UN UOMO A TERRA
L'alba
del 2 febbraio 1575 spuntò, come tutte le altre, fredda, pallida,
sorniona illuminando di toni lividi il Gargano che si svegliava
pigramente al nuovo giorno, rivestito del suo abito invernale.
Nell'aria vibrava quel sacro silenzio che incute paura e rispetto
verso gli strani misteri dei boschi e delle selve e induce l'uomo ad
interrogarsi sui grandi perché della vita.
Se
li poneva anche un giovane sui venticinque anni, male in arnese e
congestionato in volto, che, alto e nerboruto com'era, troneggiava a
cavalcioni di uno striminzito asinello, il quale, carico di qua e di
là del basto di due otri di vino, ora arrancando ora annaspando,
procedeva faticosamente per il sentiero che si snodava lungo la valle
detta «dell'inferno».
Un
uomo qualunque, ora, anche se le sue dimensioni lo avvicinavano a un
gigante e il suo passato era stato abbastanza avventuroso. Camillo lo
chiamavano gli amici e nessuno sembrava ricordarsi della famiglia «de
Lellis» dalla quale pure discendeva e che vantava ancora un certo
prestigio tra la nobiltà fedele alla Corte di Spagna.
Perché
si era ridotto in quello stato? Che senso aveva avuto la sua vita?
Valeva la pena ostinarsi a continuarla così, esposta all'incertezza
del domani e soprattutto priva di valori e di interessi che non
fossero la passione per le armi e per il gioco,? Gli interrogativi si
accavallavano esasperanti nella sua mente già stanca per una notte
insonne e tormentata e si esprimevano in brividi e in scossoni che
l'asinello incassava pazientemente.
DIO E' TUTTO, IL RESTO E' NULLA
Glieli
aveva messi in testa un frate cappuccino, Padre Angelo, la sera prima
dopo la magra cena, seduti sotto un pergolato di viti nell'orto del
Convento a S. Giovanni Rotondo dov'era giunto da Manfredonia per uno
scambio di merci tra le due comunità francescane. Gli aveva parlato
con semplicità ma anche con fervore: «Dio è tutto; il resto, tutto
il resto, è nulla! Salvare l'anima che non muore è l'unico impegno
per chi vive una vita breve e sospesa come quella dell'uomo sulla
terra!». Le parole e il viso luminoso del frate che le diceva si
erano infiltrate profondamente in lui ed erano scese lungo tutto il
corpo per rimescolargli il sangue. E sì che ne aveva sentite di
prediche!...
A
dire il vero qualche cosa di nuovo, di strano aveva già avvertito
dentro di sè in quegli ultimi tempi: un desiderio di pace interiore,
un'aspirazione alla tranquillità, un più intenso interesse per le
occupazioni che gli permettevano di guadagnarsi vitto e alloggio dai
Cappuccini di Manfredonia, dov'era approdato stanco, povero e
sfiduciato dopo aver passato un sacco di avventure e aver giocato
l'ultima carta che gli rimaneva, quella dell'elemosina.
Anche
la vecchia passione per il gioco d'azzardo e l'ansia di evadere da
una vita di doveri precisi si erano un po' affievolite, lasciando il
posto ad una più sensibile attenzione per l'amicizia e la cordialità
dei suoi ospiti e a qualche timido segno di risveglio religioso.
L'ultimo Natale poi era stato un po' diverso dal solito, e i frati se
n'erano accorti, quasi per istinto, anche senza l'aiuto di
particolari manifestazioni esteriori.
C'era
dunque una certa disponibilità, ma questa volta Camillo sentiva che
gli si chiedeva di cambiare non più soltanto qualcosa, ma tutto; e
avvertiva un malessere strano, indefinibile, un senso d' angoscia e
di paura che s'intrecciava misteriosamente e dolorosamente con la
tensione verso un mutamento di rotta, verso Qualcuno che l'aspettava
con le braccia aperte.
IL GIORNO DELLA CANDELORA
«E
se poi...» Già altre volte aveva fatto promesse e l'esperienza
negativa lo portava a diffidare di sè e degli impegni troppo precisi
e gravosi. Le occasioni, le tentazioni potevano riapparire beffarde a
intralciargli la strada e lui sarebbe nuovamente sprofondato, ancora
più in giù, defraudato e avvilito. «Sputa in faccia al diavolo»,
l'aveva incoraggiato P. Angelo mentre l'accompagnava alla cella per
il riposo notturno, quasi intuendo la lotta interiore che le sue
parole avevano scatenato nel giovane.
«Sputare
in faccia al diavolo!»: l'espressione era risuonata talmente forte e
precisa nel suo animo angosciato da aprirgli uno spiraglio di luce.
Mai più se la sarebbe dimenticata. «Padre, pregate per me il
Signore che m'illumini a conoscere e a fare ciò che devo per il suo
servizio e la salute dell'anima mia», fu tutto quello che era
riuscito a dire nel chiudere la porta, nascondendo la commozione
sotto un sorriso amichevole; e non era stato poco per uno come lui.
La
notte era passata in un rivoltarsi continuo tra paure accecanti e
timide speranze e l'alba lo aveva sorpreso in bilico nell'incertezza
di un giorno che poteva essere tutto diverso. La campanella del
convento aveva chiamato la Comunità a celebrare di buon'ora la
liturgia della «Candelora» e fin qui era arrivato anche lui,
seppure con un po' di sforzo.
Dopo
colazione si era affrettato a caricare il somarello e a baciare la
mano a P. Angelo in segno di sincero ringraziamento e di saluto.
Nessuno sa quali furono le ultime parole o se tutto fu affidato agli
occhi che, incrociandosi, possono dire di più e di meglio:
certamente in Camillo stava affiorando a poco a poco una visione
diversa della vita, una volontà nuova di impegnarsi per qualche cosa
di più valido, una tensione verso un avvenire ancora incerto e
nebuloso ma senz'altro riscattato dal male e dedicato al bene, mentre
si allontanava dal convento e s'inoltrava nella valle.
UNA
SENSAZIONE NUOVA...
All'intorno
tutto sembrava sparito come per incanto o forse erano i suoi occhi
socchiusi e impegnati nell'approfondimento interiore dei pensieri a
non vedere nulla? Ad un tratto sentì una sensazione nuova, mai
provata, lievitare e farsi strada tra mille titubanze: il senso
doloroso del tempo perduto, la consapevolezza amara di un'esistenza
vuota e sciupata in cose banali o addirittura malvagie, la coscienza
pungente del peccato come rifiuto di un Amore vero e autentico per
ingolfarsi in piaceri immediati o degradanti. «Dio è tutto; il
resto, tutto il resto è nulla!»: le parole del frate gli
martellavano il cervello e sembravano fargli scoppiare il cuore.
Se
Dio è tutto, allora è lui solo che può dare un senso definitivo e
assoluto alla vita e riempirla pienamente. Avverti una presenza
nuova, soprannaturale, che lo invitava amorosamente a sè a lasciare
il passato, a sfidare il futuro. Una commozione spasimante lo prese.
Era Dio, il Tutto, che voleva entrare nella sua vita: bastava fargli
un po' di spazio.
Capì
che non c'era tempo da perdere. Balzò a terra con movimento brusco
da far traballare il povero asino e, gettandosi sul sentiero ruvido,
scoppiò a piangere. Erano lacrime di pentimento o di gioia? Neppure
lui lo sapeva. Di certo sentiva che tutto il suo essere si stava
cambiando sotto la forza rigeneratrice dello Spirito di Dio e che la
sua volontà si rinfrancava sempre più in un proposito serio e
preciso: «Signore, ho peccato! Perdona questo gran peccatore! Misero
e infelice me, che per tanto tempo non ti ho conosciuto, mio Dio, e
non ti ho amato! Dammi tempo di far penitenza e di piangere a lungo i
miei peccati, fino a lavare con le lacrime ogni macchia di essi...
Non più mondo... non più mondo!...».
Si
sentiva lentamente rinascere mano mano che le parole gli uscivano
dalla bocca. Quando rialzò da terra gli occhi ancor umidi di pianto,
gli parve che anche attorno tutto fosse cambiato, tutto gli fosse
diventato amico, il paesaggio invernale, la valle deserta, il cielo
pallido, perfino l'asinello che lo guardava paziente con due occhioni
curiosi e rassegnati. Sembrava che volesse dire: «Ne ho viste tante
in vita mia, ma questa poi!...».
UN NEONATO DA MANDARE A SCUOLA
L'uomo
che si alzava dalla polvere della strada di Manfredonia portava
ancora i segni di un passato difficile da scrollarsi di dosso: i
brandelli della divisa militare, i pendenti della spada che non
voleva mai togliersi dai fianchi nonostante gli sberleffi dei monelli
e, dentro a far capolino sorniona, la vecchia passione, accesa e
bruciante, per il gioco delle carte e dei dadi. Ma adesso c'era una
volontà nuova e sotto la scorza dell'uomo rude e caparbio vibrava un
cuore grosso così, trasformato dalla Grazia.
Mentre
l'asino procedeva paziente lungo la tortuosa via del ritorno, nella
pace del mattino, ebbe tutto il tempo di tuffarsi nel suo passato per
riscattarlo mano mano con propositi fermi e decisi, solidi come i
monti del suo Abruzzo, a cui sempre si era sentito tanto legato, pur
lontano, in giro per il mondo a tentare la fortuna.
NELLA MANGIATOIA DI UNA STALLA
Perché
Camillo era «tutto» abruzzese, di Bucchianico, una rocca
appollaiata su una collina protetta dal Gran Sasso e dalla Maiella.
Il mondo poi lo conosceva bene anche nei suoi aspetti più
ributtanti, avendo gustato con avidità giovanile il piacere di mille
avventure, scioperato e spendaccione, soldato di ventura e giocatore
impenitente d'azzardo, proprio come aveva temuto sua madre, Camilla
de Compellis, che durante la gestazione l'aveva visto in sogno
capeggiare un drappello di giovani segnati da una croce rossa.
Briganti? ladri? malfattori? si era chiesta angosciata.
Forse
anche per sfatare il sogno l'aveva deposto come Gesù, come Francesco
d'Assisi nella mangiatoia della stalla sotto casa, quando il 25
maggio 1550, uscita frettolosa dalla chiesa durante la «messa
piccola» della sagra di S. Urbano in preda alle doglie, l'aveva dato
alla luce nel tempo in cui si faceva l' elevazione della «messa
grande», in un clima di ammirazione generale.
E
ce n'era motivo: lei quasi sessantenne (S. Elisabetta, la chiamavano
le comari); lui, il neonato, tanto grosso e vigoroso da «poter
essere mandato a scuola», come andava dicendo a tutti, fuori di sè
dalla gioia, suo padre Giovanni, appena tornato dall'ennesima
spedizione di guerra ed allora comandante del locale presidio
militare.
Il
nome l'aveva già bell'e pronto e voleva essere un grato omaggio alla
sposa: Camillo. Gli insegnò i primi passi, lo trastullò nei momenti
liberi, forse facendogli annusare la polvere da sparo o lasciandogli
maneggiare le armi come amano tanto i bambini. Di più non poté fare
perché ben presto la guerra nuovamente lo portò lontano sui campi
di battaglia.
Tutta
l'educazione del figlio rimase così sulle vecchie spalle di mamma
Camilla, buona e paziente, ma sempre meno capace di frenare le
scappatelle e le bizzarie di quel monello che, vivacissimo e alto
molto più del normale, preferiva gli amici alla madre e i giochi
sulla piazza del paese alla casa. Se poi non vi andava, venivano
loro, i compagni, ridanciani e insistenti a cercarlo perché la sua
presenza animava il gioco e accresceva la baldoria.
UN MONELLO VIVACE MA SENSIBILE
Per
mamma Camilla passarono quattordici anni di preoccupazioni più che
di soddisfazioni. Solo quando ormai esausta morì, Camillo, che in
fondo sotto le vesti del monello aveva un cuore molto sensibile,
s'accorse di quanto l'amava e la pianse sinceramente.
Ora
toccava a Giovanni occuparsi del figlio e per metterlo un po' al
sicuro gli diede un maestro che lo educasse e gli insegnasse almeno a
leggere, a scrivere, a far di conto. Ma ben presto si accorse che
lui, Camillo, forse attratto anche dal suo cattivo esempio, preferiva
i dadi e le carte ai libri e amava più la compagnia dei soldati che
quella dei condiscepoli.
Così
nelle giornate di ozio, al bivacco delle soldatesche, s'incalliva nel
gioco e imparava volgarità e malizia. Solo un piccolo spiraglio di
luce restava in quel buio che si andava addensando nel suo cuore: una
innata carità verso i poveri e i forestieri.
VOGLIA DI VIVERE
Ormai
aveva vent'anni e questi significavano voglia di vivere, libertà,
avventura. Venne a proposito il bando di arruolamento della
Repubblica Veneziana ad aprirgli le strade del mondo, a toglierlo
dall'aria ormai irrespirabile di Bucchianico.
Con
il padre settantenne e due cugini si mise in cammino pieno di
speranze, ma ad Ancona, dove avrebbero dovuto imbarcarsi per Venezia,
li attendeva una triste sorpresa: prima un malessere, poi una febbre
insistente li costrinse a riprendere la via del ritorno. A S. Elpidio
a mare (Ascoli Piceno) Giovanni morì.
Camillo
ora si trovava veramente libero da ogni tutela, ma non si sentiva
felice: il senso angoscioso della solitudine gli opprimeva lo spirito
e una pruriginosa piaga al collo del piede destro gli dava fastidio
causandogli una febbre intermittente. Provava poi una irrequietezza
interiore strana e un sentimento che non aveva mai avvertito
gl'invase l'anima: un desiderio vago ma sincero di cambiare vita.
A
Fermo nel vedere due Cappuccini per la strada pensò perfino di farsi
frate, obbligandosi con voto. Ne fu dispensato dallo zio P. Paolo,
guardiano del convento di S. Bernardino all'Aquila, al quale aveva
chiesto ospitalità ormai sfinito dalla febbre: «non era quella una
vita per lui... appena ritrovate le forze avrebbe certamente cambiato
idea...».
