Ogni
volta che si evoca un santo, viene in mente il nome di un capolavoro;
eppure quale fu la loro ambizione? Rispondere all'amore di Dio, amare
il prossimo come se stessi – ciò presuppone che si siano anche
amati umilmente, così come li aveva fatti Dio; e che, al di là di
se stessi, abbiano amato come ci ha amato Cristo. In fin dei conti,
lasciando che Egli agisse in loro, persone di tutte le razze e di
tutte le lingue, hanno lasciato, nel nostro mondo, una scia di
assoluta bellezza.
(Régine
Pernoud)
I
cappuccini, nel 1972, hanno ricordato il 350 anniversario del
martirio di un loro confratello, S. Fedele da Sigmaringa. Con decreto
del Vicariato di Roma, 6 febbraio 1973, in Via Monti di Pietralata,
Roma, settore nord, venne costituita la parrocchia intitolata a lui,a
S. Fedele martire. Chi è costui? Una risposta, pur breve, tuttavia
sicura ed esauriente, la troverai leggendo queste pagine. Alla fine
della lettura, ti accorgerai di aver fatto conoscenza con un Santo «
mai sentito ». Proverai ammirazione per un grande missionario e per
un eroico martire. Spontaneamente, ti sentirai convinto a metterti in
ginocchio per pregarlo e a metterti con impegno ad imitarlo. E'
quanto ti augura, con cordialità e sincerità, il tuo parroco.
Padre
GEREMIA LUNARDI, dei cappuccini
Roma,
24 aprile 1973, nella festa di S. Fedele martire.
IN
UNA POZZA DI SANGUE
Ore
9 della mattina del 24 aprile 1622, quarta domenica dopo Pasqua. Sul
pulpito della chiesa di Seewis (Svizzera), affollata di pochi fedeli
e da molti calvinisti, è salito un cappuccino, per la predica. E'
un frate di statura mediocre, dalla faccia piuttosto rotonda e ben
colorita, con fronte spaziosa, occhi vivaci, barba corta e ricciuta
di color biondo. Il suo nome di religioso: padre Fedele da
Sigmaringa. Sulla sponda del pulpito era stato collocato un
biglietto, su cui era scritto: Oggi predicherai e non più. Padre
Fedele, in silenzio, lo legge. Resta pensoso, un istante. Senza la
minima esitazione, inizia la sua predica, svolgendo un tema desunto
dalla lettera di Paolo apostolo agli Efesini: Un solo Signore,
un'unica fede, un solo battesimo (Ef 4,5). La voce non tradisce
emozione: ha il tono franco di sempre, che scaturisce spontaneo dalla
convinzione. Espone con chiarezza, con pronuncia spiccata e chiara,
all'uditorio inquieto. «Basta! Smettila!» è il rabbioso invito di
alcuni. «Fuoco! fuoco!», grida un soldato, entrando in chiesa.
L'uditorio scatta in piedi, alcuni presi dal panico, altri da
soddisfazione rabbiosa. Fischiano le palle, crepitano le munizioni
che erano state apprestate precedentemente, in segreto, nel paese in
cui covava la ribellione. Si dà ordine al padre Fedele di scendere
dal pulpito. Nella chiesa e fuori, è un pandemonio.
I
soldati, a difesa della chiesa, cadono, uccisi. I pochi cattolici,
terrorizzati, scappano qua e là, inseguiti, alcuni anche uccisi.
Padre Fedele, dopo avere sostato in preghiera accanto all'altare,
esce per la porta della sacrestia. Lo accompagna un capitano
austriaco, Gioacchino Colonna. Assieme, percorrono un sentiero
tortuoso, che li allontana dalla chiesa, verso Grusch, donde erano
venuti. Quasi subito, si trovano accerchiati da venticinque uomini,
armati di mazze ferrate, di forche, di spade. Sono calvinisti,
appartenenti a una setta protestante, che da tempo erano in lotta con
i cattolici della zona. A padre Fedele, preso a pugni, a calci, a
percosse, propongono un dilemma: o apostatare dalla fede cattolica, o
lasciarsi uccidere; o ripudiare la Chiesa di Roma, o sottostare alla
morte. La risposta del frate è netta, immediata. Egli precisa di
trovarsi in quel territorio non per farsi eretico, ma per estirpare
l'eresia e far conoscere a tutti la vera ed unica religione, quella
cattolica. Uno dei rivoltosi, un ceffo da galera, violento, sguaina
la spada e colpisce. La testa di padre Fedele gronda sangue. Il frate
cade in ginocchio, pregando Dio: chiede perdono per i suoi nemici,
che non sanno quello che fanno; chiede a Gesù pietà per sé;
implora dalla Madonna assistenza. Sul povero cappuccino cadono colpi
di scure e lame di spade. Una picca gli trapassa il petto. Gli si
fracassano le costole. Tutto il corpo è segnato da squarci e
ferite. Gli si tagliuzzano le gambe. La testa, sul lato sinistro, è
frantumata. Attorno, sul campo al ciglio della strada, la terra è
rossa di sangue. I feroci calvinisti godono brutalmente ad insultare
quel povero corpo. Sfogata tutta la loro rabbia, s'allontanano,
lasciando a terra l'ucciso, il martire. Sono circa le 11 del mattino.
