“Ogni
sorta di bestie è stata domata dall’uomo, ma la lingua nessun
uomo la può domare” (Gc 3, 7)
IMPORTANZA
DEL DIALOGO
Come
sarebbe strano se ci saltasse in mente, quando la Panda si ferma, di
riempire il serbatoio di acqua invece che di benzina! Si capisce che
la Panda non uscirebbe più dai suoi guai. È un po’ la storia
del dialogo. Quando s’inceppa la carità, è sempre per una causa
semplicissima: si è arrestato il dialogo. Che cosa fare? È
semplicissimo: si ritorna al dialogo. È la benzina del motore, non
dobbiamo farci illusioni. La nostra carità sta in piedi perché si
dialoga e finché si dialoga; cala, s’inceppa e si arresta quando
non si dialoga.
È
il dialogo l’anima della nostra carità. E il dialogo il bisogno
essenziale della nostra carità. Per il pieno di benzina ci vogliono
i distributori, per il dialogo è ancora più semplice: basta la
nostra buona volontà. Non allarmiamoci troppo quando la carità si
arresta: con una buona volontà di dialogo la carità può
riprendere. È il grande segreto della vita, è la chiave
maneggiabile da tutti quelli che hanno buona volontà.
La
vita è amare
La
vita è solo questo: è amare. La vita senza questo non ha senso.
Senza amore, è un tunnel senza uscita.
Viviamo
per amare. Per amare e per essere amati. Non basta che amiamo.
Occorre anche essere amati. Ma il problema va avanti da sé: chi ama
è amato; chi ama, presto o tardi suscita amore. Quando siamo
preoccupati per il problema della carità occorre subito richiamarci
a questa realtà semplicissima: per risuscitare l’amore basta
amare. L’uomo è un essere così ben strutturato che risponde
sempre all’amore: avrà i suoi ritardi dovuti alle cause più
strane, ma quasi con certezza assoluta l’uomo risponde all’amore
se è oggetto di amore.
Non
esiste amore senza dialogo
Viviamo
per amare. Tutta la Bibbia lo proclama, dalle prime pagine della
Genesi fino all’Apocalisse è un richiamo incessante a questa
verità: l’uomo deve amare, l’uomo esiste per amare. Gesù lo
dichiara primo comandamento, cioè primo dovere dell’uomo, da cui
dipendono tutti gli altri comandamenti, cioè tutti gli altri
doveri. Lo dichiara la nostra natura, lo proclama la Parola di Dio,
lo verifica la nostra esperienza: la nostra vita è profondamente
mutilata senza l’amore. Ora la legge fondamentale dell’amore è
comunicare. Non esiste amore senza dialogo. Non esiste dialogo senza
amore. L’amore se è autentico si esprime nel dialogo. Il dialogo
insomma è una delle espressioni più necessarie dell’amore. È
una verifica, un segno inconfondibile dell’amore, ed è un segreto
di ripresa quando l’amore scade. Perché questo è un dato
scontato: l’amore non è facile, ha i suoi alti e bassi, ha i
momenti duri e ha anche le sue brusche interruzioni. L’amore è
come un bambino delirante: tutto può succedere alla salute di un
bambino delirante, basta un’imprudenza, basta un’inavvertenza, e
la sua salute è in pericolo. L’amore è un fiore delicato che
non può essere esposto a tutti i venti. L’amore vive solo se lo
si tiene acceso. E tenerlo acceso comporta sacrificio. Ora uno dei
mezzi più validi per coltivare l’amore, è imparare l’arte del
dialogo.
PRIMA
CONDIZIONE DEL DIALOGO: AMARE SE STESSI
La
prima condizione per amare è amare in modo giusto se stessi. È il
presupposto al dialogo. Non impara a dialogare chi non parte da qui.
Il vero amore degli altri comincia dall’amore giusto a noi stessi.
Chi non si ama non
è attrezzato per amare gli altri. Dice lo
psicologo John Powell: «Quando noi perdiamo la capacità di
apprezzare noi stessi e di godere di essere noi stessi, ogni sorta di
cose nere
e di cose penose entrano in noi a colmare il vuoto». Solo
chi è in sintonia con se stesso è capace di amare. Chi odia se
stesso non getta il ponte verso gli altri. La persona egoista,
chiusa, che non ama nessuno, è sempre una persona che non ama se
stessa. C’è gente che impiega tutto il suo tempo a piagnucolare
su di sé: chi vive così non ha capacità di amare gli altri. Non
vibra per gli altri un cuore atrofizzato anche verso se stesso. Il
pessimista sempre a caccia di nuvoloni neri, che non sa vedere il
bene nemmeno dentro di sé, non è attrezzato per amare gli altri.
C’è gente che davanti a una ciambella guarda subito al buco e non
guarda alla ciambella. Il pessimista si amareggia la vita, si priva
spesso delle soddisfazioni più belle. Ma ciò che è peggio, non
amando se stesso non è in grado di partire nell’amare gli altri.
Quando non amiamo noi stessi, ci riempiamo la vita di compensazioni,
spesso molto meschine. Per esempio...
1.
Diventiamo ipercritici verso gli altri. La vecchia suocera che
brontola di tutto e di tutti è l’esempio tipico della creatura
che non ama se stessa. Veder tutto nero negli altri, aver pretese
senza fine, spesso è indice che le insoddisfazioni non sono tanto
negli altri, ma in noi stessi.
2.
Il superlavoro, lo strafare, può essere una fuga tipica da se
stessi, un segno che non si ama se stessi: nello sfogo della
superattività si cerca di colmare il vuoto di sé.
3.
Le maschere a cui ricorre una persona quando non ama se stessa hanno
del ridicolo: si fa il duro o si fa l’eroe, si fa il menefreghista
o si fa il condiscendente a oltranza.
4.
La ricerca continua di approvazione è un altra fuga: si è
assetati del buon giudizio altrui, si è continuamente crucciati di
ciò che pensano o dicono gli altri di noi.
5.
Il sospetto continuo nei riguardi del nostro prossimo è sovente un
altro tipo di fuga.
6.
Così l’eccessiva timidezza che blocca ogni passo, che paralizza
ogni iniziativa, che è sempre sul chi vive.
7.
