Il
nostro Salvatore ha lasciato alla sua Chiesa il sacramento della
Penitenza o Confessione perché potessimo purificarci dalle nostre
iniquità, per numerose che siano, tutte le volte che ci
infanghiamo. Perciò, Filotea, non tollerare mai per lungo tempo che
il tuo cure rimanga contagiato dal peccato, disponendo tu di un
rimedio sempre pronto e facile da applicare. La leonessa che si è
unita ad un leopardo corre immediatamente a lavarsi per togliere da
sé il lezzo, perché il leone, avvertendolo, non si adombri e si
irriti. L’anima che ha acconsentito al peccato deve avere orrore di
se stessa e ripulirsi immediatamente, per rispetto alla Maestà
divina che sempre la segue. Perché vogliamo lasciarci morire
spiritualmente quando abbiamo a disposizione un rimedio così
sicuro? Confessati devotamente e umilmente ogni otto giorni, e, se
puoi, ogni volta fai la comunione, anche se non avverti nella
coscienza il rimorso di alcun peccato mortale. In tal caso, con la
confessione, non soltanto riceverai l’assoluzione dei peccati
veniali confessati, ma anche una grande forza per evitarli in
avvenire, una grande chiarezza per distinguerli e una efficace grazia
per rimediare a tutto il danno che ti hanno causato. Praticherai la
virtù dell’umiltà, dell’obbedienza, della semplicità e
della carità; con il solo atto della Confessione praticherai più
virtù che con qualsiasi altro. Abbi sempre un sincero dispiacere
dei peccati che confessi, per piccoli che siano, e prendi una ferma
decisione di correggerti. Molti si confessano dei peccati veniali per
abitudine, quasi meccanicamente, senza pensare minimamente ad
eliminarli; e così per tutta la vita ne saranno dominati e
perderanno molti beni e frutti spirituali. Se, per esempio, ti
confessi di aver mentito senza recar danno, o di aver detto qualche
parola grossolana, o di aver giocato troppo, pentiti e fa proposito
di correggerti; è un abuso confessare un peccato, sia mortale che
veniale, senza aver intenzione di emendarsene, perché la
Confessione è stata istituita proprio per quello scopo. Non fare
accuse generiche, come fanno molti, in modo macchinale, tipo queste:
Non ho amato Dio come era mio dovere; Non ho ricevuto i Sacramenti
con il rispetto dovuto, e simili. Ti chiarisco il motivo: ciò
dicendo tu non offri alcuna indicazione particolare che possa dare al
confessore un’idea dello stato della tua coscienza; tutti i Santi
del Paradiso e tutti gli uomini della terra potrebbero dire
tranquillamente la stessa cosa.
Cerca
qual è la ragione specifica dell’accusa, una volta trovata,
accusati della mancanza commessa con semplicità e naturalezza. Se,
per esempio, ti accusi di non avere amato il prossimo come avresti
dovuto, può darsi che si sia trattato di un povero veramente
bisognoso che tu non hai aiutato come avresti potuto o per
negligenza, o per durezza di cuore, o per disprezzo; vedi un po’ tu
il motivo! Similmente non accusarti di non aver pregato Dio con la
dovuta devozione; ma specifica se hai avuto delle distrazioni
volontarie perché non hai avuto cura di scegliere il luogo, il
tempo e il contegno atti a favorire l’attenzione nella preghiera;
accusati con semplicità di quello in cui trovi di aver mancato,
senza ricorrere a quelle espressioni generiche che, nella
confessione, non fanno né caldo né freddo. Non accontentarti di
raccontare i tuoi peccati veniali solo come fatto; accusati anche del
motivo che ti ci ha portato. Non dimenticarti, per esempio, di dire
che hai mentito senza coinvolgere nessuno; ma chiarisci, se è stato
per vanità, se era per vantarti o scusarti, o per gioco, o per
cocciutaggine. Se hai peccato nel gioco, specifica se è stato per
soldi, o per il piacere della conversazione, e così via. Dì anche
se sei rimasto per lungo tempo nel tuo male, perché , in genere, il
tempo aggrava il peccato. C’è molta differenza tra la vanità di
un momento, che ha occupato il nostro spirito sì e no per un quarto
d’ora, e quella nella quale il nostro cuore è rimasto immerso per
uno, due o tre giorni! In conclusione, bisogna esporre il fatto, il
motivo e la durata dei nostri peccati; perché , anche se
comunemente non siamo obbligati ad essere così esatti nel
dichiarare i nostri peccati veniali, anzi non siamo nemmeno obbligati
a confessarli, è pur sempre vero che coloro che vogliono pulire per
bene l’anima per raggiungere più speditamente la santa devozione,
devono avere molta cura di descrivere al medico spirituale il male,
per piccolo che sia, se vogliono guarire. Non trascurare di
aggiungere quanto serve per far capire il tipo dell’offesa, come il
motivo che ti ha fatto montare in collera, o ti ha fatto accettare il
vizio di qualcuno. Per esempio, se un uomo che non mi va a genio, mi
provoca con qualche leggera parola per ischerzo, io la prendo a male
e monto in collera: cosa che se l’avesse fatta un altro che mi è
simpatico, l’avrei accettata, anche se avesse caricato la dose.
Preciserò dunque con chiarezza: Mi sono lasciato trasportare a
parole di collera contro una persona, perché ho preso a male ciò
che mi aveva detto, non per le parole in se stesse, ma perché mi è
antipatico colui che le ha dette.
E
se fosse necessario precisare le parole per farti capire meglio,
penso che faresti bene a dirle. Accusandoci in questo modo, con
naturalezza, non solo mettiamo fuori i peccati fatti, ma anche le
cattive inclinazioni, le usanze, le abitudini e le altre radici del
peccato, in modo che il padre spirituale abbia una chiara conoscenza
del cuore che gli è affidato e quindi predisponga i rimedi più
opportuni. Tuttavia non fare il nome di chi ha eventualmente
cooperato al tuo peccato, almeno finché ti sarà possibile. Fa
attenzione a numerosi peccati che vivono e spadroneggiano, spesso
senza essere avvertiti, nella coscienza e accusali per potertene
liberare; a questo fine leggi attentamente i Capitoli VI, XXVII,
XXVIII, XXIX, XXXV e XXXVI della III parte e il Capitolo VIII della
IV parte. Non cambiare facilmente di confessore, ma scegline uno e
rendigli conto della tua coscienza nei giorni che avrai stabilito; e
digli con naturalezza e franchezza i peccati commessi; di tanto in
tanto, ogni mese o ogni due mesi, digli anche
a
che punto sei con le inclinazioni, benché in quelle non ci sia
peccato; digli se sei afflitta dalla tristezza, dal rimpianto, se sei
invece portata alla gioia, al desiderio di acquisire ricchezze, e
simili inclinazioni.