Padre Fedele contava 44 anni. Dieci anni prima, quando indossò
l'abito cappuccino, il maestro di noviziato padre Angelo Visconti da
Milano, prendendo lo spunto dal nuovo nome impostogli « Fra Fedele
», aveva iniziato il discorso con il versetto dell'Apocalisse: Sii
fedele sino alla morte, e ti darò la corona della vita (Ap 2,10).
Padre Fedele, in una pozza di sangue aveva mantenuto la consegna:
fedele, sino alla morte.
IN
RIVA AL DANUBIO
Sigmaringa,
cittadina della Svevia, nella Germania sud-occidentale, è disposta
su un colle, a 538 metri sul livello del mare. Capitale dell'antico
principato Hohenzollern-Sigmaringen, dominata da un castello, vede
scorrersi ai piedi il Danubio, dallo scorrere placido, quasi
insonnolito. Il titolo più ambito della cittadina sveva è quello
di essersi sempre mantenuta «una città cattolica» e di non aver
mai tollerato entro le proprie mura un predicante di eresie. Non
aveva ceduto neppure alla bufera della riforma protestante. Mentre la
Germania accettava la predicazione di Lutero, trasmessa nei paesi
vicini dai suoi seguaci Calvino e Zwinglio, Sigmaringa restava fedele
al Papa di Roma. Quella dei Roy era tra le famiglie più distinte
della città, oriunda dai Paesi Bassi. Dai Roy, nel 1578,
probabilmente nei primi giorni d'ottobre, nacque S. Fedele, il
martire di Seewis. Suo padre, Giovanni, questore, console e pretore
di Sigmaringa, aveva sposato Genoveffa Rosemberger di Tubinga, che lo
fece padre di numerosi figli. Ne ricordiamo due: Giorgio, che divenne
sacerdote cappuccino, padre Apollinare (1584-1629); Marco, che seguì
il fratello Giorgio, diventando lui pure sacerdote cappuccino, padre
Fedele. Fu una nascita difficile, quella di Marco. Sua madre,
trovatasi in estremo pericolo di vita, si dichiarò disposta a
morire per lasciar sopravvivere la sua creatura. Provvidenza volle
che fossero salvi madre e figlio. E fu davvero provvidenziale quella
buona madre, che educò egregiamente tutti i suoi figli, sostenuta
nella delicata opera educatrice dal marito. Marco, ormai cresciuto,
frequentò le elementari, rivelando intelligenza e straordinaria
memoria. Incoraggiato dai maestri e attratto dall'amore alla scienza,
proseguì negli studi umanistici: pure in essi con grande successo.
Sopravvenne il dolore a irrobustire la personalità del quasi
ventenne Marco. Nel 1597, gli muore il papà, inaspettatamente. Poco
dopo, la mamma passa a nuove nozze: «un matrimonio — scriverà le
stesso S. Fedele nel suo testamento — che a me ed ai miei fratelli
non fu eccessivamente gradito, e che non riuscimmo a spiegarci». Il
peggio fu che, poco dopo, la mamma morì. Marco si recò
all'università di Friburgo, nella Brisgovia, per lo studio della
filosofia e delle lettere. Ne uscì,a 23 anni, 1601, laureato in
filosofia, brillantemente addestrato a maneggiare la spada e il
fioretto, dati anche i tempi malsicuri. Per altri tre anni s'impegnò
allo studio del diritto civile e canonico, esercitandosi pure in
dispute, meritandosi la benevolenza e la stima dei professori. Amante
del bello, si sentì attratto alla musica. Vi si appassionò, tanto
da riuscire a muovere abilmente le dita su ogni strumento musicale.