A ROMA PER FARSI CURARE
Così
infatti avvenne e... addio convento, addio propositi! La voglia di
libertà, l'istinto dell'avventura, la passione per il gioco lo
spingevano a farsi una «sua» vita. Bisognava però levarsi di dosso
quella maledetta piaga che impicciava i movimenti e gli dava
terribilmente fastidio.
Ai
primi di marzo del 1571 si presentò all'ospedale di S. Giacomo a
Roma per farsi curare e subire il trattamento terapeutico dell'acqua
del legno. Non aveva molti soldi e, appena si sentì un po'
rinfrancato, per mezzo scudo al mese, vitto, alloggio, si adattò a
fare il garzone.
Per
dimostrare la sua buona volontà si iscrisse anche alla «Compagnia
di S. Giacomo», ma non aveva fatto i conti con la passione del gioco
che, nonostante i divieti, lo trascinava ad impegnarsi in accanite
partite a carte con i compagni, tutto a scapito dei malati. Di notte
lo si vide perfino calarsi furtivo dalla finestra per raggiungere i
barcaioli di Ripetta sul Tevere e abbandonarsi con loro al piacere
dell'azzardo.
Non
poteva più restare all'ospedale e glielo sputarono in faccia
malamente verso la fine di dicembre, indicandogli la porta d'uscita,
anche se la piaga non si era completamente rimarginata.
Il
nuovo anno lo vide arruolato tra le truppe al soldo di Venezia in
lotta con i Turchi per una vittoria completa dopo il trionfo di
Lepanto. Ormai aveva fatto la sua scelta e quella era la sua
vocazione, o almeno tutto sembrava indicarglielo: tutto fuorchè
quella piaga che ogni tanto faceva sentire i suoi morsi e pareva
rimettere ogni cosa in discussione.
Rischiò
anche la vita, come quel giorno a Zara quando, per un alterco nel
gioco, sfidò a duello un suo compagno; oppure quella volta a Corfù,
quando arrivò ad un passo dalla morte per una epidemia di tifo
navale: allora si era nuovamente risvegliato in lui un certo
sentimento religioso e aveva accettato anche i sacramenti con
sincerità e devozione. Ma, una volta guarito, fu nuovamente travolto
dalla passione della guerra e del gioco. A Cattaro combatté da
valoroso, ma si astenne disgustato dal macabro banchetto che i
compagni affamati avevano imbandito con il fegato dei vinti.
IN GIRO A GIOCARSI LA VITA E I SOLDI
Quel
gruzzolo che aveva racimolato in guerra lo sperperò presto, appena
congedato, riducendosi a vendere perfino la cappa. A Napoli, dopo
essersi giocata anche la camicia, ritentò la fortuna con la
compagnia malfamata di capitano Fabio al soldo della Spagna e
s'imbarcò per l'Africa. Durante la traversata e poi nel ritorno
incappò in una furiosa tempesta che per poco non lo ingoiò: si
raccomandò a Dio e fece voto di mutare vita, di farsi frate.
Promessa
da marinaio. Toccato sano e salvo il suolo di Napoli, si ricordò
solo del gioco e non perse un briciolo di piacere fino all'ultimo
soldo. Solo per un innato senso di dignità non scese mai certi
gradini della degradazione morale: in fondo era rimasto abruzzese,
duro di carattere, sensibilissimo di cuore.
Con
la divisa a brandelli e i pendenti della spada ai fianchi
all'approssimarsi dell'inverno del 1574 si staccò da Napoli dove si
era fatto un nome nelle bettole degli angiporti e con l'amico Tiberio
attraversò l'Appennino per raggiungere il mare a Manfredonia nelle
Puglie, in attesa della primavera e di un nuovo arruolamento.
Ma
intanto bisognava sbarcare il lunario. Il 30 novembre non
sembrandogli dignitoso per la sua professione mettersi a lavorare,
preferì mendicare sulla porta della Chiesa Maggiore. Alto di
statura, vigoroso, ma bianco in volto per la fame e il freddo non
poteva non attirare l'attenzione.
Così
lo vide Antonio Nicastri, capomastro dei lavori nel convento dei
Cappuccini. Gli propose di guadagnarsi da vivere lavorando alle sue
dipendenze. Per Camillo si trattava di una scelta veramente
imbarazzante: da una parte la sua dignità, dall'altra la fame. Fuggì
verso Barletta. Ma quando seppe che non era in vista nessun
arruolamento, come spinto da una forza sovrumana, abbandonò Tiberio
e ritornò a Manfredonia dal signor Antonio, disposto ad ingaggiarsi.
QUALCUNO L'ASPETTAVA
Non
era un grande lavoro il suo, ma umiliante sì, soprattutto per lui,
il soldato di ventura alto due metri: con due asini doveva portare
pietre, calce e acqua ai muratori. Aveva tanta rabbia in corpo che
avrebbe scannato quelle due povere bestie, e poi la passione del
gioco rimasta da troppo tempo insoddisfatta gli urlava dentro.
Portò
pazienza fiducioso che con la primavera tutto sarebbe tornato come
prima e per non lasciarsi accalappiare rifiutò perfino del saio per
farsi un vestito e ripararsi dal freddo. Ma anche Qualcun Altro
aspettava la primavera e attendeva proprio lui, il soldataccio, su
una strada tortuosa del Gargano.
Frattanto
era arrivato l'anno nuovo, Anno Santo, e Camillo lavorava ancora per
i Cappuccini che gli volevano bene, ammirando in particolare la sua
onestà e notando che qualcosa maturava in lui. Il 1° febbraio
l'avevano inviato a S. Giovanni Rotondo con un incarico di fiducia.
Il
resto era storia recente, storia di ieri e di oggi. Chi ne faceva
maggiormente le spese era il povero asino che subiva i contraccolpi
della lotta vigorosa scatenatasi nell'animo di Camillo, mentre
scendeva lungo il terreno scabroso della valle dell'inferno verso il
mare.
Quando
Camillo rientrò al Convento di Manfredonia, un sussurrio corse tra i
frati: non era più quello di prima. Qualcosa era mutato in lui, ma
cosa, come, quando? Le domande restavano a mezz'aria mormorate
nell'ombra delle celle o biascicate tra una preghiera e l'altra, nel
vedere quel giovanottone che si adattava ora ai servizi più umili
della casa e partecipava devotamente alla liturgia delle ore nel
cuore della notte e nei vari momenti della giornata.
ADESSO FACEVA SUL SERIO
Solo
P. Francesco, il guardiano, era stato messo al corrente dell'accaduto
e a stento riusciva a frenare la passione di Camillo che ora si era
tutta convertita agli atti di penitenza, alla mortificazione dei
sensi, alla disciplina della regola francescana. Nell'entusiasmo di
quei momenti d'intensa grazia aveva anche supplicato l'abito
francescano che prima aveva temuto, ma la prudenza del Superiore
prese tempo... non si sa mai!
Camillo
però faceva sul serio: frequentava settimanalmente la Comunione:
«sputava in faccia al diavolo», come gli aveva suggerito P. Angelo,
e spesso non solo metaforicamente; s'era impegnato in una quaresima
di astinenze e digiuni quasi feroce.
Spesso,
soprattutto al termine di una giornata di duro lavoro, gli tornava
alla mente il passato con le sue lusinghe di piaceri, di gioco, di
avventure: i muscoli della faccia si tendevano in uno sforzo atroce e
lo spasimo assumeva toni drammatici, ma l'uomo nuovo non cedeva e il
vecchio era costretto a battere in ritirata.
FRATE CAPPUCCINO
Quando
finalmente, dopo quattro lunghi mesi di aspettativa, poté indossare
il saio di S. Francesco, gli parve di aver ormai centrato il suo vero
destino, la sua vocazione.
I
cento e più chilometri a piedi per recarsi a Trivento nel Molise per
la vestizione e i quaranta abbondanti per raggiungere Torremaggiore
presso S. Severo ai bordi del Tavoliere delle Puglie per il
Noviziato, gli sembrarono un volo; i pericoli superati durante il
viaggio (quasi ci lasciava la vita nel guadare il Biferno... ) gli
parvero una sicura garanzia del Cielo.
Era
veramente felice ora, di una felicità nuova, intensa, fatta di
piccole cose, di umili lavori. «Frate Umile» l'avevano ribattezzato
i compagni, e Camillo ne gioiva sicuro di aver scoperto finalmente la
volontà di Dio.
Invece...
non aveva fatto i conti con quella maledetta piaga alla gamba destra.
Il saio ruvido sbattendo con violenza sul collo del piede l'aveva
inasprita e resa nuovamente purulenta. Un giorno fu chiamato dal
Padre Provinciale: ci andò con il cuore in gola e tanta tanta paura.
Non furono necessarie molte parole per spiegare al Novizio che quella
non poteva essere la sua vita, parlava da sola la piaga. Come?
Camillo non capiva. Per così poco?
Eppure
si trovava bene, era contento, aveva ormai imparato che il Signore si
può amare anche nel silenzio e nel servizio umile della comunità...
avrebbe dovuto lasciare tutto... L'unica assicurazione che riuscì a
strappare al Padre Provinciale fu quella di essere riammesso appena
la piaga si fosse rimarginata.
CON I MALATI DI S. GIACOMO
Con
il fagottino dei suoi panni in spalla si diresse verso Roma: si era
ricordato di S. Giacomo e della guarigione ottenuta qualche anno
prima. Pieno di speranza varcò la soglia dell'ospedale il 23 ottobre
1575 dopo aver acquistato il giubileo dell'Anno Santo. Chissà se si
ricordavano di lui?
Tutti
ricordavano il giocatore impenitente e le sue scappatelle notturne,
ma ora non lo riconoscevano più, lo vedevano umile e pio, fedele ai
doveri, premuroso con tutti. Solo gli era rimasto dell'uomo vecchio
il «terribile cervello» e questo era fisso là, nel convento dei
Cappuccini dove voleva tornare al più presto. E ci tornò infatti
dopo quasi quattro anni, nonostante il parere sfavorevole di Filippo
Neri che gli faceva da Direttore spirituale.
Questa
volta pensava proprio di farcela e ce la mise tutta per approfondire
e assimilare lo spirito di S. Francesco. Ora si chiamava «Fra
Cristoforo», per la sua gigantesca statura, e tutti erano edificati
dal suo comportamento... Ma un giorno, un brutto giorno, ebbe
un'amara sorpresa: la piaga ricominciava a suppurare; non ci fu verso
di farla guarire nonostante gli unguenti e le cure. La dimissione dal
convento non si fece attendere e stavolta fu definitiva. Non valsero
i ripetuti e accorati appelli di Camillo per farsi riprendere dopo un
breve periodo trascorso a S. Giacomo di Roma. Tentò allora dai
Francescani Minori Osservanti, ma invano: la massima concessione
ottenuta fu una dichiarazione di inabilità alla vita religiosa per
malattia così da tranquillizzare la sua coscienza.
Ma
allora la sua vocazione? la volontà di Dio? la sua via? Domande
angoscianti che rimanevano senza risposta nelle laboriose giornate
trascorse in corsia o nelle lunghe notti di veglia al capezzale dei
malati a S. Giacomo dov'era tornato per farsi curare. Dava una mano
agli inservienti tanto per guadagnarsi il pane e le cure, ma il suo
cuore era sempre nel convento dei Cappuccini.
Aveva
bisogno di un segno, un piccolo segno della volontà di Dio e lo
chiedeva con l'intensità della preghiera davanti al Crocefisso della
sua camera o con la premurosa assistenza ai crocefissi viventi,
coperti di piaghe purulenti e fetide o deliranti per la febbre, che
serviva nei letti sempre sudici: poveri rifiuti umani, affetti da
malattie incurabili, mal serviti, trascurati dagli inservienti
prezzolati o pezzi da galera, dimenticati da tutti, senza affetto e
senza speranza.
A
poco a poco sentiva crescere in sé una pietà accorata, un
sentimento profondo di solidarietà, una volontà di servizio totale
per quei poveri «cristi» piagati (ormai così li vedeva e credeva)
e la sua carità non ebbe più limiti.
UN MAESTRO DI CASA INTRANSIGENTE
Lo
invitarono a fare il «Maestro di casa», una specie di economo padre
della famiglia ospedaliera, ed egli accettò sicuro di poter servire
ancor meglio i malati. Nessuno fu deluso perché Camillo prese sul
serio il suo ufficio e si faceva in quattro perché non mancasse
nulla e tutti fossero soddisfatti nei limiti del possibile.
I
fornitori si accorsero ben presto che era cambiato... il manico e
dovettero rassegnarsi presto ad essere più giusti e a fornire le
cose migliori. Un giorno, uno di questi andò in bestia perché
Camillo aveva rifiutato della merce avariata, ma alla fine dovette
cedere. Anche gli ammalati sentirono il beneficio della sua presenza
attenta e della sua direzione attiva: gli inservienti dovevano filar
diritto e le cure erano un poco migliorate.
Quando
poi scadeva il tempo per la cura chiamata «acqua del legno»
(maggioluglio ad anni alternati) provvedeva ogni cosa pur di dare
almeno l'illusione di un sollievo alla folla che accorreva da ogni
parte per sottomettersi a quel rimedio sbandierato come «miracoloso».
Ma anche adesso non trascurava mai di servire con le sue stesse mani
gli ammalati più schifosi che gli altri fuggivano, immergendosi in
una carità senza riserve, pescando dal suo cuore ormai totalmente
legato a quegli infelici le parole più dolci di conforto e di
speranza.
Per
sé non voleva nulla, nemmeno la paga di due scudi al mese che gli
spettava di diritto. Ormai si sentiva di casa e giorno dopo giorno,
vivendo, lui stesso ammalato, tra quelle sofferenze, andava maturando
un vivo senso di paternità spirituale, una vocazione nuova, tutta
sua.
