni, più è grande la tentazione di dire:
«La vita mi ha ingannato. Non c’è futuro per me, niente per cui sperare. L’unica cosa da fare è di difendere il poco che mi è rimasto, in modo da non perdere proprio tutto».
Il risentimento è una delle forze più distruttive della nostra vita.
È la rabbia fredda che si è sistemata al centro del nostro essere indurendo il nostro cuore. Il risentimento può diventare un modo di vita che pervade a tal punto le nostre parole e azioni da non riconoscerlo più come tale.
Spesso mi chiedo come potrei vivere se non ci fosse per niente del risentimento nel mio cuore. Sono così abituato a parlare delle persone che non mi piacciono, a nutrire i ricordi degli eventi che mi hanno causato tanto dolore o ad agire con sospetto e paura tanto che non so come sarebbe se non ci fosse nulla di cui lamentarsi e nessuno di cui brontolare!
Il mio cuore ha ancora molti angoli che nascondono i miei risentimenti e mi chiedo se voglio veramente esserne privo. Che cosa farei senza questi risentimenti? Ci sono molti momenti nella vita in cui ho l’ opportunità di alimentarli. Prima di colazione ho già avuto molti sentimenti di sospetto e gelosia, molti pensieri riguardo a persone che preferisco evitare e molti piccoli progetti per vivere la mia giornata con varie difese.
Mi chiedo se ci siano delle persone senza risentimenti.
Il risentimento è una risposta così spontanea alle nostre molte perdite. La tragedia è che c’è molto risentimento nascosto all’interno della chiesa. È uno degli aspetti più paralizzanti della comunità cristiana.
Eppure, l’eucaristia presenta un’altra opzione. È la possibilità di scegliere non risentimento, ma gratitudine. Piangere le nostre perdite è il primo passo dal risentimento verso la gratitudine. Le lacrime del nostro dolore possono ammorbidire il nostro cuore indurito e aprirci alla possibilità di dire ‘grazie’.
La parola ‘eucaristia’ significa letteralmente “azione di rendimento di grazie”. Celebrare l’eucaristia e vivere una vita eucaristica ha tutto a che fare con la gratitudine. Vivere eucaristicamente significa. vivere la vita come un dono, un dono per il quale si è grati. Ma la gratitudine non è la risposta più spontanea alla vita, certamente non quando sperimentiamo la vita come una serie di perdite!
Tuttavia, il grande mistero che celebriamo nell’eucaristia e che viviamo in una vita eucaristica è precisamente questo: attraverso il pianto per le nostre perdite giungiamo a conoscere la vita come un dono.
La bellezza e la preziosità della vita sono intimamente connesse alla sua fragilità e mortalità. Possiamo farne esperienza ogni giorno – quando prendiamo in mano un fiore, quando vediamo una farfalla danzare nell’aria, quando accarezziamo un bambino piccolo. Fragilità e doti ci sono entrambe e la nostra gioia è connessa ad entrambe.
Ogni eucaristia inizia con una forte richiesta di misericordia a Dio.
Probabilmente non c’è preghiera nella storia del cristianesimo che sia stata pregata così frequentemente e intimamente come l’invocazione «Signore, pietà». È la preghiera che non solo sta all’inizio di tutte le liturgie eucaristiche occidentali, ma che risuona anche come un grido continuo in tutte le liturgie orientali. «Signore, pietà», «Kyrie eleison», «Gospody Pomiloe». È il grido del popolo di Dio, il grido del popolo dal cuore contrito.
Questa accorata richiesta di misericordia è possibile soltanto quando siamo disposti a confessare che in qualche modo, da qualche parte, noi stessi abbiamo qualcosa a che fare con le nostre perdite.
Chiedere pietà è riconoscere che prendersela con Dio, con il mondo o con gli altri per le nostre perdite non rende piena giustizia alla verità di chi noi siamo. Al momento siamo disposti ad assumerci la responsabilità anche del dolore che non abbiamo causato diretta- mente; il biasimo viene allora convertito in un riconoscimento del nostro ruolo nella rottura e nella prostrazione umane.
La preghiera per la misericordia di Dio procede da un cuore che sa che questa rottura e questa prostrazione umane non sono una condizione fatale della quale siamo diventati le tristi vittime, ma il frutto amaro della scelta umana di dire ‘no’ all’amore.
I discepoli che tornavano a casa a Emmaus erano tristi perché avevano perduto colui nel quale avevano riposto tutte le loro speranze, ma erano anche del tutto consapevoli che erano stati i loro capi a crocifiggerlo. In qualche modo sapevano che il loro dolore era collegato al male, un male che essi potevano riconoscere nel loro stesso cuore.
Celebrare l’ eucaristia richiede che noi, stando in questo mondo, accettiamo la nostra corresponsabilità per il male che ci circonda e ci pervade. Finché rimaniamo attaccati al lamentarci dei tempi terribili in cui viviamo, alle terribili situazioni che dobbiamo sopportare e al destino terribile che dobbiamo soffrire, non possiamo giungere alla contrizione.
La contrizione può svilupparsi soltanto da un cuore contrito. Quando le nostre perdite sono semplicemente destino, i nostri miglioramenti sono pura fortuna! Il destino non conduce alla contrizione, ne la fortuna alla gratitudine.
In realtà, i conflitti nella nostra vita personale come pure i conflitti su scala regionale, nazionale o mondiale sono i nostri conflitti e soltanto assumendoci la responsabilità per essi possiamo andare al di là di essi scegliendo una vita di perdono, pace e amore.
Il Kyrie eleison -Signore, pietà -deve emergere da un cuore pentito. A differenza di un cuore indurito, un cuore pentito è un cuore che non biasima, ma riconosce la propria parte nella colpevolezza del mondo, venendo così preparato a ricevere la misericordia di Dio.
Ricordo ancora una meditazione serale alla televisione olandese durante la quale il presentatore versava dell’acqua su della terra indurita e inaridita, dicendo: «Guardate: questo terreno non può ricevere l’acqua e in esso non può crescere nessun seme». Poi, dopo aver frantumato il terreno con le sue mani e avervi versato di nuovo dell’acqua, disse: «È soltanto il terreno frantumato che riesce a ricevere l’ acqua e a far crescere e fruttificare il seme».
Dopo aver visto questo, compresi cosa significasse iniziare l’ eucaristia con un cuore pentito, un cuore frantumato e aperto a ricevere l’acqua della grazia di Dio.
Ma come è possibile iniziare una celebrazione di ringraziamento con un cuore spezzato? Il riconoscimento del nostro stato di peccato e la consapevolezza della nostra co-responsabilità nel male del mondo non ci paralizzano? Una vera ammissione di peccati non è troppo debilitante? Sì; lo è!
Ma nessun peccato può essere affrontato senza una qualche conoscenza della grazia. Nessuna perdita può essere rimpianta senza una qualche intuizione che troveremo nuova vita.
Quando i discepoli sulla via di Emmaus raccontarono la loro storia riguardante la loro grande perdita, essi raccontarono anche quella strana storia delle donne che avevano trovato la tomba vuota e che avevano visto degli angeli. Ma essi erano scettici e dubbiosi. Non era stato crocifisso alcuni giorni prima? Non era finito tutto? Alla fine non aveva vinto il male? Allora che cosa erano queste storie di donne, secondo le quali egli era vivo ? Chi poteva crederci sul serio? Ma poi hanno dovuto aggiungere ancora: «Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
Questo è in genere il nostro approccio all’eucaristia. Con uno strano miscuglio di disperazione e speranza. Una parte di noi, guardando la nostra vita e quella di chi ci circonda, vuol dire: «Dimentichiamo tutto. È tutto finito.
Oh! Sicuro che pensavamo a un mondo migliore, che immaginavamo una nuova comunità d’amore e che sognavamo un tempo in cui tutta la gente sarebbe vissuta insieme in pace.
Ma ora sappiamo tutta la verità. Ora noi sappiamo che tutto questo era poco più che un’illusione. Il nostro carattere immutabile e le persistenti cattive abitudini, le nostre gelosie e i risentimenti, i nostri momenti di rabbia e di vendetta, la nostra violenza incontrollabile, gli innumerevoli sintomi di crudeltà umana, i crimini, la tortura, le guerre, gli sfruttamenti -tutto ciò ci ha sicuramente risvegliato all’amara verità che la nostra giovanile speranza è stata crocifissa».
Tuttavia, le altre storie rimangono e continuano a fare la loro comparsa. Storie di alcune persone che 1’hanno vista diversamente, storie di gesti di perdono e guarigione, storie di bontà, di bellezza e di verità.
E mentre ascoltiamo attentamente le voci più profonde nel nostro cuore, ci rendiamo conto che sotto al nostro scetticismo e cinismo c’è un desiderio ardente di amore, unità e comunione che non scompare nemmeno quando ci rimangono così tanti argomenti per abbandonarlo tra i ricordi sentimentali .dell’infanzia.
«Signore, pietà; Signore, pietà; Signore, pietà». È la preghiera che continua ad emergere dalla profondità del nostro essere e a sfondare le pareti del nostro cinismo.
Sì! Siamo peccatori, peccatori senza speranza; tutto è perduto e non rimane niente delle nostre speranze e dei nostri sogni.
Eppure c’è una voce: «Ti basta la mia grazia» e noi chiediamo di nuovo la guarigione del nostro cuore cinico e osiamo credere che veramente, in mezzo al nostro pianto, possiamo trovare un dono di cui essere grati.
Ma per questa scoperta abbiamo bisogno di un compagno speciale!

«Parola di Dio»

Mentre i due viaggiatori sono in cammino verso casa piangendo ciò che hanno perduto, Gesù si accosta e cammina con loro, ma i loro occhi sono incapaci di riconoscerlo. All’improvviso non ci sono più due, ma tre persone che camminano e tutto diventa diverso.
I due amici non guardano più in basso la strada davanti a loro, ma negli occhi dello sconosciuto che si è unito a loro e che ha chiesto: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?».
C’è dello stupore, persino dell’agitazione: «Tu solo sei così forestiero da non sapere ciò che è accaduto! ».. Poi segue un lungo racconto: la storia riguardo a ciò che hanno perduto, la storia riguardo a una notizia sconcertante di una tomba vuota.