Ciò gli era un hobby, che lo sollevava dai severi impegni di
studio. L'impegno, tuttavia, più deciso era, per Marco, quello di
essere un cristiano esemplare. In ciò l'aiutavano l'educazione
avuta in famiglia e la sua buona volontà. E di questo s'accorgevano
i suoi compagni di studio e quanti l'avvicinavano. Si poteva guardare
al suo domani con la più grande fiducia.
GUIDA
TURISTICA
Marco,
ormai giovanotto, esperimentò uno di quegli intensi desideri che
provano i popoli del nord Europa: mettersi in viaggio verso i paesi
del sole, per godere di esso, ma, più ancora, per venire a contatto
con le bellezze del paesaggio, con i monumenti di storia e d'arte di
civiltà ormai passate, con mentalità, usi e costumi di altri
popoli. Tanto più che uno dei suoi più affezionati colleghi di
università, figlio del barone Giovanni Willitem von Storingen,
aveva deciso, con altri suoi due compagni nobili tedeschi, di fare un
viaggio per l'Europa, a motivo d'istruzione. Certo, un viaggio
turistico-culturale del genere domandava tempo, mezzi e pure una
buona dose di coraggio, conoscendo i mezzi di trasporto di quei
tempi. Il fatto è che la comitiva, capitanata da Marco
ventiseienne, guida soprattutto prudente ed educatrice, intraprese il
viaggio, nel 1604. Marco, desideroso pure di apprendere bene le
lingue italiana e francese, si assunse la responsabilità del giro
d'Europa, anche per lasciare più tranquille le famiglie dei
compagni. Il giro durò sei anni, concludendosi nel 1610. Furono
visitate le principali città d'Italia, di Francia, di Spagna. In
Italia e Francia, la precedenza fu data ai santuari cristiani,
specialmente mariani. A Roma, città dei papi, la fermata fu più
lunga che in altre città. C'era tanto da vedere e da godere. Non
solo la varietà del paesaggio, i ruderi superstiti della Roma
pagana, ma soprattutto i ricordi e i monumenti cristiani.
Sorprendente, per la comitiva, una circostanza eccezionale: nel breve
spazio di 49 giorni, assistette alle cerimonie dell'incoronazione di
due papi, Leone XI e Paolo V, rispettivamente 10 aprile 1605 e 29
maggio. La visita di Roma lasciò il più incancellabile ricordo:
basiliche, catacombe, ipogei dei martiri, ricordi di santi.
Coerentemente, la comitiva si comportava con spirito cristiano. Di
questo Marco era esempio e promotore: recitava le sue preghiere,
mattina e sera; quotidianamente partecipava alla messa, pellegrinava
alle chiese stazionali; si confessava e comunicava spesso; nei giorni
di quaresima si flagellava e cingeva il cilicio; donava con carità
ai poveri; si dedicava ad opere di bene e di apostolato. Ne
documentò il comportamento un compagno di viaggio, il barone von
Storingen. Adempiuti i suoi doveri di pietà, Marco diventava
l'animatore del gruppo, che accompagnava a visitare cose belle, a
godere dell'arte, a conversare con uomini di scienza, a intavolare
dotte discussioni con i più distinti professori di università.
Così ne guadagnava la loro cultura e si procacciavano nuove e
preziose cognizioni, coltivavano i loro studi e apprendevano con
maggior perfezione la lingua. Anche a Parigi partecipavano a
pubbliche dispute scientifiche, con interventi rivelatori di vasto
sapere e provocatori di vera stima. Quando s'arrivò a concludere il
lungo viaggio, a malincuore la comitiva si staccò da Marco: era
stato una guida sicura, uno splendido compagno, dal quale aveva
imparato il godimento del bello, l'amore alla cultura, il dialogo con
altri popoli, e, soprattutto, il comportamento cristiano, dotato di
serena disinvoltura e di esemplare compostezza. Davvero, erano stati
sei anni di scuola, di quella scuola autentica che insegna a vivere.
AVVOCATO
Rientrato
in patria, nella natale Sigmaringa, Marco Roy riprese gli studi. Il 7
maggio 1611, a Willingen, consegue la laurea in legge: dottore in
«utroque iure», cioè nel diritto ecclesiastico e in quello
civile. Il suo nome (dott. Marco Roy) è registrato nell'albo degli
avvocati. Il suo nuovo mondo è, ora, quello forense, fra cause e
liti, a servizio del diritto, a difesa della legge. A Esisheim,
cittadina dell'Alta Alsazia, il dott. Roy dà il via alla sua
carriera legale. Si fanno subito palesi la sua perizia, la nitidezza
d'espressione, la forza delle argomentazioni, la logica stringente, e
(dote strana in un avvocato) la sollecitudine nel portare a termine
le cause. Bravura e onestà, prudenza e lealtà orientano un
grandissimo numero di clienti allo studio dell'avvocato Roy. Uomo di
riflessione e di lavoro, si guadagna stima, ammirazione, inviti. Ha
delle preferenze: le cause dei più bisognosi, dei più indifesi,
dei più meritevoli di assistenza. Comprende, presto, i pericoli
della carriera, le nascoste insidie della vita forense. Il suo sforzo
resta sempre quello: fedeltà al dovere, dirittura morale.