Finalmente
capì... «poiché Dio non mi ha voluto Cappuccino, né in quello
stato di penitenza che tanto desideravo di stare e di morire, è
segno dunque che mi vuole qui, al servizio di questi poveri suoi
infermi». Ora sì che tutto si era fatto chiaro: le mani dentro la
pasta della carità, questa era la sua vocazione.
UNA COMPAGNIA DI BUONI UOMINI
Adesso
le cose sembravano andar meglio, ma Camillo non era soddisfatto:
bisognava rompere con certi modi di fare, certe strutture, certi
interventi che si risolvevano soltanto in una beneficenza
consolatoria o, peggio ancora, gratificante solo per chi la compiva,
lasciando le cose com'erano. Bisognava puntare decisamente sull'uomo
malato e subordinare al suo bene ogni cosa.
Sapeva
per esperienza che a chi soffre non bisogna chiedere pazienza, ma
offrirgliela aprendogli il cuore in un atteggiamento di completa
attenzione e disponibilità. Tutto nell'ospedale doveva essere per il
malato: strutture, medici, inservienti, medicine. Nulla poteva essere
riservato a se stessi ed egli ne dava l'esempio trascurando anche la
sua piaga per soddisfare «i diritti» dei malati.
TUTTO PER UN'ASSISTENZA RISPETTOSA
Anche
l'assistenza religiosa richiedeva un intervento deciso per garantire
il rispetto fondamentale dell'uomo. Era costume che ogni malato
entrando in ospedale si dovesse confessare e comunicare prima di
ricevere qualsiasi cura. Camillo, pur senza trascurare questa norma
che era in sintonia con i tempi, capovolse il metodo e si preoccupò
anzitutto che il malato fosse accolto con premura, lavato, ristorato
e collocato in un letto pulito.
L'assistenza
cordiale e la parola amorosa facevano il resto: quasi spontaneamente
cresceva nel cuore dell'infermo il bisogno di Dio che si esprimeva
nell'accettazione fervorosa dei sacramenti.
La
reazione non si fece attendere: coloro che avevano speculato fin
allora sulla pelle dei malati, sentendo vacillare i propri profitti,
protestarono; gli inservienti indolenti cominciarono a mostrare una
certa insofferenza; gli stessi amministratori, pur stimando Camillo,
rimasero piuttosto sconcertati e incerti sul da farsi. Per fortuna
Camillo ebbe dalla sua parte il protomedico dell'ospedale Francesco
Ginnasi e poi, dal luglio del 1580, suo figlio Alessandro che
appoggiarono le sue iniziative. Anche alcuni nobili, tra cui il
guardiano dell'ospedale Virgilio Crescenzi, gli diedero una mano,
assicurandogli protezione e sostegno.
UN'IDEA
Tuttavia
ben presto Camillo si rese conto che se voleva incidere profondamente
sul sistema e operare una vera riforma doveva circondarsi di «uomini
nuovi» forniti della sua stessa mentalità e a lui legati da vincoli
non solo di amicizia ma anche di fedeltà nel celibato consacrato ai
malati.
Una
notte, la vigilia dell'Assunta del 1582, mentre vegliava in corsia ed
esaminava con particolare sofferenza i difetti del servizio e le
necessità dei malati, ebbe un' intuizione, un'ispirazione di Dio:
«Perché non organizzare una compagnia di uomini pii e dabbene, che
non per mercede, ma volontariamente e per amor d' Iddio, servissero
gli infermi con quella carità e amorevolezza che sogliono far, le
madri verso i lor propri figlioli infermi?».
L'idea
poteva anche non apparire eccezionale nel clima fervoroso del '500
ecclesiale quando le istituzioni riformatrici sorgevano un po'
dovunque e le iniziative per portare una boccata d'aria nuova nella
società e nella Chiesa si moltiplicavano. Ma per Camillo non si
trattava di una semplice adesione alla moda del tempo bensì di un
atto maturato nella sofferenza interiore e nella preghiera ardente di
ogni giorno consumato in una realtà di miseria e di dolore.
Non
faticò molto a trovare alcuni uomini ben disposti nell'ambiente
stesso dell'ospedale: Francesco Profeta prete siciliano e cappellano
di S. Giacomo da pochi giorni, Bernardino Norcino, Curzio Lodi,
Lodovico Altobelli, Benigno Sauri, quattro laici inservienti che
Camillo apprezzava per le loro qualità di cuore e di spirito. Quando
scendeva la sera e si allentava un po' l'urgenza del servizio, li
radunava insieme in una cameretta e davanti a un crocifisso che
campeggiava su un altarino improvvisato li infervorava nella
preghiera e nello spirito di una carità totale.
REAZIONI RABBIOSE
Nell'ospedale
si notò subito che qualcosa di nuovo era successo, non solo perché
non potevano restare nascosti quei raduni serali, ma soprattutto
perché il comportamento pieno di fervore e di disinteresse di quegli
uomini metteva concretamente in crisi un certo sistema abitudinario.
Alcuni
inservienti fecero gli «offesi», per essere stati esclusi, come
dicevano, ma in realtà per mascherare la loro poca disponibilità a
rinnovarsi. Gli stessi Guardiani dell'ospedale, fiutando un certo
pericolo di contestazione pratica che avrebbe potuto creare delle
noie, si mostrarono più infastiditi che contenti. Mons. Salviati,
loro prelato, avrebbe voluto mettere tutto a tacere con una paterna
reprimenda a quel suo Maestro di casa troppo fervoroso e «sognatore».
Ma
Camillo era fin troppo realista e le cose le guardava in faccia senza
paura: aveva capito le vere motivazioni di quella opposizione e si
sentiva più che mai in diritto di lavorare come voleva in quella
casa che ormai considerava «sua» a tutti gli effetti.
Non
lo fermarono nemmeno i motteggi di Mons. Cusano, succeduto nel 1583
al Salviati. «Quando smetterte l'idea di questa vostra compagnia di
baia?», gli chiedeva causticamente quando l'incontrava, sicuro che
prima o poi tutto sarebbe rientrato nel nulla. Ma lui milanese
energico e autoritario non conosceva ancora bene il «terribile
cervello» dell'abruzzese Camillo.
Come
del resto non lo aveva capito neppure il «santo» apprezzato e
venerato da tutta Roma, il fiorentino Filippo Neri, a cui anche il
«penitente» Camillo si era rivolto già da tempo per la direzione
spirituale, giovandosi molto della serenità dell' uomo e
dell'ambiente oratoriano per raddolcire le asprezze del suo carattere
e attenuare la durezza della sua volontà penitente. Quando Camillo
si presentò per il consueto incontro settimanale P. Filippo,
avvisato dal Cusano, gli ordinò in tono deciso di non pensare che a
sè e agli ammalati, lasciando perdere la «compagnia», perché
«uomo rozzo e senza lettere qual'era» non sarebbe stato adatto a
dirigerla.
Camillo
incassò il colpo e promise di non intervenire nelle faccende interne
dell'ospedale, accontentandosi di raccogliere i compagni per la
preghiera nella chiesa di S. Giacomo durante i turni di riposo.
Nel
frattempo tutta l'invidia dell'ambiente e l'ira mal repressa del
Cusano si erano potute sfogare su Camillo e i suoi compagni con basse
insinuazioni («vogliono impadronirsi dell'amministrazione
dell'ospedale», si mormorava in giro) e con un attentato diretto
alla loro opera. Entrando un giorno nella cappellino che aveva
adattata per la preghiera comune, l'aveva trovata tutta a soqquadro.
Non gli era rimasto che prendere il suo crocifisso e portarlo nella
propria cameretta, pieno di dolore e di costernazione. Ma di notte in
sogno il suo crocifisso l'aveva consolato e spronato a continuare
senza paura.
PRETE PER I MALATI
Adesso
Camillo pensava al modo migliore di portare avanti senza ingerenze
indiscrete la sua iniziativa. Alcuni gentiluomini romani e P.
Francesco Tarugi, braccio destro di P. Filippo, lo consigliavano a
lasciare S. Giacomo per dedicarsi a tutti i malati, anche ai
contagiosi in tempo di peste, allargando il campo della sua carità.
Camillo rimase un po' perplesso, convinto che S. Giacomo fosse ormai
la sua casa, tuttavia si riservò di pensarci meglio. Intanto su una
decisione era d'accordo con i suoi amici, farsi prete: sarebbe stato
senz'altro un titolo di prestigio, utile per acquistare una certa
indipendenza e mandare avanti l'opera a favore dei malati.
A
trentadue anni si trovò chino sui libri con i ragazzetti della
scuola di grammatica, ma non ebbe difficoltà ad imparare il minimo
indispensabile per quei tempi: aveva una discreta intelligenza e
soprattutto una volontà di ferro che lo portava a sorridere
bonariamente ai motteggi dei giovani condiscepoli, che in fondo però
gli volevano bene. Così superate altre difficoltà di ordine
patrimoniale, il 26 maggio 1584 veniva ordinato prete nella basilica
di S. Giovanni in Laterano.
Alla
sua prima Messa nella chiesa di S. Giacomo all'altare della Madonna
gli facevano corona i compagni e gli amici più cari, ma il suo cuore
era tra gli ammalati.
PAROLE CHE DANNO LA CARICA
Ora
poteva dedicarsi con più libertà alla sua piccola compagnia. Aveva
ricevuto dai Guardiani dell'ospedale la cappellanìa di una chiesetta
in riva al Tevere, chiamata la «Madonnina dei miracoli», con
annesse due camerette: qui Camillo trasportò il suo crocifisso, dopo
aver dato le dimissioni da Maestro di casa, e qui raccolse i suoi
compagni Bernardino e Curzio che con P. Profeta gli erano rimasti
fedeli e che, uno alla volta, si erano licenziati da S. Giacomo.
L'otto
settembre li rivestì dell'abito religioso: tutti e tre ora
frequentavano l'ospedale di S. Spirito. P. Profeta, pur venendoli
spesso a trovare, continuava provvisoriamente la sua opera a S.
Giacomo: li avrebbe raggiunti più tardi.
Alla
Madonnina dei Miracoli la piccola compagnia viveva in un ambiente
malsano e nell'estrema povertà, non avendo nessuna entrata fissa.
Nel
giro di due settimane Curzio e Camillo si ammalarono, ma non si
persero di coraggio. «Dio ci ha mandato questa infermità perché,
fatti buoni e perfetti maestri nel patire, sappiamo poi con più
carità e compassione servire e compatire gli infermi», diceva
Camillo ai suoi compagni dal suo letto di malattia.
Appena
si furono ristabiliti, deludendo le aspettative dei Guardiani di S.
Giacomo che avevano ormai pronosticato con soddisfazione il
fallimento dell'impresa, tutti ripresero il servizio a S. Spirito
sicuri ormai d'aver imboccato la strada giusta.
Mons.
Cusano andò su tutte le furie: non era un piacere vedersi privato di
quelle forze valide tanto più che ciò poteva essere solo un
inizio... Fece pressioni, interpose l'autorità di P. Filippo,
minacciò, ma Camillo aveva ormai fatto la sua scelta. Tutto questo
l'addolorava e gli costava immensamente, ma sapeva di avere dalla sua
parte il crocifisso.
L'aveva
udito in un'estasi profonda proprio il giorno della maggior burrasca,
quando era stato rifiutato anche da P. Filippo, e le sue parole ormai
le portava scolpite nel cuore: «Continua, pauroso, che io t'aiuterò:
questa è opera mia e non tua».
IL "SEGNO" DI MAMMA CAMILLA
Ci
voleva veramente un gran coraggio per continuare quel tipo di
esistenza: tre stuoia per terra, poco cibo, molto lavoro. Un giovane
attirato dalla carica di carità che li animava chiese di unirsi alla
piccola famiglia, ma, pur accolto con simpatia, non resistette più
di un giorno a quella vita impossibile. Anche Camillo capì di
pretendere troppo dalle sue forze e da quelle dei suoi compagni:
cercò e trovò in una zona più centrale, via delle Botteghe Oscure,
un alloggio più salubre e vi si trasferì il 12 febbraio 1585.
Adesso
più nessun vincolo, nemmeno di riconoscenza, lo teneva legato a S.
Giacomo, ma il distacco definitivo, pur necessario per acquistare
indipendenza e libertà d'azione, gli costò moltissimo. In fondo vi
aveva speso quasi dieci anni e vi lasciava ricordi e amicizie.
Proprio lì si era manifestata la volontà di Dio ed era scaturito il
suo primo interesse per i malati, che era poi maturavi nella piccola
Compagnia dei Servi degli infermi. Per essa nei momenti di quiete
aveva buttato giù anche delle regole pratiche senza grandi pretese o
progetti ambiziosi, ma sature di carità e totalmente finalizzate ai
malati. «Desideriamo, con la grazia di Dio, servir a tutti gli
infermi con ogni carità», scriveva nella regola 27.
Ormai
il campo era aperto: ognuno che fosse povero e infermo aveva diritto
di essere servito come «signore e padrone», anzi come «la persona
stessa del Signore»; se poi fosse stato colpito dalla peste, poteva
esigere anche il rischio della vita. L'ospedale rimaneva il luogo
privilegiato del servizio, ma anche le case private entravano nel
«grande mare» della carità.
Naturalmente
restava pacifico che nessun compenso potesse venir accettato e che si
dovesse fuggire persino l'ombra del sospetto di voler sfruttare
l'ospedale o di desiderarne l'amministrazione. Su questo punto in
particolare Camillo si mostrò sempre intransigente fino al punto di
scacciarne alcuni dalla Compagnia perché avevano osato mangiare e
bere qualcosa dell'ospedale.
S.
Spirito li aveva accolti in sordina, quasi come «rifugiati
politici», ma ben presto avvertì la ventata d'aria nuova che vi
avevano portato. Alcuni giovani attratti dal loro spirito di totale
dedizione ai malati, chiesero ed ottennero di aggregarsi.
Se
ne sentiva veramente il bisogno perché proprio nell'estate di
quell'anno Bernardino moriva quasi improvvisamente sfinito dalle
fatiche e dai disagi. Camillo perdeva un aiuto prezioso e un amico
carissimo proprio mentre la Compagnia stava attraversando il momento
delicato dell'assestamento e del riconoscimento ufficiale da parte
dell'autorità Ecclesiastica.
