Padre
mio,
io
mi abbandono a Te
fa’
di me ciò che ti piace;
qualunque
cosa tu faccia di me,
ti
ringrazio.
Sono
pronto a tutto,
accetto
tutto,
purché
la tua volontà
si
compia in me
ed
in tutte le tue creature;
non
desidero niente altro, mio Dio.
Rimetto
la mia anima nelle tue mani,
te
la dono, mio Dio,
con
tutto l'amore del mio cuore,
perché
ti amo.
Ed
è per me una esigenza d'amore
il
donarmi,
il
rimettermi nelle tue mani,
senza
misura,
con
una confidenza infinita,
perché
tu sei il Padre mio
(Dalle
Preghiere di Charles de Foucauld).
“Io
non temo più Dio, lo amo. Perché l'amore scaccia il timore (1Gv 4,
18)”. Queste parole appartengono alla collezione dei detti di
Sant'Antonio del deserto .
Queste
parole di Antonio il Grande mettono di nuovo davanti ai nostri occhi
l'icona del bimbo svezzato in braccio a sua madre del Sl 130.
Quando sei in braccio alla mamma ti senti protetto e difeso: sei in
pace, perché vivi la consapevolezza della gratuità di ciò che ti
viene dato e ogni possibile sospetto svanisce, ogni paura viene meno.
Per
questo che è necessario diventare come bambini . È una condizione
indispensabile per avere la pace e viverla. Di qui nasce spontanea
una domanda, che assomiglia a quella che Nicodemo faceva a Gesù pur
senza esprimerla esplicitamente: che cosa devo fare? Si tratta di una
domanda legittima, ma prima, secondo me, occorre farsene un'altra: ho
il desiderio di lasciarmi mettere in discussione, di lasciarmi
ribaltare la vita? Voglio costruire una torre O soltanto una capanna
?
Vorrei
ricordare ancora Antonio l'Egiziano e il suo stile di guida
spirituale. Per lui, ogni giovane doveva sapere bene quale vita
desiderava condurre, quali aspetti della vita cristiana privilegiare.
Egli affermava che ognuno deve imparare a scegliere: “Colui che
batte un blocco di ferro, prima pensa a quel che vuole farne: se una
falce, o una spada, o una scure. E anche noi dobbiamo sapere a quale
virtù tendiamo, se non vogliamo faticare invano”. Deve però,
insieme, avere l’umiltà, originata dalla consapevolezza di ciò
che ancora non si sa, senza la quale è impossibile poter crescere
desiderando di imparare: “Un giorno alcuni anziani fecero visita al
padre Antonio; c'era con loro il padre Giuseppe. Ora l'anziano, per
metterli alla prova, propose loro una parola della Scrittura e
cominciò dai più giovani a chiederne il significato. Ciascuno si
espresse secondo la sua capacità. Ma a ciascuno l'anziano
diceva:“Non hai ancora trovato”. Da ultimo, chiede al padre
Giuseppe: “E tu che dici di questa parola?”. Risponde: “Non
so”. Il padre Antonio allora dice: Il padre Giuseppe sì, che ha
trovato la strada, perché ha detto: “Non so”. In altre parole:
occorre aver deciso di fare qualcosa di bello della propria vita e
cominciare a farlo con decisione ed umiltà. E questo potrò farlo
soltanto quando ho la consapevolezza che non ho nulla da perdere e
così comincerò a giocarmi al cento per cento; ma occorre anche la
convinzione che ciò che mi viene proposto è un grande guadagno.
Gesù esprime questo con due parabole apparentemente simili, quella
del tesoro nascosto nel campo e quella del mercante di perle . Colui
che ha trovato il tesoro non ha nulla da perdere. Colui che cerca “la
perla delle perle” è alla ricerca di qualcosa che vale più di
tutto il resto. Qual’è il segreto del buon mercante di perle? Il
segreto del buon mercante non è di esser capace di fare buoni
affari, ma, come dice la parabola, di amare le perle preziose, di
avere la passione delle perle, di rallegrarsi del fulgore della perla
bella, di avere l'entusiasmo, la gioia del luccichio della perla
vera, di provare gusto nell'esporla alla luce, nel coglierne tutti i
riflessi. Il suo segreto quindi è che ha il gusto della buona perla.
