Una
notte ero alla guida della mia auto in compagnia della mia amica
Virginia, e, strada facendo, riflettevamo insieme sulla complessità
delle amicizie. Virginia era piuttosto depressa, mentre io affermavo
che la vita sarebbe più semplice, scevra di complicazioni e
indolore, senza rapporti con gli altri. La risposta di Virginia fu
immediata e decisa: «Sì, la vita sarebbe più semplice, indolore,
ma sterile». Le sue parole esprimevano una fondamentale verità.
Le
amicizie sono sempre cariche di dolore, ci confondono, ci spaventano,
ci minacciano e ci affaticaņo, ma ci sollevano anche il morale e ci
realizzano. E infatti attraverso il dolore che proviamo, nel trattare
con gli altri, che rafforziamo il nostro amore l’uno per l’altro
e cresciamo come individui. Le vere amicizie sono sempre colme di
grazia anche, e talvolta soprattutto, nei momenti più bui. Ciò
significa che Dio si serve di questi momenti per parlarci della
durata dell’amore e di come, realmente, esso provenga dal cuore di
Gesù.
La
sofferenza purifica, affina e dà forza alle persone. C’è un
importante passaggio nell’Antico Testamento che parla delle cause
dell’afflizione: Oltre tutto ringraziamo il Signore, nostro Dio,
che ci mette alla prova, come già i nostri padri. Ricordate quanto
fece con Abramo, a quante prove sottopose Isacco e quanto avvenne a
Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di
Labano, suo zio materno. Giacché, come li fece passare al crogiuolo
per scrutare i loro cuori, così non è che vuole vendicarsi di noi,
ma è a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli
sono vicino (Gdt 8,25-27).
Nell’amicizia
si impara il vero significato delle parole, delle promesse e dei
simboli, anche nei momenti di afflizione. L’amore vero non è mai
facile; noi conosciamo, dall’esperienza di Gesù, che l’amore
radicale conduce alla croce. Vivere una vita carica di passione
significa, necessariamente, sperimentare la sofferenza.
Le
persone appassionate che credono nel mistero pasqūale capiscono che
attraverso il dolore c’è crescita e, nella morte, c’è nuova
vita. Dio si rivela in modo speciale nell’amicizia quando in essa
si attua il mistero pasquale, quando cose già fortemente unite
vengono dolorosamente divise, sradicate e scosse per favorire la
purificazione e la trasformazione.
A
un certo punto della mia vita, mi resi conto quanto il mistero
pasquale sia stato effettivo nelle mie amicizie. Ho capito, anche,
che la mia fede nel Cristo pasquale mi ha sostenuta nelle sofferenze
della vita. Mentre non provo gioia e non desidero il dolore che
accompagna sempre l’amicizia, sono grata per la forza che ho di
resistere al dolore stesso, di perseverare nella speranza che, dal
dolore, provenga la crescita e una nuova vita. Ho pietà di coloro
che non conoscono il miracolo del mistero pasquale che opera nei loro
cuori.
Dio
vuole che il mistero pasquale sia parte integrante nel cammino della
nostra vita, perché è attraverso di esso che noi arriviamo al
contatto vitale con i piani di Dio per la nostra crescita, nel nostro
viaggio verso di lui. Noi possiamo insegnare l’uno all’altro la
realtà del mistero pasquale, da come viviamo la nostra vita: così
hanno fatto i miei amici per incoraggiarmi ad affrontare le mie pene
e soffrire meglio. Io li ascoltavo, perché sapevo che essi sarebbero
stati accanto a me, per confortarmi e incoraggiarmi quando soffrivo.
Nella
morte noi diventiamo coloro che incarnano Dio per gli altri. E come
se il dolore scavasse un segno nei nostri cuori perché Dio vi
risieda e splenda, raggiungendo gli altri attraverso di noi.