Se
si fosse potuto farne a meno, Camillo certamente avrebbe preferito
lavorare nel silenzio e nella spontaneità, refrattario com'era per
carattere a mendicare appoggi e protezioni. Ma poiché un minimo di
struttura era pur necessario e Sisto V non scherzava, una via
bisognava trovarla per ottenere l'approvazione senza scendere a
compromessi umilianti o suscitare gelosie.
Fu
anche fortunato. Un giorno quasi per caso ebbe l'occasione di
avvicinare il Cardinale Vincenzo Lauro, uomo molto influente alla
Corte pontificia, e senza tante parale espose la faccenda. Colpito
dalla semplicità e dall'onestà di Camillo, il Cardinale si fece
consegnare il testo delle regole e ne parlò al Papa. Nonostante la
sua umiltà, Camillo non era poi uno sconosciuto e la sua opera così
preziosa per i malati si raccomandava da sola.
LA CROCE ROSSA SUL PETTO
Il
18 marzo 1586 vennero ufficialmente autorizzati a vivere insieme in
povertà, castità e obbedienza «senz' obbligo di voto» formando
tra loro una Congregazione denominata dei «Ministri degli Infermi»
impegnati a servire «con speciale fervore di carità i malati anche
in tempo di contagio».
Il
20 aprile Camillo fu eletto primo superiore e per dimostrare a tutti
come l'intendesse quel giorno stesso prese le bisacce a tracolla e
andò in giro per Roma a mendicare il pane, raccogliendo molti
insulti e pochissime pagnotte. Ma questo non aveva grande importanza:
ciò che lo rendeva felice era il fatto di poter ora servire i malati
con pieno diritto senza più bastoni fra le ruote.
Volle
anche un segno esterno di questa consacrazione. Quando alcuni giorni
dopo fu ricevuto in udienza da papa Sisto, superando l'istintivo
sentimento di soggezione, chiese il privilegio di portare sopra
l'abito una croce rossa che testimoniasse la sua «crociata» per i
più poveri ed emarginati.
Il
29 giugno i Romani li videro così lungo la strada che portava a S.
Pietro, dove Camillo aveva voluto condurre i suoi compagni per un
atto sincero di fede e di ringraziamento. Al momento non capirono e
si ponevano domande curiose, ma ben presto si abituarono a vederli
così caratterizzati lungo le corsie dell'ospedale o per le vie della
città alla ricerca dei malati più abbandonati; in fretta impararono
ad amarli come si amano gli amici più cari nel momento della
sventura, chiamandoli i «padri del bel morire».
Nella
mente di Camillo quel segno non doveva essere affatto un distintivo
d'onore, anzi non si stancava mai di ripetere ai suoi compagni una
specie di ritornello appassionato: «La croce che portiamo sul petto
significa che tutti noi, segnati di questa santa impronta, siamo come
schiavi venduti e dedicati al servizio dei poveri infermi e che
questa che abbiamo abbracciata è congregazione di croce, cioè di
morte, di patimento, di fatica...». Con un'immagine colorita
paragonava poi i ministri degli infermi che si pavoneggiavano del
distintivo senza possedere un'autentica carità ad «asini macilenti
ricoperti di una bellissima e ricchissima gualdrappa».
Si
avverava il sogno di Mamma Camilla. Lì per lì Camillo non ci fece
caso, ma alcuni anni dopo ritornando a Bucchianico con alcuni
compagni sorprese sulle labbra dei più vecchi una «oh!» di
meraviglia: si ricordavano del sogno che a suo tempo aveva fatto il
giro del paese. Ora il significato era veramente chiaro. Cosa
avrebbero dato perché Mamma Camilla fosse presente! Questa volta il
suo Camillo l'avrebbe resa certamente felice.
UNA CASA TUTTA SUA
Frattanto
la famiglia aumentava e urgeva una nuova sistemazione che
comprendesse anche una chiesetta dove i sacerdoti potessero celebrare
la Messa. Passando un giorno davanti alla chiesa di S. Maria
Maddalena vicina al Pantheon, Bernardino aveva fortemente sorpreso il
compagno dicendogli quasi a bruciapelo: «Fratello, questa chiesa
sarà nostra», ma poi tutto era finito lì.
Anche
Camillo vi aveva fato un pensierino sia perché rispondeva alle nuove
esigenze sia perché nei dintorni si davano convegno gli abruzzesi
che venivano a Roma. Un giorno prese il coraggio a due mani e chiese
in affitto alla Confraternita del Confalone la chiesetta e le poche
casupole che la circondavano. Egli stesso si rimboccò le maniche e
aiutò i muratori nell'eseguire le riparazioni più urgenti e
nell'adattare i locali.
Il
grattacapo permanente erano i soldi che non si facevano trovare
troppo puntuali per pagare l'affitto che diventava di anno in anno
più salato. Una volta dovette intervenire persino il Papa. Quelli
del Confalone avevano più volte minacciato di «buttargli le robe
dalla finestra», ma Camillo ormai era certo che di lì non si
sarebbe più mosso; anzi dopo alcuni anni, sfidando tutto e tutti,
decise di comperare le tre casette affittate. «O forse che Dio non
può mandare anche subito a questa casa sacchi di quattrini? ...»,
andava ripetendo agli increduli e ai maliziosi. Poco ci mancava che
gli facessero la pernacchia, ma non si rifiutavano la soddisfazione
di rimbeccarlo: «Oh, Padre Camillo, la stagione dei miracoli è
passata».
Invece
qualcosa successe. Il 17 dicembre 1592 il Cardinal Lauro morendo
lasciava parte della sua eredità alla Congregazione, che poteva
estinguere definitivamente il debito.
Camillo
si sentiva finalmente a casa sua e poteva anche programmare qualcosa
di più stabile e di meglio organizzato. Soprattutto bisognava
provvedere alla vita comunitaria e ai turni di lavoro di coloro che
chiedevano di unirsi per il servizio ai malati. Fosse stato per lui
avrebbe semplificato molto le cose, ma le leggi c'erano e non poteva
ignorarle, anche perché i nuovi arrivati incominciavano ad essere
numerosi, di diversa nazionalità e di mentalità differenti.
LA FAMIGLIA CRESCE
Ne
aveva portati con sè una dozzina nella nuova casa della Maddalena,
ma in pochi anni erano aumentati considerevolmente in quanto egli non
chiudeva la porta in faccia a nessuno e si faceva premura, dopo un
anno di prova, di «donare la croce» a chi resisteva al ritmo
massacrante della carità.
E
non erano tutti poveracci o disoccupati; parecchi provenivano da
nobili famiglie e abbandonavano carriere sicure o posti ambiti, pur
di seguire Camillo che li affascinava, con quanto piacere delle
rispettive parentele è facile immaginarlo. Si narrano fatti
impressionanti di giovani finiti male perché costretti dai familiari
ad abbandonare la comunità, o di padri morti in circostanze
sconcertanti mentre tentavano di ostacolare la vocazione dei figli.
Francesco
Aldimando, diciottenne di Napoli, pieno di entusiasmo aveva raggiunto
Roma dove era stato ammesso all'anno di prova, ma suo padre era
riuscito con insistenze e minacce a farlo ritornare a casa,
infischiandosene degli avvertimenti di Camillo. Nove anni dopo però
si avverarono le sue previsioni: si seppe con raccapriccio che era
stato decapitato sulla piazza del mercato di Napoli per triplice
omicidio.
Un
nobile di Roma, irritato perché suo figlio aveva abbandonato una
felice carriera per servire i poveri tra i Ministri degli infermi,
progettò nientemeno che un rapimento mentre si recava all'ospedale;
ma la notte precedente morì improvvisamente. Questi fatti
suscitavano profonda emozione e lasciavano un certo segno...
Alcuni,
nove per l'esattezza, nei primi due anni di permanenza alla
Maddalena, erano morti vittime della foro intensa carità e Camillo,
pur nel dolore della loro perdita, vedeva nel sacrificio di queste
vite un segno palese della preziosità dell'opera e del suo alto
valore umano e soprannaturale: nessuno avrebbe rischiato la vita se
non ne fosse valsa la pena.
NECESSITA' DI PRETI
Restava
ancora aperta una grossa questione che turbava non poco Camillo: ogni
volta che qualcuno chiedeva di essere ordinato prete sorgeva
quell'ostacolo del «titolo patrimoniale» richiesto dalle leggi
canoniche vigenti di fronte al quale lui stesso aveva rischiato
grosso, e sarebbe stato certamente bloccato se non fossero
sopraggiunti provvidenziali quei benedetti seicento scudi di Fermo
Calvi.
Non
solo era difficile trovare i soldi o i «benefici ecclesiastici»
esigiti, ma tutto questo cozzava fortemente con il suo concetto di
povertà comunitaria. E di preti adesso ne sentiva veramente il
bisogno, perché aveva capito che per riorganizzare tutto il sistema
del servizio ai malati dentro e fuori l'ospedale non poteva farne a
meno.
La...
bomba scoppiò quando il Cardinal Paleotti, arcivescovo di Bologna,
ammirato per il tipo di assistenza prestato ad un suo familiare di
Roma, chiese a Camillo di inviare alcuni compagni nella sua città.
Camillo fece presente la difficoltà di trovare i preti necessari per
presiedere la nuova fondazione, ma il Cardinale non sembrò darle
molto peso. Conosceva bene gli intrichi curiali e aveva bell'e pronta
un'onorevole via d'uscita: bastava ottenere la professione dei voti
religiosi e farsi ordinare prete a «titolo di povertà».
Camillo
rimase perplesso: adesso gli pareva che le cose andassero oltre le
sue intenzioni e rischiassero di impegolarlo in una istituzione
ufficiale che poteva anche tarpare le ali alla spontaneità della
carità. E poi di Ordini religiosi ne esistevano già parecchi,
alcuni anzi erano stati soppressi e la Curia romana non si mostrava
troppo incline ad approvarne altri. D'altra parte però un
riconoscimento di quel genere significava maggior sicurezza, più
stabile inserimento nella Chiesa e soprattutto la soluzione ideale
del suo problema.
Pregò,
digiunò, fece voto di pellegrinare fino a Loreto, mentre con i suoi
più stretti collaboratori stendeva un «programma di vita». La
trafila burocratica fu piuttosto elaborata, ma alla fine con
l'appoggio dei Cardinali Paleotti e Lauro e soprattutto per la
testimonianza concreta di carità offerta da lui stesso e dai suoi in
occasione della terribile peste e carestia di quell'anno, ne venne
felicemente a capo.
Il
2191591 papa Sfrondati (Gregorio XIV), un suo ammiratore, firmò la
«bolla» di istituzione dell'Ordine religioso dei Ministri degli
infermi, nella quale riconosceva l'opera di Camillo non solo utile ma
necessaria, ne ricordava lo scopo di carità e di assistenza totale
ai malati anche appestati e le elargiva favori ed indulgenze.
LA PROFESSIONE SOLENNE
Fu
eletto all'unanimità primo generale, nonostante la sua professione
di inettitudine e la sua insistente richiesta di essere messo in
disparte come «zappa fuori uso» per poter servire meglio i malati.
Gli volevano troppo bene per privarsi del suo esempio a capo della
famiglia religiosa che aveva ormai raggiunto le cinquanta unità ed
era già sciamata a Napoli per una fondazione di assistenza negli
ospedali di quella città. Nessuno meglio di lui poteva mantenere la
freschezza dello spirito iniziale impedendo che si appesantisse o si
intiepidisse per l'aumento del numero e il passare degli anni.
Quando
l'otto dicembre di quello stesso anno Camillo con venticinque
compagni professò i voti religiosi in una cornice di serena
festività e di cordiale amicizia circondato da simpatizzanti e
benefattori, sentì che l'opera adesso era veramente compiuta e
ringraziò profondamente il Signore d'essersi servito di un uomo
«rozzo e illetterato» come lui.
La
sera stessa tutti si accorsero con ammirazione che nulla era mutato
di quel «terribile cervello» che prendeva tutto terribilmente sul
serio e alla lettera: in mezzo al refettorio in ginocchio, dopo aver
abbracciato uno per uno i suoi confratelli, dichiarò di rinunciare
ad ogni cosa che possedeva cominciando dai seicento scudi del titolo
patrimoniale fino al vestito che aveva addosso, e chiese in prestito
per elemosina alla comunità le vesti, il letto, una sedia, un tavolo
e alcune immagini di carta. Non si alzò prima di essere stato
accontentato.
Qualche
mese più tardi egli stesso ricevette la professione religiosa dei
quindici appartenenti alla comunità di Napoli, tra cui l'amico caro
della prima ora, Curzio Lodi. E poi... via con lui verso Loreto,
seminando la strada di preghiere e di giaculatorie, per sciogliere il
voto fatto e consacrare alla Madonna la sua ormai numerosa famiglia.
IL MOMENTO DELLE AUTOCRITICHE
Fu
il momento magico delle «autocritiche» e dei «riconoscimenti»
ufficiali. Parecchi di coloro che l'avevano ostacolato si
ricredettero e non gli risparmiarono lodi e incoraggiamenti.
Primo
fra tutti lo stesso Filippo Neri che non si vergognò di riconoscere
il proprio errore e di vedere nell'opera di Camillo l'intervento
misterioso di Dio. Ma anche Mons. Cusano che aveva deriso il primo
gruppetto di S. Giacomo come «compagnia da baia» volle manifestare
la sua ammirazione per Camillo e il suo Istituto professandosi
«affezionatissimo». Scherzi della Provvidenza! ...
Camillo
però non si lasciò montare la testa: era convinto, e ci teneva a
dirlo, che «prima Dio e poi la sua gamba impiagata avevano fondato
l'Istituto». Non c'era quindi alcun motivo né per gloriarsi né per
temere; bisognava solo darsi da fare perché quanto era stato
iniziato e portato avanti con l'aiuto del Crocifisso continuasse nel
segno di una totale dedizione ai poveri e ai malati.