È fondamentale il gusto della vita buona, della vita evangelica, il
vibrare liberamente, interiormente, il gustare il buon vino del
Vangelo. Questo è il segreto di colui che ben sceglie. Tutto ciò dà
gioia e scioltezza. Questa gioia può coesistere e convivere anche
con sofferenze, fatiche, pesantezze, disagi. Quando si è scoperta la
perla preziosa non diventa più un peso l'andare contro corrente; la
scoperta della perla preziosa ci dà una grande libertà dal giudizio
degli altri. Ma come riconoscere la perla preziosa? Attraverso un
cammino di purificazione, preghiera, ascolto, confronto, gradualità.
Si tratta di un itinerario paziente fatto di libertà e di umiltà.
L'abbandono, di cui abbiamo visto una bella immagine nel Sl 130, è
qualcosa che si conquista o che si riceve? Come sempre la risposta
non è totalmente da una parte o dall'altra, come avevano fatto
polemicamente e gli uni contro gli altri i quietisti ed i
giansenisti . Possiamo dire che in ogni uomo c'è una certa
connaturalità con Dio, che ci ha fatti a sua immagine (è il gusto
del buono). La libertà può decidere di non seguire questo “istinto”
divino che c'è nel profondo del cuore, ma esso rimarrà sempre come
“nostalgia” di bellezza. In altre parole, Dio continua ad
attirarci a sé, ma ci lascerà tutta la nostra libertà di dire no,
anche se questo “no” lascerà in noi un disagio profondo ed
incancellabile. Mi pare che questa dialettica tra decisione ed
abbandono è bene espressa nel bellissimo Sl 138. Cominciamo a
leggere il salmo:
Penetri
da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo.
Ti
sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.
Alle
spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda
per me la tua Saggezza, troppo alta, e io non la comprendo.
Dove
andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?
Se
salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti.
Se
prendo le ali dell'aurora per abitare all'estremità del mare, anche
là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra.
Se
dico: « Almeno l'oscurità mi copra e intorno a me sia la notte »;
nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il
giorno; per te le tenebre sono come luce.
Sei
tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia
madre.
Ti
lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue
opere, tu mi conosci fino in fondo.
Non
ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
Ancora
informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo
libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva
uno. Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro
numero, o Dio; Se li conto sono più della sabbia, se li credo
finiti, con te sono ancora.
Scrutami,
Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri: vedi
se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita.
Questa
bella preghiera, risalente probabilmente al VI sec. a. C., sembra
suggerire che la pace del cuore è il dono che riceve colui che si
lascia fare da Dio. Si compongono dunque in maniera armoniosa la
libertà e l'umiltà, la scelta di aderire alla luce, l'amore per la
perla preziosa con la brama di conseguirla e la consapevolezza di non
essere in grado di farlo se non col desiderio. Siamo di fronte ad una
riflessione sull'Amore preveniente di Dio. Potremmo dire che la
sostanza del messaggio è: Dio tutto sa e può e non ci si può
sottrarre a lui, abbandonati liberamente, umilmente e gioiosamente.
•
L'inizio
del salmo riecheggia ripetutamente il verbo conoscere con diversi
sinonimi. Esso, nel mondo semitico, indica molto più
dell'apprendimento intellettuale: è una comunione tra conoscente
e conosciuto, una compenetrazione. Mi pare che si esprima qui in
qualche modo ciò che poco sopra abbiamo chiamato “connaturalità”.
Dio mi conosce “quando
seggo e quando mi alzo, quando cammino e quando riposo”:
le azioni “polari”, cioè estreme della vita che riassumono le
altre, non sfuggono al suo sguardo, come gli sono familiari i nostri
pensieri le nostre parole prima che sboccino. Dio parte da lontano e
non improvvisa nulla: egli è “creatore”, non “improvvisatore”.
La creazione esige un disegno armonioso e coerente, l'improvvisazione
è invece spesso indice di un qualche disordine organizzativo. E
quanto troviamo anche in Geremia: “Prima
di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi
alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle
nazioni”
, ripreso da san Paolo: “...quando
colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua
grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo
annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo,
senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me,
mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco”
. Ciò che Dio fa per noi è qualcosa che ha progettato con amore da
molto tempo!