Il disprezzo di se stessi, l’odio di sé, è il segnale più
grave di un’affannosa fuga da se stessi. In conclusione,
l’infelicità che si procura chi non ama se stesso esige che il
problema venga affrontato con decisione e buona volontà. È troppo
il male che viene su chi parte male, è necessario documentarsi
sulle conseguenze che ne derivano, e correre ai ripari.
Dicono
gli esperti
Giova
molto sentire la voce degli esperti, la voce dei grandi conoscitori
dell’uomo. Le loro ricerche sulla psiche umana avallano quello che
stiamo dicendo sull’accettazione e sull’amore a noi stessi.
°Ecco
un’affermazione molto sintomatica di Carl Jung: «L’accettazione
di se stessi è l’essenza di tutti i problemi della vita. La
nevrosi è lo spezzamento di se stesso: tutto ciò che accentua
questa rottura rende il paziente peggiore, tutto ciò che mitiga la
rottura tende a guarire il paziente».
°John
Powell arriva ad affermare nella sua esperienza di psicologo: «Tutte
le nevrosi e i mali morali hanno questa causa comune: l’assenza di
vero amore a se stessi».
°Eric
Fromm non esita a descrivere così la catastrofe dell’egoismo:
«L’egoismo ha le sue radici nella mancanza di amore a se stessi.
La persona egoista è sempre insoddisfatta... In fondo è gente che
non accetta se stessa, che non ama se stessa».
°Ecco
il giudizio di uno psichiatra che dedica tutta la sua vita agli
individui dissociati: «il nostro principale lavoro è aiutare i
pazienti a trovare ciò che c’è di bene in se stessi: di qui
comincia sempre il miglioramento».
°Robert
Felix, direttore dell’Istituto Nazionale di Salute Mentale negli
Stati Uniti, propone al nevrotico questa meta: «Devo imparare a
godere di essere me stesso, a non voler essere nessun altro, a essere
solo me stesso». Può bastare questo campionario di esperti. La
tragedia che incombe su chi non accetta e non ama se stesso, deve
aprire gli occhi sulla nostra responsabilità e sul nostro bisogno
di agire.
Quattro
tappe di crescita
Venendo
al concreto, lo psicologo John Powell propone queste quattro tappe di
crescita nell’amore a se stesso.
1.
Accettarsi. Ognuno di noi è un progetto meraviglioso di Dio. Niente
è a caso nella nostra storia. Dio ha cominciato il ricamo della
nostra vita ben prima della nostra nascita. Un mezzo che può
portarci a un’accettazione piena di noi stessi è l’abitudine al
ringraziamento. Fare l’occhio ai doni di Dio. Allenarsi alla
gratitudine. Il tornare a commuoverci per i doni incessanti di Dio,
lascia un segno profondo in noi. È un metodo facile di riflessione
alla portata di tutti: basta educarci a mai lasciare cadere la
meraviglia e la gratitudine. «Grandi cose ha fatto in me
l’Onnipotente!». La Vergine Maria, che non ha avuto complessi
riguardo ai suoi doni mirabili, è l’esempio e lo stimolo della
nostra gratitudine a Dio.
2.
Dopo l’accettazione di sé, viene la stima di sé. «Ti ringrazio
perché mi hai fatto come un prodigio», dice il salmista (Salmo
138). Il profeta Isaia mette sulle labbra di Dio queste parole
commoventi: «Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima, e io
ti amo» (Is 43,4). Dunque accettarsi è poco. Occorre un passo
avanti, la stima. Ma come è possibile, quando siamo frustrati dai
nostri limiti? Come è possibile, quando siamo scoraggiati per la
nostra debolezza? In realtà non esiste un limite umano che sia
soltanto negatività. Ogni limite ha un risvolto positivo che, ben
considerato, ci compensa. Non esiste un limite esclusivamente
negativo: c’è sempre il verso della medaglia che, soppesato bene
e considerato con intelligenza, ci rende accettabile il limite. Ecco
un monito importante di Richard Bach: «Cavilla sui tuoi limiti, ed
essi ti apparterranno».
3.
Anche la stima non basta, occorre l’entusiasmo: essere degli
entusiasti di se stessi. Normalmente non lo siamo finché non
abbiamo molto lottato per esprimere la nostra gratitudine a Dio.
L’entusiasmo
di noi stessi nasce dalla riflessione, dal confronto calmo con chi ha
meno di noi. L’entusiasmo di essere se stessi è un’abitudine di
fede che si acquista con la riflessione e la preghiera. 4. Da
ultimo, la gioia di essere quel che siamo. È una tappa che esige il
suo tempo, ma la persona che si allena seriamente alla gratitudine
arriva anche lì.
E
a questo punto c’è la libertà.
Abbiamo
bisogno di approvazione
Non
è sufficiente la nostra buona volontà per coltivare
l’accettazione e la stima di noi stessi. Dov’è che noi cogliamo
la stima di noi stessi? Il bambino la coglie negli occhi di sua
madre, lo scolaro la coglie nell’approvazione del suo maestro, il
giovane la coglie nell’accettazione dei suoi coetanei. Sono gli
altri che ci fan crescere nella stima di noi stessi. Abbiamo estremo
bisogno di approvazione. Abbiamo estremo bisogno di far contenti, di
rispondere alle aspettative degli altri, di vedere che siamo utili,
che gli altri sono contenti di noi. Ne ha bisogno il bambino, ne ha
bisogno l’adulto, ne hanno bisogno tutti. Dice John Powell: «Siamo
come specchi l’uno per l’altro... Nessuno sa stimarsi se non
percepisce stima negli occhi dell’altro». Dice Victor Frankl: «La
stima di noi stessi è sempre riflessa nella stima delle persone che
ci amano e che noi amiamo». Perciò una delle leggi più
importanti della vita con gli altri è questa: esprimere in modo
schietto la propria stima a ogni fratello e a ogni sorella». Non
dobbiamo essere trascurati in questo dovere: ogni occasione che la
vita ci porge per esprimere la nostra stima va sfruttata per il bene
dei fratelli, del nostro gruppo.
Perché
non sottolineare con schiettezza e gratitudine
un
lavoro ben eseguito?
un
servizio avuto?
una
delicatezza di carità che si è vista?
un
sacrificio notato?
una
gioia ricevuta? una testimonianza che ci ha colpito?