Nonostante tutto e tutti. Un brutto giorno, un suo avversario gli
buttò una sfida: sospendere la difesa di una causa, che per lui,
avvocato Roy, era una causa giusta; o, almeno, tirarla per le lunghe,
e così guadagnarci di più. Marco sentì vera paura del mondo in
cui viveva. Decise di piantare tutto e di ritirarsi da quell’inferno.
Chiuse il suo studio di avvocato, si ritirò nel silenzio a pregare,
a domandare a Dio di veder chiaro il proprio domani. Decise di
chiudersi in un convento. Tanto più che, dinanzi a sé, aveva
l'esempio del fratello Giorgio, lui pure laureato a Friburgo, fattosi
cappuccino nel 1604, con il nome di Fra Apollinare. Nel 1612,
l'avvocato Roy, anni 34, chiede al superiore provinciale dei
cappuccini della Svizzera di essere ricevuto come frate. Il superiore
non ne resta convinto, prospettandosi l'impossibilità che lui,
avvocato già celebre, ormai con i suoi anni, si prepari e si adatti
alle esigenze di una vita in convento. Gli consiglia di rifletterci
di rifletterci meglio, perché nell'Ordine dei cappuccini tale è
la vita, nella penitenza e nel lavoro, che c'è poco da scherzare.
L'avvocato Roy ci ripensa, ma la decisione resta sempre quella:
consacrarsi più strettamente a Dio, tra i cappuccini. Nell'attesa,
si staccò da tutte le convenienze sociali, chiese e ottenne l'abito
clericale, deciso nel frattempo di farsi sacerdote. In pochi giorni,
con speciale concessione della Santa Sede, si preparò a ricevere
gli ordini sacri. Nel settembre 1612, il vescovo suffraganeo di
Costanza, Mons. Giacomo Murgel, lo consacrò prete, ministro
dell’altare. Il mondo, che il dott. Roy s’era lasciato alle
spalle, non tardò a fare i suoi commenti: giudicò vera pazzia che
un giovane del genere avesse chiuso in tal modo una brillante
promettente carriera. Altri, i buoni, ne lodavano Dio ed esaltavano
il coraggio del Roy.Fatto sacerdote, Marco Roy si ripresentò ai
cappuccini e rinnovò domanda di farsi frate, costi quello che
costi. Dinanzi a tanta decisione, ai cappuccini non restò che
aprire la porta del convento. Il sacerdote Roy divenne cappuccino.
PADRE
FEDELE
Il
30 settembre 1612, il neo sacerdote Roy viene ammesso nel convento
cappuccino di Friburgo. Il 4 ottobre, festa di S. Francesco d'Assisi,
il sacerdote Roy celebra la messa, a cui segue il rito della
vestizione religiosa. Il dottor sacerdote Marco Roy diventa Fra
Fedele da Sigmaringa. Padre Angelo Visconti da Milano, superiore del
convento e maestro dei novizi, gli commenta l'affermazione
scritturale: «Sii fedele sino alla morte, e ti darò la corona
della vita». Il novizio Fra Fedele inizia l'anno di prova. Lui,
trentaquattrenne, convive con novizi quindicenni. Lui, avvocato,
aiuta negli umili lavori del convento i confratelli meno istruiti e
si sforza d'essere più umile di loro. Non si trova affatto in
disagio. Preferisce alla toga il povero saio, allo studio d'avvocato
la squallida cella, ai clienti di ieri i nuovi fratelli, figli, come
lui, di S. Francesco. La virtù, che più decisamente s'impegnò
ad acquistare, fu quella dell'umiltà. Un suo compagno di noviziato,
padre Candido da Zug, ricorda come Fra Fedele s'impegnasse
specialmente negli uffici bassi e penosi: «Andava in cucina a lavare
le stoviglie, nell'orto a raccogliere insetti o a fare altri lavori
manuali». Con tale virtù s'acquistò l'amore di tutti. Non è
detto però che tutto gli corresse liscio. Non fu esente da
tentazioni. Ebbe pur lui il dubbio se la strada intrapresa fosse
proprio quella voluta da Dio, se i suoi talenti fossero sfruttati o
buttati al vuoto nel nuovo genere di vita. Si sentì fortemente
tentato di piantare tutto e tornarsene al mondo. Un teste oculare,
padre Giovanni da Kruwangen, afferma: «Resistette con animo virile