Capitolo
VI L’UMILTÀ CI FA AMARE L’ABIEZIONE
Procedo
oltre, Filotea, e ti dico di amare l’abiezione sempre e in tutto.
Ma, mi chiederai, che cosa vuol dire amare la propria abiezione? In
latino abiezione vuol dire umiltà e umiltà vuol dire abiezione;
di modo che, quando la Madonna nel suo Cantico dice che, poiché il
Signore ha visto l'umiltà della sua serva, tutte le generazioni la
chiameranno beata, vuol dire che il Signore, con bontà, ha
guardatola sua abiezione, la sua meschinità, la sua bassezza, per
colmarla di grazia e di favori. C’è tuttavia differenza tra la
virtù dell’umiltà e l’abiezione;l’abiezione è la
pochezza, la bassezza e la meschinità che alberga in noi, senza che
ci pensiamo; la virtù dell’umiltà invece, è la conoscenza
veritiera e l’ammissione della nostra abiezione. L’apice
dell’umiltà così intesa consiste non soltanto nel riconoscere
la nostra abiezione, ma nell’amarla ed esserne contenti; non per
mancanza di coraggio o di generosità, ma per esaltare maggiormente
la Maestà divina e dare al prossimo una stima maggiore che a noi
stessi. Ti incoraggio a questo e, per essere più esplicito, ti
dirò che, tra i mali che ci affliggono, alcuni sono spregevoli,
altri onorati; a quelli onorati molti si adattano, ma nessuno vuol
saperne di quelli spregevoli. Prendi, per esempio, un devoto eremita,
coperto di cenci e tremante dal freddo: tutti onoreranno il suo abito
a brandelli e proveranno compassione per la sua sofferenza; ma se un
povero artigiano, un povero galantuomo o una povera ragazza si
trovano nelle stesse condizioni, verranno coperti di disprezzo,
derisi e la loro povertà sarà spregevole. Se un Religioso accetta
con devozione un duro richiamo dal superiore, o un figlio dal padre,
tutti chiameranno quel comportamento mortificazione, obbedienza,
saggezza; se un cavaliere o una dama dovessero subire, per amore di
Dio, la stessa cosa da parte di qualcuno, di qualunque cosa si
tratti, tutti la chiameranno codardia o vigliaccheria: ecco un altro
male spregevole.Poni il caso che uno abbia un tumore al braccio e un
altro al volto: il primo soffre soltanto il male, ma il secondo, con
il male, si trova il disprezzo, l’isolamento e l’abiezione. Io ti
dico che non soltanto devi amare il male, il che è opera della
virtù della pazienza; tu devi amare anche l’abiezione, e questo
è opera dell’umiltà. Ci sono poi delle virtù disprezzate e
delle virtù onorate: la pazienza, la dolcezza, la semplicità e la
stessa umiltà, per i mondani , sono virtù vili e da disprezzare;
per contro stimano molto la prudenza, il valore, la liberalità. Ci
sono addirittura atti della stessa virtù che a volte sono
disprezzati e a volte onorati; prendi, ad esempio, l’elemosina o il
perdono delle offese; sono entrambi atti di carità: la prima è
onorata da tutti, il secondo è disprezzato dal mondo. Un giovanotto
o una ragazza che non si lasciano trascinare ai disordini di una
brigata dissoluta nel parlare, nel giocare, nel ballare, nel bere,
nel vestire come loro, saranno scherniti e criticati e il loro
riserbo sarà chiamato bigottismo o esibizionismo. Amare queste
conseguenze vuol dire amare la propria abiezione. Passiamo a un altro
campo: la visita agli ammalati. Se ti mandano dal più reietto
secondo il mondo, per te sarà un’abiezione; per questo l’amerai.
Se ti mandano da gente bene sarà un’abiezione secondo lo spirito,
perché il merito e le virtù saranno minori; amerai anche quella
abiezione. Se si cade nel bel mezzo della strada, oltre al male, ci
trovi la vergogna;anche questa va amata. Ci sono alcune colpe che non
comportano altro male all’infuori dell’abiezione; l’umiltà
non esige che le commettiamo apposta, ma, che una volta commesse, non
ce ne preoccupiamo. Si tratta di certe sciocchezze, mancanze di
educazione, o sbadataggini, che vanno evitate finché si è in
tempo, per comportarsi educatamente e con prudenza; ma una volta che
ci siamo caduti, bisogna accettare l’abiezione che ne consegue ed
accettarla di cuore per amore dell’umiltà. Ma vado oltre: se per
collera o mancanza di controllo, mi sono lasciata andare a parole
indecorose o offensive di Dio e del prossimo, me ne pentirò
sinceramente e sarò profondamente dispiaciuta per l’offesa che
cercherò di riparare meglio che potrò; ma non lascerò passare
l’occasione per accettare volentieri l’abiezione e il disprezzo
che ricadranno su di me. Se fosse possibile separare le due cose,
respingerei con forza il peccato e terrei umilmente l’abiezione. Ma
pur amando l’abiezione che deriva dal male, non bisogna arrendersi
alle fatalità del male che ne è la causa; bisogna correre ai
ripari. Occorre farlo in modo efficace e con cura, soprattutto poi,
quando il male è soltanto una conseguenza. Se sono afflitta da un
male spregevole al volto, farò di tutto per guarire, senza far
nulla perché sia dimenticata l’abiezione che me ne è venuta. Se
ho commesso qualche cosa che non offende alcuno, non cercherò
scuse, perché , pur trattandosi di un difetto, non è permanente;
se mi scusassi sarebbe solo per evitare l’abiezione che me ne
viene. Questo l’umiltà non lo permette. Ma, se per disattenzione
o leggerezza, ho offeso o scandalizzato qualcuno, riparerò l’offesa
con qualche scusa che risponda a verità; perché in tal caso, il
male ha radici e la carità esige che lo sradichi. Qualche volta
capita anche che la verità esiga che poniamo rimedio all’abiezione
per il bene del prossimo, al quale è necessaria la nostra buona
reputazione; in tal caso pur togliendo l’abiezione dagli occhi del
prossimo, per impedirne lo scandalo, dobbiamo rinchiuderla e
nasconderla nel nostro cuore perché ne sia edificato. Tu, Filotea,
vuoi sapere quali sono le abiezioni migliori: ti dico subito,
e
senza esitazione, che quelle più utili all’anima e più gradite
a Dio, sono quelle che incontriamo per caso o che sono legate alla
nostra condizione; la ragione è che non le abbiamo scelte noi, ma
le abbiamo ricevute come Dio ce le ha mandate. E Lui sa scegliere
sempre meglio di noi. Se fosse necessario scegliere, ricordati che le
più grandi sono le migliori; e sai quali sono le più grandi?