Sono
queste le soddisfazioni uniche che spesso abbiamo: vedere gli altri
contenti. Non priviamo nessuno di questa gioia legittima, così
importante per lo sviluppo della personalità.
L’ALTRA
CONDIZIONE: AMARE IL PROSSIMO
Come
deve essere l’amore? Quali sono le caratteristiche essenziali
dell’amore? Gesù ha sintetizzato tutto dicendo: «Amatevi come io
vi ho amato». La meta dell’amore è imitare l’amore di Cristo.
Ma forse è bene scendere a maggiori particolari in questo problema.
Che cosa risulta veramente essenziale all’amore? Quali sono i suoi
segni autentici? Vediamoli.
Amare
non è un semplice sentire
Non
è semplice emozione. È una cosa più consistente delle emozioni.
Al limite si potrebbe anche sentire poco o sentire niente, e tuttavia
amare intensamente.
Amare
non è sentire, ma è dare. Sentire è passività, l’amore
invece è piena attività, è donazione.
I
sentimenti vanno e vengono, spesso sono anche incontrollabili.
L’amore invece, siccome parte dal più profondo di noi stessi, è
sempre sotto controllo. Le sue radici sono nella nostra intelligenza
e nella nostra volontà, partono cioè dalla parte più ricca di
noi stessi. Amare è una decisione
Il
sentimento può essere irrazionale, l’amore mai: parte sempre da
una decisione ben cosciente. Il sentimento non è sempre provocato
da noi, l’amore lo è sempre, perché comporta un moto intimo
della nostra volontà. E consolante questo. Non possiamo mai dire di
non essere capaci di amare, perché l’amore parte sempre dalla
volontà. Si fanno grandi confusioni parlando di amore. Lo si
confonde perfino col ricevere, con l’ottenere, col godere. No, dice
Eric Fromm: «L’amore è prima di tutto un dare, non un ricevere».
Si capisce che l’amore scatena amore. Chi ama è amato. Chi ama
riceve. Ma chi ama autenticamente non pensa affatto al guadagno, al
ricevere. L’amore comporta decisioni senza numero
Non
si ama una volta per tutte. Non si ama con una decisione sola. Appena
si comincia ad amare nasce una situazione nuova, e una situazione
nuova comporta decisioni nuove.
I
bisogni di un fratello non sono mai finiti, perché la vita è un
intreccio di bisogni sempre nuovi: l’amore quindi comporta
decisioni sempre nuove.
I
bisogni non sono capricci, sono bisogni: spesso questi sono confusi,
ed esigono una chiarificazione che nemmeno l’interessato, qualche
volta, sa dare. Ma l’amore rende l’occhio acuto per puntare sui
bisogni veri del fratello
e
sul discernere ciò che è più utile per lui.
L’amore
vero è incondizionato
Se
amiamo sotto condizione non amiamo affatto. Se amiamo solo se l’altro
contraccambia, se amiamo se l’altro risponde, se amiamo se l’altro
riconosce, se amiamo perché l’altro cambi e si modifichi, siamo
impigliati nell’amore condizionato, non siamo al vero amore: c’è
interesse. Non siamo al vero amore: c’è strumentalizzazione. Non
siamo all’amore autentico. Anche i genitori spesso amano così,
sotto condizione. Ma Dio non ci ama così. Dobbiamo capirlo.
Dobbiamo imitare l’amore di Dio che ama sempre, che ama senza
attendere, che ama senza porre condizioni.
L’amore
dura sempre
Chi
ama mettendo limiti di tempo non ama affatto. Se due giovani dicono:
«Ti amo finché sei giovane, finché sei simpatico, finché hai
salute, finché non mi pesi...», il loro amore è illusorio.
L’amore vero resiste al tempo, non pone limiti nemmeno al tempo.
L’amore
trasmette auto-fiducia
L’amore
vero comunica fiducia nelle proprie forze. L’amore vero non si
sostituisce all’individuo, ma lo valorizza. L’amore vero non
porge la pappa fatta, ma la pappa da fare. L’amore vero non rende
tutto facile all’altro, ma gli dà la gioia di rendergli possibile
ciò che sembrava impossibile. L’amore vero comunica forza, non
debolezza: sostituirsi all’altro è sempre un indebolire l’altro,
infondere auto-fiducia è sempre trasmettere forza.
L’amore
vero non è possessivo
Non
è possessivo perché non cerca i propri interessi, ma bada
soprattutto
a difendere gli interessi del fratello. Quando l’amore
è possessivo è amore inquinato, è amore egoistico: il fratello
ha il diritto di essere se stesso, libero nel rispondere o nel
rifiutare amore. L’amore vero non è mai geloso.
CHE
COSA INTENDERE PER DIALOGO?
La
parola «dialogo» può avere parecchi significati e sfumature
varie. È indispensabile chiarire. Anzitutto, diciamo che cosa non
è sul piano spirituale.
Che
cosa non è dialogo
Naturalmente
non prendiamo neppure in considerazione certe strumentalizzazioni del
dialogo, sul tipo del consiglio ironico: «Assumi un’aria saputa,
bofonchia qualcosa, e non dire nulla: la parola ci è stata data per
nascondere il pensiero». Qui siamo semplicemente fuori e contro le
leggi della natura umana. Ma sul piano spirituale dobbiamo fare
ancora altre distinzioni ed esclusioni. Sul piano spirituale non
intendiamo per dialogo:
-
un semplice discorso cordiale,
-
una discussione rispettosa e aperta,
-
una tavola rotonda ben avviata,
-
un dibattito costruttivo,
-
una specie di trattativa piena di buona volontà, tra due parti in
tensione.
Anche
se questo può intendersi come un segno di dialogo, per noi il
dialogo non sta ancora qui, è una realtà più profonda. Due
parti in tensione, è naturale che si ricompongano nel dialogo; ma
noi riteniamo che l’intesa vera non parte dalle semplici parole, ha
radici più profonde.
Allora,
dialogo che cosa è?
Sul
piano spirituale chiamiamo dialogo soprattutto ciò che crea il
cosiddetto dialogo; in una parola usiamo questo termine per
specificare l’anima del dialogo. Potremmo tentare questa
definizione:
Dialogo,
per noi,
è comunicare l’intimo di noi stessi al fine di offrire
al fratello il meglio di noi stessi,
e avviare così un’apertura
vicendevole e profonda, che costruisce l’amore.