Qui almeno c’è qualcuno ad ascoltare, qualcuno che è disponibile ad ascoltare le parole di disillusione, di tristezza e di totale confusione. Niente sembra aver senso. Ma è meglio raccontarlo a uno sconosciuto che raccontarsi l’un l’altro i fatti noti.
Poi avviene qualcosa! Qualcosa cambia. Lo sconosciuto comincia a parlare e le sue parole richiedono una seria attenzione. Egli li aveva ascoltati; ora sono loro ad ascoltare lui. Le sue parole sono molto chiare e dirette. Egli parla di cose che già sapevano: il loro lungo passato con tutto quello che era accaduto durante i secoli prima che essi nascessero, la storia di Mosè che condusse il loro popolo alla libertà e la storia dei profeti che hanno richiamato il loro popolo a non abbandonare la libertà acquistata a caro prezzo.
Era una storia tutta troppo familiare. Eppure suonava come se la stessero ascoltando per la prima volta.
La differenza stava nel narratore! Uno sconosciuto , comparso da non si sa dove eppure uno che, in qualche modo, sembra più vicino di chiunque avesse sempre raccontato quella storia.
La perdita, il dolore, la colpa, la paura, i barlumi di speranza e le molte domande senza risposta che esigevano attenzione nella loro mente inquieta, tutto ciò è stato innalzato da questo sconosciuto e posto nel contesto di una storia molto più ampia della loro.
Ciò che era sembrato confondere così tanto cominciava ad offrire orizzonti nuovi; ciò che era sembrato così opprimente cominciava a farsi sentire liberante; ciò che era sembrato così estremamente triste cominciava ad assumere l’aspetto della gioia!
Mentre parlava loro, pian piano cominciarono a capire che la loro piccola vita non era poi così piccola come essi pensavano, ma parte di un grande mistero che non solo abbracciava molte generazioni, ma che si estendeva dall’eternità all’eternità.
Lo sconosciuto non ha detto che non c’ era motivo di tristezza, ma che la loro tristezza era parte di una tristezza più ampia in cui era nascosta la gioia.
Lo sconosciuto non ha detto che la morte che stavano piangendo non fosse reale, ma che si trattava di una morte che inaugurava persino più vita -vita vera. Lo sconosciuto non ha detto che non avevano perso un amico che aveva dato loro nuovo coraggio e nuova speranza, ma che questa perdita avrebbe creato una via per una relazione che sarebbe andata molto al di là di qualsiasi amicizia di cui essi avessero mai fatto esperienza.
Ne lo sconosciuto ha mai negato ciò che essi gli hanno detto. Al contrario, egli lo ha considerato come parte di un evento più ampio nel quale ad essi era permesso svolgere un ruolo unico.
Tuttavia, questa non è stata una conversazione consolante.
Lo sconosciuto era forte, diretto e tutt’altro che sentimentale. Non c’erano consolazioni facili. È sembrato persino che egli rendesse ancora più profonda la loro afflizione, con una verità che potrebbero aver preferito non conoscere. Dopo tutto, un continuo lamentarsi attrae di più che affrontare la realtà.
Ma lo sconosciuto non aveva la minima paura di sfondare le loro difese e di chiamarli oltre la loro ristrettezza di mente e di cuore.
«Stolti», disse, «tardi di cuore nel credere». Queste parole vanno dirette al cuore dei due uomini. ‘Stolti’ è una parola dura, una parola che ci offende e che ci mette sulle difensive.
Ma può anche sfondare una copertura fatta di paura e di imbarazzo e condurre poi a tutta una nuova conoscenza dell’essere umani.
È una chiamata al risveglio, è uno strappare via le bende dagli occhi, un demolire gli inutili dispositivi di protezione. Voi stolti, non vedete -non sentite – non capite?
Continuate a guardare una piccola boscaglia e non vi rendete conto che state in cima a una montagna che vi offre una visione universale.
Continuate a fissare lo sguardo su un ostacolo e non siete disposti a considerare che l’ ostacolo è stato messo lì per mostrarvi la strada giusta.
Continuate a lamentarvi delle vostre perdite e non vi rendete conto che queste perdite ci sono per mettervi in grado di ricevere il dono della vita.
Lo sconosciuto ha dovuto chiamarli ‘stolti’ per farli vedere. E qual è la sfida? Aver fiducia. Non credevano che la loro esperienza fosse qualcosa di più che l’esperienza di una perdita irrecuperabile.
Credevano che non ci fosse altro da fare che tornare a casa e riprendere il loro vecchio modo di vivere. «Stolti e tardi di cuore nel credere». Tardi nel credere: tardi nel confidare nel piano più ampio delle cose; tardi nello scavalcare i loro molti lamenti per scoprire l’ampio spettro di opportunità nuove; tardi nell’ andare oltre le sofferenze del momento, per vederle come parte di un processo di guarigione molto più ampio.
Questa lentezza non è una lentezza innocente perché ci può intrappolare nei nostri lamenti e nella nostra ristrettezza di mente e di cuore.
È la lentezza che può impedirci di scoprire il panorama in cui viviamo. È possibile giungere al termine della nostra vita senza aver mai saputo chi siamo e cosa dovremmo diventare. La vita è breve.
Non possiamo aspettarci semplicemente che il poco che vediamo, sentiamo e sperimentiamo ci possa rivelare tutta la nostra esistenza. Abbiamo la vista troppo corta e siamo troppo duri di orecchi per questo.
Qualcuno deve aprire i nostri occhi e i nostri orecchi per aiutarci a scoprire cosa c’ è I al di là della nostra percezione. Qualcuno deve far ardere i nostri cuori !
Gesù si unisce a noi mentre camminiamo nella tristezza e ci spiega le Scritture. Ma non sappiamo che è Gesù. Pensiamo che sia uno sconosciuto che conosce meno di noi ciò che sta avvenendo nella nostra vita.
Eppure, discerniamo qualcosa, percepiamo qualcosa, intuiamo qualcosa: il nostro cuore comincia ad ardere. Nel momento stesso in cui è con noi non riusciamo a capire del tutto ciò che sta succedendo. Non possiamo parlarne insieme.
Più tardi, sì, più tardi, quando tutto è finito, potremmo essere in grado di dire: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». Ma quando cammina con noi è tutto troppo vicino per la riflessione.
È con questa presenza misteriosa che la ‘liturgia della Parola vuole metterci in contatto durante ogni eucaristia ed è questa stessa presenza misteriosa che ci viene costantemente rivelata mentre viviamo la nostra vita eucaristicamente.
Le letture dall’Antico e dal Nuovo Testamento e l’omelia che segue queste letture ci vengono fornite per discernere la sua presenza mentre cammina con noi nella nostra tristezza.
Ogni giorno ci sono letture diverse; ogni giorno c’ è una parola diversa di spiegazione o esortazione.
Ogni giorno ci sono parole ad accompagnarci. Non possiamo vivere senza parole che vengono da Dio, parole per tirarci fuori dalla nostra tristezza ed innalzarci fino ad un luogo da dove possiamo scoprire ciò che stiamo veramente vivendo.
È importante sapere che, per quanto queste parole, lette o parlate, siano là per informarci, istruirci o ispirarci, il loro primo significato è che ci rendono presente Gesù stesso.
Nel nostro viaggio Gesù ci spiega i brani che si riferiscono a lui. Sia che leggiamo il libro dell’Esodo, dei Salmi, i Profeti o i Vangeli, sono tutti lì per far ardere il nostro cuore.
La presenza eucaristica è, prima di tutto, una presenza attraverso la parola. Senza quella presenza attraverso la parola, non saremmo capaci di riconoscere la sua presenza nello spezzare il pane.
Viviamo in un mondo in cui le parole sono a buon mercato.
Le parole ci divorano. Nelle pubblicità, nel- le affissioni e nei segnali stradali, negli opuscoli, nei dépliant e nei libri, sulle lavagne, sulle lavagne luminose, sulle lavagne a fogli girevoli, sugli schermi e pannelli informatori.
Le parole si muovono, vibrano, si girano, diventano più grandi, più luminose e più piene. Ci vengono presentate in tutte le misure e in tutti i colori -ma alla fine diciamo: «Beh! Sono solo parole».
Aumentate in quantità, le parole sono diminuite di valore. Il loro valore principale sembra essere informativo.
Le parole ci informano. Abbiamo bisogno delle parole al fine di sapere cosa fare o come farlo, dove andare e come andarci.
Non sorprende, dunque, che le parole nell’eucaristia siano ascoltate principalmente come parole che ci informano. Ci raccontano una storia, istruiscono, ammoniscono.
Dal momento che la maggior parte di noi ha già sentito queste parole, raramente queste ci toccano in profondità. Spesso prestiamo loro poca attenzione; sono diventate troppo familiari. Non ci aspettiamo di essere sorpresi o toccati.
Le ascoltiamo come <<da solita vecchia storia>> -tanto lette da un libro che pronunciate da un pulpito.
La tragedia, allora, è che la parola perde la sua qualità sacramentale.
La parola di Dio è sacramentale. Ciò significa che è sacra e in quanto parola sacra produce ciò che significa.
Quando Gesù parlava ai due tristi viaggiatori lungo la strada e spiegava loro le parole delle Scritture che si riferivano a lui stesso, i loro cuori hanno cominciato ad ardere, vale a dire, hanno fatto esperienza della sua presenza. Parlando di se si è reso loro presente. Con le sue parole ha fatto molto di più che farli semplicemente pensare a lui o istruirli su di se o infondere loro il suo ricordo. Con le sue parole è diventato veramente presente per loro.
Questo è ciò che intendiamo per qualità sacramentale della parola.
La parola crea ciò che esprime. La parola di Dio è sempre sacramentale. Nel libro della Genesi ci viene detto che Dio ha creato il mondo, ma in ebraico le parole per ‘parlare’ e per ‘creare’ sono identiche. Tradotto letteralmente: «Dio disse luce e luce fu».
Per Dio parlare è creare. Quando diciamo che la parola di Dio è sacra, intendiamo dire che la parola di Dio è piena della presenza di Dio. Sulla strada di Emmaus Gesù è diventato presente attraverso la sua parola ed è stata quella presenza a trasformare la tristezza in gioia e il pianto in danza.