Quelle maggiormente contrarie alle nostre inclinazioni, sempre,
beninteso, in linea con la nostra vocazione. Te lo dico una volta per
sempre: la nostra scelta e la nostra preferenza rovina, o almeno
diminuisce, tutte le nostre virtù. Chi ci farà la grazia di poter
dire con il grande Re Davide: “Ho scelto di essere abietto nella
casa del Signore. Piuttosto che abitare nelle tende dei peccatori”?
Il solo che lo può, cara Filotea, è Colui che per innalzare noi,
è vissuto e morto come obbrobrio degli uomini e abiezione del
popolo. Ti ho detto molte cose che potranno sembrarti dure quando ci
rifletterai sopra; ma, credimi, risulteranno più dolci dello
zucchero e del miele, quando le metterai in atto.
Capitolo
XXVII L’ONESTÀ NELLE PAROLE E IL RISPETTO DOVUTO ALLE PERSONE
Dice
S. Giacomo: Se uno non pecca in parole è un uomo perfetto. Fa
scrupolosamente attenzione a non lasciarti sfuggire alcuna parola
sconveniente; anche se non la dici con cattiva intenzione, coloro che
l’odono, possono prenderla in tal senso. Se la parola sconveniente
cade in un cuore debole, si estende e si allarga come una goccia
d’olio su un lenzuolo; e qualche volta si impadronisce in modo tale
del cuore da riempirlo di mille pensieri e tentazioni oscene. Tu sai
che il veleno per il corpo entra dalla bocca; quello per il cuore
entra dall’orecchio e la lingua che lo propina è assassina, anche
se il veleno propinato non consegue l’effetto perché ha trovato
immunizzati i cuori degli uditori. Se gli altri non sono morti non è
perché mancasse la volontà di uccidere. Nessuno venga a dirmi che
non ci pensa: Nostro Signore, che conosce i pensieri, ha detto che la
bocca parla dell’abbondanza del cuore. Se il pensiero non ce lo
mettiamo noi, sta pur certa che ce lo mette il diavolo e anche molto!
t il suo segreto: servirsi di cattive parole per trafiggere
i
cuori di chi gli capita a tiro. Si dice che quelli che mangiano
l’erba detta angelica, hanno sempre l’alito dolce e gradevole;
coloro che hanno nel cuore l'onesta e la castità, che è una
virtù angelica, usano sempre parole educate e pulite. Quanto alle
cose indecenti e folli, l’apostolo non vuole nemmeno che se ne
faccia il nome, e ci assicura che niente corrompe i buoni costumi
quanto le conversazioni invereconde. Se queste parole indecenti sono
dette di nascosto, in modo studiato e sottile, sono ancora più
velenose; infatti più un dardo è appuntito e più profondamente
penetra nel corpo; così, più una parola cattiva è sottile e
più penetra nei nostri cuori. Coloro che pensano di essere
gentiluomini perché usano tali parole nelle conversazioni, non
hanno idea di che cosa sono le conversazioni; devono essere simili a
sciami di api raccolte insieme per ricavare il miele da qualche dolce
e virtuoso argomento, e non un mucchio di vespe che si uniscono per
succhiare marciume. Se qualche stupido ti dice parole indecenti, fa
vedere che le tue orecchie non vogliono udirle: interessati ad altro
o manifesta la tua ripugnanza in qualche modo; sarà la tua prudenza
a indicarti quello opportuno. Uno dei difetti peggiori dello spirito
è quello di essere beffardo: Dio odia molto questo vizio e sappiamo
che lo ha punito con castighi esemplari. Nessun vizio è così
contrario alla carità, e più ancora alla devozione, quanto il
disprezzo e la derisione del prossimo. La derisione e la beffa non
vanno senza disprezzo; è per questo che è un peccato molto grave,
e i moralisti hanno ragione di dire che la derisione è il modo
peggiore di offendere il prossimo con parole; le altre offese salvano
sempre, in una certa misura, la stima per la persona; la derisione
invece non la risparmia in nulla. Cosa molto diversa sono le battute
scherzose tra amici; si fanno in allegria e gioia serena. Si tratta
addirittura di una virtù cui i Greci davano il nome di eutrapelia:
noi diciamo buona conversazione. È il modo di prendersi una onesta
e amabile ricreazione sulle situazioni buffe cui i difetti degli
uomini danno occasione. Bisogna soltanto stare attenti a non passare
dagli scherzi sereni alla derisione. La derisione provoca al riso per
mancanza di stima e per disprezzo del prossimo; invece la battuta
allegra e la burla scherzosa provocano al riso per la “ trovata “,
gli accostamenti imprevedibili fatti in confidenza e schiettezza
amichevole; e sempre con molta cortesia di linguaggio. S. Luigi
quando le persone bigotte volevano parlargli di argomenti impegnativi
dopo il pranzo, era solito dire: Ora non è tempo di dotte
discussioni, ora è tempo di allegria e di scherzi; ciascuno dica
quello che si sente. in tal modo andava incontro alla nobilita che lo
circondava per ricevere gentilezze da Sua Maestà. Filotea,
l’importante è passare il tempo di ricreazione in modo tale da
conservare per devozione il pensiero della santa eternità.