Non
è dunque un semplice confidarsi, nè tanto meno uno sfogarsi nel
fratello.
•
In
parole semplici il dialogo potrebbe definirsi: la volontà di
comunione profonda.
•
In
parole più povere: la volontà di fondere i cuori senza secondi
fini.
PRIMO
PASSO AL DIALOGO: DOMINARE LE EMOZIONI
Il
mondo delle emozioni è il mondo della nostra psiche, è un mondo
complesso e interessante. Le emozioni sono una componente
importantissima del nostro essere, ma non la parte più profonda. La
parte più profonda di noi è costituita da quella realtà
interiore che normalmente chiamiamo: intelligenza - volontà -
amore. Ed è importante saper distinguere il campo emozionale da
questa realtà intima che regge il mondo interiore.
Noi
non siamo le nostre emozioni.
Noi
siamo di più delle emozioni.
Noi
siamo oltre le nostre emozioni.
Le
emozioni non hanno responsabilità morale: sono indice della nostra
realtà, ma non sono ancora la nostra realtà più vera. Nel
rapporto con gli altri, il nostro mondo emozionale è il primo
interessato.
È
sempre nella sfera emozionale che avvengono le rotture con gli altri,
ed è appunto dalla sfera emozionale che deve partire ricostruire
l’amore. La sfera emozionale è quella zona di noi dove soffriamo
le reazioni più abituali: gli urti con gli altri, le ferite
all’orgoglio, l’egoismo, le invidie, le paure,
i risentimenti, i
complessi di colpa, i complessi di inferiorità, le stizze, le
piccole vendette, le reazioni di violenza ecc. Perciò dobbiamo
ricordare bene che il mondo delle emozioni non è propriamente la
zona intima di noi dove noi amiamo. È la zona delle reazioni, non
dell’amore. Ma quando si infrange l’amore, è sempre nella sfera
emozionale che comincia la rottura. Poi si razionalizzano a poco a
poco le emozioni, e alla fine nasce la barriera quasi invalicabile
con i nostri fratelli. Ora è dalle emozioni che dobbiamo partire,
se vogliamo ricostruire l’unità infranta. È la via più
facile.
Partire
dalle emozioni per ricostruire l’unità
L’amore
non sta nelle mie emozioni. L’amore vero c’è quando ho il
coraggio di aprire il mondo delle mie emozioni al fratello. Solo
così riallaccio i legami profondi con lui e mi rinnovo nell’amore,
perché aprirgli il mio mondo emotivo significa dargli la massima
fiducia, e dar fiducia è già un grande atto d’amore. Dice John
Powell: «Le mie emozioni sono la chiave per entrare in me; solo
dando questa chiave io posso dare me stesso».
•
L’istante
in cui comunico le mie emozioni, qualcosa cambia nell’altro. E
qualcosa di grande cambia in me. Si chiude una porta alle mie spalle
e si apre un mondo nuovo. Anzi, finché non ho il coraggio di
compiere questo passo, spesso l’altro proietta in me le sue
emozioni negative.
•
Quando
invece apro il mio intimo, do fiducia, spalanco le porte al fratello,
il fratello mi conosce in modo nuovo, e io entro in uno stato
particolare di schiettezza, di fiducia, che è il primo passo verso
la mia donazione a lui.
È
più facile sacrificarsi per il fratello che dargli il cuore. È
più facile fare grandi rinunce che fondere i cuori. Ma è da
quella strada stretta che passa l’amore.
È
questa la strada vera del dialogo. Ed è attraverso quella strada
stretta che io posso capire l’affermazione: il dialogo compie
miracoli. Quando entro in vero dialogo col fratello, quando riesco a
comunicare la mia realtà emotiva, quando la confidenza è piena,
allora il ponte è gettato: io non sono più io, e il fratello è
veramente fratello. Però la comunicazione del mio intimo dev’essere
limpida, senza secondi fini, dev’essere un atto vero di fiducia,
non uno sfogo, non un catturare il fratello o il suo amore.
Le
emozioni represse
Spesso
non si dà importanza a un fatto psicologico gravissimo: la
superficialità del nostro comportamento verso le nostre emozioni.
Con tutta naturalezza noi reprimiamo le emozioni che ci disturbano di
più, ma l’emozione repressa non muore affatto in noi. Anche se
noi preferiamo non pensarci, un’emozione repressa non si estingue
affatto, ma comincia a influenzare in modo negativo la nostra
personalità e la nostra condotta. Per esempio: una stizza,
un’invidia, un malanimo represso, lasciano dentro di noi una scoria
di malessere che ci influenza nei pensieri, nelle parole, nelle
azioni. Quando ci accorgiamo che con una certa persona noi non siamo
più come prima, in realtà che cosa è successo? Probabilmente
quella persona ci ha urtati: noi abbiamo fatto finta di niente, come
se nulla fosse accaduto, ma in realtà qualcosa dentro di noi è
rimasto, e tenta di venire a galla ogni volta che pensiamo a quella
persona, o la incontriamo, o ci parlano di lei. L’emozione repressa
fa scattare i nostri giudizi, le nostre parole, prima che ce ne
accorgiamo. Sarebbe molto più semplice scaricare l’emozione.
Cioè guardarla in faccia, soppesarla davanti alla nostra
riflessione, o meglio ancora davanti a Dio nella preghiera, o trovare
una persona adatta a cui comunicare l’emozione. Un’emozione
comunicata è sempre ben orientata, e qualche volta diventa
un’emozione guarita.
Maschere,
sempre maschere
Ogni
volta che dormiamo di fronte a un’emozione, o giochiamo a mosca
cieca cercando di ignorarla, perdiamo sempre più il contatto con
noi stessi, e indossiamo una maschera che di solito ci è molto
nociva. Il peggio è che spesso, senza nemmeno accorgerci, noi
proiettiamo le nostre emozioni negative sugli altri.
•
Ve
la prendete con i nervi degli altri, con la loro mancanza di pazienza
e di comprensione? Quasi sempre è perché voi siete delle persone
irritate, senza pazienza. Voi avete represso la vostra irritazione, e
ora la proiettate sugli altri; siete voi i nervosi, i violenti, le
persone senza pazienza, non gli altri.
•
Siete
sospettosi degli altri? La causa non sarà la vostra invidia
repressa?