Questo è ciò che accade in ogni eucaristia. La parola letta e pronunciata vuole condurci alla presenza di Dio e trasformare il nostro cuore e la nostra mente. Spesso pensiamo alla parola come ad un’esortazione ad uscire per cambiare la nostra vita. Ma la vera forza della parola si trova non in come la applichiamo alla nostra vita dopo che l’ abbiamo udita, ma nel suo potere di trasformazione che la sua azione ‘divina opera mentre ascoltiamo.
I Vangeli sono pieni di esempi della presenza di Dio nella parola. Personalmente, sono sempre toccato dal racconto di Gesù nella sinagoga di Nazareth. Là lesse da Isaia:
Lo Spirito del Signore è sopra di me.
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi
e predicare un anno di grazia del Signore.
(Luca 4) 18-19)
Dopo aver letto queste parole, Gesù disse: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi». Immediatamente diventa chiaro che i poveri, i prigionieri, i ciechi e gli oppressi non sono delle persone da qualche parte fuori dalla sinagoga che, prima o poi, saranno liberate; sono le persone che ascoltano. È nell’ascolto che Dio si fa presente e guarisce.
La parola di Dio non è una parola da impiegare nella nostra vita quotidiana a una qualche data posteriore; è una parola per sanarci attraverso e nel nostro ascolto, qui e ora.
Le domande quindi sono:
come viene Dio a me, mentre ascolto la parola?
dove posso discernere la mano risanatrice di Dio, che mi tocca attraverso la parola?
come vengono trasformati la mia tristezza, il mio dolore e il mio pianto, proprio in questo momento?
percepisco il fuoco dell’amore di Dio, che purifica il mio cuore e che mi dà vita nuova?
Queste domande mi conducono al sacramento della parola, il luogo sacro della presenza reale di Dio.
All’inizio tutto questo può suonare davvero nuovo per una persona che vive in una società in cui il valore principale della parola è la sua applicabilità.
Ma la maggior parte di noi già conosce, generalmente in modo inconscio, la forza risanatrice o distruttiva della parola parlata.
Quando qualcuno mi dice: «Ti voglio bene» o «Ti odio», non ricevo semplicemente una qualche utile informazione. Queste parole fanno qualcosa in me. Fanno agitare il sangue, battere il cuore, accelerare il respiro. Mi fanno sentire e pensare diversamente. Mi innalzano a un nuovo modo di essere e mi danno un’ altra conoscenza di me stesso.
Queste parole hanno il potere di sanarmi odi distruggermi.
Quando Gesù si unisce a noi sulla strada e ci spiega le Scritture, dobbiamo ascoltare con tutto il nostro essere, confidando nel fatto che la parola che ci ha creato ci sanerà anche. Dio vuole farsi presente a noi e così trasformare radicalmente il nostro cuore pieno di paura.
La qualità sacramentale della parola rende Dio presente non soltanto come un’intima presenza personale, ma anche come una presenza che ci dà un posto nella grande storia della salvezza.
Il Dio che si fa a noi presente non è solo il Dio del nostro cuore, ma anche il Dio di Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lia, il Dio di Isaia e Geremia, il Dio di Davide e Salomone, il Dio di Pietro e Paolo, di S. Francesco e Dorothy Day -il Dio il cui amore universale ci viene rivelato in Gesù, il compagno del nostro viaggio.
La parola dell’eucaristia ci fa partecipi della grande storia della nostra salvezza. Le nostre piccole storie vengono innalzate nella grande storia di Dio e là viene assegnato il loro posto, che è unico.
La parola ci innalza e ci fa vedere che la nostra vita quotidiana e ordinaria è in effetti vita sacra che svolge un ruolo necessario nell’adempimento delle promesse di Dio. La parola scritta e parlata dell’eucaristia ci permette di dire insieme a Maria: «Ha guardato 1’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente… ricordandosi della sua misericordia come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre». .
Qui vediamo che l’eucaristia, come la celebriamo nella sacra liturgia, ci chiama a una vita eucaristica, una vita in cui siamo sempre consapevoli del nostro ruolo nella storia sacra della presenza redentrice di Dio attraverso tutte le generazioni.
La grande tentazione della nostra vita è di negare il nostro ruolo come popolo eletto e così ci lasciamo intrappolare dalle preoccupazioni della nostra vita quotidiana.
Senza la parola che in continuazione ci innalza come popolo eletto di Dio, rimaniamo, o diventiamo, persone piccole attaccate ai lamenti che emergono dalla nostra lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Senza la parola che fa ardere il nostro cuore, non possiamo fare molto di più che tornare a casa, rassegnati al triste fatto che non c’è niente di nuovo sotto il sole.
Senza la parola, la nostra vita ha poco senso, poca vitalità e poca energia.
Senza la parola rimaniamo persone di poco conto che si interessano solo di cose di poco conto, che vivono una vita di poco conto e muoio- no una morte di poco conto.
Senza la parola possiamo anche fare notizia nel giornale locale o persino nazionale per un giorno o due, ma non ci sarà nessuna generazione a chiamarci beati.
Senza la parola le nostre pene e sofferenze isolate possono estinguere lo Spirito che è in noi e renderci vittime dell’amarezza e del risentimento.
Abbiamo bisogno della parola parlata e spiegata da colui che si unisce a noi lungo la strada e che ci fa conoscere la sua presenza -una presenza possibile da discernere dapprima nel nostro cuore ardente. È questa presenza che ci incoraggia a lasciar andare il nostro cuore indurito per diventare grati. Come persone grate possiamo invitare nell’intimità della nostra casa colui che ha fatto ardere il nostro cuore.

«Credo»

Mentre ascoltano lo sconosciuto, qualcosa cambia dentro i due viaggiatori tristi. Non solo percepiscono una speranza nuova e una gioia nuova che toccano il loro essere più intimo, ma la loro andatura è diventata meno esitante. Lo sconosciuto ha dato loro un nuovo senso di direzione. “Andare a casa” non significa più ritornare all’unico luogo rimasto. La casa è diventata più che un riparo necessario, una casa dove possono stare fin quando non sanno che altro fare..
Lo sconosciuto ha dato alloro viaggio un significato nuovo. La loro casa vuota è diventata un luogo di accoglienza, un luogo per ricevere gli ospiti, un luogo per continuare la conversazione che avevano iniziato in modo così inaspettato.
Quando senti solo le tue perdite, allora tutto intorno a te parla di queste. Gli alberi, i fiori, le nuvole, le colline e le valli, tutto riflette la tua tristezza. Tutto sembra nel pianto.
Quando la tua amica più cara è morta, tutto nella natura parla di lei. Il vento sussurra il suo nome, i rami, appesantiti dalle foglie, piangono per lei e le dalie e i rododendri offrono i loro petali per coprire il suo corpo.
Ma se continui a camminare avanti con qualcuno al tuo fianco, aprendo il cuore alla verità misteriosa che la morte della tua amica non era solo la fine, ma anche un nuovo inizio, non soltanto la crudeltà del destino, ma la via necessaria alla libertà, non soltanto una brutta e orribile distruzione, ma una guida sofferente verso la gloria, allora puoi discernere gradualmente una nuova canzone che risuona attraverso il creato e andare a casa corrisponde al desiderio più profondo del tuo cuore.
Di tutte le parole che lo sconosciuto ha detto, ce ne è stata una che resiste nella mente dei viaggiatori: ‘gloria’. «Non bisognava», aveva detto, «che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?».
Il loro cuore e la mente erano ancora così pieni di immagini di morte e distruzione e ora ecco quella parola: ‘gloria’. Non sembrava adatta e tuttavia, detta da questo sconosciuto, incendia il loro cuore e fa loro vedere ciò che non erano riusciti a vedere prima. Era come se avessero visto soltanto il letame che copriva la terra e mai i frutti degli alberi che ne erano derivati. Gloria, luce, splendore, bellezza, verità -tutto sembrava così irreale e irraggiungibile!
Ma ora c’erano dei suoni nuovi nell’aria e colori nuovi nei campi. Andare a casa era diventata una buona cosa. La casa ci chiama. La casa è dove c’ è il tavolo -il tavolo per sedervisi intorno, per mangiare e bere con gli amici !
E lo sconosciuto? non è diventato un amico?
Egli fa ardere il nostro cuore, ci apre gli occhi e gli orecchi.
È il nostro compagno di viaggio! La casa è diventata un bel posto per far venire l’amico. Allora dicono: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli non chiede un invito. Non domanda un posto dove stare. In effetti, egli fa come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistono per farlo entrare; quasi lo spingono per farlo stare con loro. Egli accetta. Entra per rimanere con loro.
Forse non siamo abituati a pensare all’eucaristia come a un invito a Gesù di rimanere con noi. Siamo più inclini a pensare a Gesù che invita noi alla sua casa, alla sua tavola, al suo pasto.
Ma Gesù vuole essere invitato. Senza un invito proseguirà per altri luoghi. È molto importante rendersi conto che Gesù non si impone mai su di noi.
Finché non lo invitiamo, egli rimarrà sempre uno sconosciuto, forse uno sconosciuto molto affascinante e intelligente con il quale abbiamo avuto una conversazione interessante, ma comunque uno sconosciuto.
Anche dopo che ha portato via molta della nostra tristezza e dopo che ci ha mostrato che la nostra vita non è così piccola e insignificante come pensavamo, egli può ancora rimanere quello che abbiamo incontrato per strada, la persona straordinaria che ha attraversato la nostra strada e che ha parlato con noi per un po’, la personalità insolita di cui possiamo parlare alla nostra famiglia e agli amici.
Ricordo molti incontri con persone che mi hanno fatto ardere il cuore, ma che io non ho invitato a casa mia. A volte avviene durante un lungo viaggio in aereo, a volte in treno, a volte a una festa. Successivamente dico ai miei amici: «Fatemi raccontare chi ho incontrato oggi. Una persona proprio affascinante. Ha detto cose così straordinarie che non potevo credere ai miei orecchi. Sembrava che mi conoscesse intimamente. Sì! Riusciva a leggere i miei pensieri e a parlarmi come se mi conoscesse da tanto tempo.
