Una
sera, accanto al fuoco, Faustina Tornay racconta ai figli più
piccoli, Maurizio e Anna, la vita di sant'Agnese, vergine e martire.
Rispondendo alla loro domanda, essa spiega: «Siete entrambi vergini,
cari i miei bambini; martiri, è più difficile... Bisogna amare il
buon Dio più di tutto, ed esser pronti a dare la vita, a versare
fino all'ultima goccia di sangue per Lui, piuttosto che
offenderLo...». Maurizio reagisce, veloce come un fulmine: «Vedrai,
Anna, sì, vedrai, sarò martire...». Parole profetiche: il 16
maggio 1992, sarà beatificato come martire da Papa Giovanni Paolo
II.
Maurizio
Tornay è nato il 31 agosto 1910, settimo di una famiglia di otto
figli, nella frazione di La Rosière, abbarbicata a 1200 metri di
altitudine sul fianco scosceso di una montagna, nel Vallese
(Svizzera). Fin dal primo anno di scuola, si rivelano le sue qualità
eccezionali, ma anche i suoi difetti e imperfezioni. Gentile,
zelante, di un'intelligenza vivace, si dimostra tuttavia dominatore,
testardo, talvolta addirittura aggressivo. Dopo la scuola, i figli
Tornay aiutano i genitori nella stalla, sui pascoli, nell'orto: la
vita è dura in montagna. Un affetto profondo unisce tutti i membri
della famiglia. In essa, si sperimenta la confortante verità
descritta da sant'Agostino: «Dove c'è amore, non c'è dolore, e se
c'è dolore, esso è amato». Ancora giovane, Maurizio si sforza di
correggere i propri difetti, e ci riesce, almeno in parte. Anna
attribuisce il successo all'Eucaristia: «Dopo la prima Comunione,
Maurizio divenne gentile». Il ragazzo ha preso dal suo patrono, san
Maurizio, che ha pagato a caro prerzzo la sua fedeltà a Cristo: è
stato martirizzato con tutta una legione di soldati romani a Agaunum,
non lontano da La Rosière. A quindici anni, Maurizio entra nel
collegio dell'Abbazia di San Maurizio, costruita sulla tomba del
martire; vi rimarrà per sei anni come convittore. Si fa ben presto
notare per lo zelo nello studio e per la devozione, che però è ben
lungi dall'essere affettata: gli piace ridere e pratica in sommo
grado la virtù dell'eutrapelia, vale a dire l'arte di infiorare le
relazioni umane con tratti umoristici e una sana giovialità. Nei
momenti di libertà, gli capita di trascinare i compagni nella
cappella per una breve meditazione: legge loro brani di san Francesco
di Sales o una pagina della Storia di un'anima di santa Teresa
di Gesù Bambino.
Saremmo
abbastanza folli per cacciarlo?
Un
giorno, parlando della presenza di Cristo nell'Eucaristia, Maurizio
afferma: «Ha fatto un ciborio della nostra anima e vi dimorerà
perpetuamente, fino a quando fossimo abbastanza folli per cacciarLo
con il peccato mortale». Tale osservazione denota uno sguardo lucido
sul più gran male che possa colpire l'uomo: il peccato. «Colui che
pecca ferisce l'onore di Dio e il suo amore, la propria dignità di
uomo chiamato ad essere figlio di Dio e la salute spirituale della
Chiesa di cui ogni cristiano deve essere una pietra viva», ricorda
infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC). «Agli
occhi della fede, nessun male è più grave del peccato, e niente ha
conseguenze peggiori per gli stessi peccatori, per la Chiesa e per il
mondo intero» (CCC 1487-88). Il peccato consiste in qualsiasi
atto, parola o desiderio contrario alla legge di Dio. Si distinguono
il peccato veniale ed il peccato mortale (o grave). Il peccato
veniale intiepidisce l'amore di Dio nei nostri cuori senza privarci
della vita della grazia. Il peccato mortale distrugge la carità nel
cuore dell'uomo a causa di una violazione grave della legge di Dio;
distoglie l'uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e la sua
beatitudine, preferendo a Lui un bene inferiore. Perchè un peccato
sia mortale, si richiede che concorrano tre condizioni: materia
grave, piena consapevolezza, deliberato consenso (ved. CCC
1855-57).