Pensare
all’amicizia e all’amore in termini di sofferenza non è un
approccio cinico ma realistico, perché il vero amore deve essere
purificato dei suoi sentimentalismi, il vero amore è penetrante e
tenace e richiede tutto quello che noi abbiamo e il meglio di noi
stessi. Una vera amicizia è qualcosa che ci impegna, qualcosa che ci
fa riflettere, valutare e, talvolta, ci fa sopportare le pene più
difficili per proteggerla o per rafforzarla. - -
C’e
un salutare marchio di dolore nella vera amicizia. E il dolore
dell’amare troppo, del conoscere e sperimentare che l’amore è
nello stesso tempo difficile e bello, del non essere capiti,
dell’osservare l’altro che soffre. Il dolore dell’amicizia può
essere causato dalla crescente alienazione o dalla definitiva
separazione. Parte del dolore dell’amicizia consiste nel conflitto
che spesso esiste tra due persone. Questo può essere molto salutare.
Quando due persone hanno un rapporto senza conflitto, forse
intenzionalmente evitandolo, ci si deve domandare se sia davvero
sincera amicizia. Senza voler augurare conflitti, è importante
notare che il conflitto, in un’amicizia, può aiutare a raggiungere
realtà molto più profonde. Se due persone stabiliscono una piena
amicizia, ciascuna incontra l’altra come una persona completa con
una moltitudine di sentimenti, convinzioni, forze e debolezze e in
questo intenso scambio, inevitabilmente, nei quotidiani incontri,
l’una si «scontrerà » con l’altra. Le vere amicizie sono
incessantemente libere e liberanti e, quando c’è disaccordo in
un’amicizia, gli individui si sentono liberi di lasciare emergere e
sostenere le differenze. Martin Marty, in un interessante libretto
intitolato Amicizia, commenta precisamente questa idea:
Essere
amici e non arrivare mai al conflitto è probabilmente un segno di
apatia; le persone che si interessano profondamente di qualcosa nel
mondo sono esposte a entrare in disaccordo e, se esse sono libere, a
esprimere il loro disaccordo".
Spesso
è precisamente attraverso il conflitto che noi constatiamo la
presenza di Dio in un’amicizia. Attraverso lo stress e lo sforzo
del conflitto, noi possiamo vedere la mano di Dio che ci sostiene
entrambi e che salva l’amicizia. Ci fu un periodo in cui ebbi un
conflitto estremamente doloroso con qualcuno che amavo profondamente,
e penso che quella sofferenza fosse un necessario processo perché
noi due, sopportando, affinassimo e rafforzassimo la nostra amicizia.
Io sapevo pure che, alla fine, qualunque fosse stato il risultato,
avrei potuto accettare tutto, sicura che Dio avrebbe permesso
all’amore di trionfare, e questo mi stava bene.
La
nostra amicizia sopravvisse al conflitto e divenne più forte e più
bella, anche se non chiederò mai di entrare in conflitto con la
persona che amo, perché il dolore è troppo grande. Guardando al
passato, ringrazio Dio per i conflitti subiti, per la grazia della
perseveranza e per aver intuito che la crescita e il rafforzamento
dell’amicizia che ne erano seguiti erano proprio il risultato del
conflitto.
In
un’amicizia noi non possiamo forzare la crescita, la felicità o la
comprensione: possiamo soltanto rimanere fedeli anche nel buio
totale, profondamente fiduciosi che il Dio della vita e dell’amore
porterà luce e forza.
Chi
ha sperimentato una vera intensa amicizia sa che richiede anche il
sacrificio. Una delle grandi sofferenze che si devono accettare in
un’amicizia è questo genere di tormento: sacrificio di noi stessi,
del nostro tempo, delle nostre energie, delle nostre risorse. In
un’amicizia c’è il sacrificio di non poter pensare solo a se
stessi, di non avere l’ultima parola, di permettere all’altro di
avanzare mentre noi restiamo indietro, di dover cambiare per essere
amici migliori. La parola «sacrificio» deriva dal latino «sacrum
facere» ossia «rendere sacro». Noi rendiamo sacra qualcosa
offrendola a Dio. Il sacrificio che Gesù fece di se stesso rese
sacra la sua vita stessa. Se noi facessimo davvero dei sacrifici
nell’interesse delle nostre amicizie, noi le renderemmo sacre.