Capitolo
XXVIII I GIUDIZI TEMERARI
Non
giudicare e non sarai giudicato, dice il Salvatore delle nostre
anime; non condannare e non sarai condannato. Dice l’apostolo: Non
giudicare prima del tempo, ossia fino a che non venga il Signore che
svelerà il segreto nascosto nelle tenebre, e manifesterà i
pensieri dei cuori. I giudizi temerari sono severamente riprovati da
Dio! I giudizi emessi dai figli degli uomini sono temerari perché
gli uomini non sono autorizzati ad emettere giudizi gli uni sugli
altri; ciò facendo usurpano l’ufficio che Nostro Signore si è
riservato; in più sono temerari perché la principale malizia del
peccato dipende dall’intenzione e dal disegno del cuore, che è
per noi il segreto delle tenebre; sono temerari perché ciascuno è
sufficientemente occupato a giudicare se stesso, senza mettersi a
giudicare anche il prossimo. Per non correre il rischio di essere
giudicati, è assolutamente necessario evitare di giudicare gli
altri: fermiamoci invece a giudicare noi stessi. Nostro Signore ci ha
proibito la prima cosa e l’apostolo ci comanda la seconda quando
dice: Se noi giudichiamo noi stessi, non verremo giudicati. Noi
facciamo invece esattamente il contrario: non manchiamo mai di fare
quello che ci era stato proibito, sentenziando a dritta e a manca sul
prossimo; giudicare noi stessi, che sarebbe poi quello che ci è
stato comandato, chi si sogna di farlo? Bisogna correre ai ripari
partendo dalle cause dei giudizi temerari. Ci sono dei cuori acidi,
amari e aspri per natura, che rendono acido e amaro tutto quello che
ricevono; costoro, secondo il detto del Profeta, mutano il giudizio
in assenzio, perché non sanno giudicare il prossimo senza rigore e
asprezza. Simili persone hanno tanto bisogno di cadere tra le mani di
un consumato medico spirituale, perché , dato che l’amarezza di
cuore è loro connaturale, vincerla è difficile; benché per sé
non sia peccato, anzi soltanto un’imperfezione, tuttavia è da
ritenersi pericolosa, perché introduce nell’anima, e ve li fissa,
il giudizio temerario e la maldicenza. Altri fanno giudizi temerari,
non per acidità, ma per orgoglio; pensano che nella misura in cui
abbassano l’onore degli altri, alzano il proprio! Sono spiriti
arroganti e presuntuosi, pieni di ammirazione per se stessi, che si
collocano così in alto nella propria stima, da vedere tutto il
resto come cose piccole e basse: Non sono come gli altri uomini,
diceva quel Fariseo. In alcuni questo orgoglio non è tanto evidente
e si manifesta soltanto in un certo compiacimento nel considerare i
difetti degli altri per assaporare con maggior piacere il bene
contrario di cui si sentono dotati. Questo compiacimento è così
segreto e impercettibile che,se non si è forniti di una buona
vista, non lo si può scoprire; e persino quelli che ne sono
affetti, non se ne accorgono se non si fa loro notare. Altri poi, per
lusingarsi e trovare scuse nei confronti di se stessi, o per
attenuare i rimorsi delle loro coscienze, pensano molto volentieri
che gli altri siano contagiati dal vizio al quale si sono dati, o da
qualche altro equivalente; pensano che il fatto di trovarsi ad essere
in molti colpevoli dello stesso crimine, riduca la gravita. Molti si
lasciano andare al giudizio temerario per il solo piacere di
filosofeggiare e fare gli indovini sulle abitudini e i capricci della
gente, quasi per esercitarsi! Che se poi, per disgrazia, qualche
volta azzeccano i loro giudizi, l’audacia e la brama di andare
avanti diventa tanto forte in essi, che solo a fatica si può
riuscire a distoglierli. Altri ancora giudicano per passione e
pensano sempre bene di ciò che amano e sempre male di ciò che
odiano. Soltanto in un caso, sorprendente fin che si vuole, ma reale,
l’eccesso di amore spinge ad emettere un giudizio negativo su ciò
che si ama: come risultato è mostruoso, ma lo spieghi facilmente se
pensi che viene da un amore equivoco, imperfetto, agitato, malato,
che si chiama gelosia, che, come tutti sanno, per un semplice
sguardo, per il minimo sorriso di questo mondo, condanna le persone
accusandole di perfidia e di adulterio. Infine, spesso e molto,
contribuiscono alla formazione di sospetti e giudizi temerari il
timore, l’ambizione e altre simili debolezze dello spirito. Quali
sono i rimedi? Coloro che bevono un estratto di un oppiaceo detto
ofiusa, che cresce in Etiopia, credono di vedere ovunque serpenti e
altre cose orribili: coloro che hanno trangugiato orgoglio, invidia,
ambizione, odio, vedono tutte le cose come cattive e riprovevoli; chi
ha bevuto l’oppiaceo, se vuol guarire, deve bere vino di palma; la
stessa cosa devono fare i viziosi di cui sopra. Bevi più che puoi
il sacro vino della carità; ti libererai da quegli umori perversi
che ti fanno dare giudizi temerari. La carità teme l’incontro con
il male, tanto meno lo cerca; quando ci si imbatte volge altrove lo
sguardo e fa finta di niente, anzi chiude gli occhi prima di vederlo,
alle prime avvisaglie e finisce con il credere, con santa
semplicità, che quello non era male, ma soltanto un’ombra o un
fantasma del male; se poi l’evidenza la costringe ad ammettere che
è proprio male, se ne allontana immediatamente e cerca di
dimenticarne l’aspetto. Per tutti i mali il grande rimedio è la
carità; in modo particolare per questo. Tutto sembra giallo agli
occhi degli ammalati gravi di itterizia; si dice che per guarirli da
questo male bisogna obbligarli a mettere un po’ d’erba detta
celidonia sotto la pianta dei piedi. Il peccato del giudizio
temerario è un’itterizia spirituale, che, agli occhi di coloro
che ne sono affetti, trasforma tutte le cose in cattive; chi vuole
guarirne, non deve curare gli occhi, ossia l’intelletto, ma gli
affetti, che sono i piedi dell’anima: se i tuoi affetti sono dolci,
se sono caritatevoli, anche i tuoi giudizi lo saranno. Voglio
raccontarti tre esempi notevoli. Isacco aveva detto che Rebecca era
sua sorella,Abimelech vide che gioiva con lei, ossia che
l’accarezzava con tenerezza, e subito concluse che era sua moglie:
un occhio maligno avrebbe invece pensato che era la sua amante, o
caso mai, se realmente era sua sorella, che erano due incestuosi;
Abimelech segue l’interpretazione più benevola del fatto. Bisogna
agire sempre in questo modo, Filotea, interpretando sempre in favore
del prossimo; e se un’azione avesse cento aspetti, tu ferma sempre
la tua attenzione al più bello. La Madonna era incinta: S. Giuseppe
lo vedeva bene. D’altra parte la vedeva tutta santa, tutta pura,
tutta angelica; non poteva credere che fosse rimasta incinta mancando
al suo onore. Decide allora di abbandonarla, lasciando a Dio il
giudizio. Benché ci fossero tutte le circostanze evidenti per farsi
una cattiva opinione di quella Vergine, egli non volle giudicarla.
Perché ? Perché era giusto, dice lo Spirito di Dio. L’uomo
giusto quando non può scusare né il fatto né l’intenzione, di
chi sa per altre vie essere uomo per bene, rifiuta di giudicare, se
lo toglie dallo spirito, lascia a Dio solo la sentenza. Il Salvatore
non può scusare completamente il peccato di coloro che lo stanno
crocifiggendo; ne diminuisce la malizia, adducendo l’ignoranza.
Quando non ci è possibile scusare il peccato, rendiamolo almeno
degno di compassione, attribuendolo alla causa più comprensibile
che si possa pensare, quali l’ignoranza
e
la debolezza. Ma allora, non è mai permesso giudicare il prossimo?