alla tentazione, e la durò con zelo ed entusiasmo sino alla fine
dell'anno di prova». Ci permette di guardare entro la sua anima uno
scritto, da lui incominciato il 1° ottobre 1612 e continuato durante
l'anno di noviziato. Steso in latino, fu edito a Roma, nel 1746,
sotto il titolo «Exercitia spiritualia», e, in successive edizioni,
sotto il titolo «Exercitia seraphicae devotionis». E' un
«vademecum», compilato per uso proprio. Padre Fedele si stabilisce
un ordine e un metodo negli esercizi della sua vita interiore e della
sua devozione. Nelle prima parte, si prospetta l'esercizio delle
preghiera e delle varie virtù: verità, umiltà, obbedienza,
pazienza, austerità, carità fraterna. Nella seconda parte, si
propone una virtù per ogni giorno della settimana. Nella terza
parte, stende preparazione e ringraziamento alla santa messa,
domandandosi: «Chi viene? A chi viene? Perché viene?» e
proponendosi, quale spunto per ogni giorno della settimana, una delle
sette petizioni del Padre nostro. Il fascicolo si chiude con una
supplica alla Madonna e con un patto tra Dio e l'anima. Le rapide
pagine, che nelle divisioni e sottodivisioni svelano un giurisperito,
rivelano, oltre alle sue caratteristiche e predilezioni spirituali,
con quale decisa volontà Fra Fedele abbia iniziato e percorso il
cammino della perfezione: con eroica fedeltà, dal primo giorno di
noviziato sino alla morte. Prima di emettere i voti, Fra Fedele fece
testamento, lasciando tutto per amore di Dio, distribuendo quanto
aveva tra parenti e studenti poveri di Sigmaringa. A conclusione del
testamento, scrisse: «Né solamente lascio le cose mie, ma di più
lascio tutto me stesso al mio Signore Gesù Cristo nella mia
perpetua e irrevocabile professione di sempre vivere in un'altissima
povertà, in una costantissima obbedienza ed in una inviolabile
castità di corpo e di cuore... Al mio amabilissimo Redentore con
piena deliberazione, offro, dono e consacro per sempre, il corpo e
l'anima mia come vivo olocausto in questo santo Ordine». Il 4
ottobre 1613, Fra Fedele emise i suoi voti di obbedienza, povertà,
castità, «con volto raggiante ed insolita devozione» ricorda un
teste oculare. Rinnovò il proposito di far onore e di essere
coerente al proprio nome: di essere Fedele di nome e fedele di fatto.
Quel «Sii fedele sino alla morte», dettogli dal maestro di
noviziato, lo si impresse talmente nell'anima, che se lo ripeteva di
continuo, se lo scriveva sui libri, lo prepose al suo «vade mecum»,
lo ricordava come programma d'ogni giorno, d'ogni ora. Fedele, sino
alla fine!
EVANGELIZZATORE
Dopo
l'anno di noviziato, padre Fedele riprese in mano i libri e si
sedette sui banchi di scuola, per lo studio della teologia. Prima a
Frauenfeld, poi a Costanza: 1614-1618. Voleva immagazzinare più
luce possibile, per poi distribuirla in abbondanza alle anime, verso
le quali lo spingevano la sua identità e responsabilità
sacerdotali. Terminata la scuola, si donò al mondo: non più come
avvocato per cause umane, ma come ministro di grazia per la causa di
Dio. Erano tempi difficili per la fede cattolica, nella Svizzera e
nel territorio austriaco di confine. Calvino, con le sue eresie, era
penetrato dovunque. Allettati al libertinaggio, non pochi cattolici
avevano apostatato dalla fede e dell'eresia accettata se ne facevano
propagandisti. Predicanti si muovevano per ogni dove, diffondendo le
malsane dottrine e favorendo così libertinaggio, vizi e malcostume,
in alto e in basso. Padre Fedele si sentì chiamato ad arginare
questa alluvione calvinista, a richiamare i traviati, a sostenere i
cattolici ancora fedeli. Con rilevanti doti oratorie, padre Fedele
predica ottenendo successi insperati. Voce sonora, parola fluida,
sguardo e modo avvincenti: sono doti assicuratrici di successo.