Oggigiorno,
tuttavia, una mentalità ampiamente diffusa tende a negare o a
ridurre la realtà del peccato mortale. Si afferma che atti
particolari, anche gravemente contrari alla legge di Dio, non
separerebbero l'uomo da Dio, purchè il soggetto abbia un'intenzione
globale (detta «opzione fondamentale») di orientare la propria vita
verso Dio. Contro tale mentalità, Papa Giovanni Paolo II ha scritto,
nell'Enciclica Veritatis Splendor, in data 6 agosto 1993: «Si
dovrà evitare di ridurre il peccato mortale all'atto che esprime una
«opzione fondamentale» contro Dio, secondo l'espressione corrente
attualmente, intendendo con questo un disprezzo formale ed esplicito
di Dio e del prossimo, oppure un rifiuto implicito e incosciente
dell'amore. In realtà, vi è peccato mortale anche quando l'uomo
sceglie, consciamente e volontariamente, per una qualunque ragione,
qualcosa di gravemente disordinato. Infatti, una tale scelta include
per se stessa un disprezzo della Legge divina, un rifiuto dell'amore
di Dio per l'umanità e per tutta la creazione: l'uomo si allontana
da Dio e perde la carità. L'orientamento fondamentale può dunque
essere radicalmente modificato attraverso atti particolari» (n. 70).
È il caso, per esempio, della bestemmia, dell'idolatria,
dell'irreligione, dell'eresia, dello scisma, dello spergiuro,
dell'aborto, della contraccezione, dell'adulterio, della
fornicazione, dell'omosessualità, della masturbazione, ecc.
«Qualcosa
di più grandioso»
L'orrore
del peccato, che era profondamente radicato nel cuore di Maurizio,
manifestava uno dei frutti di un'educazione totalmente impregnata
dello spirito di fede. Giunto al termine degli studi liceali, il
giovane chiede di essere ammesso presso i Canonici Regolari del Gran
San Bernardo. Scrive la sua intenzione al Prevosto della
congregazione: «Corrispondere alla mia vocazione, che è quella di
lasciare il mondo e di dedicarmi integralmente al servizio delle
anime per guidarle verso Dio e per salvare me stesso». La missione
dei Canonici si riassume nelle parole scolpite sul frontone
dell'ospizio: «Hic Christus adoratur et pascitur – Qui Cristo è
adorato e nutrito». Essi assicurano la celebrazione della Messa e
delle Ore canoniche, ma sono anche pastori d'anime, prestano soccorso
ai pellegrini che devono valicare le Alpi, o servono la Chiesa in
altri ministeri che vengono affidati loro dai vescovi. Al momento di
lasciare la famiglia, Maurizio risponde alla sorella maggiore che gli
suggerisce di rimanere con i suoi: «C'è qualcosa di più grandioso
di tutte le bellezze terrene». Il 25 agosto 1931, è ammesso al
noviziato dell'ospizio del Gran San Bernardo, situato a 2472 m. di
altitudine. D'inverno, il termometro scende a –20°C.
Meno
di due mesi dopo esser stato ammesso al noviziato, Maurizio scrive
alla famiglia: «Non sono mai stato tanto libero. Faccio quel che
voglio, posso fare tutto quel che voglio, perchè la volontà di Dio
mi viene espressa in ogni istante, e voglio fare solo questa
volontà». Alla sorella Anna, scrive: «Dobbiamo affrettarci, vero,
Anna? Dobbiamo sbrigarci: alla nostra età, altri erano santi.
Perchè, se lo stelo fiorisce troppo a lungo, il frutto non può
maturare prima del freddo e della morte. E molti sono quelli che
implorano, tanti peccatori, tanti pagani ci chiamano; vogliamo
risponder loro, vero? La nostra salute, la nostra carne, sono per
loro, vero? Te lo ripeto, dobbiamo affrettarci. Più avanzo nella
vita e più sono convinto che il sacrificio, il dono (di sè), danno
senso, sono i soli a dar un senso ai giorni che trascorriamo...».
Maurizio è ossessionato dall'idea che ci sono anime che contano su
di noi per essere salvate, e arde dal desiderio di andar a portar
loro il Vangelo, di partire nei paesi lontani per guadagnarle a
Cristo. Alcuni decenni dopo, Papa Giovanni Paolo II sottolineerà:
«Il numero di coloro che ignorano Cristo e non fanno parte della
Chiesa aumenta continuamente, ed è addirittura quasi raddoppiato
dalla fine del Concilio (Vaticano II) a questa parte. Nei riguardi di
questo immenso numero di uomini che il Padre ama e per i quali ha
inviato suo Figlio, è evidente l'urgenza della missione» (Enciclica
Redemptoris Missio, 7 dicembre 1990, n. 3). «La ragione di
tale attività missionaria scaturisce dalla volontà di Dio, che
vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla
conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il
mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se
stesso in riscatto per tutti (1 Tim. 2, 4-5); e in nessun
altro c'è salvezza (Atti 4, 12). Bisogna dunque che tutti si
convertano a Cristo, conosciuto attraverso la predicazione della
Chiesa, e che siano anch'essi incorporati dal battesimo nella Chiesa,
che è il suo Corpo. Poichè Cristo medesimo, insegnando in termini
formali la necessità della fede e del battesimo (ved. Marco 16, 16;
Giov. 3, 5), ha confermato in pari tempo la necessità della Chiesa
in cui gli uomini entrano attraverso il battesimo come attraverso una
porta» (Concilio Vaticano II, decreto Ad Gentes, n. 7).