•
Giudicate
con facilità gli altri? La causa non sarà che voi non accettate i
vostri limiti, le vostre sconfitte? Se foste più sereni con voi
stessi, non proiettereste la vostra amarezza sugli altri giudicandoli
senza pietà.
Io
non sono le mie emozioni
La
responsabilità morale delle emozioni va molto considerata. Spesso
noi ci sentiamo colpevoli delle nostre emozioni: è un grave errore,
che rende molto difficile il nostro comportamento. No! Noi siamo
superiori alle nostre emozioni. La nostra vera responsabilità
morale non sta nel provare certe emozioni, ma piuttosto nell’essere
tenaci a reprimerle, ignorarle o proiettarle sul prossimo. Le
emozioni, in sé, non hanno responsabilità morale: sono indici
morali, ma non hanno colpevolezza morale. Sento un’invidia? Non
devo ancora sentirmi in colpa. Devo dire con chiarezza a me stesso:
«Sento invidia, ma non lo voglio, mi dispiace. Voglio bene a quella
persona. Sento invidia, ma non approvo questo sentimento». Se poi
riesco a confidarmi a qualcuno che mi ama, io ne divento immunizzato,
superiore a quella meschinità, dominatore di essa. L’emozione non
influenza più, con troppa facilità, i miei atti, i miei pensieri,
le mie parole.
SECONDO
PASSO: DOMINARE LA LINGUA
Se
qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna
così il suo cuore, la sua religione è vana (Gc 1, 26). Se uno non
manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno
anche tutto il corpo (Gc 3, 2).
Se
uno non frena la lingua...
•
La
lingua facile è un’ipocrisia religiosa. Il pensiero dell’autore
sacro sembra chiaro: la lingua cattiva è segno di assenza di
religione. Noi diremmo:
è
il segno che la vita spirituale è tramontata.
•
Non
è solo un’ipocrisia di fronte a Dio, è anche un’ipocrisia di
fronte agli uomini: la lingua cattiva non parla di fronte alla
persona interessata, parla quasi sempre alle sue spalle. La lingua
incontrollata, cattiva, abitua alla grossolanità, perché abitua
alla sporcizia interiore. La lingua cattiva inquina sempre
l’ambiente, perché iniettando veleno, crea divisioni. O presto o
tardi qualcosa trapela. E allora crea le ruggini, i sospetti, inquina
e fa scadere il clima del nostro stare con gli altri.
•
La
lingua incontrollata, cattiva, non è capace di vita spirituale
profonda: sembra che dissecchi la vita spirituale alla sua radice. La
lingua incontrollata, cattiva, raccoglie ciò che semina: una
persona dalla lingua facile non attira le simpatie di nessuno. Si
teme e si diffida di una persona che non controlla la sua lingua.
•
Per
guarire bisogna essere scrupolosi nel reagire. Non si deve dormire su
questa mancanza: occorre pentirsi e riparare! E questa la cosa più
urgente. Confidare a qualche vero amico, schiettamente, la mancanza,
poi riparare nel modo più intelligente possibile. Normalmente, non
è bene riparare con la persona interessata: aggraverebbe il
disagio. È bene invece riparare davanti a Dio, e poi fare di
nascosto qualcosa per la persona colpita, rettificando come è
possibile la maldicenza fatta.
•
Non
sottovalutare il peccato. Se fossimo ben convinti della gravità di
questo peccato, non vi cadremmo con tanta facilità. La lingua
cattiva è un difetto così grave, che non può essere preso alla
leggera. Se si ricade con frequenza, è perché si gioca col
perdono. A questa piaga bisogna reagire con la fortezza dello Spirito
Santo.
•
È
interessante l’osservazione di san Giacomo: «Chi non frena la
lingua inganna il suo cuore, la sua religione è vana». E come
dire: sei superficiale nel parlare degli altri? Sei un illuso!
Inganni la tua capacità di capire (la tua intelligenza). Il tuo
rapporto con Dio è falso, hai svuotato il tuo rapporto, perché
Dio non sopporta questo disordine, l’armonia con Dio è infranta!
Lottiamo con tutte le forze fino a giungere alla delicatezza di
coscienza, fino ad avere paura del minimo danno fatto con le nostre
parole.
•
Volete
sapere come fa un gruppo cristiano a sfasciarsi? Parte dall’assenza
di preghiera, poi slitta sull’assenza di carità: nasce la
comunità del pettegolezzo, nascono le divisioni, le gelosie, i
rancori, le ruggini che bloccano tutti gli ingranaggi. Un gruppo
cristiano senza la carità è uno scandalo, bisognerebbe
distruggerlo.
E
quando vi imbattete in un cristiano che non cade mai in mancanze di
lingua, state ben attenti: siete davanti a un profeta!
E
quando vi imbattete in uno dalla lingua lunga, buttatevi in ginocchio
e implorate dallo Spirito che vi tenga una mano sul capo, non vi
lasci cadere, non permetta che arriviate a quel punto, al fallimento
della vostra vita spirituale.
Ma
se uno non manca nel parlare...
Il
problema-lingua è un problema vitale che tocca tutti, peccatori e
santi, interessa e coinvolge tutti. È un problema che deve destare
il massimo interesse, perché investe il settore più delicato
della nostra vita di relazione. Chi dicesse: «È un argomento che
non mi riguarda», sarebbe certamente un superficiale. Il
problema-lingua è un problema-indice per la crescita o per il
deterioramento della nostra carità, per la formazione del nostro
cuore. Sistemata la lingua, si potrebbe quasi dire che è sistemata
la nostra carità.
•
Partiamo
da una situazione molto concreta: quando siamo feriti. Quando si è
feriti, c’è da aspettarselo: la nostra lingua si scatena, parte a
sorpresa. Quando si è feriti è urgente tenere sotto controllo la
zona più delicata di noi stessi: la zona pensieri, il settore
giudizi, perché di lì parte la nostra reazione. Quasi sempre il
processo di deterioramento della nostra carità avviene così,
nella nostra debolezza reagiamo così: il cuore accumula e fomenta
giudizi cattivi, poi la lingua parte. Quando si è feriti, anche se
non lo vogliamo, lo spirito di vendetta si risveglia e si scatena,
anche in chi è ben ferrato nella carità e nel suo autocontrollo.