No, mai! t Dio solo, Filotea, che giudica i colpevoli secondo
giustizia. t vero che si serve della voce dei magistrati per renderla
intelligibile alle nostre orecchie: sono il suo tramite e i suoi
interpreti e devono pronunciare soltanto quello che hanno sentito da
Lui, quasi come oracoli. Se agiscono diversamente, seguendo le loro
passioni, in tal caso chi giudica sono loro e dovranno renderne conto
essendo a loro volta giudicati, perché agli uomini, in quanto
uomini, è proibito di giudicare. Vedere o conoscere una cosa, non
è giudicare, perché il giudizio, stando al detto della Scrittura,
presuppone la necessità di chiarire una difficoltà, che può
essere piccola o grande, vera o apparente; infatti dice che coloro i
quali non credono sono già giudicati; non ci sono dubbi sulla loro
condanna eterna. Non c’è nulla di male nel dubitare del prossimo,
perché non è proibito dubitare, ma giudicare! Tuttavia non e
permesso dubitare o sospettare se non proprio quando rigorosamente
non se ne può fare a meno, e siamo costretti a dubitare da motivi e
ragioni serie. Al di fuori di ciò i dubbi e i sospetti sarebbero
temerari. Se qualche occhio maligno avesse visto Giacobbe mentre
baciava Rachele vicino al pozzo, e se avesse visto Rebecca accettare
in dono braccialetti e orecchini da Eleazaro, forestiero in quel
paese, avrebbe, senza alcun dubbio, pensato male di quei due modelli
di virtù, ma senza ragione e senza fondamento; perché quando
un’azione è per se stessa indifferente, tirarne cattive
conclusioni è un sospetto temerario, a meno che siamo costretti al
sospetto da molte indicazioni inequivocabili. Concludere da un’azione
mal fatta la condanna della persona è un giudizio temerario; ma su
questo, tra breve, parlerò con maggior chiarezza.
E
per finire ti dico che chi ha molta cura della propria coscienza non
è quasi mai portato ai giudizi temerari; come le api vedendo la
nebbia o il tempo nuvoloso s ‘ i rifugiano nelle loro arnie a
sistemare il miele, allo stesso modo i pensieri delle anime buone non
si posano su oggetti confusi, né sulle azioni poco chiare del
prossimo. Anzi, per evitare il pericolo, si raccolgono all’interno
del loro cuore per curare i buoni propositi del proprio emendamento.
Soltanto un’anima insulsa può perdere tempo ad esaminare la vita
degli altri. Faccio eccezione per quelli che hanno la responsabilità
di altri, sia in famiglia che nella società: per essi gran parte
della coscienza sta nel guardare e vegliare su quella degli altri.
Adempiano al loro dovere con amore; al di fuori di ciò, si
comportino come tutti.
Capitolo
XXIX LA MALDICENZA
Il
giudizio temerario causa preoccupazione, disprezzo del prossimo,
orgoglio e compiacimento in se stessi e cento altri effetti negativi,
tra i quali il primo posto spetta alla maldicenza, vera peste delle
conversazioni. Vorrei avere un carbone ardente del santo altare per
passarlo sulle labbra degli uomini, per togliere loro la perversità
e mondarli dal loro peccato, proprio come il Serafino fece sulla
bocca di Isaia. Se si riuscisse a togliere la maldicenza dal mondo,
sparirebbero gran parte dei peccati e la cattiveria.
A
chi strappa ingiustamente il buon nome al prossimo, oltre al peccato
di cui si grava, rimane l’obbligo di riparare in modo adeguato
secondo il genere della maldicenza commessa. Nessuno può entrare in
Cielo portando i beni degli altri; ora, tra tutti i beni esteriori,
il più prezioso è il buon nome. La maldicenza è un vero
omicidio, perché tre sono le nostre vite: la vita spirituale, con
sede nella grazia di Dio; la vita corporale, con sede nell’anima;
la vita civile che consiste nel buon nome. Il peccato ci sottrae la
prima, la morte ci toglie la seconda, la maldicenza ci priva della
terza. Il maldicente, con un sol colpo vibrato dalla lingua, compie
tre delitti. Uccide spiritualmente la propria anima, quella di colui
che ascolta e toglie la vita civile a colui del quale sparla. Dice S.
Bernardo che sia colui che sparla come colui che ascolta il
maldicente, hanno il diavolo addosso, uno sulla lingua e l’altro
nell’orecchio. Davide, riferendosi ai maldicenti dice: Hanno
affilato le loro lingue come quelle dei serpenti. Il serpente ha la
lingua biforcuta, a due punte, come dice Aristotele; tale e quale è
quella del maldicente, che con un sol morso ferisce e avvelena
l’orecchio di chi ascolta e il buon nome di colui di cui parla
male. Per questo ti scongiuro, carissima Filotea, di non sparlare mai
di alcuno, né direttamente, né indirettamente. Sta attenta a non
attribuire delitti e peccati inesistenti al prossimo, a non svelare
quelli rimasti segreti, a non gonfiare quelli conosciuti, a non
interpretare in senso negativo il bene fatto, a non negare il bene
che sai esistere in qualcuno, a non fingere di ignorarlo, tanto meno
poi devi sminuirlo a parole; agendo in questo modo offenderesti
seriamente Dio, soprattutto se dovessi accusare falsamente il
prossimo o negassi la verità a lui favorevole; mentire e
contemporaneamente nuocere al prossimo è doppio peccato. Coloro che
per seminare maldicenza fanno introduzioni onorifiche, e che la
condiscono di piccole frasi gentili, o peggio di scherno, sono i
maldicenti più sottili e più velenosi. Protesto, dicono, che gli
voglio bene e che per il resto è un galantuomo, ma, continuano, la
verità va detta: ha avuto torto nel commettere quella perfidia;
quella è una ragazza virtuosissima, ma si è lasciata
sorprendere..., e simili piccole cornici! Non capisci dov’è
l’arte? Chi vuol scoccare una freccia, la tira più che può a
sé , ma è soltanto per scagliarla con maggior forza: si può
anche avere l’impressione che costoro tirino a sé la maldicenza,
ma è soltanto per scoccarla con maggior sicurezza, per farla
penetrare più a fondo nel cuore di coloro che ascoltano. La
maldicenza portata sotto forma di scherno è la più cattiva di
tutte; fa pensare alla cicuta che, di per sé , non è un veleno
molto forte, anzi ha un’azione lenta e facilmente vi si può porre
rimedio, ma se viene ‘il vino, è senza scampo; lo stesso è di
una presa con maldicenza che, di natura sua, secondo il detto,
entrerebbe da un orecchio e uscirebbe dall’altro e che invece