Molto speciale, proprio unico, persino stupefacente. Mi sarebbe piaciuto che anche voi lo aveste potuto incontrare! Ma ha proseguito… Non so per dove!».
Per quanto questi sconosciuti possano essere interessanti, stimolanti e ispiranti, se non li invito a entrare in casa mia, in realtà non succede niente. Potrei avere alcune nuove idee, ma la mia vita rimane fondamentalmente la stessa.
Senza un invito, che è l’espressione del desiderio di una relazione duratura, la buona notizia che abbiamo udito non può portare dei frutti duraturi. Rimane ‘notizia’ tra i tanti tipi di notizie che ci bombardano ogni giorno.
È una delle caratteristiche della nostra società contemporanea che gli incontri, per quanto possano essere belli, non diventano relazioni profonde.
E così la nostra vita è piena di buoni consigli, idee utili, prospettive meravigliose, ma tutto ciò si aggiunge semplicemente alle tante altre idee e prospettive lasciandoci “non compiuti”.
In una società con un tale sovraccarico informativo, anche gli incontri più significativi possono essere ridotti soltanto a ‘qualcosa d’interessante’ in mezzo a tante altre cose interessanti.
Soltanto con un invito a «entrare per rimanere con me» un incontro interessante può svilupparsi in una relazione trasformante.
Uno dei momenti più decisivi dell’eucaristia -e della nostra vita -è il momento dell’invito. Diciamo: «È stato bello incontrarti; grazie per la tua capacità di penetrazione, del tuo consiglio e del tuo incoraggiamento. Spero che il resto del tuo viaggio vada bene. Arrivederci!». O diciamo: «Ti ho sentito, il mio cuore sta cambiando… Per favore entra in casa mia per vedere dove e come vivo!». Questo invito a venire a vedere è l’invito che fa tutta la differenza.
Gesù è una persona molto interessante; le sue parole sono piene di sapienza. La sua presenza riscalda il cuore. La sua gentilezza e benevolenza sono profondamente commoventi. Il suo messaggio è una vera sfida.
Ma lo invitiamo in casa nostra?
Vogliamo che lui venga a conoscerci dietro le pareti della nostra vita più intima?
Vogliamo presentarlo a tutte le persone con cui viviamo?
Vogliamo che ci veda nella nostra vita di tutti i giorni?
Vogliamo che ci tocchi dove siamo più vulnerabili?
Vogliamo che entri nelle nostre camere nel retro di casa nostra, camere che noi stessi preferiamo tenere chiuse al sicuro?
Vogliamo veramente che lui resti con noi quando si fa sera e il giorno già volge al declino?
L’eucaristia richiede questo invito. Avendo ascoltato la sua parola, dobbiamo essere capaci di dire di più che: «Tutto questo è interessante!». Dobbiamo osare dire:
«Mi fido di te; mi affido a te con tutto il mio essere, corpo, mente e anima.
Non voglio tenerti nascosto alcun segreto.
Puoi vedere ogni cosa che faccio e sentire ogni cosa che dico.
Non voglio più che tu sia uno sconosciuto.
Voglio che tu diventi il mio amico più intimo.
Voglio che tu mi conosca, non soltanto per come cammino lungo la strada e come parlo ai miei compagni di viaggio, ma anche per come mi trovo solo con i miei sentimenti e pensieri più profondi.
E, soprattutto, voglio arrivare a conoscerti non solo come mio compagno di viaggio, ma come il compagno della mia anima».
Dire questo non è facile, poiché siamo persone piene di paure e non affidiamo facilmente ogni parte di noi stessi agli altri. La nostra paura di aprirci completamente e anche la paura della nostra vulnerabilità è uguale al nostro desiderio di conoscere e di essere conosciuti.
Nascondo persino a me stesso alcune mie parti! Ci sono pensieri, sentimenti ed emozioni che mi turbano così tanto che preferisco vivere come se non ci fossero.
Se non mi fido di me stesso come posso fidarmi di chiunque altro? Eppure il mio desiderio più profondo è di amare e di essere amato e ciò è possibile sol- tanto se sono disposto a conoscere e a essere conosciuto.
Gesù si rivela a noi come il Buon Pastore che ci conosce intimamente e ci ama. Ma vogliamo essere conosciuti da lui?
Vogliamo che entri liberamente in ogni stanza della nostra vita interiore?
Vogliamo che veda il nostro lato cattivo come anche quello buono, le nostre luci e le nostre ombre?
O preferiamo che prosegua oltre, senza entrare in casa nostra? Infine, la domanda è: «Ci fidiamo realmente di lui affidandogli ogni parte di noi stessi?».
Quando, dopo le letture e l’omelia, diciamo: «Credo in Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, nella chiesa cattolica, la comunione dei santi, il perdono dei peccati, la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà», invitiamo Gesù a casa nostra e ci affidiamo alla sua Via.
Come momento della celebrazione eucaristica e, ancora di più, della nostra vita eucaristica, il Credo è molto di più che un riassunto della dottrina della chiesa. È una professione di fede. E la ‘fede’, come mostra la parola greca pistis, è un atto di fiducia.
È il grande ‘Sì’. Dice ‘Sì’ a colui che ci ha spiegato le Scritture come Scritture che si riferiscono a lui. È questo ‘Sì’ profondo, non soltanto alle parole che ha detto, ma anche a lui che le ha dette, che ci porta finalmente alla mensa. Se riusciamo a dire: «Sì! Ci fidiamo di te e affidiamo a te la nostra vita», andiamo oltre il semplice camminare alla sua presenza; abbiamo il coraggio di aprirci alla comunione con lui.
I due amici di viaggio invitano, anzi, insistono affinché lo sconosciuto rimanga con loro. «Sii nostro invitato», dicono. Vogliono essere i suoi ospiti. Invitano lo sconosciuto a mettere da parte il suo essere sconosciuto per diventare un loro amico. Ecco cosa significa la vera ospitalità: offrire un posto sicuro, dove lo sconosciuto può diventare un amico. C’erano due amici e uno sconosciuto. Ma ora ci sono tre amici, i quali partecipano alla stessa mensa.
La tavola è il luogo dell’intimità.
Intorno alla tavola ci scopriamo a vicenda.
È il luogo dove preghiamo.
È il luogo dove chiediamo: «Come ti è andata la giornata?».
È il luogo dove mangiamo e beviamo insieme dicendo: «Avanti, prendine ancora!».
È il luogo delle storie vecchie e nuove.
È il luogo per il sorriso e le lacrime. La tavola è anche il luogo in cui viene sentita nel modo più doloroso la distanza.
È il luogo in cui i figli sentono la tensione tra i genitori, dove fratelli e sorelle esprimono la loro rabbia e le loro gelosie, dove si formulano accuse e dove piatti e bicchieri diventano strumenti di violenza. Intorno alla tavola, sappiamo se c’ è amicizia e comunità o odio e divisione.
Proprio perché la tavola è il luogo dell’intimità per tutti i membri della casa, è anche il luogo in cui l’assenza di quella intimità viene rivelata nel modo più doloroso.
Quando, la sera prima della sua morte, Gesù si riunì con i suoi discepoli intorno alla tavola, rivelò sia intimità che distanza. Egli condivise il pane e il calice come segno di amicizia, ma disse anche: «Ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola».
Quando ripenso alla mia giovinezza, molto spesso penso ai pasti della nostra famiglia, specialmente nei giorni di festa. Ricordo le decorazioni natalizie, le torte di compleanno, le candele pasquali e i volti sorridenti. Ma ricordo anche le parole di rabbia, l’andarsene via, le lacrime, l’imbarazzo e i silenzi apparentemente infiniti.
Siamo più vulnerabili quando dormiamo o mangiamo insieme. Letto e tavola sono i due luoghi di intimità. Anche i due luoghi di più grande dolore.
E, forse, di questi due luoghi, la tavola è il più importante perché è il luogo dove si riuniscono tutti coloro che fanno parte della casa e dove la famiglia, la comunità, l’amicizia, l’ospitalità e la vera generosità possono esprimersi ed essere rese reali.
Gesù accetta l’invito a entrare nella casa dei suoi compagni di viaggio e siede a tavola con loro. Gli offrono il posto d’onore. Egli è al centro. Loro gli stanno a fianco. Loro lo guardano. Lui li guarda. C’è intimità, amicizia, comunità. Poi avviene qualcosa di nuovo. Qualcosa difficile da notare per un occhio non allenato. Gesù è l’inviato dei suoi discepoli, ma non appena entra nella loro casa, egli diventa il loro ospite! E in quanto loro ospite li invita a entrare nella piena comunione con lui.

«Prendete e mangiate»

Quando Gesù entra nella casa dei suoi discepoli, questa diventa la sua casa. L’invitato diventa ospite. Lui che prima è stato invitato ora invita. I due discepoli che si sono fidati dello sconosciuto fino a farlo entrare nel loro spazio intimo ora sono condotti nella vita intima del loro padrone di casa.
«Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». Così semplice, così ordinario, così ovvio e -tuttavia -così diverso!
Che altro puoi fare quando condividi il pane con i tuoi amici?
Lo prendi, lo benedici, lo spezzi e lo dai. Per questo è fatto il pane: essere preso, benedetto, spezzato e dato. Niente di nuovo, niente di sorprendente. Avviene ogni giorno, in innumerevoli case. È parte essenziale della vita.
Non possiamo vivere veramente senza il pane che viene preso, benedetto, spezzato e dato. Senza di esso non c’è commensalità, non c’è comunità, non c’è alcun legame d’amicizia, non c’ è pace, ne amore e nemmeno speranza. Ma con esso, tutto può diventare nuovo.
Forse ci siamo dimenticati che l’eucaristia è un semplice gesto umano. I paramenti, le candele, gli accoliti,. i libri grandi, le braccia tese, il grande altare, i canti, la gente -niente sembra molto semplice, molto ordinario, molto ovvio. Spesso abbiamo bisogno di un libretto per seguire la cerimonia e per capirne il significato.