Il serpe della vendetta morde a sorpresa. Non basta allora mettersi
sul chi vive, mettersi sulla difensiva. Il metodo migliore è
rispondere al nostro cuore riempiendolo di bontà.
•
La
miglior medicina del cuore ferito è cambiare il male col bene. Chi
si mette solo sulle difensive, in realtà non si difende da nulla.
Siamo così sottilmente orgogliosi che, se toccati nel vivo, partono
anche i santi. Fortunato chi è realista e conosce se stesso.
Bisognerebbe, con la lingua, fare un patto a lunga scadenza. Per
esempio, sottoporre la lingua a un esame clinico prolungato, fino a
sensibilizzarci molto al problema: controllare e segnare, per
esempio, per un bel periodo ogni giorno, se la lingua ha peccato.
•
Quando
si è feriti, bisogna ammetterlo: siamo deboli, la nostra forza di
resistenza è compromessa. Quando si è feriti, la persona che ci
ha amareggiati diventa il centro della nostra malizia, e la lingua,
appena può, risponde. Quando si è feriti, allora i difetti del
nostro oppositore entrano continuamente nel mirino della nostra
attenzione, e la lingua ci riserva delle brutte sorprese. Quando si
è feriti, se non ci mettiamo subito in stato di allarme, la nostra
facoltà di giudizio si scatena, e ci può far commettere anche
gravi ingiustizie. Quando si è feriti, spesso si diventa meschini.
La reazione migliore non è tanto difenderci, ma affrontare la
nostra debolezza medicandola di bontà. Bisogna: riempire il cuore
di bontà, pregare subito e molto per la persona che ci ha
ferito,fare un patto spietato di silenzio con la nostra lingua,
rispondere col bene al male.
•
Quando
si è feriti la lingua diventa malata. Allora? Allora la si mette in
cura: la cura più efficace si chiama Eucaristia! A ogni Eucaristia
consacrare la lingua perché non pecchi. Allora, quel che non arriva
a fare la nostra vigilanza, arriva a farlo la vigilanza del Signore.
Quando si ha la ferita bisogna assolutamente cicatrizzare la piaga, e
la terapia che serve di più è l’Eucaristia.
DUE
INSEGNAMENTI DEL SIGNORE
«Perché
guardi la pagliuzza?»
«Perché
guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non
t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo
fratello: permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e
tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave
dal tuo occhio, e allora potrai vederci bene nel togliere la
pagliuzza dall’occhio del tuo fratello» (Lc 6, 41-42).
•
La
mania del dito puntato è una debolezza congenita che tutti ci
portiamo addosso. È stato detto: «Più si giudica, e meno si ama»
(Sébastien Chamfort). Il guaio è che se diventiamo troppo esperti
nei difetti altrui, diventiamo ciechi nei confronti dei nostri
difetti. Gesù disapprova questa mania, e dobbiamo farlo anche noi:
chi si abitua al dito puntato non ha tempo per guarire dai suoi
mali.
•
Giudicare
è un autentico dono di Dio: ci è dato per il nostro progresso. Ma
la mania del dito puntato è un regresso, è metterci al disopra
degli altri, è farci giudici degli altri: questo il Signore non lo
sopporta.
•
Togli
prima la trave! Gesù ci insegna a non cacciare troppo il naso nei
difetti altrui. «Togli la trave» significa: lo stesso difetto che
hai visto nel fratello, probabilmente — se guardi bene — ce l’hai
anche tu ed è molto ingrandito in te. Significa: pensa ai fatti
tuoi, vaglia te stesso, e condannati con severità, cioè datti uno
scrollone, così dopo sarai in grado di aiutare il tuo fratello a
uscire dai suoi difetti.
•
Com’è
sapiente la pedagogia di Gesù! Dice: vedi un fratello che ti sembra
un po’ pigro nella preghiera? Invece di metterti subito a
giudicarlo e a condannano, impegnati prima a esaminare la tua
pigrizia nella preghiera, così diventi subito pieno di misericordia
verso i difetti altrui.
•
Vedi
un egoismo negli altri? Togli la trave, insegna Gesù, fa’ un po’
di inventario nei tuoi egoismi, e dopo sarai saggio a dare un
consiglio al tuo fratello.
•
Vedi
negli altri un dovere mal fatto? Togli la trave! Pensa quando anche
tu tradisci i tuoi doveri apertamente o nascostamente, così ti fai
esperto nel dare una mano al tuo fratello perché esca dai suoi
guai.
•
A
qualcuno è sfuggita una parola? Togli la trave! Pensa alla tua
carità spesso a brandelli, così sarai pieno di pazienza verso la
debolezza del tuo fratello. Gesù insegna: se guardassimo un po’
di più dentro di noi, non avremmo più voglia di guardare con
troppa intensità nei difetti altrui.
•
«Ipocrita!»,
dice Gesù. Sì, è una falsità bella e buona ogni volta che
puntiamo il dito, ogni volta che giudichiamo il fratello, perché è
sempre un metterci al di sopra degli altri, è classificare,
etichettare la debolezza altrui. Ipocrita! Cioè: commetti un falso,
prima di tutto perché ti vai arrogando una facoltà che non
possiedi. Come puoi metterti a giudicare il fratello, se non vedi
dentro il fratello? Se non possiedi gli elementi per pesare la sua
responsabilità? Ipocrita! Siamo tanto abituati a questa ipocrisia
che non la avvertiamo neppure più. Ipocrita! È un problema di
onestà, ci insegna Gesù, perché è impicciarci di cose che non
ci riguardano, perché è pretendere di pulire gli altri mentre noi
stessi siamo da pulire.
•
«La
bontà è un contagio», diceva Giovanni Barra. Se noi ci vietiamo
con severità di giudicare il prossimo, comunichiamo subito bontà
intorno a noi. «La bontà è un contagio». Quando la lingua si fa
attenta alla carità, si crea un clima di vigilanza anche negli
altri. «La bontà è un contagio». Quando, davanti a un difetto
ci mettiamo subito
a esaminare i nostri difetti, allora l’umiltà
diventa di casa nei nostri pensieri e nelle nostre parole, e noi
diffondiamo bontà.