penetra fortemente nella mente degli ascoltatori quando è
presentata in un contesto di parole sottili e gioviali. Dice Davide:
Hanno il veleno dell’aspide sotto le loro labbra. La puntura
dell’aspide è quasi impercettibile, e il suo veleno dà sulle
prime un prurito gradevole, che allarga così il cuore e le viscere
e favorisce così l’assorbimento del veleno, contro il quale non
ci sarà più nulla da fare. Non dire mai: Il tale è un
ubriacone, anche se l’hai visto ubriaco davvero; quello è un
adultero, perché l’hai visto in adulterio; è incestuoso perché
l’hai sorpreso in quella disgrazia; una sola azione non ti
autorizza a classificare la gente. Il sole si fermò una volta per
favorire la vittoria di Giosuè e si oscurò un’altra volta per
la vittoria del Salvatore; a nessuno viene in mente per questo di
dire che il sole è immobile e oscuro. Noè si ubriacò una volta;
e così anche Lot e questi, in più, commise anche un grave
incesto: non per questo erano ubriaconi, e non si può dire che
quest’ultimo fosse incestuoso. E non si può dire che S. Pietro
fosse un sanguinario perché una volta ha versato sangue, né che
fosse bestemmiatore perché ha bestemmiato una volta. Per
classificare uno vizioso o virtuoso bisogna che abbia fatto progressi
e preso abitudini; è dunque una menzogna affermare che un uomo è
collerico o ladro, perché l’abbiamo visto adirato o rubare una
volta soltanto. Anche se un uomo è stato vizioso per lungo tempo,
sì rischia di mentire chiamandolo vizioso. Simone il lebbroso
chiamò Maddalena peccatrice, perché lo era stata prima; mentì,
perché non lo era più, anzi era una santa penitente; e Nostro
Signore la difese. Quell’altro Fariseo vanesio considerava grande
peccatore il pubblicano, ingiusto, adultero, ladro; ma si ingannava,
perché proprio in quel momento era giustificato. Poiché la bontà
di Dio è così grande che basta un momento per chiedere e ottenere
la sua grazia, come facciamo a sapere che uno, che era peccatore
ieri, lo sia anche oggi? Il giorno precedente non ci autorizza a
giudicare quello presente, e il presente non ci autorizza a giudicare
il passato. Solo l'ultimo li classificherà tutti. Non potremo mai
dire che un uomo è cattivo senza pericolo di mentire. In caso che
sia necessario parlare possiamo dire che ha commesso tale o tal altra
azione cattiva, che ha condotto una vita disordinata in tale periodo,
che agisce male al presente; ma non è lecito da ieri tirare delle
conclusioni per oggi, né da oggi per ieri, e ancor meno da oggi per
domani. Se è vero che bisogna essere molto attenti a non parlare
mai male del prossimo, però bisogna anche guardarsi dall’estremo
opposto, in cui cadono alcuni, i quali, per paura di fare della
maldicenza, lodano e dicono bene del vizio. Se ti imbatti in un
maldicente senza pudore, per scusarlo, non dire che è una persona
libera e franca; di una persona apertamente vanesia, non dire che è
generosa e senza complessi; le libertà pericolose non chiamarle
semplicità e ingenuità; non camuffare la disobbedienza con il
nome di zelo, l’arroganza con il nome di franchezza, la sensualità
con il nome di amicizia. Cara Filotea, per fuggire il vizio della
maldicenza, non devi favorire, accarezzare, e nutrire gli altri vizi;
ma con semplicità e franchezza, devi dire male del male e biasimare
le cose da biasimare; solo se agiamo in questo modo diamo gloria a
Dio. Fa però attenzione ed attieniti a quello che ora ti dirò. Si
possono lodevolmente biasimare i vizi degli altri, anzi è
necessario e richiesto, quando lo esige il bene di colui di cui si
parla o di chi ascolta. Facciamo degli esempi: supponi che in
presenza di ragazze vengano raccontate delle licenziosità commesse
da Tizio e da Caia: è una cosa senz’altro pericolosa; oppure
supponi che si parli della dissolutezza verbale di un tale o di una
tale, sempre esemplificando; o ancora di una condotta oscena: se io
non biasimo chiaramente quel male, o, peggio, tento di scusarlo,
quelle tenere anime che ascoltano, avranno la scusa per lasciarsi
andare a qualche cosa di simile; il loro bene esige che, con molta
franchezza, biasimi all’istante quelle sconcezze. Potrei riservarmi
di farlo in un altro momento soltanto se sapessi di ricavarne
sicuramente un miglior risultato togliendo allo stesso tempo
importanza ai colpevoli. P, necessaria anche un’altra cosa: per
parlare del soggetto devo averne l’autorità, o perché sono uno
di quelli più in evidenza nel gruppo; nel qual caso se non parlo,
avrò l’aria di approvare il vizio: se invece nel gruppo non godo
di molta considerazione, devo guardarmi bene dal fare censure. Più
di tutto Poi è necessario che io sia ponderato ed esatto nelle
parole, per non dirne una sola di troppo: per esempio. se devo
riprendere le eccessive libertà di quel giovanotto e di quella
ragazza, perché chiaramente esagerate e pericolose, devo saper
conservare la misura per non gonfiare la cosa nemmeno di un soffio.
Se c’è soltanto qualche sospetto, dirò soltanto quello; se si
tratta di sola imprudenza, non dirò di più; se non c’è né
imprudenza, né sospetto di male, ma soltanto materia perché
qualche spirito malizioso faccia della maldicenza, non dirò niente
del tutto o dirò soltanto quello che è, Quando parlo del
prossimo, la mia bocca nel servirsi della lingua è da paragonarsi
al chirurgo che maneggia il bisturi in un intervento delicato tra
nervi e tendini: il colpo che vibro deve essere esattissimo nel non
esprimere né di più né di meno della verità. Un’ultima
cosa: pur riprendendo il vizio, devi fare attenzione a non
coinvolgere la persona che lo porta. Ti concedo di parlare
liberamente soltanto dei peccatori infami, pubblici e conosciuti da
tutti, ma anche in questo caso lo devi fare con spirito di carità e
di compassione, non con arroganza e presunzione; tanto meno per
godere del male altrui. farlo per quest’ultimo motivo è prova di
un cuore vile e spregevole. Faccio eccezione per i nemici dichiarati
di Dio e della Chiesa; quelli vanno screditati il più possibile: ad
esempio, le sette eretiche e scismatiche con i loro capi. È carità
gridare al lupo quando si nasconde tra le pecore, non importa dove.