Il
merito delle sofferenze di una giornata
Provvidenzialmente,
le Missioni Estere di Parigi intervengono presso la Congregazione del
Gran San Bernardo, in vista di inviare nell'Himalaia alcuni monaci
abituati alla vita in montagna. Dopo aver esaminato la questione, il
Prevosto, Monsignor Bourgeois, decide di rispondere positivamente
alla richiesta, ed un primo gruppo di monaci parte, nel gennaio del
1933, per Weisi nello Yünnan (sud-ovest della Cina), ma Maurizio
Tornay non fa parte del gruppo. Nel gennaio del 1934, i medici gli
diagnosticano un'ulcera duodenale che necessita un'operazione. La
convalescenza sarà lunga. L'esperienza della sofferenza lo porta ad
incoraggiare i genitori, i fratelli e le sorelle ad utilizzare meglio
il tesoro troppo misconosciuto che costituisce la sofferenza
sopportata in unione con Cristo sofferente. Scrive alla sorella
Giuseppina: «Sai che quando hai freddo ed offri quel freddo al Buon
Dio, puoi convertire un pagano? E che tutte le sofferenze di una
giornata, sopportate bene, hanno più merito per te che se avessi
pregato per tutta la giornata? Che mezzi facili hai di far del bene a
me, di far del bene a tutti... Tutte le nostre pene, anche infime,
hanno un valore infinito se le uniamo a quelle di Cristo. Oh! quanto
Cristo ti amerebbe allora!»
L'8
settembre 1935, il giovane canonico pronuncia i voti solenni di
povertà, castità e obbedienza. Monsignor Bourgeois decide allora di
rafforzare il gruppo dei pionieri nello Yünnan; il canonico Tornay,
guarito, partirà con i confratelli, i canonici Lattion e Rouiller.
Si preparano tutti e tre per parecchi mesi ad alleviare la miseria
umana attraverso corsi pratici di aggiornamento presso un medico ed
un dentista. Qaundo viene fissato il giorno della partenza, Maurizio
confida al fratello Luigi: «Ho ricevuto nettamente nell'anima la
seguente intuizione: perchè il mio ministero sia fecondo, devo
applicarmi con tutto l'ardore dell'anima, per il più puro amore di
Dio, senza nessun desiderio di veder notata la mia opera. Voglio
estenuarmi al servizio di Dio. Non tornerò più».
Dopo
circa un mese e mezzo di viaggio, i tre canonici arrivano alla
missione di Weisi (m. 2350), nelle Marche tibetane. Il canonico
Tornay scrive: «E adesso, ho fatto quasi il giro del mondo: ho visto
ed ho sentito che ovunque la gente è infelice, che la vera
infelicità consiste nel dimenticare Dio, che a parte servire Dio,
veramente, nient'altro ha valore, niente, niente, niente». Senza por
tempo in mezzo, riprende lo studio: da un lato, la teologia, sotto la
guida del canonico Lattion, dall'altro, la lingua cinese, con un
vecchio professore protestante, che ha una certa simpatia per il
cattolicesimo. Ansioso di evangelizzare i pagani nella loro lingua e
nel rispetto della loro cultura, fa rapidi progressi in cinese. Ma,
per quanto il suo programma di studio sia sovraccarico, il canonico
si dà con zelo agli esercizi di devozione: adorazione, orazione,
Messa, recita dell'Ufficio divino. È così che la sua anima trova la
forza di portare la croce del missionario. A quell'epoca, scrive ai
genitori: «Quel che voi dissodate, vi lascerà un giorno; quel che
amate, passerà un giorno ad altri. No, certo, bisogna amare la
terra; ma non bisogna amarla che per quel tanto che essa ci conduce a
Dio, che per quel tanto che essa ci dice quanto Dio sia bello e
misericordioso. Il resto non vale niente, perchè il resto passerà.
Sì, tutto il resto passerà. Ma il mio affetto per voi non passerà,
perchè, in Cielo, ci ameremo per sempre».