L'aveva
detto quasi con tono ispirato ai compagni un mezzogiorno di ritorno
dal giro delle sette chiese di Roma alcuni giorni dopo la professione
dei voti: «Dio s'è compiaciuto di affidare a noi, pur così pochi,
il suo grande regno della carità; ma non temere piccolo gregge
perché verrà tempo in cui questa piccola famigliola si spargerà
per tutto il mondo e questo istituto santificherà molti».
IL GIARDINO FIORITO E DELIZIOSO
Le
pastoie burocratiche non avevano minimamente inceppato l'attività di
Camillo all'ospedale: un po' di tempo, sì, gliel'avevano rubato, ma
c'erano pur sempre le ore della notte per testimoniare ai malati che
li amava intensamente.
Così
Santo Spirito divenne mano mano la sua casa preferita, anzi il suo
giardino fiorito dove si recava appena poteva per tuffarsi quasi con
voluttà nei servizi più umili e ributtanti.
Una
sera, incrociando a metà strada un medico suo grande amico, lo
lasciò di stucco dicendogli che stava recandosi a spasso «in un
giardino bellissimo, tutto pieno di fiori e frutti, vicino a Castel
S. Angelo». Vicino a Castel S. Angelo?, il medico non riusciva a
raccapezzarsi. Certo, c'erano i Giardini Vaticani, c'erano le ville
dei Signori Cardinali o dei Nobili Romani, ma gli pareva strano che
Camillo vi bazzicasse e per di più a quell'ora: inoltre non erano
proprio da quelle parti! Camillo lo lasciò almanaccare un poco, poi
divertito gli svelò l'enigma: «Il mio giardino è l'ospedale di
Santo Spirito».
TRA S. PIETRO E CASTEL S. ANGELO
L'aveva
fatto costruire Innocenzo III, un po' come segno di prestigio del suo
pontificato teocratico e un po' come palestra di carità cristiana
per tutti quelli che, romani o no, avessero voluto dedicare un'ora,
un giorno, un anno, la vita intera all'assistenza dei malati.
Alto,
imponente, sulla riva sinistra del Tevere tra Castel S Angelo e la
Basilica di S. Pietro, doveva rappresentare la volontà della Chiesa
romana di abbracciare tutti gli infermi, poveri, malati, vecchi,
orfani, perfino le prostitute ravvedute e i «proietti» figli di
nessuno. E in realtà ce n' era per tutti i gusti, dal nobile
decaduto al piccolo trovatello, dal malato febbricitante o cronico al
forestiero senza speranza.
Vi
provvedeva per volontà dello stesso Papa l'Arciconfraternita di
Santo Spirito, che annoverava tra i suoi membri uomini illustri e
personaggi blasonati accanto a gente senza nome e senza titoli. Subì
nel tempo varie involuzioni e trasformazioni, ma restò sempre
intatta la sua funzionepilota nel campo della carità e
dell'assistenza cristiana.
Dieci
anni prima che Camillo vi entrasse era stato oggetto di una
coraggiosa riforma da parte del Commendatore Bernardino Cirillo che
vi aveva profuso tutta la sua passione di uomo colto del Rinascimento
e il suo coraggio di autentico abruzzese perché le cose si
mettessero meglio o almeno «andassero manco male». Arrivò perfino
ad acquistare medicine rare e costose, ma non riuscì a riformare
l'assistenza ai malati che rimase affidata ai servi «tutta
indiavolata gente e anormale», che prestavano un servizio «pessimo
e abominevole», come scriveva nelle sue memorie.
«Quando
uno di essi racconta egli stesso si presenta ad un infermo per
dargli il brodo e trova il poveretto afflitto, svogliato e tanto
debole che appena il letto lo regge, invece di aiutarlo con carità e
pazienza lo redarguisce imprecando: bevi su, manda giù che ti possa
strangolare, che io devo darne ad altri...; e spesso non risparmia al
poveretto nemmeno le busse».
Con
la sua opera instancabile e intelligente Bernardino poté almeno
ottenere un notevole aggiornamento tecnico organizzativo, ma dovette
battere in ritirata di fronte a quella «repubblicaccia» di servi
prezzolati e indocili che badavano solo ai propri comodi. Così mori
con in cuore il cruccio di non essere riuscito ad animarla con lo
spirito della vera carità, nonostante le visite assidue di persone
pie e di uomini santi e l'interesse costante dei Papi.
I
suoi successori pensarono più ad abbellire il proprio palazzo che ad
alleviare le miserie dei poveri ricoverati, i quali talvolta
superavano le trecento unità.
POVERTA' E SUDICIUME
Camillo
vi trovò una situazione allarmante e precaria. L'ospedale
raccoglieva i poveri, solo i poveri, perché i ricchi si facevano
curare nelle proprie case: gente con scarsi guadagni o incerte
entrate, proletari e sottoproletari, mendicanti di mestiere e di
necessità, «burini» e servi della gleba, pellegrini e
avventurieri, febbricitanti o semplicemente bisognosi: molti vi
venivano a morire.
La
corsia principale, la Sistina, alta e solenne (lunga 120 m, alta 13,
larga 12), sormontata nel mezzo da una elegante cupola ottagonale si
faceva ammirare per le sue forme armoniose, ma era molto triste per
il disordine che vi regnava e l'aria irrespirabile che vi stagnava.
I
servizi igienici primitivi, la sporcizia e il sudiciume
impressionanti, la mancanza di deodoranti e di detersivi energici, le
stesse consuetudini di vita estremamente rozze dei malati, la puzza
del sudore e degli escrementi, l'andirivieni disordinato degli
estranei, il vociare e l'agitarsi irrequieto dei ricoverati, tutto
contribuiva a inquinare l'aria e a creare un'atmosfera di profondo
disagio e di grande sofferenza.
Questo
era il giardino fiorito e delizioso di Camillo, la sua miniera d'oro,
il suo nido, il suo cuore, il suo paradiso in terra, come andava
dicendo, convinto e trasfigurato nei sensi dalla magia della carità,
a chi gli raccomandava prudenza e moderazione. Moderazione? Ormai era
tutto e solo per i malati.
Gli
sembravano cent'anni i minuti che lo tenevano lontano da Santo
Spirito e gli pareva di essere «legato alla catena» quando i suoi
impegni di Superiore Generale lo costringevano a stare in casa alla
Maddalena. Appena poteva essere libero, sgusciava silenzioso dalla
porta e quasi di corsa lungo via dei Coronari e per ponte di Castel
S. Angelo raggiungeva il suo ospedale.
Se
il compagno non riusciva a tenere il passo, lo rimproverava: «Che
passo di formica è mai il vostro, fratello!»; se l'orologio suonava
le ore si lamentava che corresse troppo e gli rubasse il tempo da
dedicare ai malati. Piuttosto che niente, quando non poteva entrare,
si accontentava di passare rasente le mura e di accarezzarle con le
mani. «Mi sento attirato da esso come da una potente calamita»,
confessava candidamente ai suoi compagni, e mille fioretti giravano
di bocca in bocca sui suoi viaggi diurni e notturni a Santo Spirito.
UNA CHIAVE CHE APRE IL CIELO
Ma
il suo momento magico fu quando ottenne dal Papa la dispensa dalla
carica di Generale dell'Ordine e potè rimanere giorno e notte
all'ospedale usufruendo di una stanzetta piccola piccola, ma
sufficiente per un breve riposo notturno. Solo una volta alla
settimana ritornava alla Maddalena per un po' di sollievo spirituale,
e gli pareva un'eternità quella lontananza forzata dal letto dei
suoi amici infermi.
Non
riusciva nemmeno a concepire che non ci si potesse trovare bene.
«Come non posso star bene qui, stando nel paradiso terrestre, con
speranza e caparra di avere anche il celeste?», rispondeva a quelli
che si meravigliavano della sua resistenza fisica e morale. E non
c'era alcuna nota di esibizionismo in questo suo atteggiamento che
scaturiva da una trasfigurazione totale della sua persona, spirito i
e sensi, sotto la forza della Grazia e del suo carattere. Quando poi
stremato di forze e avanti negli anni dovette mettersi a letto egli
stesso alla Maddalena, non potendo andarvi di persona vi mandava ogni
giorno il suo infermiere perché gli portasse notizie sempre fresche
e fino all'ultimo custodì sotto il guanciale la chiave della sua
cameretta, illudendosi in tal modo di essere ancora tra i suoi
malati. «Questa chiave mi aprirà il cielo», andava ripetendo senza
mai stancarsi, e forse proprio così immaginava il paradiso: un luogo
fiorito e delizioso come il suo ospedale di Santo Spirito.
PIU' ANIMA ALLE MANI
Il
lavoro non mancava, anzi ci sarebbero volute mille braccia per poter
soddisfare tutte le esigenze; ed era un lavoro umile, fatto di
fatica, di silenzio, di profonda mortificazione dei sensi. Camillo
non si risparmiava: appena metteva piede all'ospedale si trasfigurava
e tutto passava in secondo ordine, anche gli affari e le
preoccupazioni più gravi, di fronte ai bisogni dei malati.
Giunto
in corsia, correva ai piedi dell'altare che fronteggiava l'ingresso
per recitare la sua preghiera consueta, quindi, indossata la
sopravveste di tela nera e appesi alla cintola gli oggetti
indispensabili del mestiere, si presentava a tutti con viso
sorridente e con tale disponibilità da disarmare anche i più restii
e riservati. «Fratello, sussurrava amorevolmente non portarmi
rispetto: comandami pure perché io non solo sono tuo servo, ma mi
sono fatto schiavo tuo, e per questo sono obbligato a servirti e ad
obbedirti ogni volta che mi comandi».
Così
tutti i servizi erano suoi, senza discriminazioni o gerarchie, senza
limiti di tempo o di fatica: l'unico privilegio che rivendicava per
sé era di poter riservarsi i casi più «brutti», gli emarginati
per le loro condizioni ributtanti, i segnati a dito per il loro
carattere violento, gli incontentabili a oltranza.
Chi
ne godeva maggiormente erano i servi, a cui non sembrava vero di
poter scaricare quei ruderi umani sulle spalle di Camillo. Girava una
battuta scherzosa ma significativa: «Lasciamo questi tordi al padre
Camillo». Loro, i mercenari, forse pensavano di fare i furbi, ma in
realtà gli procuravano un vero piacere dandogli la possibiltà di
soddisfare sino in fondo la sua esigenza di sentirsi totalmente
«venduto» ai malati.
Ciò
che lo scocciava maggiormente era di non arrivare sempre ad
indovinare prontamente i desideri dei più gravi e bisognosi. Non era
certamente colpa sua se qualcuno aveva la lingua così impastata da
non riuscire ad esprimersi chiaramente, o se qualche altro stava
talmente fuori di sé per la febbre da esigere cose assurde: ma
Camillo non si dava pace ed escogitava tutte le maniere, anche le più
ridicole, pur di captare ciò che volevano. Non sempre gli andava
liscia e allora si tormentava e chiedeva perdono in ginocchio.
Stramberie
isteriche le giudicavano i «saggi» dell'ospedale, quelli che erano
abituati a misurare tutto con il metro della ragione e non potevano
capire che Camillo agiva su un'altra lunghezza d'onda. Lui, no,
faceva terribilmente sul serio e nemmeno certe rispostacce e certi
insulti da far rabbrividire anche Giobbe lo turbavano,
Qualche
malato, esasperato dal male, arrivò perfino a sputargli in faccia il
cibo che aveva appena ingoiato, o a colpirlo con i pugni e con quanto
aveva in mano, non sentendosi capito e assecondato subito nei suoi
desideri: l'uomo vecchio, quello dei campi di battaglia o delle risse
al gioco fremeva sotto la ruvida veste nera e i presenti impauriti
aspettavano che da un momento all'altro esplodesse. Quando lo
vedevano chinarsi sul malato e, per tutta risposta, baciarlo,
rimanevano fortemente impressionati e non sapevano più se ammirarlo
o considerarlo un pazzo.
Qui,
secondo le loro categorie umane, qualcosa non quadrava, ma... andate
a fare i conti in tasca a certa gente...
I LEGITTIMI PADRONI
Anche
i nuovi compagni, gli aspiranti, i novizi ormai non si meravigliavano
più e accettavano con grande edificazione perfino le verità più
crude e certe confessioni che Camillo spiattellava loro in faccia con
schiettezza campagnola per disilluderli da ogni puerile
sentimentalismo o falso entusiasmo. «Ho ricevuto spesso pugni,
schiaffi, sputi, villanie d'ogni genere dagli infermi, con mio grande
contento del resto allegria, perché gli infermi mi possono non solo
comandare, ma dirmi ingiurie e villanie come miei veri e legittimi
padroni», diceva convinto senza una briciola di retorica.
Se
la pensava così, allora non stupivano più nemmeno certi suoi
atteggiamenti, certe sue prese di posizione quasi assurde, come
quella di non accettare neppure un bicchiere «d'acqua cotta» perché
«tutto quello che l'ospedale possiede è dei poveri». Allora si
potevano capire anche le sue delicatezze quasi raffinate che facevano
a pugni con la sua rozza corporatura: ciabatte scamosciate per non
far rumore, conserva di rose e acqua di cedro per spruzzare le piaghe
e allontanare dai malati i cattivi odori, mele cotte, arance, uova,
frutta primaticce o di stagione per accontentare anche i più
capricciosi.
Soprattutto
si spiegava il suo accanimento per la pulizia, l'ordine del servizio,
il rispetto profondo del malato. Quando un giorno vide dei servi che
ridevano a crepapelle alle spalle di un povero febbricitante che in
preda al delirio se ne andava nudo per la corsia, non seppe
trattenersi: allora sì che l'uomo vecchio si alleò con quello nuovo
e fece sentire la sua voce fremente di sdegno, ma c'era un debole da
difendere.