Tutti si prendono la libertà di giudicate e censurare i governanti
e parlar male di intere reazioni, lasciandosi guidare dalla simpatia:
Filotea, non commettere quest’errore. Tu, oltre all’offesa a Dio,
corri il rischio di scatenare mille rimostranze. Quando senti parlare
male, se puoi farlo con fondatezza, metti indubbio l’accusa; se non
è possibile, dimostra compassione per il colpevole, cambia
discorso, ricorda e richiama alla mente dei presenti che coloro i
quali non sbagliano lo devono soltanto a Dio. Riporta in se stesso il
maldicente con buone maniere; se sai qualche cosa di bene della
persona attaccata, dilla.
Capitolo XXXV BISOGNA ESSERE FEDELI
NELLE GRANDI E NELLE PICCOLE OCCASIONI
Nel
Cantico dei Cantici lo Sposo confessa che la Sposa gli ha rapito il
cuore con uno sguardo e un capello. Tra tutte le parti del corpo
umano nessuna è più nobile dell’occhio, sia per la sua
perfezione come organo, sia per la sua attività; e niente è più
trascurabile di un capello. Lo Sposo divino in tal modo vuole farci
capire che non gli sono accette soltanto le opere importanti dei
devoti, ma anche le minori e quelle che sembrano di nessun conto.
Sarà contento di noi soltanto se avremo cura di servirlo bene nelle
cose importanti e di rilievo come nelle piccole e insignificanti; sia
con le une che con le altre, possiamo rapirgli il cuore per amore.
Preparati dunque, Filotea, a soffrire un gran numero di grosse
afflizioni per il Signore, fors’anche il martirio; deciditi a
fargli dono di quanto hai di più prezioso, sempre che si degni di
accettare: padre, madre, fratello, marito, moglie, figli, i tuoi
occhi e la tua vita; a tutto ciò devi preparare il cuore. Quando la
Divina Provvidenza non ti manda afflizioni acute e pesanti, insomma
non ti chiede gli occhi, donale almeno i capelli: voglio dire,
sopporta con dolcezza le piccole offese, gli inconvenienti
insignificanti, quelle sconfitte da poco sempre all’ordine del
giorno; per mezzo di tutte queste piccole occasioni, usate con amore
e direzione, conquisterai totalmente il suo cuore e lo farai tuo. I
piccoli gesti quotidiani di carità, un mal di testa, un mal di
denti, un lieve malessere, una stranezza del marito o della moglie,
un vaso rotto, un dispetto, una smorfia, la perdita di un guanto, di
un anello, di un fazzoletto; quel piccolo sforzo per andare
a
letto presto la sera e alzarsi al mattino di buon’ora per pregare,
per fare la comunione; quella piccola vergogna che si prova a fare in
pubblico un atto di devozione; a farla breve, tutte le piccole
contrarietà accettate e abbracciate con amore fanno infinitamente
piacere alla Bontà divina, che, per un bicchiere d’acqua, ha
promesso il mare della felicità completa ai fedeli; e siccome
queste occasioni si presentano in continuazione, servirsene bene è
un mezzo sicuro per accumulare grandi ricchezze spirituali. Quando
nella vita di S. Caterina da Siena ho letto tanti rapimenti ed
elevazioni di spirito, tante parole di sapienza e persino di
predicazioni tenute da lei, ho avuto la certezza che con quell’occhio
di contemplazione aveva rapito il cuore dello Sposo celeste; ma mi ha
consolato nella stessa misura vederla in cucina girare umilmente lo
spiedo, attizzare il fuoco, preparare il cibo, impastare il pane e
fare tutti gli uffici più umili della casa, con un coraggio pieno
di amore e di dilezione per il Signore. Ho uguale stima per la
piccola e semplice meditazione che faceva consacrandosi a quei
compiti così umili e disprezzati, come per le estasi e i rapimenti
così frequenti in lei, e che forse le furono concessi proprio in
ricompensa di quell’umiltà e di quell’abiezione. Ecco com’era
la sua meditazione: mentre preparava da mangiare per suo padre,
pensava di prepararlo per Nostro Signore, come S. Marta; per lei sua
madre le ricordava la Madonna; i fratelli, gli Apostoli. In tal modo
pensava nel suo spirito di servire tutta la corte celeste e si
adoperava in quei piccoli lavori con molta dolcezza, perché sapeva
che quella era la volontà di Dio. Ti ho presentato quest’esempio,
Filotea, perché tu ti renda conto quanto sia importante indirizzare
bene tutte le nostre azioni, per vili che siano, al servizio della
divina Maestà.
A
questo scopo ti consiglio vivamente di imitare la donna forte tanto
lodata da Salomone e che poneva mano alle imprese forti, alte e
generose senza trascurare di filare e girare il fuso: Ella ha posto
mano a cose grandi e la sua mano gira il fuso. Poni mano a cose
forti, applicandoti alla meditazione e all’orazione, all’uso dei
sacramenti, a donare amore a Dio e alle anime, a spargere buoni
pensieri nei cuori, a fare insomma opere grandi e importanti secondo
la tua vocazione; ma non dimenticare il fuso e la conocchia, ossia
pratica quelle piccole e umili virtù che crescono come fiori ai
piedi della Croce: il servizio dei poveri, la visita ai malati, la
cura della famiglia, con tutto quello che comporta, con una diligenza
che non ti lascerà mai tempo per l’ozio; e in tutte queste
faccende cerca di avere pensieri simili a quelli che, come ti ho
detto, aveva S. Caterina in tali situazioni. Le grandi occasioni di
servire Dio si presentano raramente, le piccole invece le hai sempre:
ora, chi sarà fedele nel piccolo, dice il Salvatore, avrà un
incarico grande. Fa dunque tutto in nome di Dio, e tutto sarà fatto
bene. Sia che tu mangi, sia che tu beva, sia che tu dorma, sia che ti
diverta, sia che tu giri lo spiedo, purché tu porti avanti bene le
tue faccende, trarrai sempre grande profitto al cospetto di Dio,
perché fai tutte le cose che Dio vuole che tu faccia.