Una
gioia temperata
Dopo
aver superato brillantemente gli esami di teologia, il canonico
Tornay può esser ordinato sacerdote. Il prelato più vicino,
Monsignor Francesco Chaize, risiede a Hanoi; il giovane diacono
intraprende quindi un viaggio di venti giorni per recarsi da lui. La
sera stessa dell'ordinazione, il 24 aprile 1938, scrive ai genitori:
«Vostro figlio è sacerdote! Gloria a Dio! Questa notizia non vi
procurerà che una gioia temperata, perchè non sono assieme a voi.
Ma voi siete cristiani e mi capite. C'è un Dio che bisogna servire
con tutte le proprie forze. Per questo sono partito, per questo avete
sopportato tanto bene la mia partenza».
Nel
settembre del 1939, scoppia la guerra mondiale. La Cina è invasa dal
Giappone, e le Marche tibetane sono occupate militarmente, il che
provoca carestia, sommosse popolari, saccheggi. Padre Tornay è
confrontato al problema dell'alimentazione dei partecipanti alla
«probazione», specie di preparazione al seminario minore fondato
dai canonici e affidato a lui. Arriva al punto di farsi mendicante
per nutrire i suoi ragazzi, ma deve lui stesso, talvolta, passare
giorni e giorni senz'altro nutrimento che radici di felci. «Portare
la croce, scrive all'epoca, ho capito un po' il senso di queste
parole». Ma la miseria generale, lungi dallo scoraggiarlo, non fa
che infiammare il suo desiderio di far del bene intorno a sè: «Più
i tempi sono difficili, più è urgente occuparsi delle anime». La
guerra non è ancora finita, nel marzo del 1945, quando Padre Tornay
viene nominato curato di Yerkalo (2650 metri di altitudine), nel
sud-est del Tibet. Accettare la nomina significa avviarsi su una
strada che presenta tutte le probabilità di sfociare nel martirio.
Infatti, parecchi sacerdoti vi hanno trovato la morte a causa
dell'intolleranza religiosa delle autorità locali. Alla notizia
della nomina, il missionario cerca rifugio nella preghiera. Padre
mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come
voglio io, ma come vuoi tu! (Matt. 26, 39).
Due
eserciti alle prese
Nella
regione in cui Padre Tornay esercita il suo apostolato, il lama capo
Gun-Akhio è onnipotente sul piano religioso come nei campi economico
e politico. Egli alimenta un odio implacabile contro i missionari.
Già san Paolo aveva messo in guardia il suo discepolo preferito
Timoteo contro le prove che non mancano mai agli operai del Vangelo:
Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo saranno
perseguitati (2 Tim. 3, 12). Non è il caso di stupirsene perchè,
se «Dio ha deciso di intervenire nella storia umana in modo nuovo e
definitivo, inviando suo Figlio nella nostra carne, per strappare
attraverso Lui gli uomini all'impero delle tenebre e di Satana, e per
riconciliarsi in Lui il mondo» (Concilio Vaticano II, Decreto Ad
Gentes, n. 3), le forze del male, che possono servirsi della
libera cooperazione degli uomini, si sforzano di impedire l'annuncio
della verità salvifica. Un gran vescovo missionario in Papuasia
all'inizio del XX secolo, Monsignor Alain de Boismenu, scriveva:
«Esistono veramente due regni che si dividono il mondo e si
contendono le anime; due eserciti sempre e violentemente alle prese:
l'esercito di Gesù Cristo, la Chiesa, pronto a salvare le anime;
l'esercito di Satana, focoso a perderle. Guerra senza tregua e senza
quartiere. Molti la ignorano, molti vi vedono soltanto una finzione.
Eppure essa è proprio reale. È la trama invisibile della storia del
mondo, fino alla fine dei secoli. Realtà formidabile; dobbiamo,
prima di tutto, crederci fermamente».
«Ero
appena giunto a Yerkalo, scriverà nel suo diario Padre Tornay, e già
si parlava sottovoce di mettere il missionario alla porta. Durante le
danze dei lama di Karmda, si proclama, davanti al cielo e alla terra,
che il missionario dovrà ben presto andarsene, pena i peggiori
castighi che un essere umano possa temere, che i Cristiani dovranno
apostatare e tutti i loro figli rivestire la toga dei lama; perchè
«non deve esserci che una sola religione nel paese dai mille dei»».