•
La
diceria, il pettegolezzo è sempre «opera del diavolo», e
collaborazione con la sua azione distruttrice. Diceva san Massimo,
confessore (m. 622): «Gli uomini hanno cessato di piangere per i
loro peccati e si sono arrogati il giudizio, che spetta solo al
Figlio di Dio, come se loro fossero senza peccato». Il padre del
deserto Doroteo di Gaza (m. 570) diceva che quando giudichiamo e
puntiamo il dito contro un fratello, parlando male di lui «facciamo
del male anche agli altri, perché mettiamo il peccato nel loro
cuore, eseguiamo le opere del diavolo, senza alcuna preoccupazione».
•
Diceva
san Bernardino da Siena (m. 1444): «La maldicenza dà la morte
a
tre persone nello stesso tempo: a colui che la fa, a colui che la
patisce, e a colui che l’ascolta». Puntare il dito facendo
maldicenza, ha notato san Giovanni Climaco (m. 649), «è una
sottile malattia che vegeta come una grossa sanguisuga nel corpo
dell’amore, è sporcizia e peso per il cuore». Fossimo almeno
attenti a tenere per noi la sporcizia dei giudizi cattivi, e a non
sporcare nessuno di quelli che vivono accanto a noi! Chi è incline
al giudizio cattivo e a puntare il dito contro il fratello, dice
Giovanni Climaco, «infetta la nostra resistenza al male», perché
aiuta il dilagare del difetto di carità e di umiltà. Siamo
responsabili di ogni calo di fervore tra gli altri. Chi intacca la
carità, colpisce al cuore la comunità.
Non
essere «Figli del tuono»
Entrarono
in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi
non vollero riceverli... Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e
Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal
cielo e li consumi?». Ma Gesù si voltò e li rimproverò (Lc 9,
52-55).
La
lingua tradisce! Come fare a tenerla a freno? Gli Apostoli
conoscevano Gesù, sentivano i suoi discorsi, condividevano di
sicuro la sua mentalità. Tutto questo non è bastato:
nell’irritazione per l’affronto avuto, la lingua li ha portati
via. Non facciamo gli ingenui! L’orgoglio ferito gioca sempre dei
brutti scherzi. Il quadretto di Luca ha un particolare curioso:
l’osservazione a Gesù gliel’hanno fatta alle spalle? Non hanno
osato, a viso aperto, guardandolo negli occhi? Perché Luca dice:
«Gesù si voltò», come una persona ferita alle spalle. Comunque
siano andate quel giorno le cose, la mentalità dei due fratelli
strideva con la mentalità di Cristo: la loro lingua partì con
violenza, calpestando tutti gli insegnamenti del Maestro. L’episodio
lasciò una traccia nella storia dei due discepoli dal sangue troppo
caldo: infatti Marco afferma che Gesù, in ricordo dell’incidente,
appioppò loro un nomignolo scherzoso: «I figli del tuono». Si
vede che Gesù era abile a sfruttare tutti gli incidenti per la
formazione alla carità dei suoi discepoli.
Tentiamo
di studiare quali possono essere i rimedi alla lingua pronta. Prima
di tutto c’è da tenere in conto la nostra fragilità: siamo
deboli, cascano anche i santi. Se c’era un apostolo dal cuore buono
e gentile era proprio Giovanni, e c’è cascato anche lui. Ecco,
dunque, alcuni rimedi efficaci.
1.
Medicare con prontezza la ferita con una disinfezione radicale. Chi
è ferito, se ha la presenza di spirito di rispondere subito con una
gentilezza, è come se operasse una disinfezione radicale, il male
si arresta, non incancrenisce, non va più avanti. Medicare subito
il male ricevuto con un atto buono, con un atto generoso, certo non
lo sanno fare tutti, ma il pensarlo, il desiderarlo, è già
cominciare la disinfezione, è già predisporne alla bontà il
proprio cuore, è già mettere sul chi vive la propria lingua.
2.
Vigilare sui momenti di stanchezza e sui momenti di grande
dissipazione: sono quelli i momenti in cui non sappiamo controllarci,
siamo più vulnerabili. Qualche volta basta un rimedio
semplicissimo: una preghiera pronta per la persona che ci ha feriti.
3. Qualche volta è molto efficace l’atto di umiltà di
chiedere un piccolo favore alla persona che ci ha feriti.
4.
Qualche volta serve dire con umiltà, al momento giusto, alla
persona interessata che siamo stati feriti. Una chiarificazione fatta
con umiltà predispone noi e chi ci ha feriti a non allargare la
ferita. 5. Confidare a qualche persona amica l’incidente
avuto e l’umiliazione subita. Ma bisogna scegliere bene
l’interlocutore: occorre una persona comprensiva che attenui la
ferita, non una che l’aggravi. Spesso c’è chi sa far bene
questa parte: sa buttare acqua sul fuoco, sa ridimensionare il
malinteso. Esistono i costruttori di pace: è il momento giusto di
cercarli.
6.
Sovente ottiene un buon risultato il darci uno scrollone e tuffarci
in un cruccio serio: certe piccinerie sono crucci di lusso, di gente
che non ha problemi veri e perde tempo a inventarne. Voltiamoci
indietro: ci sono, intorno a noi, certe sofferenze che schiacciano le
persone e ci obbligano a passare sopra alle piccole ferite e ai
nostri «problemi di lusso». Quando siamo deboli nella vigilanza è
efficacissimo questo rimedio radicale: sottoporre per un certo
periodo la propria lingua a un controllo spietato, segnando giorno
per giorno le nostre mancanze. Aiuta a sensibilizzarci al problema
della vigilanza, e rafforza la volontà.
E
preghiamo che, a poco a poco, l’osservazione di Giacomo ai primi
cristiani abbia, a motivo della nostra vigilanza, una smentita: «Ogni
sorta di bestie è stata domata dall’uomo, ma la lingua nessun
uomo la può domare» (Gc 3, 7). Quando Giacomo scrisse quella
battuta dovette sorridere... E i primi cristiani hanno di sicuro
drizzato le orecchie, come noi, alla sua osservazione bruciante, e
avranno concluso, come noi, che il problema è urgente e grave, in
tutti i gruppi umani e in tutti i tempi. Speriamo che qualche
cristiano abbia risposto così: «Sì, nessuno è capace a domare
la lingua, ma il Signore è capace! Confidiamo in lui!».
Rispondiamo anche noi così.