Capitolo
XXXVI BISOGNA ESSERE GIUSTI E RAGIONEVOLI
Siamo
uomini soltanto perché siamo dotati di ragione, eppure è cosa
estremamente difficile trovare un uomo veramente ragionevole, perché
l’amor proprio abitualmente offusca la ragione,
e
insensibilmente ci conduce a mille generi di ingiustizie e
cattiverie, piccole sì, ma pericolose, che, come le piccole volpi
di cui parla il Cantico dei Cantici, distruggono le vigne: essendo
piccole nessuno ci fa caso ma siccome sono numerose, producono seri
danni. ‘Non pensare che quello che ora dirò siano cattiverie e
discorsi senza fondamento. Per poco accusiamo immediatamente il
prossimo, mentre scusiamo noi stessi anche nel molto; vogliamo
vendere a prezzo molto alto e comperare a buon mercato; vogliamo che
si faccia giustizia in casa degli altri, per casa nostra,
misericordia e comprensione; pretendiamo che si prendano sempre in
buona parte le nostre parole, ma siamo suscettibili e permalosi a
quelle degli altri. Pagando, vorremmo che il prossimo ci cedesse
quello che è suo; non è più giusto che si tenga quello che è
suo e noi il nostro denaro? Ce l’abbiamo con lui perché non vuole
piegarsi a noi, ma non ti pare che dovrebbe essere lui ad avercela
con noi perché vogliamo farlo piegare? Se ci piace un esercizio
disprezziamo tutto il resto e sentenziamo su tutto quello che non è
di nostro gusto. Se qualcuno dei nostri dipendenti ha un modo di fare
sgarbato, o ci riesce antipatico, può fare qualunque cosa, la
prenderemo sempre per traverso; non cessiamo di umiliarlo e siamo
pronti al rimprovero; al contrario, se qualcuno ci va a genio, può
fare quello che vuole, lo scuseremo sempre. Ci sono dei figli
veramente buoni e bravi, ma invisi ai loro papà e alle loro mamme
solo a causa di difetti fisici e magari poi sono preferiti quelli
viziosi, perché hanno delle belle qualità fisiche. In ogni campo
diamo la preferenza ai ricchi sui poveri, anche se non sono di stirpe
più nobile o più virtuosi; diamo la preferenza anche a quelli
vestiti meglio. Esigiamo con scrupolo i nostri diritti, ma
pretendiamo che gli altri siano remissivi nel chiedere i loro;
conserviamo il nostro posto con puntiglio, ma vogliamo che gli altri
siano umili e condiscendenti; ci lamentiamo con facilità del
prossimo, ma poi guai se uno si lamenta di noi! Quello che facciamo
per gli altri ci sembra sempre tanto, ciò che gli altri fanno per
noi, nulla, almeno ci sembra. Assomigliamo alle pernici di Paflagonia
che hanno due cuori: ne abbiamo uno dolce e cortese per noi, e uno
duro, severo, intransigente per il prossimo. Usiamo due pesi: uno per
pesare le nostre comodità, caricando il più possibile, l’altro
per pesare quelle del prossimo, alleggerendo più che possiamo. La
Scrittura dice che le labbra ingannatrici hanno parlato in un cuore e
in un cuore: con ciò vuol dire che hanno due cuori; avere due pesi:
uno forte, per riscuotere e un altro leggero, per pagare, è cosa
abominevole davanti a Dio. Filotea, sii costante e giusta nelle tue
azioni: mettiti sempre al posto del prossimo e metti lui al tuo e
così giudicherai rettamente; quando compri fa la venditrice e
quando vendi fa la compratrice e vedrai che riuscirai a vendere e
comprare secondo giustizia. Si tratta di piccole ingiustizie, che non
obbligano alla restituzione,perché ci limitiamo rigorosamente nei
termini a nostro favore; ma non per questo è un motivo per non
correggerci. Sono grosse mancanze contro la ragionevolezza e la
carità; se si guarda bene sono veri imbrogli: ma che ci vuole in
fin dei conti a vivere con generosità, nobiltà di cuore,
cortesia, e con un cuore signore, costante e ragionevole? Ricordati
di esaminare spesso il tuo cuore, Filotea, per vedere se verso il
prossimo si comporta come vorresti che si comportasse lui nei tuoi
confronti se tu fossi al suo posto; qui sta la ragionevolezza.
Traiano, rimproverato dai suoi confidenti perché rendeva, secondo
loro, la Maestà imperiale troppo accessibile, rispose: E sì,
perché non dovrei essere per i cittadini quel tipo di imperatore
che io vorrei incontrare se io stesso fossi semplice cittadino?
Capitolo
VIII BISOGNA RESISTERE ALLE PICCOLE TENTAZIONI
È
fuor di dubbio che bisogna combattere le grandi tentazioni con un
coraggio travolgente, e la vittoria che riporteremo ci sarà di
molto aiuto; tuttavia avviene che si tragga un profitto ancora
maggiore nel combattere le piccole; il motivo è intuibile: le prime
sono grandi, le altre sono molte; di modo che si può dire che la
vittoria su queste equivale alla vittoria su quelle.
I
lupi e gli orsi sono fuor di dubbio più pericolosi delle mosche,
ma,quanto a farci esercitare la pazienza, le mosche con la loro
importunità e la noia che ci arrecano, la vincono di molto! È
facile non essere assassini, ma molto difficile evitare le piccole
collere che trovano continuamente occasioni. t abbastanza facile per
un uomo e una donna non cadere in adulterio, ma non altrettanto
facile impedirsi le occhiate, innamorarsi o fare innamorare,
procurare emozioni e piccoli piaceri, dire e ascoltare parole di
civetteria. È raro che sia necessario mettere in guardia il marito
o la moglie da un modo di agire spregiudicato che costituisca
pericolo per il corpo; ma non lo è altrettanto quando si tratta di
pericolo per il cuore. È abbastanza facile non profanare il letto
matrimoniale, ma non altrettanto non compromettere l’amore
matrimoniale; è facile non rubare i beni altrui, non altrettanto
non corteggiarli e non desiderarli; è molto facile non portare
falsa testimonianza in tribunale, non altrettanto non mentire in
conversazione; molto facile non ubriacarsi, non altrettanto
mantenersi sobri; molto facile non desiderare la morte altrui, non
altrettanto non desiderargli qualche accidente; molto facile non
disonorare, non altrettanto non nutrire sentimenti di disprezzo. Si
può concludere che le piccole tentazioni di collera’ di sospetto,
di gelosia, di invidia, di antipatia, di stranezza, di vanità, di
doppiezza, di affettazione, di astuzia, di pensieri indecenti, sono
abituali anche per coloro che sono già più incamminati nella
devozione e più risoluti! Ecco perché , cara Filotea, è
necessario che ci prepariamo con grande cura e diligenza
a
questo combattimento; sii certa che tutte le vittorie che riporterai
contro questi piccoli nemici, saranno tante pietre preziose
incastonate nella corona di gloria che Dio ti prepara in Paradiso.
Ecco perché sostengo che, in attesa di lottare bene e con valore,
contro le grandi tentazioni, se verranno, nel frattempo difendiamoci
bene da questi piccoli e deboli attacchi.
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