Conosce, inoltre, la lingua italiana e francese. Ha un sistema tutto
suo per riuscire nella predica: prima e dopo, trascorre un'ora
prostrato dinanzi al Santissimo Sacramento. Essendo i calvinisti
sempre in movimento, pure lui non resta fermo: raggiunge città e
paesi, controbatte errori, presenta la verità, richiama la legge
del Signore, risponde con amabilità a soprusi e a invadenze. Il
primo magistrato di Feldkirch attesta che nessun abitante della
città ricorda di aver mai udito un predicatore così potente ed
efficace. I protestanti, trovando buon giuoco nella corruzione,
s'infiltrano anche nel Prattigau, una vallata della Rezia, vicina e
parallela al Voralberg, trascinando nelle proprie idee quei rozzi
montanari. Per gli stessi viottoli scoscesi passa pure il padre
Fedele, predicatore della verità. I poveri lo salutano come il loro
difensore. Gli onesti lo proclamano portatore della pace e padre
della patria. I benpensanti lo sostengono. Qualche calvinista si
arrende e fa l'abiura nelle sue mani. Le conversioni non mancano,
grazie a Dio e grazie ai sudori del padre Fedele. Le autorità
lasciano libertà. I calvinisti guardano torvi il cappuccino di
Sigmaringa troppo audace: gli si oppongono, lo minacciano, lo
biasimano pubblicamente, lo tacciano come imprudente. Ricchi e nobili
lo definiscono un retrogrado, che attenta invano alla libertà
finalmente proclamata, Padre Fedele continua la sua predicazione,
senza paura. Affronta incredibili sacrifici, sfida più volte
imboscate e tranelli. Percorre strade impervie, anche per raggiungere
un solo uomo da aiutare nella fede. La fama di questo predicatore,
dalla robusta eloquenza e dalla logica stringata, si diffonde per i
vari Cantoni della Svizzera. Molte città e villaggi desiderano
d'udire i suoi discorsi, brevi, ben preparati, densi di contenuto,
arricchiti di citazioni scritturistiche, pronunciati con fervore.
Predica ad Altdorf, e vi corregge abusi assai gravi. A Wiltkirch
inveisce contro il lusso eccessivo delle donne. A Feldkirch
infastidisce degli uditori per l'annuncio di graffianti verità. Dal
1618, padre Fedele è scelto quale superiore di conventi, in diverse
città della Svizzera: Rheinfelden, Feldkirch, Friburgo, ancora
Feldkirch. Nei suoi religiosi trasfonde il proprio zelo per le anime,
l'amore ad austera penitenza, l'esempio di preghiera di giorno e di
notte. Segue tutti con dolcezza. Coltiva particolarmente la povertà.
E' sollecito al tribunale della penitenza, a rassicurare i pentiti
sul perdono e amore di Dio. S'inframmette tra nemici, tra famiglie in
discordia, e convince alla pace. Capisce la sofferenza degli
oppressi, dei tribolati, dei condannati, e trasmette loro fiducia in
Dio e coraggio nella prova. Contro troppo facili esecuzioni,
rivendica ed esalta il valore prezioso della vita umana. Accorre fra
le truppe austriache, decimate dalla pestilenza, la «febbre
ungherese», e si fa soccorritore materiale e spirituale, ottenendo
dall'arciduca d'Austria alimentari, medicine, vesti, e donando
assoluzione ai pentiti e pace ai moribondi. Competente, sostiene le
cause dei poveri, rimprovera ingiustizie, sventa oppressioni. E', in
poche parole, un apostolo: senza stanchezza, tutto amore per i buoni
e per i cattivi.