Nulla
lo trattenne dal prendere la scopa per spazzare la corsia o il
raschietto e il bruschino per raschiare i pavimenti sudici; tanto
meno credette di disonorare il suo sacerdozio prestando ai malati
anche i servizi più umili e delicati.
Così
lo si vide spesso girare per la corsia portando alla cintola un
orinale per risparmiare ai malati lo sforzo di scendere dal letto.
Medicava con le sue stesse mani le piaghe purulenti, imboccava quelli
che non erano autosufficienti, sosteneva pazientemente i deboli che
camminavano con fatica, lavava e cambiava di biancheria chi si era
sporcato, rassettava i letti e rimetteva i malati a loro agio.
Arrivava persino a ripulire con una palettina di osso avvolta in una
pezza di lino le lingue dei febbricitanti ricoperte di patina o
bruciate dal mughetto. Condiva tutte le azioni con parole di affetto
e di speranza.
Una
carità così premurosa, così attenta non poteva non arrivare al
cuore dei malati ed essere già per se stessa, senza aggiunta di
grandi discorsi, un sollievo e una carica di fiducia: tutti quelli
che ne beneficiavano, riportavano un'impressione così forte che
spesso cambiava perfino il corso della loro vita.
Ma
Camillo sapeva anche parlare, un parlare semplice, franco, senza
tanti concetti dottrinali o fronzoli retorici, che agganciava
immediatamente l'interlocutore e lo conquistava soavemente, perché
veniva da una fede serena e da una sincera partecipazione alla
sofferenza dell'altro. «Ha l'intelligenza della carità», si diceva
in giro con ammirazione, ma lui più semplicemente affermava di
seguire «la via dei carrettieri», quella, per intenderci, comune,
popolare che usano gli uomini per capirsi al primo contatto, senza
tante parole, nel segno dell'amicizia, o che percorrono le mamme per
arrivare efficacemente al cuore dei figli.
Del
resto con una cultura molto limitata e una preparazione teologica
approssimativa non poteva permettersi il lusso di intavolare
discussioni dotte o improvvisare discorsi eruditi. I suoi scritti
faticosi e spesso sgrammaticati rivelano la sua scarsa dimestichezza
con la lingua italiana. «Sono come un povero parroco di campagna si
schermiva scivolando nel paradosso e non so leggere che sul mio
messale».
Eppure
le sue parole calavano dritte al cuore come un refrigerio e sapevano
restituire al malato quella serenità e quella pace interiore che
talvolta valevano più della guarigione
In
fondo però un libro di grande valore l'aveva anche lui, un libro
prezioso che solo pochi occhi riescono a leggere sapientemente ed
interpretare autenticamente. Era il "suo" crocifisso
davanti al quale iniziava e concludeva la giornata.
Lo
aiutava a capire gli altri crocifissi che incontrava nelle corsie
dell'ospedale o per le strade, uomini senza avvenire e senza speranza
che bisognava saper leggere sulla stessa falsariga del dolore e
dell'amore per ricuperarli alla vita e alla grazia. Camillo era
diventato un maestro anche di questa scuola e non c'era nessuno che
lo batteva nel cogliere il momento giusto per dire la parola giusta,
quella che scuote senza fare violenza e salva.
Un
giorno, mentre rifaceva il letto a un vecchio paralizzato, ascoltava
pazientemente i ricordi di gioventù che costui snocciolava esaltando
le sue imprese militari nella guerra di Fiandra e la sua snellezza
nel saltare per primo dentro le mura d'Anversa. Era la buona
occasione. «Fratello mio gli disse ora che sei vecchio ti resta da
fare un altro bel salto... da qui a lassù», e indicò il cielo. Il
vecchio capì e fu l'inizio di un colloquio che lo dispose a una
morte serena.
Erano
incontri d'ogni giorno, cordiali nel contatto, discreti ma stimolanti
nella proposta, sempre aperti alla fiducia che l'ora della grazia, se
si sapeva attendere vigilanti e premurosi, sarebbe arrivata puntuale.
Talvolta era necessario forzare un po' la mano, quando si vedeva che
l'infermo stesso desiderava essere aiutato spiritualmente senza avere
il coraggio di fare il primo passo, ma sempre con delicatezza e
rispetto.
Soprattutto
quando le ore erano contate e rimaneva ben poco tempo da vivere,
Camillo sapeva essere nello stesso tempo tempestivo e discreto nel
suo intervento, acquistando ben presto fama di «padre del bel
morire». Molti desideravano averlo accanto in quel momento decisivo
per affrontarlo con serenità e coraggio ed egli sfruttava
saggiamente questo "dono" di farsi richiedere per portare
il moribondo al di là della sua persona, accostarlo a Dio e disporlo
interiormente all'incontro finale.
Specialmente
a S. Spirito imparò l'arte preziosa e delicata di preparare i malati
alla morte. Il tempo che trascorreva al capezzale dei moribondi era
per lui il più prezioso. Lo condiva di preghiere sommesse, lo
riempiva di atti di particolare delicatezza, alternando all'aiuto
spirituale il sollievo fisico, specialmente d'estate quando le labbra
e la gola si seccavano facilmente e le mosche, le zanzare, le cimici
prendevano d'assalto il poveretto che non poteva difendersi.
UN PO' DI CALORE E DI VITA
La
stessa cura e la stessa delicatezza usò nel dare ai malati i
Sacramenti: offriva, non imponeva com'era purtroppo nell'usanza del
tempo; anzi faceva in modo che fossero i malati stessi a richiederli,
attratti dalla testimonianza di carità cristiana che davano coloro
che li assistevano.
Questo
suo comportamento rompeva decisamente gli schemi tradizionali e
creava un certo malumore tra i cappellani dell'ospedale che ligi al
dovere d'ufficio di esigere dal malato la confessione e comunione al
momento dell'entrata, lo trascuravano poi quasi completamente una
volta collocato in corsia. Camillo li metteva alla frusta e li
avrebbe volentieri sostituiti con i suoi preti se non gli fosse stato
impedito da una legislazione ben attenta a difendere i benefici
ecclesiastici e le prebende, ma poco sensibile alla voce dei deboli e
dei bisognosi. Si arrangiò come potè, supplendo dov'era possibile,
insistendo e minacciando quand'era necessario. Alla fine qualcosa
ottenne, ma certamente non come avrebbe voluto.
Si
aggrappò a tutte le occasioni per creare una maggiore sensibilità
verso i valori spirituali e per dare ai malati tutti i conforti della
fede.
C'era
a Santo Spirito l'usanza della comunione generale mensile, che spesso
però si riduceva ad una scadenza puramente formale, utile per
tranquillizzare la coscienza dei cappellani, ma poco giovevole agli
interessati per la scarsa preparazione e la frettolosa celebrazione.
Camillo volle rivalorizzarla premettendole un' efficace catechesi e
celebrandola con particolare solennità così da creare un'atmosfera
di spiritualità e di fervore a cui era difficile sottrarsi.
Proseguendo
nella sua opera di riforma, chiese ed ottenne dal Papa il permesso,
allora eccezionale, di portare ogni settimana l'eucaristia ai malati
che la desideravano. Se di fatto non riuscì mai ad attuare questa
iniziativa fu per la poca disponibilità dei cappellani, a cui
spettava di diritto, e per l'ostilità più generale dell'ambiente
che non voleva essere troppo scomodato. Lui ci soffriva e cercava
almeno di far felici i malati con la sua presenza sacerdotale
celebrando per loro la Messa all'altare collocato sotto la cupola
della corsia Sistina, ogni volta che si fermava di notte
all'ospedale.
UNA CAMERETTA TUTTA PER Sè
Oggi
a noi, abituati a un clima di libertà e responsabilità personale,
tutte queste iniziative potrebbero apparire ovvie, ma ai tempi di
Camillo le cose stavano ben diversamente.
Dovette
superare un mucchio di pregiudizi e di incomprensioni per imporre il
suo stile e il suo ritmo. Venne giudicato « scrupoloso e fastidioso
» da chi era scocciato dal suo zelo apostolico e fu gratificato di
titoli non certamente gentili, tra cui « testa ferrata » e «
insopportabile sfratta guardaroba » passavano per i meno offensivi.
Camillo però non si turbava per così poco: se bisognava rimboccarsi
le maniche per i malati tanto valeva farlo sino in fondo.
Una
consolazione però l'ebbe prima di morire e fu quando a testimonianza
della loro fiducia i Priori di Santo Spirito gli offrirono l'alloggio
nell'ospedale: una cameretta ricavata da un angolo del corridoio del
piano superiore con dei tavolati. Era una cosa eccezionale.
Camillo
ne fu felice e vide in questo « privilegio » un segno che la sua
opera riformatrice stava acquistando dei sostenitori e che qualcosa
si stava muovendo tra le secche della tradizione a favore dei suoi
malati. Quando morì, la cameretta rimase vuota e a nessuno fu
permesso di dormirvi, quasi a significare che si era perso qualcosa
d'insostituibile.
La
famiglia nel frattempo era cresciuta e nuove Comunità erano sorte in
diverse parti d'Italia. Camillo non si stancava di portare in giro la
sua « gamba marcia » e il suo cuore per spronare ciascuno a dare
tutto per i poveri e i malati e a prestare loro ogni servizio con lo
stesso amore e la stessa dedizione con cui avrebbero servito Gesù
Cristo che in loro si era pienamente identificato, come dice Matteo
nel suo Vangelo (c. 25).
E
lui ci credeva veramente e veramente vedeva Gesù nel malato, nel
povero, non perché avesse provato delle esperienze straordinarie o
avesse ricevuto rivelazioni particolari, ma per una conquista sua,
frutto di fede semplice e profonda, di un amore autentico e gioioso.
Era felice di crederlo: ecco tutto! E tale felicità lo portava anche
a comunicarla agli altri e a porre gesti incomprensibili per chi non
riusciva ad entrare nella sua ottica.
SIGNORE MIO, ANIMA MIA
Quando
il primo lunedì di Quaresima partecipando alla predicazione serale
sentiva spiegare il passo del Vangelo di Matteo, lo assaporava in
tutta la sua intensità. Se poi il predicatore non si soffermava,
come avrebbe desiderato, sul « Venite benedetti al Padre mio, perché
ero infermo e mi avete visitato», restava un po' deluso. Allora nel
ritornare a casa non si stancava di ripetere ai compagni che «
quella predica era come un anello prezioso a cui però mancava il
rubino ».
E
mentre ripeteva agli altri « di fare attenzione, servendo i malati,
alla persona del Signore », egli stesso si poneva davanti a loro «
come alla presenza del Signore, a capo scoperto, e non cessava di
baciargli le mani e i piedi, arrivando persino a domandare loro
perdono dei suoi peccati ».
«
Signore mio, anima mia che posso io fare per te? » domandava
preoccupato ad un infermo ributtante e incontentabile un giorno. Una
volta nell' ospedaletto, » dove si portavano i malati ormai
spacciati e per di più puzzolenti per le piaghe o le cancrene, ne
trovò uno così pieno di « brutture » da suscitare orrore e
ribrezzo. Camillo non perse tempo. Temendo di non ricevere
l'occorrente dai responsabili dell'ospedale, corse a casa, alla
Maddalena, prese in cucina la catinella più grande, un bel pezzo di
sapone, un asciugatoio, un mazzetto di erbe aromatiche e tornò
velocemente all'ospedale per lavare e ripulire dalla testa ai piedi
quell'infelice, asciugandogli poi le membra doloranti «così
caramente e delicatamente come fossero quelle stesse di nostro
Signore ».
Una
notte lo sorpresero in ginocchio al letto di un infermo, isolato
nello stessoospedaletto per un puzzolente cancro in bocca da non
poter essere sopportato da nessuno: Camillo standogli sopra « fiato
a fiato », gli diceva parole tanto affettuose da « parer impazzito
d'amore come fosse l'amato suo Signore ».
Ma
la risposta più significativa la diede proprio al Direttore
dell'Ospedale di Santo Spirito, Monsignor Commendatore, quando un
giorno lo mandò a chiamare urgentemente mentre era impegnato a
servire un malato piuttosto difficile: « Dite a Monsignore ch'io sto
occupato con Gesù Cristo, ma come avrò finita la carità, sarò da
sua signoria illustrissima ».
Nè
si può dire che gli infermi e i poveri che curava l'aiutassero a
vedere facilmente in loro la persona di Gesù Cristo. Al contrario lo
rappresentavano piuttosto ma le in quanto proprio all'ospedale veniva
a rifugiarsi e a morire la gente più povera e disgraziata, i senza
casa, i senza famiglia, gli emarginati della società, spesso
difficili nel carattere e nelle reazioni per le miserie e il male che
li tormentava.
Perciò
Camillo non si stancava di ripetere e raccomandare ai suoi compagni
pazienza e amore, fede e coraggio: « non bisogna mai perdere di
vista Dio, ma contemplare il Creatore nella, Creatura ».
NAPOLI, GENOVA E LA «CARA» MILANO
Nel
1587 Camillo aveva accettato di aprire una Casa a Napoli, la prima
fuori Roma, per il servizio all'ospedale degli Incurabili e vi aveva
mandato a dirigerla il primo prete novello della Compagnia, P. Biagio
Oppertis, nativo della stessa città. Con lui appena ventisettenne
scambiava frequentemente delle lettere per guidarlo e chiedergli
consigli, ma andava spesso anche a trovarlo perché lo stimava e lo
amava teneramente. In diciotto anni l'esempio di carità eroica dei
Religiosi nelle case private, negli ospedali degli Incurabili,
dell'Annunziata e di San Giacomo degli Spagnoli, ma soprattutto
durante la peste in Napoli e a Nola (1600), suscitò molte vocazioni
e P. Biagio si trovò circondato da una numerosa comunità: ottanta
professi e altrettanti novizi.
Se
la fondazione di Napoli era stata un po' una sorpresa per tutti e
poteva sembrare un'avventura, dalla fine del 1591 in poi una volontà
cocente di espandersi per raggiungere il maggior numero possibile di
infelici prese prepotentemente Camillo. Così nel giro di pochi anni,
confortato dalla benevolenza di Papa Clemente VIII, decise due
fondazioni al Nord Italia: Milano e Genova.