Un’amicizia fra due persone, che hanno sacrificato se stesse e
hanno sopportato insieme la sofferenza, è un’unione santa e,
poiché è santa, Dio stesso abita in essa. E rischioso entrare
nell’intimità, permettere all’altro di divenire parte di noi
stessi, perché significa esporsi alla sofferenza accettando di
essere vulnerabili. Eugene Kennedy afferma, nel suo libro Essere
amico, che «il rischio di vivere con le possibilità di ferite
psicologiche per mano degli amici è inseparabile dall’esperienza
che chiamiamo amicizia»”. Il rischio è una parte necessaria
dell’amicizia. Più profonda è l’intimità, più grande è il
rischio, dal momento che c’è un profondo coinvolgimento di se
stessi. Il rischio che implica l’amicizia richiede che si sia
aperti a qualsiasi cosa provenga da essa, che rinunciamo al dominio,
che abbiamo fede illimitata. La nostra posizione può essere simile a
quella di Susanna nell’Antico Testamento: «Ella, piangendo, volse
lo sguardo verso il cielo, perché il suo cuore aveva fiducia nel
Signore» (Dn 13,35).
Ci
sono persone così timorose da rimanere sempre ai margini di
un’amicizia, pur sapendo che rinunciando ad agire, per paura dei
rischi, rifiutano di vivere. Nel suo libro I quattro amori, C. S.
Lewis fa un singolare commento, venato da un filo di sarcasmo, sul
come evitare le ferite di un’amicizia:
Amare
è essere vulnerabili. Amate qualsiasi cosa e il vostro cuore sarà
sicuramente straziato e forse infranto. Se volete essere sicuri di
conservarlo intatto, non dovete offrire il vostro cuore ad alcuno,
neppure a un animale. Circondatelo accuratamente degli hobbies
preferiti e di piccoli lussi, evitategli le grane, rinchiudetelo al
sicuro nello scrigno o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello
scrigno – sicuro, misterioso, immobile, senz'aria – esso
cambierà. Non verrà spezzato, diventerà infrangibile,
impenetrabile, irredimibile...
Quando
entriamo in profondi rapporti interpersonali, noi abbandoniamo la
sicurezza dell’ambiente protetto di cui ci parla Lewis, per entrare
in una promessa legata a tutte le sue insicurezze. Quando operiamo
all’interno di una promessa siamo sempre vulnerabili e, come
Abramo, abbandoniamo tutte le sicurezze, ci aggrappiamo ad essa,
confidando sempre in Dio, senza riserve. Se la promessa è costruita
su un patto d’amore, non ci smarriremo e anche se sperimentiamo
atroci dolori e perfino la morte, alla fine l’amore trionferà.
Le
separazioni sono spesso l’aspetto più doloroso di un’amicizia,
in quanto il suo ritmo implica la dinamica dell’avere e del
lasciare, essendo noi sempre sul punto di riunirci e separarci. La
vita è piena di presenze e di addii, di incontrie di separazioni,
avendo tutti sperimentato l’indescrivibile tragedia della
separazione da coloro che amiamo e la indescrivibile gioia del
ritorno.
Le
separazioni hanno un influsso notevole sulla nostra crescita come
persone e, qualche volta, amiamo meglio se siamo separati, per un
certo tempo, da quelli che amiamo. Gesù desiderava che i suoi
discepoli lo conoscessero più intimamente quando diceva loro: «E
meglio per voi che io parta perché, se non parto, il Paraclito non
verrà a voi» (Gv 16,7). Ci sono periodi in cui i nostri amici e
familiari devono andare via, perché lo Spirito possa arrivare a
illuminare i nostri angoli bui, purificarci e trasformarci in esseri
perfetti.