La
seconda strofa del salmo (vv. 7-12) descrive il folle volo dell’uomo,
che tenta di sottrarsi a Dio. La grande tentazione è sempre quella
di fuggire:la presenta bene il salmo, dove tutto lo spazio
e percorso, dalla verticale “cielo-inferi” all'orizzontale
“aurora-mare”,
per ricordarci che Ogni più segreto ambito contiene un'epifania di
Dio. Ma anche il tempo, con la sua sequenza notte-giorno
è perlustrato da Dio, a cui non resiste neppure la tenebra, simbolo
di morte e negatività. Sembra che tutta la sequenza riecheggi Gn 3,
8ss, dove troviamo la fuga-paura-sospetto di Adamo, cioè di Ogni
uomo. Nel profondo di ognuno di noi c'è il solito sospetto,
inoculato in Adamo dall'antico Serpente: “Se ti abbandoni a Dio,
perdi”. Di fatto colui che si mette invece in ascolto di Gesù sa
che non
c'è
che il “perdersi” per potersi “ritrovare”: “Chi
avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua
vita per causa mia, la troverà"
, “In verità,
in verità vi dico: se il chicco digrano caduto in terra non muore,
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”
“... a chi ha
sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di
avere”.
L'esperienza di questo antico orante sottolinea l’impossibilità di
sottrarsi all'abbraccio salvifico di Dio per quanto ci ostiniamo a
scappare. E come se volesse suggerirci che l'unica via di scampo è
l'abbandono fiducioso e la consegna gioiosa di sé a Colui che è
solo Amore.
“Sei
tu che hai creato
le mie viscere”
apre la terza strofa,
presentandoci la realtà stupenda dell'uomo: “mi
hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere”.
Il miracolo della creazione e dell'esistenza è contemplato con lo
stupore della poesia e della fede. Qui ci viene precisato il motivo
per cui vale la pena di abbandonarsi a Dio e di appoggiarsi
totalmente a lui: fin dall'inizio egli ci tiene saldamente nella sua
mano e desidera per noi solo pienezza di vita. È come se questo
antico fratello di fede ci dicesse: “Se tu conoscessi bene chi è
Dio e che cosa fa per te, ti guarderesti bene dall'allontanarti da
lui. Giòcati
con libertà e umiltà e giungerai alla pace del cuore. Lui solo te
la può offrire e lontano da lui non potrai trovare che amarezza e
spine".
“Sei
tu che hai creato
le mie viscere”.
In questa affermazione troviamo il perché Dio non improvvisa nulla:
egli è Creatore (e rimane Creatore). C'è un progetto che mi supera
immensamente, che è unico ed irripetibile,
che è personalissimo. Più sotto si dirà: “Mi
hai fatto come un prodigio”.
Accettare questo significa guardarsi con gli occhi di Dio e vedere
ciò che lui vede, anche se io non lo scorgo ancora. Imparo così a
guardare con gli occhi della fede che diventa speranza. E la speranza
è necessaria, perché è una virtù profetica: mi permette di
“vedere" col cuore ciò che gli occhi non “vedono” ancora.
Conoscere e conoscersi come Dio significa essere vincitori su ogni
paura ed ogni tentazione di frustrazione o inadeguatezza. Significa
ripetere a se stessi con fiducia e sicurezza: “Dio non ha sbagliato
con me”. Vuol dire anche imparare ad accettare i nostri errori e le
nostre povertà, perché nulla potrà mai arrestare il suo amore (che
pure rispetta totalmente e religiosamente la nostra libertà).
Vorrei
concludere con altri due detti di Antonio il grande che ci possono
aiutare a metterci in atteggiamento di abbandono, cioè di
accoglienza incondizionata della sua volontà (vale a dire del suo
progetto d'Amore per la nostra felicità). Dalla tradizione ci sono
riferite due sue diverse e complementari risposte alla domanda su
quale sia la via della volontà di Dio. Antonio invitava a vivere
alla presenza di Dio, alla necessità di mettere radici in un luogo
preciso, con relazioni costanti, all'importanza di trascurare
l'effimero, alla bellezza del saper tacere che accompagna il digiuno
dei cibi: “Un tale chiese al padre Antonio: “Che debbo fare per
piacere a Dio?”. E l'anziano gli rispose: “ Fà quello che ti
comando: dovunque tu vada abbi sempre Dio davanti agli occhi;
qualunque cosa tu faccia o dica, basati sulla testimonianza delle
Sante Scritture; in qualsiasi luogo abiti, non andartene presto.
Osserva questi tre precetti e sarai salvo”. Il padre Pambone chiese
al padre Antonio: “Che debbo fare?”. L'anziano gli dice: “Non
confidare nella tua giustizia, non darti cura di ciò che passa, e
sii continente nella lingua e nel ventre”.
Nessun commento:
Posta un commento