Soprattutto
Milano gli era cara per il ricordo di carità squisita che vi aveva
lasciato Carlo Borromeo. Vi giunse quasi alla chetichella nel 1594
contro il parere di molti e senza raccomandazioni che non fosse la
sua carità e quella dei suoi compagni. Prese alloggio in piazza
Borromeo e subito offerse la sua opera ai Signori dell'Ospedale
Maggiore, la « Ca' Granda », tanto cara al cuore dei Milanesi.
Intercorsero parecchie trattative mentre Camillo coraggiosamente
faceva la spola tra Roma, Napoli, Genova e Milano per consolidare le
varie fondazioni. E proprio a Milano gli fu offerta la « grande
occasione »: assumersi il servizio completo dell'ospedale,
sostituendo « i serventi delle crociere » e prendendo stabile
dimora all'interno del luogo di cura.
Questo
era sempre stato il suo sogno e corrispondeva pienamente alla sua
intenzione iniziale. Perciò superando ostacoli non indifferenti sia
all'esterno che all'interno dell'Istituto, accettò la proposta: il 3
luglio 1595 tredici religiosi si stabilirono nell'ospedale
costituendo la prima comunità al completo servizio dei malati con
fissa residenza interna.
LA CONTROVERSIA DEGLI OSPEDALI
Era
un impegno che richiedeva continuità di servizio, dedizione
straordinaria e superava la tradizione sino allora seguita di recarsi
all'ospedale mattina e sera per prestare la propria opera senza
responsabilità diretta e senza essere in nessun modo legati ad esso.
E qui scoppiò... la bomba! Camillo si trovò di fronte la resistenza
dei suoi religiosi che giudicarono quella decisione contraria alle
Costituzioni approvate da Papa Gregorio XIV.
Non
tutti infatti, e lo si può ben capire, potevano seguirlo per una
strada che li legava totalmente all'ospedale e li esponeva a tutte le
fatiche, anche le più gravose, nonostante fossero mossi da un
autentico spirito di sacrificio. Loro dovevano fare i conti con una
natura più debole e con una reazione dei sensi che non sempre la
fede poteva sublimare. Non era egoismo o paura: era semplicemente un
guardare la realtà con un po' di buon senso e non solo con il cuore.
Camillo,
e fu questo un suo limite anche se spiegabile con la forza del suo
carattere e la straordinarietà della Grazia ricevuta, non arrivò a
capire immediatamente certe loro « riserve » che, a suo parere,
minavano la totalità della donazione esigita. Talvolta intervenne
con una certa durezza, altre volte si mostrò ostinato nel suo
proposito, ma più spesso li infervorava con il suo esempio e li
spronava con parole amorevoli e forti nello stesso tempo.
Solo
quelli che cadevano ammalati avevano il diritto ad un'attenzione
particolare e per loro si faceva in quattro per accontentarli e
incoraggiarli. « Un buon soldato muore in guerra, un buon marinaio
muore in mare, un buon ministro degli infermi muore all'ospedale»,
soleva ripetere con la cadenza di uno slogan.
FORTI TENSIONI E RESISTENZE
Si
crearono delle forti tensioni. Accettare significava il suicidio
degli individui e dell'Istituto stesso, proclamavano i più prudenti.
Parecchi infatti morivano ogni anno vittime della loro generosità.
Altri, pur accettando il servizio completo, avrebbero voluto lasciare
agli inservienti gli uffici più faticosi e umili. Alcuni, che
avevano precise responsabilità nell'Istituto, approfittando
dell'amicizia e della confidenza che li legava a Camillo, cercavano
di moderare quella « testa ferrata » portando le motivazioni di una
carità che doveva rivolgersi anche ai confratelli per non buttarli
allo sbaraglio con il rischio di bruciare presto e totalmente le loro
energie lasciando i malati senza quell'assistenza diretta che
sembrava loro la più importante.
La
« controversia degli ospedali », come venne chiamata, si trascinò
con fasi alterne per alcuni anni impegnando mente e cuore di tutti
per trovare una soluzione che non mortificasse l'ardore del Fondatore
e nello stesso tempo riportasse la pace e la serenità nell'Istituto.
P.
Oppertis, forte del sostegno della sua numerosa comunità e del suo
prestigio tra i confratelli, legato da una tenera amicizia a Camillo,
cercò una mediazione e chiese che la questione fosse trattata dal
primo Capitolo Generale convocato per l'aprile del 1596. Lo scontro
fu inevitabile.
Camillo
convinto che la decisione presa a Milano ed estesa a Genova
apparteneva di fatto « all'anima dell'Istituto», resistette; gli
altri ventitré religiosi guidati da P. Oppertis la ritenevano invece
contraria alla tradizione e non conforme al documento papale di
approvazione. Fu chiesto anche il parere di esperti e persino il
giudizio e l'arbitrato di Papa Clemente, il quale rispose che « non
si prendessero altri ospedali, ma si continuasse nel servizio degli
infermi di giorno e di notte come in passato ».
Camillo
dovette rassegnarsi al momento e arrivò persino a scusarsi umilmente
davanti al Capitolo « di non aver saputo far più e meglio, però
d'aver agito senz'altra mira che la gloria di Dio e l'aiuto dei
poverelli ».
MALIGNE INSINUAZIONI
Si
poteva pensare che tutto fosse finito e Camillo stesso lo sperava; ma
le richieste e i bisogni dei malati, l'esperienza felice di Milano e
di Genova rimisero ben presto tutto in discussione: erano per lui la
vera voce di Dio e valevano più delle questioni di diritto o delle
riserve dei suoi religiosi più prudenti. In fondo era lui il
fondatore e quindi (pensava) poteva anche imporre a chi volesse
seguirlo una forma di vita come l'aveva intuita all'inizio davanti al
suo crocifisso: ora la Provvidenza gli concedeva finalmente di
attuarla.
Adesso
però doveva fare i conti con P. Oppertis e i quattro Consultori che
gli avevano messo vicino per trattare tutte le faccende di una certa
importanza. Convinto che Papa Clemente non fosse pregiudizialmente
contrario, si mise a persuadere i suoi religiosi più con i suoi
esempi che con le parole. Visse in quegli anni quasi
ininterrottamente alla «Ca' Granda » quand'era a Milano e a S.
Spirito quando si trovava a Roma. Intanto pregava, faceva penitenze e
si dava da fare per ottenere il consenso dei suoi collaboratori.
Stava
già per avere un certo successo, trovando una via d'accordo con P.
Oppertis, quando qualcuno insinuò malignamente che il « servizio
completo » voleva essere il primo passo per impadronirsi delle
amministrazioni degli ospedali. Persino il Papa si lasciò
influenzare e lo disse apertamente a Camillo che soffrì immensamente
e respinse decisamente l'insinuazione.
Convinto
che la carità non conosce riserve ritornò alla carica nel secondo
Capitolo Generale del maggio 1599, ma tutto rimase sospeso come
prima: Camillo nel voler « pigliare » gli ospedali in
considerazione del bene unico dei malati, gli altri nel resistere in
nome del buon senso e di un'assistenza più diretta agli infermi,
senza sfibrarsi in lavori di facchinaggio e legarsi totalmente
all'ospedale.
UNA VIA D'USCITA ONOREVOLE
Nel
1600 P. Oppertis, sempre impegnato a superare la « controversia »,
propose una nuova « formula » con la quale si concedeva a Camillo
l'abitazione e il servizio completo negli ospedali, fatta riserva per
« le fatiche grosse », e l'esonero dalle nuove disposizioni per i
già professi che non si sentivano di accettarle. Fu convenuto di
farla sottoscrivere da tutti i religiosi e di presentarla poi al Papa
per l'approvazione.
Camillo
stesso con i Consultori si mise a viaggiare per spiegare ai suoi
religiosi i contenuti del compromesso e ottenere la sottoscrizione.
Riuscì quasi miracolosamente a farla accettare da tutti. Quando
tornò a Roma, anche se aveva dovuto rinunciare a qualche cosa, si
sentiva ormai sicuro di aver partita vinta sull'essenziale. Infatti
il 29 dicembre 1600 Papa Clemente VIII, dopo il parere favorevole di
una commissione di studio, in cui Camillo profuse tutte le sue
energie e fece pesare le sue esperienze, approvò la « nuova formula
di vita».
Camillo
ottenne che i suoi religiosi, padri e fratelli, servissero
spiritualmente e corporalmente i malati degli ospedali abitando in
essi giorno e notte e li impegnò a non mutare questo modo di servire
gli infermi se non per renderlo ancor più impegnativo. E per
dissipare ogni dubbio o insinuazione di particolari interessi, li
obbligò con voto «a non operare, né per nessuna ragione
consentire, di avere la direzione né curare l'amministrazione degli
ospedali, per darsi interamente e puramente al servizio dei malati».
NUOVE FONDAZIONI
Terminava
così «la battaglia dei giganti» con una facile conciliazione tra
il «cuore» di Camillo e la «mente» degli altri: l'Istituto ne
usciva rinvigorito e rilanciato. In pochi anni le fondazioni si
moltiplicarono: Bologna, Firenze, Ferrara, Messina, Palermo, Mantova,
Viterbo, Bucchianico, Chieri, Borgonovo, Caltagirone. Quando nel 1607
Camillo rinunziava al generalato, si contavano ben 242 religiosi
professi di cui 88 preti e altrettanti, o poco più, fratelli
infermieri, il resto chierici studenti. I novizi erano più di 80.
A
dimostrazione che nonostante la «controversia» tutti si erano
impegnati a fare il proprio dovere con carità squisita e spesso
anche eroica, soprattutto in tempo di peste, rimane il fatto che in
questi 23 anni dalla fondazione ben 135 religiosi erano morti
offrendo la propria vita per i malati.
Camillo
frattanto non aveva mai cessato di dedicare anche i più piccoli
ritagli di tempo ai suoi malati, senza lasciarsi frenare dalle
questioni o dalle pratiche burocratiche: lo spingeva quasi una forza
sovrumana che meravigliava e trascinava all'azione. Ma fino a quando
ce l'avrebbe fatta?
MORIRE D'AMORE
Proprio
bene non stava nemmeno lui, e non solo per la piaga al collo del
piede destro che con il tempo si era talmente inasprita da obbligarlo
a trascinare la gamba come poteva e a scuoterla per terra con forza
illudendosi di vincere il dolore, ma anche per altre infermità che
si erano mano mano aggiunte procurandogli grandi sofferenze.
LE CINQUE CAREZZE DIVINE
Ancora
a S. Giacomo aveva rimediato un'ernia inguinale che tentò di
contenere con un cinto di lamine di piombo snodabili applicate a una
striscia di ruvida canapa: «segno della schiavitù ai malati», lo
chiamava scherzosamente. Costretto dal suo stesso ufficio a un
continuo movimento, per 25 anni patì le pene dell'inferno per certi
grossi calli sotto le piante dei piedi, ma, secondo le sue categorie
spirituali, dovevano ricordargli ad ogni passo di essere in croce con
i piedi trafitti, «volendo Nostro Signore che mi ricordi diceva
che questa terra non è la mia patria e perciò aspirando al cielo mi
affretti con le buone opere a guadagnarmi il palio e la corona».
Dal
1604 alla morte per dieci anni andò soggetto a coliche renali che lo
rendevano uno straccio nei momenti più acuti delle crisi, ma
secondo lui gli andavano bene perché «lo avvezzavano a servire il
Signore senza alcuna sorta di diletto». A forza poi di
inginocchiarsi per terra nei vari servizi ai malati gli erano
cresciute certe protuberanze cartilaginose alle ginocchia che gli
rendevano assai faticoso il piegarsi.
Camillo
chiamava questi malanni, con un'immagine tipicamente sua, «le cinque
misericordie o carezze divine», e sapeva anche scherzarci sopra con
spirito bonario e faceto: «Il Signore mi ha lasciato senza piaghe
solamente le mani, perché se avessi avute impiagate anche queste,
non avrei potuto esercitarmi in beneficio dei poveri».
GLI STRAORDINARI DELLA CARITA'
Non
mancavano di tanto in tanto nemmeno gli... straordinari per
completare il conto, come quando si prese, durante un'epidemia; una
infezione cutanea tormentosa che non lo lasciava dormire né di
giorno, né di notte. Ci volle tutta l'autorità del Superiore per
costringerlo a fermarsi a letto e per fargli capire che aveva bisogno
di riposo.
Riposo?
roba di lusso, roba da signori, non certamente per lui che aveva
fatto voto di «servire tutti con ogni carità». E se non tutti,
moltissimi riuscì a raggiungere e a beneficare, su e giù per
l'Italia, nonostante la «gamba marcia», a fondare nuove comunità
ospedaliere e a donare ai malati, ai poveri quello di cui avevano
diritto: assistenza e pane.
Napoli,
Milano, Genova, Bologna, Firenze, Ferrara, la Sicilia e altre città
della penisola potrebbero ancora raccontare i gesti, le parole, i
sospiri angosciati di fronte a una miseria e a una sofferenza che
superavano le sue umane capacità e gli dilatavano anche fisicamente
il cuore per la passione e il tormento di non poter arrivare a tutto.
«lo sto mangiando pane di cordoglio sbottava ogni tanto sconsolato
a vedere soffrire queste membra di Cristo, senza poter prestare loro
quell'aiuto di cui abbisognano».
Eppure
non si dava mai vinto di fronte agli ostacoli e alle difficoltà che
gli si presentavano nel servire i sofferenti, nemmeno davanti agli
ordini drastici di alcuni Prelati romani i quali non avrebbero voluto
che si interessasse dei poveri e mendicanti sfrattati da Roma in modo
inumano durante la carestia del 1590, e riuscì a salvarne parecchi
modificando non poco la situazione. Nei momenti più gravi mise a
loro disposizione perfino la casa della Maddalena e non badò a spese
pur di rifocillarli e vestirli.