Coloro
che amiamo diventano parte di noi. Se noi entriamo pienamente in
rapporto con gli altri, noi rinunciamo a una parte di noi stessi, che
non è più possibile recuperare e quando coloro che noi amiamo ci
lasciano o muoiono, essi portano con sé una parte di noi stessi.
Molte delle nostre sofferenze derivano dal fatto che ci addoloriamo
per la parte di noi che è morta, senza tener presente che in quella
morte c’è trasformazione e quella parte di noi muore proprio
perché noi possiamo essere rigenerati.
La
storia di Abramo che sacrifica Isacco mi ha sempre colpita, in modo
particolare perché mi parla dei sacrifici che sono, al tempo stesso,
parte del rapporto e chiave per la nostra crescita spirituale.
Pensiamo all’esultanza di Abramo nel ricevere il dono di un figlio,
quando, secondo le Scritture, Sara non poteva più averne: la sua
gioia era stata così grande che «fece un grande banchetto quando
Isacco fu svezzato» (Gn 21,8). Poi arriva il momento della prova e
Dio chiede ad Abramo di restituirgli il figlio. Abramo è un uomo
buono, ama Dio ed, essendo anche uomo di straordinaria fede, si
accinge a compiere ciò che Dio gli comanda. Noi non possiamo
immaginare il tormento che agitava il cuore di Abramo mentre stava
salendo sul monte con Isacco. Ma Isacco è risparmiato e non morirà
sul monte Moria, anche se qualche cosa morirà in Abramo che torna da
quell’esperienza trasformato. La sua disponibilità a sacrificare
Isacco e l’angoscia che ha sofferto lo hanno purificato. Sul monte
Moria non è avvenuto un sacrificio umano e fisico, ma un sacrificio
del cuore. Nel dire «sì» al sacrificio di suo figlio, Abramo
esprime la disponibilità a sacrificare il suo stesso amore, accetta
di staccarsi da Isacco fin dal profondo del suo cuore e di
restituirlo a Dio. Non è cosa facile, ma Abramo crede in un Dio di
vita e si fida totalmente di lui. In quel sacrificio Abramo santificò
la sua vita e quella di Isacco e il suo rapporto con Isacco diventò
ancora più sacro, ancora più saldamente radicato nel Dio della
vita. In effetti, Abramo era disceso dal monte Moria cambiato, aveva
capito che, sebbene Isacco fosse un dono di Dio, ciò non significava
che Abramo lo possedesse veramente e potesse disporne a piacere.
Dio
ci ha donato diversi Isacco e sono quelle persone meravigliose che
sono entrate nella nostra vita, quando forse non le aspettavamo,
dando origine a gioie profonde. Dio ci invita alla rinuncia di alcuni
nostri Isacco, anche se la nostra capacità di accettare non è
all’altezza di quella di Abramo. E come se, a differenza di Abramo,
noi salissimo il monte Moria imprecando e lamentandoci, appellandoci
a Dio perché cambi le sue intenzioni. In qualche modo, tuttavia, noi
sappiamo che quel genere di separazione è un mezzo per crescere
nella santità. Per quanto riluttanti, lasciamo partire i nostri
Isacco, aggrappandoci alla promessa che lo Spirito Santo verrà.
Un
certo vincolo lega coloro che hanno sofferto, in quanto la sofferenza
ci attira l’uno verso l’altro, specialmente quando si tratta di
sofferenza comune e in questa comunanza di dolore scopriamo
l’onnipresenza di Dio. Succede agli alçolisti anonimi, ai
divorziati, ai vedovi, alle vedove. E nell’amicizia che noi
condividiamo la nostra debolezza e nessuno può arrivare all’intimità
con l’altro, senza condividerne le sofferenze. In questa intimità
con il debole, il sofferente e l’afflitto, nasce il vero amore che
proviene soltanto da Dio: una presenza sentita non soltanto da coloro
che sono colpiti dal dolore, ma anche da quelli che nell’intimità
partecipano al dolore degli altri.