Tuttavia, niente vuole essere diverso da ciò che accadde in quel piccolo villaggio tra i tre amici. C’è del pane sulla mensa; c’è del vino sulla mensa. Il pane viene preso, benedetto, spezzato e dato. Il vino viene preso, benedetto e dato. Questo è ciò che avviene attorno ad ogni mensa che voglia essere una mensa di pace.
Ogni volta che invitiamo Gesù nella nostra casa, cioè adire nella nostra vita con tutte le sue luci e ombre, e gli offriamo il posto d’onore alla nostra tavola, egli prende il pane e il calice e li dà a noi dicendo:
«Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Prendete e bevete questo è il mio sangue. Fate questo in memoria di me». Siamo sorpresi? Veramente no.
Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?
Non sapevamo già che egli non era uno sconosciuto per noi?
Non eravamo già consapevoli che colui che era stato crocifisso dai nostri capi era vivo e stava con noi?
Non lo avevamo visto prima prendere il pane, benedirlo, spezzarlo e darcelo? Fece così davanti a una grande folla che aveva ascoltato per ore la sua parola, lo fece nella sala al piano superiore prima che Giuda lo consegnasse alla sofferenza e lo ha fatto innumerevoli volte quando siamo giunti al termine di una giornata lunga ed egli si unisce a noi intorno alla mensa per un pasto semplice.
L’eucaristia è il gesto più comune e più divino immaginabile.
Questa è la verità di Gesù. Così umano, eppure così divino; così familiare, eppure così misterioso; così nascosto, eppure così rivelante!
Ma questa è la storia di Gesù che, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la con- dizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).
È la storia di Dio che vuole venire vicino a noi, così vicino che possiamo vederlo con i nostri oc- chi, udirlo con i nostri orecchi, toccarlo con le nostre mani; così vicino che non c’è niente tra noi e lui, niente che separi, niente che divida, niente che crei distanza.
Gesù è Dio-per-noi, Dio-con-noi, Dio-in-noi. Gesù è Dio che si dona completamente, che elargisce se stesso a noi senza riserve. Gesù non trattiene e non si aggrappa ai suoi beni.
Egli dona tutto ciò che c’è da dare. «Mangiate, bevete, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue… Eccomi per voi!».
Tutti conosciamo questo desiderio di dare noi stessi a tavola.
Diciamo: «Mangia e bevi; l’ho fatto per te. Prendine di più; è lì per te, per goderne, per esserne fortificato, sì, per farti sentire quanto ti voglio bene».
Ciò che desideriamo non è semplicemente dare del cibo, ma dare noi stessi. «Sii mio ospite», diciamo. E mentre incoraggiamo i nostri amici a mangiare alla nostra mensa, vogliamo dire: «Sii mio amico, mio compagno, il mio amore -sii parte della mia vita -voglio darti me stesso».
Nell’eucaristia Gesù dona tutto.
Il pane non è semplicemente un segno del suo desiderio di diventare il nostro cibo; il calice non è solo un segno della sua volontà di essere la nostra bevanda. Il pane e il vino diventano il suo corpo e il suo sangue nel darsi. Veramente il pane è il suo corpo dato per noi, il vino il suo sangue versato per noi.
Come Dio si fa completamente presente per noi in Gesù, così Gesù si fa completamente presente a noi nel pane e nel vino dell’eucaristia. Dio non soltanto si è fatto carne per noi tanti anni fa in un paese lontano. Dio si fa anche cibo e bevanda per noi ora in questo momento della celebrazione eucaristica, proprio dove siamo insieme intorno alla tavola. Dio non si tira indietro; Dio dona tutto.
Questo è il mistero dell’incarnazione.
Questo è anche il mistero dell’eucaristia.
L’incarnazione e l’eucaristia sono le due espressioni dell’immenso amore di Dio che dona se stesso. E così il sacrificio sulla croce e il sacrificio sulla mensa sono un unico sacrificio, un dono di se divino e completo che raggiunge tutta l’umanità nel tempo e nello spazio.
La parola che meglio esprime questo mistero dell’amore totale di Dio che dona se stesso è ‘comunione’. È la parola che contiene la verità secondo la quale, in e attraverso Gesù, Dio vuole non soltanto insegnarci, istruirci o ispirarci, ma farsi uno con noi. Dio desidera essere pienamente unito a noi in modo che tutto di Dio e tutto di noi possa essere unito insieme in un amore eterno.
Tutta la lunga storia della relazione di Dio con noi esseri umani è una storia di comunione che si approfondisce sempre di più.
Non si tratta semplicemente di una storia di unioni, separazioni e unioni restaurate, ma di una storia in cui Dio è in continua ricerca di modi sempre nuovi per fare intimamente comunione con coloro che sono stati creati a immagine di Dio.
Agostino diceva: «Il mio cuore è inquieto finche non riposa in te, o Dio», ma quando esamino la storia tortuosa della nostra salvezza, vedo che non soltanto noi desideriamo ardentemente appartenere a Dio, ma che anche Dio anela appartenere a noi. Sembra come se Dio ci stesse dicendo a gran voce: «Il mio cuore è inquieto fin che non potrà riposare in voi, mie amate creature».
Da Adamo ed Eva ad Abramo e Sara, da Abramo e Sara a Davide e Betsabea e da Davide e Betsabea a Gesù e sempre da allora, Dio grida forte per essere ricevuto dai suoi.
«Vi ho creato, vi ho dato tutto il mio amore, vi ho guidato, offerto il mio sostegno, promesso l’avveramento dei desideri del vostro cuore: dove siete, dov’ è la vostra risposta, dov’è il vostro amore? Cos’altro vi devo fare affinché mi amiate? Non cederò, continuerò a tentare. Un giorno scoprirete quanto io desideri il vostro amore!».
Dio desidera comunione: una unità che sia vitale e viva, un’intimità che venga da entrambe le parti, un vincolo che sia veramente mutuo. Niente di forzato o ‘voluto’, ma una comunione liberamente offerta e liberamente ricevuta. Dio prova tutte le vie per rendere possibile questa comunione.
Dio si fa un bambino che dipende dalle cure umane, un ragazzo bisognoso di una guida, un maestro in cerca di allievi, un profeta che chiede a gran voce dei seguaci e, infine, un uomo morto trafitto dalla lancia di un soldato e de- posto in una tomba.
Proprio alla fine della storia, egli sta lì a guardarci e ci chiede con gli occhi pieni di te- nere attese: «Mi ami?» e, di nuovo, «Mi ami?» e, una terza volta, «Mi ami?».
È questo intenso desiderio di Dio di entrare nella relazione più intima con noi che costituisce il nucleo della celebrazione eucaristica e della vita eucaristica. Dio non soltanto vuole entrare nella storia umana divenendo una persona che vive in un’ epoca specifica e in un paese specifico, ma egli vuole diventare il nostro cibo e la nostra bevanda quotidiani in ogni tempo e in ogni luogo.
Quindi Gesù prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà a noi. E allora, quando vediamo il pane nelle nostre mani e lo portiamo alla bocca per mangiarlo, sì, allora i nostri occhi si aprono e lo riconosciamo.
L’eucaristia è riconoscimento.
È la piena comprensione che colui che prende, benedice, spezza e dona è Colui che, dall’inizio del tempo, ha desiderato entrare in comunione con noi.
La comunione è ciò che Dio vuole e ciò che noi vogliamo.
È il grido più profondo del cuore di Dio e del nostro, poiché siamo fatti con un cuore che può essere soddisfatto soltanto da colui che lo ha fatto.
Dio ha creato nel nostro cuore una sete di comunione che nessuno ad eccezione di Dio può, e vuole, appagare. Dio sa questo. Invece noi raramente. Continuiamo a cercare da qualche altra parte quell’esperienza di appartenenza. Guardiamo lo splendore della natura, le agitazioni della storia e l’attrattiva delle persone, ma quella semplice frazione del pane, così comune e non spettacolare, sembra un luogo così improbabile per trovare la comunione cui aneliamo.
Eppure, se abbiamo pianto le nostre perdite, se lo abbiamo ascoltato lungo il cammino e se lo abbiamo invitato a entrare nel nostro essere più recondito, sapremo che la comunione che abbiamo aspettato di ricevere è la stessa comunione che egli ha aspettato di dare.
C’è una frase nel racconto di Emmaus che ci conduce proprio dentro il mistero della comunione. È la frase: «… lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista». Nello stesso momento in cui i due amici lo riconoscono nello spezzare il pane, egli non è più con loro.
Quando il pane viene dato loro per mangiarne, essi non lo vedono più sedere con loro alla mensa. Quando mangiano, egli si è fatto invisibile. Quando entrano nella comunione più intima con Gesù, lo sconosciuto -divenuto amico -non è più con loro. Proprio quando egli si fa più presente a loro, diventa anche colui che è assente.
Qui tocchiamo uno degli aspetti più sacri dell’eucaristia: il mistero per cui la comunione più profonda con Gesù è una comunione che avviene in sua assenza. I due discepoli in cammino sulla strada per Emmaus lo avevano ascoltato per molte ore, erano andati di villaggio in villaggio, lo avevano aiutato nella sua predicazione, avevano riposato e mangiato insieme a lui.
Nel corso dell’anno, egli era diventato il loro maestro, la loro guida, il loro capo. Tutte le loro speranze per un futuro nuovo e migliore erano in- centrate su di lui. Tuttavia… non erano mai arrivati a conoscerlo pienamente, a comprenderlo pienamente. Spesso aveva detto loro: «… voi ora non lo capite, ma lo capirete più tardi». Essi non capivano veramente cosa stesse cercando di dire. Pensavano di essere più vicini a lui che a qualunque altra persona che avessero mai conosciuto.
Tuttavia egli continuava adire: «Ve l’ho detto adesso… cosicché quando non sarò più con voi ricorderete e comprenderete». Un giorno aveva persino detto che era bene che egli se ne andasse in modo che lo Spirito potesse venire e condurli alla piena intimità con lui. Il suo Spirito avrebbe aperto i loro occhi e avrebbe fatto loro comprendere pienamente chi egli fosse e perché fosse venuto a stare con loro.
Per tutto il tempo trascorso con i discepoli non c’era stata piena comunione.