PREFETTO
DELLA MISSIONE DEI GRIGIONI
Quello
dei Grigioni è uno dei molti stati o Cantoni, di cui era composta
la Svizzera. Era la regione più orientale, confinante con il
Tirolo, la Lombardia, il Ticino, Uri, Glarona e S. Gallo. Anticamente
era chiamata Rezia. Il paese era aspro e montuoso, il più impervio
di tutti gli altri, solcato da valli. Ci viveva una popolazione rude,
bellicosa, ostinata, che parlava il romancio. Ignoranza e corruzione
avevano lasciato via libera alla riforma protestante, predicata da
Zwinglio e Calvino, che infierì contro i cattolici, il clero, le
chiese, i conventi. Il Canton Grigioni era, allora, scisso in due
partiti. Ogni partito era sostenuto da una potenza straniera:
l'Austria cattolica, che resisteva al protestantesimo; la Francia
che, per ragioni politiche, appoggiava i protestanti. Le due fazioni
erano capeggiate da due ragguardevoli famiglie: quella cattolica,
dalla famiglia di Rodolfo Planta; quella eretica, dal casato di
Ercole de Salis. Le lotte vicendevoli non avevano sosta. La
maggioranza dei cittadini si schierò, per maggior sicurezza, dalla
parte dei più potenti, i protestanti. I pochi rimasti fedeli alla
Chiesa ebbero la peggio, bersagliati da una vera e propria
persecuzione, che riuscì perfino a bandire il vescovo di Coira, al
quale tutto il Cantone era soggetto. Si arrivò persino a scontri
armati, a guerre intestine, che si placarono, per un po', con il
Trattato di Milano del 15 gennaio 1622. I Grigioniesi rinunziarono
alla Valtellina, in favore della Spagna; fu data libertà al culto
cattolico, in tutta la regione della Rezia; vennero abrogate le leggi
anticattoliche; gli apostati stranieri, rifugiatisi nella Rezia, che
erano i più rabbiosi contro i cattolici, erano messi al bando. Ma
questi non disarmarono. Anzi, con astuzia, attesero tempi propizi
alla loro vendetta. Per ricristianizzare un campo così difficile,
si pensò ai cappuccini. Il vescovo di Coira ricorse al Papa e il
Papa Paolo V, accettò l'idea di una missione di cappuccini. La
provincia cappuccina di Milano-Brescia inviò un drappello di
missionari alla guida di padre Ignazio da Casnigo, che arrivò nei
Grigioni nel gennaio 1621. Tra i cappuccini, inviati a sostenere la
missione della Rezia, fu scelto anche padre Fedele, predicatore
infaticabile e conoscitore di molte lingue. A lui e ad altri suoi due
compagni di evangelizzazione fu affidato, come campo di lavoro, la
Prattigau (Prettigovia), o Valle dei Prati. Qui l'eresia aveva fatto
più devastazioni, tra gente ostinatamente restia e fanatica,
sostenitrice delle nuove idee luterane. Il clima era estremamente
rigido e Padre Fedele vi arrivò proprio d'inverno, 1622. L'arrivo
dei cappuccini impegnò i calvinisti a rabbiosa difesa. Ad un amico
di infanzia padre Fedele confidò che nei Grigioni avrebbe trovato
sicuramente la morte. Ad altri dichiarò di sentirsi pronto alla
morte. Pronto senz'altro ad impegnare zelo, parola, scritti, vita,
tutto, per salvare quanto era possibile salvare, tra quella gente
refrattaria alla verità cattolica. In quell'anno, Gregorio XV
istituì la Congregazione di Propaganda Fide, tanto sostenuta, anzi
secondo alcuni studiosi ideata, dal cappuccino padre Girolamo da
Narrai. Tale Congregazione si proponeva un duplice compito:
evangelizzare tutti i popoli e arginare i progressi dell'eresia.
Dalla Congregazione fu stabilita, quale prima missione, quella della
Rezia. Venuti a conoscenza del mirabile apostolato che già vi
svolgeva padre Fedele, il nunzio apostolico Alessandro Scappi e i
superiori della provincia cappuccina svizzera decisero che padre
Fedele venisse nominato Prefetto della missione dei Grigioni e gli
inviarono un documento di nomina, datato 21 aprile 1622. Tale
documento e le facoltà, concessegli dal nunzio apostolico, non
pervennero tra le mani del destinatario, già in piena azione nella
Prattigau e alla vigilia del martirio. La valle della Prattigau,
tutta rocce, dirupi, precipizi, era in fermento. I protestanti, i
predicanti eretici, avevano accumulate spade e mazze, tenendole
nascoste nelle cascine, sotto la paglia e il fieno: attendevano il
momento opportuno per togliere di mezzo quell'apostolo troppo
convincente. Intanto si sforzavano di screditarlo presso gran parte
del popolo, che sinceramente lo ammirava e amava. Due motivi
principalmente avevano esasperato l'odio degli eretici contro di lui:
la conversione del conte Rodolfo de Salis e la promulgazione di un
editto favorevole ai cattolici, da parte del governatore Baldirone,
convinto da padre Fedele. Il giorno di Sabato, 23 aprile 1622, padre
Fedele celebra la Messa a Grusch. Subito dopo, alcuni eretici di
Seewis lo invitano, all'indomani, a predicare nella loro chiesa. Ma
Padre Fedele si accorge del tranello. Domenica, 24 aprile, celebrata
la messa, con predica, a Grusch, padre Fedele, conscio del serio
rischio, parte verso Seewis. E' accompagnato dal capitano Gioacchino
Colonna e da alcuni ufficiali e soldati. Verso le ore 9, raggiunge
Seewis. Entra nella chiesa per proclamare la verità, insegnata da
Cristo e affidata alla sua chiesa. Sono queste sueparole che fanno
scoppiare il tumulto, già precedentemente organizzato, che si
conclude, fuori della chiesa, con il suo martirio. Era il 24 aprile
1622, vigilia della festa di S. Marco Evangelista, del quale il
cappuccino portava il nome e della cui missione evangelizzatrice era
stato continuatore. Deciso di essere fedele, padre Fedele lo fu sino
alla morte. Cadendo, ucciso, testimoniò con il proprio sangue
l'amore a Dio, al suo Vangelo, alla sua Chiesa.