A
Milano nella Ca' Granda, come a Roma, spesse volte lo si vide
raschiare sotto i letti con una paletta di ferro di sua invenzione il
pavimento sudicio per i rifiuti incrostati e maleodoranti.
LE SAGRE DELLA CARITA'
Durante
le epidemie andava di persona a scovare i malati rintanati nelle
grotte o negli anfratti dei vecchi monumenti romani in decadenza.
Le
epidemie, questi flagelli che si abbattevano sulle popolazioni
indifese sotto forma di peste, tifo petecchiale, febbri putride e le
decimavano, rappresentavano per lui e i suoi religiosi i «momenti
forti» della testimonianza evangelica. Le chiamava scherzosamente
«sagre della carità», anche se spesso ci si giocava la vita e
qualcuno soccombeva.
La
prima si celebrò a Roma nell'estate del 1590 ed ebbe per teatro le
Terme di Diocleziano dove erano sistemati alla rinfusa in pietose
condizioni igieniche i lavoratori della lana e della seta chiamati
dal Nord da Sisto V. Favorite dal caldo e dalla sporcizia scoppiarono
febbri malariche e tifoidee. Camillo e i suoi furono i primi a
rendersene conto e a organizzare i soccorsi, non dando tregua alle
Autorità perché intervenissero decisamente con sussidi e rimedi
efficaci e buttandosi senza risparmio nell'assistenza ai colpiti.
Un
Cardinale lo fermò un pomeriggio per strada chiedendogli come
stessero i suoi malati, Camillo se ne sbrigò in fretta: «meglio»,
rispose riprendendo il cammino. Ma poiché il Cardinale voleva
saperne di più, «Monsignore gli disse alzando il mantello e
mostrando un pentolino la prego di non trattenermi di più perché
passa l'ora di questo rimedio che porto a un malato», e prosegui la
sua corsa verso chi in quel momento aveva più bisogno.
PER QUESTO CI ANDIAMO
Alle
febbri estive seguì la carestia che riversò sulla città ondate di
mendicanti in cerca di cibo. Non riuscendo spesso a trovarne nemmeno
tra i rifiuti di chi poteva, si ammalavano e morivano per le strade o
tra i ruderi del Palatino, del Foro, del Colosseo, delle Terme di
Caracalla dove cercavano un rifugio. Camillo li andava a cercare tra
le rovine con torce accese per esplorare anche gli angoli più bui e,
salutandoli amorevolmente con un «Dio vi salvi, figlioli di Dio»,
li aiutava a uscire, li ripuliva, li rifocillava e spediva i più
gravi all'ospedale.
Era
tale la fame che talvolta doveva strappare loro di bocca la paglia o
l'erba che masticavano come bestie. Erano sforzi sovrumani da cui si
usciva stremati di forze e nauseati per i miasmi. Cinque compagni ci
lasciarono la vita, ma anche lui pagò la sua parte di sofferenze.
Altre
«sagre» seguirono nella stessa Roma, in altre città d'Italia
(Napoli, Milano, Nola) e perfino sui campi di battaglia di Ungheria e
di Croazia dove la Croce Rossa fece la sua prima apparizione accanto
ai feriti e ai moribondi.
A
Milano nel novembre 1593 si parlava di peste. Camillo, appena lo
seppe, prese sette compagni e a cavallo si diresse in gran fretta
verso la città lombarda temendo che i «cordoni sanitari» gli
chiudessero il passaggio. Per strada gli abitanti dei paesi che
attraversavano sentendo che erano diretti a Milano si premuravano di
avvertirli che avrebbero incontrato la peste. Camillo spronando il
cavallo rispondeva invariabilmente trasfigurato: «Per questo ci
andiamo!», lasciando di stucco i presenti.
Tante
fatiche e tanti contatti con il male non potevano non lasciare il
segno. Gli ultimi sette anni furono un vero calvario. Un nuovo
disturbo nel frattempo si era aggiunto ai precedenti: ogni volta che
doveva prendere cibo provava nausea e vomito e la digestione era
accompagnata da terribili dolori di stomaco. «Ti valga per quando
hai mangiato con tanto tuo gusto», diceva ironicamente a «fràte
asino» indicando il suo corpo, ma intanto questo deperiva a vista
d'occhio.
Capiva
che ormai gli restava ben poco da vivere e, facendo forza a se
stesso, nascondeva per quanto poteva il suo male per paura che il
medico gli ordinasse un regime particolare di vita e soprattutto gli
proibisse di esercitare la carità. Ma la malattia allo stomaco lo
indebolì talmente da non riuscire più a reggersi in piedi. Si mise
a letto contrariato ma non rassegnato: la mente era lucida, così
poteva sempre colloquiare con il crocifisso che si era fatto
dipingere su un piccolo quadro tenuto ai piedi del letto ed
interessarsi dei suoi malati.
Un
giorno di sole ebbe il permesso di fare una visita a S. Spirito. La
voce si diffuse immediatamente: «è tornato P. Camillo!». Tutti
volevano vederlo, toccarlo. «Fratelli miei rispondeva ai loro
saluti volesse Dio che io morissi qui tra voi, che questo è stato
ed è tutto il mio desiderio», Nel congedarsi non poté trattenere
le lacrime: «Parto col corpo, ma vi lascio il mio cuore», disse
alzando le braccia come per abbracciare tutti.
LA SERA DEL 14 LUGLIO
Tornò
alla Maddalena disposto a fare anche quest'ultimo sacrificio. Ogni
giorno, finché non si indebolì anche la voce, ritornava a
raccomandare ai suoi religiosi la fedeltà ai malati. Ai primi di
luglio ricevette in forma solenne il Viatico dalle mani del Card.
Ginnasi, protettore dell'Ordine.
Poi
una sera, il 14 luglio 1614, poco dopo 1'Ave Maria, mentre tutti
pregavano intorno al suo letto, silenziosamente si spense. Aveva 64
anni. Quando la stessa notte due medici di S. Spirito aprirono il
cadavere per le operazioni di conservazione, trovarono lo stomaco
ripieno di un misterioso liquido nerastro accumulato nei lunghi anni
di servizio al letto dei malati e un cuore «bello da sembrare un
rubino e così grande da meravigliare tutti».
Soltanto
nel 1746, dopo minuziosi esami canonici, la Chiesa riconobbe
ufficialmente il suo eroismo e la sua santità. Ma i poveri, i
malati, quelli che con il linguaggio poetico della carità chiamava
«pupilla degli occhi di Dio», l'avevano intuito molto prima.
Ogni
uomo è figlio del suo tempo, e Camillo della sua epoca assimilò ed
espresse tutti i caratteri e le contraddizioni: il senso
dell'avventura e l'angosciosa ricerca di Dio, la passione per la
guerra e il gioco e la sincerità della conversione e della
penitenza, il disprezzo dell'uomo comune umiliato da una classe
godereccia e privilegiata e l'amore per l'uomo povero ed infermo
ricercato e curato da una carità cristiana senza riserve. Raggiunto
dalla Grazia di Dio, non fece più questione di prezzo o di misura,
ma concentrò tutte le sue energie sul più debole e indifesa per
dedicargli non solo la sua vita, ma anche un'intera Istituzione che
gli sopravvisse nel segno della consacrazione al malato.
Così
proiettò anche nel futuro un'opera che, iniziata quasi per caso e
ostacolata alle sue origini, si presentò nei secoli come
testimonianza concreta del Cristo che «passò facendo del bene e
risanando gli infermi, recando il lieto annunzio ai poveri, la
libertà ai prigionieri e curando le piaghe dei cuori affranti» (dal
Vangelo di Luca).
LUNGO I SECOLI
Da
quel lontano luglio 1614, ora correndo fedelmente lungo la pista
tracciata da Lui, ora sbandando sotto la pressione di fatti e
avvenimenti storici che toccarono da vicino tutte le strutture della
Chiesa e della società, i suoi figli riuscirono a mantenere viva
questa fiamma della fedeltà al malato. Essa si ridusse a lucignolo
fumigante verso la fine del secolo XVIII, ma ritornò a splendere
luminosa nella seconda metà del secolo seguente (XIX) per opera di
un dinamico sacerdote veronese Cesare Bresciani che volle
identificarsi in Camillo anche nel nome e ne riprodusse i gesti e ne
rigenerò l'opera.
Nel
1842 proprio da Verona che, secondo la tradizione, era stata solo
lambita dal passaggio di Camillo, si sprigionò una nuova carica di
interesse per i malati e i poveri degli ospedali, dei ricoveri, delle
case private e in breve tempo la croce rossa di Camillo ritornò ad
essere segno di conforto e di speranza.
E
si trattò veramente di una rinascita prodigiosa, anche se l'Ordine
Camilliano era riuscito, soprattutto per opera del Generale P. Luigi
Togni, a sopravvivere alle debolezze interne e alle violenze esterne
in alcune comunità dell'Italia centromeridionale e della
LiguriaPiemonte. Infatti in poco più di cento anni ebbe un risveglio
e uno sviluppo meraviglioso che lo portò a rifiorire dove già era
piantato e a radicarsi fortemente e a diffondersi nel Lombardo
Veneto, Trentino, Emilia Romagna sotto la spinta di uomini generosi
che nei luoghi di cura o dove spesso imperversava il colera cercarono
in tutti i modi di essere presenti e di supplire alle gravi
deficienze delle strutture statali.
Le
stesse soppressioni degli Istituti religiosi che accompagnarono i
primi passi del nuovo Regno d'Italia non solo non riuscirono a
spegnere
questa
nuova carica di carità, ma quasi provvidenzialmente la trapiantarono
fuori d'Italia, nelle vicine nazioni europee e persino, per un certo
periodo, nel Sudan africano.
AL SERVIZIO DELLA PERSONA UMANA
Il
resto è storia recente, quasi cronaca di un'espansione a largo
raggio che ha raggiunto mano mano in questi ultimi settant'anni tutti
i continenti recando il «segno» di una consacrazione specifica ai
malati e ai sofferenti di ogni genere.
E'
vero, oggi gli ospedali sono stati modernizzati, le strutture
sociosanitarie potenziate, le tecniche medicochirurgiche portate ad
un alto livello di specializzazione, l'assistenza pubblica in molti
Stati provvede a quasi tutti i cittadini, ma non è stato risolto il
problema del malato uomo, anzi spesso si è acutizzato sotto la
pressione di forze che l'hanno ridotto a un «caso clinico» o
aggravato per l'insufficienza dimostrata da un sistema
scientificamente evoluto ma umanamente povero.
Spento
lo spirito animatore della carità o della sensibilità umana, gli
interventi sul malato si riducono spesso a fredde applicazioni di
tecniche e di terapie che, se curano l'organismo, mortificano il
senso umano del paziente trascurato nei suoi diritti fondamentali di
uomo che soffre, che vuol «sapere», che ha bisogno di una «persona»
che gli sia vicina anche spiritualmente.
Ecco
perché l'opera dei figli di S. Camillo non è finita: la loro
presenza negli ambienti di cura o accanto ai poveri e agli emarginati
è testimonianza di fede nei valori più profondi dell'uomo, di
qualunque uomo; è una risposta concreta alle sue esigenze spirituali
e un riconoscimento della sua dimensione religiosa insopprimibile.
DIMOSTRAZIONE CONCRETA DI DIO
«Con
noi e attraverso noi Dio vuole entrare nel mondo, essere benevolo per
mezzo nostro scrive Ladislaus Boros si è lasciato prendere da
questo rischio inaudito. Ed è qui che sta il compito essenziale del
cristiano: essere la bontà di Dio, perché gli uomini riconoscano
che c'è in generale bontà e benevolenza, che l'essere, «nonostante
tutto», è buono. Nella misura in cui siamo cristiani, dobbiamo
procurare agli altri la prova che il domani sarà un giorno migliore.
Dio
si fa conoscere come infinita bontà e infinito affetto. Ci sono
prove di Dio che confutano l'incredulità in maniera logicamente
perfetta. Ma nelle crisi difficili dell'esistenza umana del nostro
tempo e più ancora forse del futuro, non significano nulla o solo
molto poco.
In
tempi simili ci deve essere un uomo, la cui esistenza almeno sia un
«indice», un «segno» che l'umanità è rispettata, onorata,
accolta in una amicizia incondizionata; che quindi esiste veramente
Colui che rende tutto ciò possibile: Dio. Perciò in un tempo in cui
l'immagine di Dio si oscura, è così importante che il nostro
donarsi all'altro, la nostra esistenza per l'altro, divengano per gli
altri la «dimostrazione di Dio» (L. Boros, Incontrare Dio
nell'uomo, Queriniana Brescia 1971).
PROVOCAZIONE EVANGELICA
Il
Camilliano, nella sua specificità di prete o di fratello infermiere,
accanto al malato, che fra tutti è il più debole ed esposto al
rischio della negazione di Dio, accoglie questa sfida dei tempi e si
offre come l'uomo la cui presenza è «testimonianza» della
benevolenza di Dio, «segno» che l'umanità, anche nella situazione
di maggior debolezza e inefficienza, è rispettata, accolta, onorata
in un'amicizia incondizionata.
La
sua è una scelta volontaria e specifica di fedeltà al malatouomo
sull'esempio di Camillo e nello stesso tempo è una provocazione
evangelica di giustizia e di carità in ambienti e fra uomini spesso
disumanizzanti. Così la sua vita consacrata al servizio dei malati
nella povertà, castità, obbedienza si fa garanzia dei valori umani
e cristiani del sofferente e continua a dispensare il «dono della
carità» ricevuto da Camillo in un mondo che, nonostante i suoi
innegabili progressi, sta diventando insensibile, freddo e povero di
amore autentico.
Ci
sono ancora giovani, e meno giovani, disposti a raccogliere
coraggiosamente questa sfida ed essere «uomini che sanno amare»?
Sulla Parola, di Dio credo proprio di si. Tu che stai per concludere
questa lettura potresti essere uno di loro.
Se
ti interessa, puoi scrivere a
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PROVINCIALE VOCAZIONI
Religiosi
Camilliani Comunità "Piccolo Gregge" Via Gerenzano, 27
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Dal
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