Sì: loro erano stati con lui ed erano stati seduti ai suoi piedi; sì: erano stati suoi discepoli, persino suoi amici. Ma non erano ancora entrati nella piena comunione con lui. Il suo corpo e il suo sangue e il loro corpo e il loro sangue non erano ancora diventati uno.
In molti sensi, egli era stato ancora l’ altro, quello lontano, colui che va avanti a loro e mostra loro la via. Ma quando essi mangiano il pane che egli dà loro e lo riconoscono, quel riconoscimento è una profonda consapevolezza spirituale che, ora, egli dimora nel loro essere più intimo, che, ora, egli respira in loro, parla in loro, vive in loro.
Quando mangiano il pane che egli dà loro, la loro vita viene trasformata nella sua vita. Non sono più loro a vivere, ma Gesù, il Cristo, che vive in loro. E proprio in quel momento più sacro di comunione, egli è svanito dalla loro vista.
Questo è ciò che viviamo nella celebrazione eucaristica. Questo è ciò che viviamo anche quando viviamo una vita eucaristica. È una comunione così intima, così santa, così sacra e così spirituale che i nostri organi di senso non riescono più a percepirla. Non riusciamo più a vederlo con i nostri occhi mortali, a sentirlo con i nostri orecchi mortali o a toccarlo con i nostri corpi mortali. È venuto a noi in quel luogo dentro di noi dove il potere delle tenebre e del male non possono giungere, dove la morte non ha accesso.
Quando ci raggiunge e mette il pane nelle nostre mani e porta il calice alle nostre labbra, Gesù ci chiede di lasciare andare l’amicizia più facile che abbia- mo avuto con lui finora e di lasciare andare i sentimenti, le emozioni e anche i pensieri che appartengono a quell’amicizia.
Quando mangiamo del suo corpo e beviamo del suo sangue, accettiamo la solitudine che viene dal non averlo più alla nostra tavola come un compagno che ci consola nella conversazione, che ci aiuta ad affrontare le perdite della nostra vita quotidiana. È la solitudine della vita spirituale, la solitudine del sapere che egli ci è più vicino di quanto noi possiamo mai esserlo a noi stessi. È la solitudine della fede.
Continueremo a invocare: «Signore, pietà»; continueremo ad ascoltare le Scritture e il loro significato; continueremo a dire: «Sì, credo». Ma la comunione con lui va molto al di là di tutto questo. Ci porta al luogo in cui la luce acceca i nostri occhi e dove tutto il nostro essere è avvolto nella cecità. È in quel luogo di comunione che gridiamo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È, inoltre, in quel luogo che il nostro vuoto ci fa pregare: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».
La comunione con Gesù significa diventare come lui.
Con lui siamo inchiodati sulla croce, con lui siamo deposti nella tomba, con lui siamo risuscitati per i accompagnare nel loro viaggio i viaggiatori che si sono perduti. La comunione, il divenire Cristo, ci conduce a un nuovo regno dell’essere. Ci introduce nel Regno.
Là le vecchie distinzioni tra felicità e tristezza, successo e fallimento, preghiera e maledizione, salute e malattia, vita e morte, non esistono più. Là non apparteniamo più al mondo che continua a dividere, giudicare, separare e valutare. Là apparteniamo a cri- sto e Cristo a noi, e con Cristo apparteniamo a Dio.
All’improvviso i due discepoli, che hanno mangiato il pane e lo hanno riconosciuto, sono di nuovo soli. Ma non con l’isolamento con cui avevano cominciato il viaggio. Sono soli, insieme, e sanno che è stato creato un nuovo legame tra loro. Non guardano più in basso con il volto triste. Si guardano in faccia e dicono: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?».
La comunione crea comunità. Cristo, vivendo in loro, li ha uniti in un modo nuovo. Lo Spirito del Cristo risorto, che è entrato in loro nel mangiare il pane e nel bere dal calice, ha fatto loro riconoscere non soltanto Cristo stesso, ma anche ognuno di loro come membro di una nuova comunità di fede.
La comunione ci fa guardare l’un l’altro e parlare l’uno all’altro non delle notizie più recenti, ma di colui che camminava con noi. Ci scopriamo tutti come perso- ne che si appartengono, perché ognuno di noi appartiene a lui.
Siamo soli, perché egli è scomparso dalla nostra vista, ma siamo insieme perché ognuno di noi è in comunione con lui diventando così un unico corpo attraverso di lui.
Abbiamo mangiato il suo corpo, bevuto il suo sangue. Così facendo, tutti noi che abbiamo preso dello stesso pane e dello stesso calice siamo diventati un solo corpo.
La comunione crea comunità, perché il Dio che vive in noi ci fa riconoscere il Dio nei nostri simili. Noi non possiamo vedere Dio nell’altra persona.
Soltanto Dio in noi può vedere Dio nell’ altra persona. Questo è ciò che intendiamo quando diciamo: «Lo Spirito parla allo Spirito, il Cuore parla al Cuore, Dio parla a Dio». La nostra partecipazione alla vita intima di Dio ci porta a un modo nuovo di partecipazione alla vita l’uno dell’altro.
Tutto ciò può suonare molto ‘irreale’, ma quando lo viviamo, diventa più reale della ‘realtà’ del mondo. Come dice Paolo:
«Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? poiché c’ è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10,16- 17).
Questo corpo nuovo è un corpo spirituale, foggiato dallo Spirito d’ amore. Si manifesta in modi molto concreti: nel perdono, nella riconciliazione, nel mutuo sostegno, nell’aiuto alle persone nel bisogno, nella solidarietà con tutti quelli che soffrono e in una preoccupazione sempre maggiore per la giustizia e la pace. In questo modo la comunione non crea soltanto comunità, ma la comunità conduce sempre alla missione.

«Andate e annunziate»

Tutto è cambiato. Le perdite non sono più sentite come debilitanti; la casa non è più un luogo vuoto. I due viaggiatori che hanno iniziato il loro viaggio a te- sta bassa ora si guardano con occhi pieni di luce nuova.
Lo sconosciuto, che era diventato amico, ha dato loro il suo spirito, lo spirito divino di gioia, pace, coraggio, speranza e amore. Non c’è dubbio nella loro mente: egli è vivo! Non vivo come prima, non come l’affascinante predicatore e guaritore di Nazareth, ma vivo come un respiro nuovo dentro di loro. Cleopa e il suo amico sono diventati persone nuove. Sono stati dati loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo.
Essi sono diventati anche nuovi amici l’uno per l’altro -non più persone che possono offrirsi consolazione e sostegno mentre piangono le proprie perdite, ma persone con una nuova missione, persone che, insieme, hanno qualcosa da dire, qualcosa d’importante, qualcosa d’urgente, qualcosa che non può rimanere nascosto, qualcosa che deve essere proclamato.
Felicemente ognuno di loro ha l’altro. Nessuno crederebbe a uno soltanto di loro. Ma quando parleranno insieme otterranno un bell’ascolto.
Gli altri hanno bisogno di sapere poiché anch’essi avevano posto tutte le loro speranze in lui. Ci sono gli undici che hanno mangiato con lui la sera prima della sua morte; ci sono i discepoli, le donne e gli uomini che erano stati con lui per anni.
Hanno bisogno di sapere che cos’è loro successo.
Hanno bisogno di sapere che non è tutto finito.
Hanno bisogno di sapere che è vivo e che questi lo hanno riconosciuto quando egli ha dato loro il pane.
Non c’è tempo da perdere. «Sbrighiamoci», si dicono l’un l’altro. In fretta si infilano i sandali, prendono il mantello e il bastone per il viaggio e sono subito sulla via del ritorno verso i loro amici, ritornano da coloro che ancora potrebbero non sapere che le donne, le quali avevano sentito dagli angeli che egli è ancora vivo, hanno ragione.
Il racconto riassume tutto in pochissime parole: «Partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme».
Che differenza tra il loro ‘ andare a casa ‘ e il loro ritorno.
È la differenza che c’è tra il dubbio e la fede, la disperazione e la speranza, la paura e l’amore.
È la differenza tra due esseri umani scoraggiati che si trascinano lungo la via e due amici che camminano in fretta, a volte persino correndo, tutti eccitati per la notizia che hanno per i loro amici.
Ritornare alla città non è senza pericolo. Dopo l’esecuzione di Gesù, i suoi discepoli hanno paura. Si chiedono quale sarà il loro destino. Ma avendo riconosciuto il loro Signore, la paura se ne è andata e sono liberi di diventare testimoni della resurrezione – ad ogni costo.
Si rendono conto che le stesse persone che hanno odiato Gesù possono odiare loro, che le stesse persone che hanno ucciso Gesù possono uccidere loro. Ritornare, in effetti, può costar loro la vita. Può essere richiesto loro di testimoniare, non solo a parole, ma con il loro stesso sangue.
Ma non temono più il martirio. Il Signore risorto, presente nel loro essere più intimo, li ha resi pieni di un amore più forte della morte. Niente può trattenerli dal ritornare a casa anche quando casa non significa più un luogo ‘sicuro’.
L’eucaristia si conclude con una missione. «Andate ora e annunciate!». Le parole in latino, «Ite missa est», con cui il sacerdote concludeva la messa, letteralmente significano: «Andate, questa è la vostra missione».
La comunione non è la conclusione.
La missione lo è.
La comunione, quella intimità sacra con Dio, non è il momento finale della vita eucaristica. Lo abbiamo riconosciuto, ma quel riconoscimento non è per noi solo da gustare oda tenere come un segreto.
Come Maria di Magdala, così anche i due amici avevano sentito nel profondo di se stessi le parole «Andate e annunziate».
Questa è la conclusione della celebrazione eucaristica; questa è anche la chiamata finale della vita eucaristica.
«Andate e annunziate. Quello che avete visto e sentito non è solo per voi. È per i fratelli e le sorelle e per tutti quelli che sono pronti a riceverlo.
Andate, non indugiate, non aspettate, non esitate, ma mettetevi ora in cammino e ritornate ai luoghi dai quali siete venuti e fate sapere a quelli che avete lasciato nei loro nascondigli che non c’ è niente di cui aver paura, che egli è risorto, veramente risorto».
È importante rendersi conto che la missione, prima di tutto, è una missione a coloro che non sono estranei per noi. Questi ci conoscono e, come noi, hanno sentito di Gesù, ma si sono scoraggiati.
