Il
discorso che abbiamo ascoltato dal Vangelo di Luca (6, 17.2026), non
deve essere confuso con l’altro discorso di Cristo
sulla montagna
che riporta il Vangelo di Matteo (5, 1-12). Per due volte, infatti,
ha pronunciato il Signore questo discorso, e tra i due ci sono delle
differenze. Quello di Matteo, accade sulla
montagna,
è rivolto
alla
folla che ascoltava, è composto di nove beatitudini
ed è
seguito da una lunga spiegazione della Nuova Legge, non avendo ancora
il
Signore scelto i Dodici (Mt 10, 1-4). Questo invece di Luca, accade
alla discesa della montagna, dopo aver scelto i Dodici (Lc 6, 12-16),
e in luogo pianeggiante dove aveva guarito molti ammalati e posseduti
dagli spiriti immondi (Lc 6, 18-19). Non è un discorso alla folla
che era lì, ma ai suoi discepoli, ed è composto di quattro
beatitudini e quattro maledizioni in perfetto parallelo. Che ci siano
delle somiglianze con il famoso discorso della montagna di Matteo non
ci deve portare a considerare questo di Luca come un riassunto
dell’altro, No. Sono due discorsi diversi.
Il
primo punto che possiamo considerare è il destinatario del discorso.
Il testo del Vangelo distingue tre classi di personaggi presenti
accanto a Cristo: i Dodici, a cui aveva chiamato poco prima con il
nome di Apostoli (Lc 6, 13), poi c'era anche una gran folla dei suoi
discepoli (Lc 6, 17), e poi una moltitudine di gente venuta da
diverse regioni (Lc 6, 17).
Alzati
gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva... (Lc 6, 20). Questi
sono i destinatari delle sue parole: i discepoli. Non sono i Dodici
Apostoli, né la moltitudine del popolo, ma proprio i discepoli. Gli
Apostoli furono scelti tra i discepoli (Lc 6, 13); non lasciarono di
essere discepoli, ma cominciarono a essere Apostoli. La loro
condizione apostolica non nega la loro condizione di discepoli di
Cristo. Tutti gli Apostoli sono discepoli, ma non tutti i discepoli
sono Apostoli: soltanto quei dodici che scelse il Signore. La
moltitudine di gente era chiamata, secondo il disegno divino, a
diventare poi anch'essa discepolo di Cristo. Ancora non sono
discepoli, ma poi dovranno esserlo.
Se
il Signore avesse parlato soltanto agli Apostoli, gli altri (i
discepoli e la folla) avrebbero pensato che non erano anche per loro
le parole del Signore. Se Cristo invece avesse parlato alla
moltitudine di gente, gli altri (gli apostoli e i discepoli)
avrebbero creduto che fosse tutto questo la condizione per poter
diventare cristiano. Ma Gesù, Maestro Sapiente, alzando gli occhi
verso i suoi discepoli (Lc 6,20) spiegò il cammino della beatitudine
a tutti. Così, le parole di Cristo Gesù si rivolgono: a quelli di
quel tempo, a questi del nostro tempo, e a quanti verranno dopo di
noi.
Il
secondo punto è costituito dalle stesse parole. Sono quattro
sentenze in cui si trova la beatitudine: situazioni che non sono la
beatitudine, ma che in esse si trova la beatitudine. Tutte e quattro
sono disposte in un ordine crescente, abbracciando la totalità
dell’uomo. Vediamo.
La
prima è la povertà (Lc 6, 20), la seconda è il desiderio [del
cibo] (Lc 6, 21), la terza e il pianto o dolore di afflizione (Lc 6,
21), la quarta è la persecuzione variamente descritta (Lc 6, 22-23).
La povertà non è la beatitudine, né l’essere affamato è
beatitudine, neppure l’afflizione o il dolore sono beatitudine,
nemmeno la persecuzione si deve considerare la felicità. Il marxista
pensa che la povertà sia beatitudine; l’anoressico pensa che non
mangiare è o porta felicità; il masochista confonde dolore con
beatitudine, e il malvagio è convinto della bontà della crudeltà.
Cristo non ha mai voluto essere comunista, né cultore della figura
magra, né masochista, né sadico o crudele.
Povero
è colui che non possiede: questo riguarda l’ambito esterno e le
cose materiali. Comincia il cammino verso la felicità chi lascia
tutto per possedere il Regno di Dio, perché il nostro Tesoro non è
sulla terra né qualche cosa terrena, ma Dio stesso, che trascende la
terra (Mt 6, 19-21; Sal 118, 162; Sap 7, 14; Dt 28, 12; Ef 1, 18; Is
33, 6; Lc 12, 33-34; 18, 22; Mt 13, 44; Tb 4, 8-11). Ha fame colui
che desidera, e desidera perché non possiede. Non è più qualcosa
di materiale o esterna, ma ci troviamo con un elemento interno, che
appartiene all’anima e che riguarda il futuro. La povertà a cui
era arrivato ha suscitato in lui la fame, e mosso dalla fame cerca
con tutte le sue forze ciò che gli fu promesso. Cerca perché è
possibile raggiungere la sazietà. Quello che desidera è Dio stesso,
unico cibo adatto alla fame d’infinito dell’anima umana (Am 8,
11; Is 47, 11-20; Sal 42, 3-12; Sal 63,2-6). Piange poi il discepolo
vedendo le proprie debolezze, guardando le colpe commesse. Piange chi
guarda verso il passato e riconosce i suoi peccati. Il dolore sorge
soltanto dopo aver conosciuto il Signore, aver contemplato la sua
gloria, e aver desiderato un’unione eterna con Lui.
Piange
chi teme di soccombere così come passato (Lc 7,36-50; Sal 50, 19 ;
Sal 118, 28; Lam 3,46-63; Zc 12,
10-14;
Sal 126, 5-6; Gb 16, 20; Ger 13, 17; Sal 6, 2-8; 39, 9-13; 116,
7-9). Non è possibile arrivare al
pianto della purificazione e
della penitenza senza gli altri gradini
interiori.
E
la persecuzione sopravviene
a questo punto , perché
chi così vive non appartiene più
al mondo ma al cielo.
(I Gv 2, 15-17). Il mondo odia tutti coloro
che non sono del mondo, e cerca la loro perdizione. Questa tappa è
il segno più chiaro della
vicinanza alla gloria finale. Il
mondo non perseguita né mondani
né mediocri, ma i giusti e i santi li rigetta e condanna (Gv 15,
185) In quest'ultima
tappa, il
discepolo trova gioia nel compatire la
Passione del Maestro, e conforto
nell’amore dei suoi concittadini del Cielo.
( Col. 1, 24).
Spogliato
di tutto quello che non è
di
Dio, desideroso di comunicare
Dio, afflitto per aver offeso Dio, e abbandonato
e odiato
dal mondo per la sua unione con Dio: ecco
il cammino
segnato
da Cristo ai suoi discepoli (Lc 9, 23-26). Chiediamo la grazia
e
la voglia di vivere secondo Cristo, affinché possiamo un giorno
gioire con Cristo.
Tratto
dal libro “ Meditazioni sui misteri” di don Fernando Maria Cornet
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