IL
MARTIRE SANTO
Il
corpo straziato di padre Fedele restò sul prato del martirio per un
giorno e una notte. Poi il sacrista di Seewis, Giovanni Johanni, lo
seppellì in una fossa, vicino alla chiesa. La sommossa s'allargò
sull'intera Rezia. Cattolici e protestanti si scontrarono, armati. Un
giorno,il martire padre Fedele apparve nel cielo con una spada
sguainata contro gli eretici: tale visione incoraggiò i cattolici,
che ebbero la meglio sui protestanti. Ritornata la calma, i
cappuccini di Feldkirch si portarono in convento la testa e la mano
sinistra del martire. In una seconda esumazione, furono raccolti i
resti del frate ucciso e si conservano, sino ad oggi, nella
cattedrale di Coira. Ad una voce, cattolici ed eretici, a Coira, a
Costanza, in Germania, in Baviera, in Italia, acclamarono santo il
martire di Seewis, che, invocato, elargiva ovunque guarigioni
miracolose. Nel 1626, furono avviati processi per esaminarne le
virtù. Fra i testimoni, fu interrogato padre Apollinare Roy, il
fratello del martire. Risultarono virtù vissute in grado eroico.
Perciò la Chiesa esaudì l'attesa di tanti fedeli e il desiderio
della Congregazione di Propaganda Fide, che padre Fedele venisse
dichiarato martire santo. Il 12 marzo 1729, padre Fedele fu
dichiarato Beato. Se ne stabilì la festa al 24 aprile, il suo «dies
natalis», il giorno del martirio. Il 29 giugno 1746, Benedetto XIV
lo dichiarò Santo. Più città conservano reliquie del santo
martire Fedele. Sigmaringa conserva ancora la sua casa natale, la
culla su cui visse i primi mesi di vita, il pulpito di Seewis sul
quale predicò per l'ultima volta. Coira, nella cattedrale,
custodisce la maggior parte delle sue ossa. I cappuccini di Feldkirch
conservano, nella loro chiesa e nella cella del Santo, la testa del
martire, la spada del martirio, il cilicio, paramenti liturgici, il
mantello ancora foracchiato dal tridente da fieno, i sandali, il
cingolo insanguinato. La memoria più cara resta (specialmente tra i
cappuccini) quella delle sue virtù, della sua santità, della sua
eroica fedeltà a Dio e alla Chiesa. Il Santo da Sigmaringa è
considerato dalla Congregazione di Propaganda Fide il suo
protomartire e dall'Ordine cappuccino modello e patrono dei suoi
missionari, evangelizzatori in ogni parte del mondo. Il Papa Pio XI,
il 7 marzo 1922, scriveva al superiore generale dei cappuccini: «E’
degno certo di somma lode S. Fedele da Sigmaringa non solo perché
con la sua morte preziosa sostenuta per Cristo apri la lunga serie
dei Martiri, che hanno illustrato le Missioni cattoliche dopo
l'istituzione di Propaganda; ma ancora perché con l'innocenza della
vita si rese esemplare perfetto ai nostri Missionari del come si
debbano degnamente preparare al ministero apostolico». L'iconografia
presenta S. Fedele in due atteggiamenti: in atto di calpestare
l'eresia, simboleggiata in una donna discinta (ad esempio, il dipinto
di Giovan Battista Tiepolo, nella pinacoteca di Parma); in atto di
stringere tra le braccia la generica palma del martire, una spada e
una mazza, strumenti del suo martirio. San Fedele, martire
cappuccino, insegna che la verità va amata e difesa con coraggio, e
che a Dio si deve restare fedeli. Fedeli, sino alla morte.
Tratto
dal sito :
https://www.sanfedelemartire.it/files/Biografia-San-Fedele.pdf
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