La missione è sempre prima di tutto ai nostri, alla nostra famiglia, ai nostri amici, a coloro che fanno parte intimamente della nostra vita. Riconoscere questo non ci conforta.
Trovo sempre che sia più difficile parlare di Gesù a quelli che mi conoscono intimamente che a quelli che non hanno mai avuto a che fare con i miei “peculiari modi di essere” .Eppure qui è presente una grande sfida. In qualche modo l’ autenticità della nostra esperienza viene messa alla prova dal nostri genitori, dai nostri consorti, dai nostri figli, dai nostri i fratelli e sorelle, da tutti quelli che ci conoscono fin troppo bene.
Molte volte sentiremo: «Beh, eccolo di nuovo. Beh, eccola di nuovo. Sappiamo di che si tratta. Abbiamo già visto tutto questo eccitamento. Passerà… come sempre».
Spesso c’è molta verità in questo. Perché si dovrebbero fidare di noi, quando corriamo a casa tutti entusiasti? Perché ci dovrebbero prendere sul serio? Non siamo poi così attendibili; non siamo poi così diversi dal resto della nostra famiglia e dei nostri amici. Inoltre, il mondo è pieno di storie, di rumori, pieno di predicatori ed evangelisti.
Ci sono buone ragioni per un certo scetticismo. Coloro che non sono venuti con noi all’eucaristia non sono ne migliori ne peggiori di noi.
Hanno sentito il racconto di Gesù. Alcuni sono stati battezzati; alcuni sono persino andati per un po’ o per lungo tempo in chiesa. Ma poi, gradualmente, la storia di Gesù è diventata solo una storia.
La chiesa è diventata un obbligo, l’eucaristia un rituale. In qualche modo è diventato tutto un ricordo dolce o amaro. In qualche modo qualcosa è morto in loro. E perché chiunque ci conosca bene dovrebbe credere in noi immediatamente quando torniamo dall’eucaristia?
Questa è la ragione per cui non è solo l’eucaristia, ma la vita eucaristica a fare la differenza.
Ogni giorno, ogni momento del giorno, c’ è il dolore per le nostre perdite e l’opportunità di ascoltare una parola che ci chiede di scegliere di vivere queste perdite come una via alla gloria.
Ogni giorno, inoltre, c’ è la possibilità di invitare lo sconosciuto in casa nostra e di fargli spezzare il pane per noi; la celebrazione eucaristica ci ha riassunto in che cosa consiste la nostra vita di fede e dobbiamo andare a casa per viverla il più a lungo e il più pienamente possibile. E questo è molto difficile, perché tutti a casa ci conoscono molto bene: la nostra impazienza, le nostre gelosie, i nostri risentimenti e i nostri tanti piccoli sotterfugi.
E poi ci sono le nostre relazioni interrotte, le nostre promesse non mantenute e i nostri impegni non rispettati. Possiamo davvero dire che lo abbiamo incontrato per strada, che abbiamo ricevuto il suo corpo e il suo sangue e che siamo diventati Cristi viventi? Tutti a casa sono pronti a metterci alla prova.
Ma c’è di più. C’è una grande sorpresa che aspetta i due compagni eccitati che entrano di corsa nella stanza in cui erano riuniti i loro amici… ansiosi di dare la notizia. Questi amici già la sapevano! La buona notizia che dovevano portare non era nuova, dopo tutto.
Prima ancora che avessero la possibilità di raccontare la loro storia, gli undici e gli altri che erano con loro dissero: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso al Simone». È piuttosto comico.
Questi entrano di corsa, senza più fiato, tutti entusiasti. soltanto per scoprire che quelli che stavano in città avevano già sentito la notizia, anche se non lo avevano incontrato sulla strada e non si erano seduti a tavola con lui.
Gesu era apparso a Simone e Simone era molto più attendibile di questi due discepoli che non erano rimasti con loro, ma che se ne erano invece andati a casa pensando che fosse tutto finito. Sicuro: erano felici e ansiosi di sentire la loro storia, ma loro due portavano solo un’altra conferma che, davvero, egli era vivo.
Ci sono molti modi in cui Gesù appare e molti modi in cui ci fa sapere che è vivo. Ciò che celebriamo nell’eucaristia avviene in molti modi diversi da quanto possiamo immaginare. Gesù, che ci ha già dato il pane, ha toccato il cuore di altri molto prima di in- contrarci sulla strada. Ha chiamato qualcuna per nome e lei lo ha riconosciuto; ha mostrato le sue ferite ad alcuni e questi lo hanno riconosciuto. Noi abbiamo le nostre storie da raccontare ed è importante che le raccontiamo, ma non sono le uniche storie. Abbiamo una missione da adempiere ed è bene che ne siamo entusiasti, ma prima dobbiamo ascoltare quello che gli altri hanno da dire. Poi possono essere raccontate le .nostre storie e portare gioia.
Tutto questo dimostra comunità.
I due amici, che erano in grado di parlarsi dei propri cuori ardenti, sta- vano cominciando a entrare in una nuova relazione reciproca, una relazione costruita sulla comunione di cui entrambi avevano fatto esperienza, La loro comunione con Gesù era, invero, l’inizio della comunità. Ma soltanto l’inizio.
Avevano bisogno di incontrare gli altri, che anche credevano che egli era risorto, lo avevano visto o avevano sentito che era vivo. Avevano bisogno di ascoltare i loro racconti, ognuno diverso dagli altri, e di scoprire i molti modi in cui Gesù e il suo Spirito agivano in mezzo al suo popolo.
È così facile ridurre Gesù al nostro Gesù, alla nostra esperienza del suo amore, al nostro modo di riconoscerlo.
Ma Gesù ci ha lasciati per mandare il suo Spirito e il suo Spirito soffia dove vuole. La comunità di fede è il luogo dove vengono narrati molti racconti sullo stile di Gesù. Questi racconti possono essere molto diversi l’uno dall’altro.
Possono persino sembrare in conflitto.
Ma se continuiamo ad ascoltare attentamente lo Spirito che si manifesta attraverso molte persone, sia nelle parole che nel silenzio, sia attraverso il confronto che l’invito, sia nella dolcezza che nella fermezza, sia con le lacrime che con i sorrisi, allora potremo gradualmente discernere che ci apparteniamo, come un unico corpo saldato dallo Spirito di Gesù.
Nell’eucaristia ci viene richiesto di lasciare la tavola e di andare dai nostri amici per scoprire insieme a loro che Gesù è veramente vivo e che ci chiama tutti insieme a diventare un popolo nuovo -un popolo della resurrezione.
Qui termina il racconto di Cleopa e del suo amico.
Termina con i due amici che raccontano la loro storia agli undici e agli altri che stavano con loro. Ma la missione non termina qui; è appena iniziata. Il racconto della storia di ciò che è successo lungo la via e intorno alla tavola è l’inizio di una vita di missione, vissuta tutti i giorni della nostra vita finché non lo vedremo di nuovo faccia a faccia.
Formare una comunità con la famiglia e gli amici, costruire un corpo d’ amore, formare un popolo nuovo della resurrezione: tutto questo non è tanto per poter vivere una vita al riparo dalle forze oscure che dominano il nostro mondo; è piuttosto per renderci capaci di proclamare insieme a tutte le persone, giovani e vecchi, bianchi e neri, poveri e ricchi, che la morte non ha 1’ultima parola, che la speranza è reale e che Dio è vivo.
L’eucaristia è sempre missione.
L’eucaristia, che ci ha liberato dal nostro paralizzante senso di perdita e che ci ha rivelato che lo Spirito di Gesù vive dentro di noi, ci dà la forza di uscire nel mondo e di portare la buona notizia ai poveri, la vista ai ciechi, la libertà ai prigionieri e di proclamare che Dio ha mostrato di nuovo il suo favore a tutte le persone.
Ma non siamo mandati fuori da soli; siamo inviati con i nostri fratelli e le nostre sorelle, sapendo anch’essi che Gesù vive dentro di loro.
Il movimento che deriva dall’eucaristia è il movimento dalla comunione alla comunità al ministero. La nostra esperienza di comunione prima ci manda dai nostri fratelli e sorelle per condividere con loro le nostre storie e per formare con loro un corpo d’amore.
Poi, come comunità, possiamo muoverci in tutte le direzioni e raggiungere tutte le persone.
Sono profondamente consapevole della mia tendenza di voler andare dalla comunione al ministero senza fare comunità.
Il mio individualismo e il desiderio di successo personale mi tentano sempre a fare da solo e a rivendicare per me stesso il compito del ministero. Ma Gesù stesso non predicò e non guarì da solo. Luca, l’evangelista, ci racconta di come egli passasse la notte in comunione con Dio, il mattino a fare comunità con i dodici apostoli e il pomeriggio a uscire con loro per svolgere il suo ministero tra le folle. Gesù ci chiama a seguire la stessa sequenza: dalla comunione alla comunità al ministero.
Non vuole che usciamo da soli. Ci invia insieme, a due a due, mai da soli.
E così possiamo testimoniare come persone che appartengono ad un corpo di fede. Siamo inviati ad insegnare, a guarire, ad ispirare e ad offrire speranza al mondo non come esercizio della nostra capacità individuale, ma come l’espressione della nostra fede per la quale tutto quello che abbiamo da dare viene da lui che ci ha messi insieme.
La vita vissuta eucaristicamente è sempre una vita di missione.
Viviamo in un mondo che geme sotto il peso delle sue perdite: le guerre spietate che distruggono popoli e paesi, la fame e il morire di fame che decimano intere popolazioni, il crimine e la violenza che mettono a repentaglio la vita di milioni di uomini, donne e bambini. Il cancro e l’ AIDS, il colera, la malaria e molte altre malattie che devastano il corpo di innumerevoli persone; terremoti, alluvioni e disastri del traffico è la storia della vita di ogni giorno che riempie i giornali e gli schermi televisivi.
È un mondo di perdite infinite e molti, se non la maggior parte, dei nostri simili camminano con la faccia rivolta a terra sulla superficie di questo pianeta. Dico- no in un modo o in un altro: «Noi speravamo che fosse… ma abbiamo perso la speranza».