Più
ci avviciniamo a Dio, più profonde sono le richieste che ci vengono
rivolte. C’è un breve passo nell’Antico Testamento che ne è la
prova: «Dammi il tuo cuore» (Prov 23,26). Dio non chiede niente di
meno che i nostri cuori e, naturalmente, può essere molto doloroso e
difficile donare il proprio cuore. Piedi di cervo sulle alte vette è
un magnifico libretto di Hannah Hurnard. E un’allegoria su una
giovane ragazza di nome Much Afraid. Il suo più profondo desiderio è
di essere unita intimamente a Dio e pensa di raggiungerlo avendo dei
piedi di cerva. Per Much Afraid, avere piedi di cerva vuol dire
possedere l’abilità di arrivare agli alti pascoli del cielo, cioè
seguire la via che il Pastore ha tracciato per lei. In risposta alla
richiesta di Much Afraid di salire gli alti pascoli, il Pastore le
dice che «nessuno è ammesso al regno dell’Amore, se non possiede
il fiore dell’Amore già sbocciato nel proprio cuore»“. Much
Afraid desidera soltanto avere l’amore fiorito nel suo cuore, così
il Pastore comincia il cerimoniale:
Il
Pastore pose la sua mano sul suo petto, tirò fuori qualcosa, e lo
collocò sul palmo della mano. Quando Egli porse la sua mano a Much
Afraid, «Qui è il seme dell’amore» disse.
Ella
si curvò in avanti per guardare, ma lanciò un gridolino di sorpresa
e si tirò indietro. Un seme infatti era posato sul palmo della sua
mano, ma esso era forgiato proprio come una spina lunga, appuntita.
«Questo
seme sembra molto tagliente» disse timidamente. «Non farà male se
tu lo pianterai nel mio cuore?».
Egli
rispose gentilmente: «Esso è appuntito e penetrerà velocemente.
Ma, Much Afraid, io ti ho già avvertita che amore e dolore vanno
insieme, per una volta almeno. Se tu vuoi conoscere l’amore, tu
devi conoscere anche il dolore».
Much
Afraid accettò la spina nel cuore e molte volte, durante il suo
viaggio verso gli alti pascoli, la spina infitta nel cuore lo faceva
dolere e palpitare. Quando arrivò alla meta, il Pastore la invitò
ad aprire il suo cuore, per vedere che cosa c’era:
Alla
Sua parola ella mise a nudo il suo cuore e ne uscì il più dolce
profumo che ella avesse mai respirato e riempì tutta l’aria
intorno a sé con la sua fragranza.
Nel
suo cuore era cresciuta una pianta la cui forma e struttura non
potevano essere viste perché era coperta interamente da puri,
bianchi, quasi trasparenti fiori, dai quali si sprigionava una
delicata fragranza..
Dalla
spina appuntita erano sbocciati magnifici fiori. Much Afraid cedette
il suo cuore al Pastore e lasciò che il dolore la invadesse, ma il
suo dolore si era trasformato in incomparabile gioia.
C’è
una lezione per noi in questa allegoria. Mettere a nudo i nostri
cuori di fronte a Dio e lasciargli conficcare una spina, è aprire
noi stessi all’amore, con tutte le sue agonie ed estasi; è
renderci vulnerabili, permettendo agli altri anche di ferirci. Come
Much Afraid, noi abbiamo sufficiente fiducia nel Pastore per credere
nella sua promessa, che cioè, da quelle spine, come semi piantati
nelle nostre vite, sbocceranno poi fiori belli e profumati. Noi
dobbiamo essere disposti a pagare il prezzo terribile del dono dei
nostri cuori nell’amore reciproco, confidando in Dio in ogni
momento. Se noi faremo questo, non solo sperimenteremo la gioia
dell’umana intimità, ma anche l’intimità con il Dio dell’amore.
L’amicizia
può essere un’esperienza di estasi, ma porterà sempre con sé
l’angoscia di una profonda sofferenza. Fra la gioia e il dolore c’è
sempre qualcosa di misteriosamente bello e irresistibile: è qualcosa
che canta la bellezza dell’amore di Dio.
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