Malgrado il pericolo e le difficoltà dell'apostolato, Padre Tornay
vuol rimanere sul posto. Come il santo Curato d'Ars, che aveva detto:
«Lasciate una parrocchia senza sacerdote per vent'anni, e vi si
adoreranno gli animali», egli si rende conto che il popolo ha
bisogno dei missionari per conoscere la legge di Dio e rimanervi
fedele grazie ai sacramenti della Chiesa. Le minacce di Gun-Akhio non
lo distolgono dal suo dovere: «Sono stato mandato a Yerkalo dal mio
vescovo, e vi rimarrò finchè egli vorrà che mi ci trattenga,
scrive Padre Tornay ad un confratello. Se si vuole allontanarmi, c'è
un solo mezzo per i lama: legarmi sul dorso di un mulo e spronare la
bestia; non cederò che di fronte alla violenza». L'ordine di non
cedere che di fronte alla violenza gli è stato dato dal vescovo.
Anche quando i lama gli gridano apertamente: «Partirai! Partirai! Ti
ammazzeremo! Ti butteremo nel Mekong!», Tornay rimane imperterrito.
Il
26 gennaio 1946, la mattina, una quarantina di lama invade la
residenza del missionario, la saccheggia, la distrugge e, sotto la
minaccia di 12 fucili, trascina Padre Tornay in esilio a Pamè, nello
Yünnan cinese. Comincia allora un anno che sarà il più duro di
tutta la sua vita missionaria. Nel villaggio, infatti, c'è una sola
famiglia cristiana; il vecchio tibetano che lo ospita è un
ubriacone; i lama continuano a minacciarlo di morte, se non
interrompe la corrispondenza con i fedeli di Yerkalo. Prega molto,
visita gli abitanti, cura i malati.
All'inizio
del maggio 1946, Padre Tornay riceve una lettera dal Governatore di
Chamdo, suprema autorità civile dell'est tibetano. Egli gli promette
la sua protezione e lo invita a tornare a Yerkalo. Il 6 maggio, Padre
Tornay si mette in viaggio, ma, quando sta per varcare il confine di
Yerkalo, viene arrestato da Gun-Akhion: «Alt! Vietato andare oltre».
Con la morte nel cuore, Padre Tornay torna indietro in piena notte.
Senza scoraggiarsi, si propone di recarsi a Lhasa, capitale del Tibet
(34 giorni di cammino), per ottenere dal Dalai-Lama, capo religioso e
politico supremo del paese, la libertà religiosa dei Cristiani di
Yerkalo. È stato incoraggiato a compiere questo passo dai
rappresentanti della Santa Sede e dai governi svizzero e francese.
L'arrivo
nella vera patria
Il
10 luglio 1949, Padre Tornay, aggregandosi ad una carovana di
mercanti, inizia il lungo viaggio alla volta di Lhasa, viaggio
previsto per durare due mesi. Benchè si sia rasata la barba e porti
l'abito tibetano, viene riconosciuto e denunciato durante una tappa.
Costretto a lasciare la carovana ed a tornarsene indietro, riesce
comunque a raggiungerla di nuovo. «Non bisogna aver paura, dice ai
suoi compagni, se ci ammazzeranno, andremo difilato in Paradiso.
Moriremo per i Cristiani». La carovana si ferma, vicino alla
frontiera, sul territorio dello Yünnan, in un luogo detto Tothong. È
un posto sinistro, propizio ad un'imboscata. Improvvisamente, quattro
lama armati irrompono dal sottobosco. Padre Tornay grida: «Non
sparate, si può discutere!». Ma, in quello stesso istante, si
sentono due spari. Egli si precipita verso il suo fedele compagno,
Doci, che è stato colpito. Altre fucilate risuonano: Padre Maurizio
Tornay si accascia sotto i proiettili. È l'11 agosto 1949, nella
foresta di Tothong, sotto il passo di Chula (3000 m.), nelle ultime
ore prima di mezzogiorno. Più tardi, le autorità cinesi imporranno
una multa considerevole alla lamasseria di Karmda. La responsabilità
dell'assassinio viene, di conseguenza, riconosciuta ufficialmente. Il
motivo: «Padre Tornay propagava la religione cattolica a Yerkalo».
La fede cattolica vi è oggi tuttora vivace.
Ancora
collegiale, Maurizio Tornay aveva scritto: «La morte è il giorno
più felice della nostra vita. Bisogna rallegrarsene più di tutto,
perchè è l'arrivo nella nostra vera patria». Dopo aver camminato
sulle tracce del Buon Pastore che dà la vita per le sue pecorelle,
il Beato è entrato nella vita eterna. Che ci ottenga di partecipare
al suo amore appassionato per Cristo e di andare fino in fondo alle
esigenze del suo amore per noi!
Dom
Antoine Marie osb
"Lettera mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia
(Website : www.clairval.com)"
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