Questo è il mondo in cui siamo mandati a vivere eucaristicamente, cioè, a vivere con il cuore ardente e con gli orecchi e gli occhi aperti.
Sembra un compito impossibile.
Che cosa può fare questo piccolo gruppo di persone che lo hanno incontrato per la via, nel giardino o sulla riva del lago, in un mondo così buio e violento? Il mistero dell’amore di Dio è che i nostri cuori ardenti e i nostri orecchi e occhi recettivi saranno in grado di scoprire che Colui che abbia- mo incontrato nell’intimità delle nostre case continua a rivelarsi a noi tra i poveri, i malati, gli affamati, i prigionieri, i rifugiati e tra tutti coloro che vivono nel pericolo e nella paura.
A questo punto ci rendiamo conto che missione non è solo andare ad annunziare agli altri che il Signore è risorto, ma anche ricevere quella testimonianza da coloro ai quali siamo inviati.
Spesso la missione è pensata esclusivamente in termini di donazione, ma la vera missione è anche ricevere. Se è vero che lo Spirito di Gesù soffia dove vuole, non c’ è persona che non possa dare quello Spirito.
A lungo andare, la missione è possibile soltanto quando è tanto ricevere che . dare, tanto essere presi a cuore che prendere a cuore.
Siamo mandati agli ammalati, ai morenti, agli handicappati, ai carcerati e ai rifugiati per portare loro la buona notizia della resurrezione del Signore.
Ma ci spegneremmo subito, se non potessimo ricevere lo Spirito del Signore da coloro cui siamo mandati.
Quello Spirito, lo Spirito d’amore, è nascosto nella loro povertà, nel loro essere a pezzi e nella prostrazione, nel loro dolore. Ecco perché Gesù ha detto: «Beati i poveri, i perseguitati e gli afflitti». Ogni volta che li raggiungiamo, essi a loro volta -ne siano consapevoli o meno -ci benedicono con lo Spirito di Gesù, diventando così nostri ministri.
Senza questa reciprocità del dare e del ricevere, missione e ministero diventano facilmente manipolabili o violenti.
Quando soltanto uno dà e l’altro riceve, colui che dà diventa presto un oppressore e coloro che ricevono vittime.
Ma quando colui che dà riceve e colui che riceve dà, il circolo d’amore, iniziato nella comunità dei discepoli, può allargarsi persino a tutto il mondo.
Fa parte dell’ essenza della vita eucaristica far crescere questo cerchio d’amore.
Essendo entrati in comunione con Gesù e avendo creato comunità con coloro che sanno che egli è vivo, ora possiamo andarci ad unire ai tanti viaggiatori solitari per aiutarli a scoprire che anch’essi partecipano al dono dell’amore.
Non temiamo più la loro tristezza e il loro dolore e possiamo chieder loro semplicemente: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?».
E sentiremo racconti di solitudine, paura, rifiuto, abbandono e tristezza immensi. Dobbiamo ascoltare, spesso a lungo, ma ci sono anche le opportunità di dire a parole o con semplici gesti: «Non sapevi che ciò per cui ti stai affliggendo può essere vissuto anche come una via per qualcosa di nuovo? Probabilmente è impossibile cambiare quello che ti è successo, ma sei ancora libero di scegliere come viverlo».
Non tutti ci ascolteranno e soltanto in pochi ci inviteranno nella loro vita per unirci alla loro tavola. Solo raramente sarà possibile offrire il pane che do- na la vita e guarire veramente un cuore che è stato spezzato. Gesù stesso non guarì tutti, ne cambiò la vita di tutti.
La maggior parte della gente semplice- mente non crede che siano possibili i cambiamenti radicali e non riesce a dare la sua fiducia quando incontra gli sconosciuti.
Ma ogni volta che c’è un incontro reale che conduce dalla disperazione alla speranza e dall’amarezza alla gratitudine, vedremo dissolversi parte delle tenebre e la vita, di nuovo, oltrepassare i confini della morte.
Questa è stata, e continua a essere, l’esperienza di coloro che vivono una vita eucaristica. Essi vedono come loro missione sfidare persistentemente i loro compagni di viaggio a scegliere la gratitudine invece del risentimento e la speranza invece della disperazione.
Le poche volte in cui questa sfida viene accettata sono sufficienti per rendere la loro vita degna di essere vissuta. Veder comparire un sorriso in mezzo alle lacrime significa essere testimoni di un miracolo -il miracolo della gioia.
Statisticamente niente di tutto ciò è molto interessante.
Coloro che chiedono: «Quante persone avete raggiunto? Quanti cambiamenti avete apportato? Quanti mali avete curato? Quanta gioia avete creato?», riceveranno sempre delle risposte deludenti. Gesù e i suoi seguaci non ebbero grande successo.
Il mondo è ancora un mondo buio, pieno di violenza, corruzione, oppressione e sfruttamento. Probabilmente lo sarà sempre! La domanda non è «Quanto presto e quanti?», ma «Dove e quando?». Dov’è celebrata l’eucaristia, dove sono le persone che si mettono insieme intorno alla mensa spezzando il pane insieme e quando ciò avviene?
Il mondo si trova sotto il potere del male. Il mondo non riconosce la luce che risplende nell’oscurità. Non lo ha mai fatto; mai lo farà. Ma ci sono persone che, in mezzo a questo mondo, vivono !con la consapevolezza che egli è vivo e dimora dentro di noi, che egli ha superato il potere della morte e ha aperto la via della gloria.
Ci sono persone che si riuniscono insieme, che si mettono intorno alla tavola e che fanno quello che lui ha fatto, in memoria di lui?
Ci sono persone che continuano a raccontarsi le storie di speranza e che insieme vanno fuori a prendersi cura dei loro simili, senza pretendere di risolvere tutti i problemi, ma di portare un sorriso a un morente e una piccola speranza a un bambino abbandonato?
È così piccola, così non spettacolare, così nascosta questa vita eucaristica, ma è come lievito, come un granello di senape, come un sorriso sul volto di un bambino. È ciò che tiene vivi la fede, la speranza e l’amore in un mondo che è continuamente sull’orlo dell’autodistruzione.
L’eucaristia, a volte, è celebrata con grande cerimonia, in splendide cattedrali e basiliche. Ma più spesso è un ‘piccolo’ evento di cui sanno poche persone.
Avviene in un soggiorno, nella cella di una prigione, in una soffitta -lontano dalla vista dei grandi movimenti del mondo. Avviene in segreto; senza paramenti, candele o incenso.
Avviene con gesti così semplici che dall’esterno non si sa nemmeno che ha luogo. Ma grande o piccolo, festivo o nascosto, è lo stesso evento, il quale rivela che la vita è più forte della morte e l’amore più forte della paura.

Conclusione

La parola ‘eucaristia’ significa letteralmente ‘rendimento di grazie. Una vita eucaristica è una vita vissuta nella gratitudine.
La storia, che è anche la nostra storia, dei due amici in cammino per Emmaus ha mostrato che la gratitudine non è un atteggiamento ovvio verso la vita.
La gratitudine va scoperta e va vissuta con grande attenzione interiore.
Le nostre perdite, le nostre esperienze di rifiuto e di abbandono e i nostri tanti momenti di disillusione continuano ad attirarci nella rabbia, nell’amarezza e nel risentimento.
Quando lasciamo semplicemente parlare i ‘fatti’ ci saranno sempre fatti sufficienti a convincerci che la vita, dopo tutto, non conduce a niente e che ogni tentativo di sconfiggere questo destino è soltanto un segno di profonda ingenuità.
Gesù ci ha dato l’ eucaristia per renderci capaci di scegliere la gratitudine.
È una scelta che noi stessi dobbiamo fare. Nessuno può farla per noi.
Ma l’eucaristia ci induce a invocare la misericordia di Dio, ad ascoltare le parole di Gesù, a invitarlo in casa nostra, a entrare in comunione con lui e a proclamare buone notizie al mondo; apre alla possibilità di lasciar andare gradualmente i nostri tanti risentimenti e di scegliere di essere grati.
La celebrazione eucaristica continua a invitarci a quest’atteggiamento.
Nella nostra vita quotidiana abbiamo innumerevoli opportunità di essere grati invece che pieni di risentimento.
All’inizio potremmo non riconoscere queste opportunità. Prima che ce ne rendiamo conto pienamente, abbiamo già detto: «Questo è troppo per me. Non posso fare ameno di arrabbiarmi e di mostrare la mia rabbia. La vita non è bella e non posso agire come se invece lo fosse».
Comunque, c’è sempre la voce che in continuazione dice che siamo accecati dal nostro stesso modo di comprendere e che ci attiriamo a vicenda in un vicolo cieco.
È la voce che ci chiama ‘stolti’, la voce che ci chiede di guardare la nostra vita in modo nuovo, non di guardarla dal basso, dove contiamo le nostre perdite, ma dall’alto, dove Dio ci offre la sua gloria.
L’eucaristia -il rendimento di grazie -, dopo tutto, viene dall’alto.
E il dono che non possiamo fabbricarci da soli.
Deve essere ricevuta. È offerta liberamente e chiede di essere ricevuta liberamente. È qui che sta la scelta!
Possiamo scegliere di lasciar continuare il viaggio allo sconosciuto, rimanendo così egli uno sconosciuto. Ma possiamo anche invitarlo nella nostra vita intima, lasciarlo toccare ogni parte del nostro essere e quindi trasformare i nostri risentimenti in gratitudine.
Non dobbiamo lasciarlo andare.
In effetti la maggior parte della gente fa così. Ma ogni volta che facciamo quella scelta, ogni cosa, anche le cose più insignificanti, diventano nuove.
La nostra vita di poco conto diventa grande -parte dell’opera misteriosa della salvezza di Dio. Quando ciò avviene, niente è più accidentale, casuale o futile. Persino l’evento più insignificante parla il linguaggio della fede, della speranza e, soprattutto, dell’amore. Questa è la vita eucaristica, la vita in cui ogni cosa diventa un modo per dire ‘grazie’ a lui che si è unito a noi lungo il cammino.

La forza della Sua presenza “ – Meditazioni sulla vita eucaristica
Henri J.M.Nouwen





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