LE
LEGGI DEL DIALOGO
Tracciamo
alcune leggi del dialogo allo scopo di comprenderlo e facilitarlo.
1.
«Il dialogo non deve mai essere una ventilazione egocentrica» (John
Powell). Intendiamo cioè dire: non è lecito usare il dialogo
strumentalizzandolo. Il dialogo non va concepito come spalancare una
finestra per far entrare un po’ di aria buona in un ambiente
malsano. No! Il dialogo non deve avere intenti egoistici.
Il
dialogo non è uno sfogo.
È
sempre un atto di fiducia.
È
l’amore che si incammina.
2.
Il dialogo non è una manipolazione. Non posso intendere il dialogo
come uno strumento per catturare il prossimo: «Mi apro, e lo
conquisto». No! Mi apro per esprimere la mia fiducia, ma non attendo
nulla. Sono pronto ad accettare anche di essere incompreso: mi apro
per il solo motivo che questo mette in moto il mio amore.
3.
«I giudizi sono la morte del dialogo. Quando giudico mi faccio
sempre superiore all’altro» (John Powell). Il giudizio è un
sopruso. Il giudizio è un’illegalità. L’istante in cui mi
ergo a giudice blocco il dialogo, alzo la barriera al dialogo. Chi si
sente superiore schiaccia, nel suo intimo, il fratello. Come può
pensare al dialogo?
4.
Scopo del dialogo non è mai vincere o convincere, ma aprirmi al
fratello, mettermi disarmato di fronte a lui. Se voglio vincere o
convincere, ho già distrutto il dialogo prima di cominciare,
perché ho già le mie posizioni, le mie barricate su cui
difendermi. Qui non siamo al dialogo, siamo esattamente all’opposto.
Scopo del dialogo è dare fiducia, è aprirmi accettando tutti i
rischi, anche quello di non essere accolto. Ma l’aprirsi con
schiettezza significa dare fiducia, quindi amare. E amare significa
far nascere una situazione nuova in me e negli altri.
5.
Nel dialogo si deve ascoltare, se occorre, fino a soffrire col
fratello.
È
l’ascolto affettuoso, pieno, che si investe dei problemi del
fratello come dei propri, che conta di più. Quando si ascolta fino
a soffrire, allora si ascolta veramente: allora il ponte è fatto,
io do e ricevo, il fratello dà e riceve, il dialogo è veramente
cominciato.
6.
Ascoltare è tentare di raggiungere il tesoro nascosto nel cuore del
fratello. Il fratello che apre il cuore sta porgendo il dono più
prezioso di se stesso. In questo dono, spesso, c’è un aspetto
nuovo del fratello: c’è il volto nascosto, c’è un tesoro.
Quando si ascolta col desiderio di scoprire il tesoro nascosto nel
cuore del fratello, allora si costruisce un legame che supera tutte
le parole e che resiste
a tutto, anche al tempo.
7.
La regola completa dell’ascolto andrebbe formulata così:
ascoltare più col cuore che con le orecchie. Ad ascoltare sono
capaci tutti. Per educazione ascoltiamo anche le persone importune.
Ma ascoltare col cuore è un’altra cosa: è volersi immedesimare
nei problemi dell’altro, dimenticando completamente se stessi.
Questo ascolto diventa così un ricevere profondo, perché prima è
stato un dare profondo.
8.
Quando l’apertura, nel dialogo, non sembra accolta, è importante
chiedersi se era assolutamente onesta, senza secondi fini. Può
crearsi una situazione difficile nel dialogo: il rifiuto cioè
dell’ascolto profondo. Allora occorre pazienza, attendere
continuando ad amare con assoluta generosità, non lasciarsi andare
a giudicare il fratello. Anzi, prima devo giudicare con molta
severità la mia apertura: devo esser sicuro di essere partito bene,
senza secondi fini. Quando questo è accertato, devo solo pazientare
e continuare ad amare con generosità.
9.
Quando le mie emozioni riguardano il fratello (astio, antipatia,
vendetta),
è utile comunicarle con umiltà, accusando noi stessi
e non il fratello. Il fratello non ne può nulla delle mie emozioni
negative. Il fratello non deve mai essere giudicato: il giudizio
negativo spezza il dialogo in partenza. Il giudizio deve colpire me e
deve essere schietto e spiegato. Questa schiettezza guarisce me e
rende attento il fratello per una collaborazione opportuna.
10.
La parola magica del dialogo è: «Mi perdoni?». Le resistenze al
dialogo sono quasi sempre conglobate nel nostro orgoglio.
Nell’istante in cui chiediamo perdono diamo sempre un colpo deciso
al nostro orgoglio, che è sempre il più importante intoppo al
dialogo. Quando chiediamo perdono, gli orizzonti si aprono prima
ancora che ci raggiunga la risposta del fratello. I principali
ostacoli al dialogo sono spesso in noi, non nel fratello.
11.
Occorre avere rispetto delle emozioni degli altri. Di fronte a
un’emozione di un fratello, il mio debole è sempre giudicare
quella reazione. No! Io non devo cercare le ragioni delle emozioni
altrui, ma accettarle. L’istante in cui divento giudice delle
emozioni del fratello, commetto un’ingiustizia che blocca il
dialogo.
12.
Le parole che bloccano ogni dialogo sono spesso due avverbi
abbastanza frequenti: mai e sempre. Quando usiamo con troppa libertà
questi due avverbi, noi mentiamo. Quando davanti a un comportamento
che ci urta sbottiamo dicendo: «Tu sei sempre così... Tu non fai
mai questo...», siamo ingiusti.
È
vero che un fratello può mancare, ma un nostro giudizio che si
formula in un mai e in un sempre blocca ogni fiducia nel fratello, è
una porta che si sbatte in faccia al fratello.
13.
Per imparare l’arte del dialogo devo anche imparare a comunicare le
mie gioie. Anche le nostre gioie appartengono ai fratelli. Non
possiamo goderle da egoisti senza spartirle con chi ci vive accanto.
Se mi abituo a comunicare le gioie, divento più capace a comunicare
le emozioni negative.
14.
Il fondamento di ogni dialogo con gli uomini è la limpidezza con
Dio. «Confessate i vostri peccati gli uni agli altri, pregate gli
uni per gli altri, per essere guariti...» (Gc 5, 16).
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