(Mc
11, 12-25 || Mt 21, 18-19)
Siamo
verso la fine della vita terrena di Gesù; dopo il suo ingresso
trionfale a Gerusalemme sul dorso di un asino, gli evangelisti Matteo
e Marco raccontano un episodio molto strano e sorprendente che ha
lasciato stupiti (Mt 21, 20) i discepoli di allora e dovrebbe
stupire anche quelli di oggi. Un mattino Gesù, con quanti lo
seguono, si incammina da Betania verso Gerusalemme e: mentre
uscivano da Betania ebbe fame (Mc 11, 12). Conviene subito
osservare che è piuttosto strana questa fame già al mattino e dopo
aver fatto poca strada. Betania infatti dista da Gerusalemme meno di
tre chilometri (Gv 11, 18). E poi, se Gesù aveva fame poteva
provvedere prima di partire. Le stranezze, di cui la Sacra Scrittura
è piena zeppa, sono un segnale importante da non trascurare per
almeno due motivi: il primo è che proprio indagando, ruminando e
chiedendo luce sulle stranezze corriamo poi il rischio di ricevere in
dono i frutti saporosi nascosti nella parola e nel progetto di Dio.
Il secondo motivo è che le stranezze hanno il compito di non
lasciarci tranquilli e di invitarci a non accontentarci di
spiegazioni superficiali o insufficienti; ci invitano ad
approfondire, a desiderare di capire meglio e a pazientare magari per
anni e anni, o anche secoli e secoli, prima di trovare quella
spiegazione o quella luce che finalmente rallegra, pacifica o
risveglia il nostro cuore. Le stranezze ci suggeriscono anche che
siamo immersi in una storia e in un progetto pensati da una mente
divina, e sarebbe da parte nostra una presunzione o un’ingenuità
pretendere di capire in poco tempo questo progetto; inoltre la sua
comprensione piena, soddisfacente e definitiva non è per questo
mondo; qui vediamo come in uno specchio, in maniera confusa (1
Cor 13, 12), camminiamo nella fede e non ancora in visione (2
Cor 5, 7).
Verso
Gerusalemme
Gesù
dunque ha fame, già al mattino, sulla strada che conduce da Betania
a Gerusalemme. Vedendo nelle vicinanze un fico con delle foglie gli
si avvicina sperando di trovare anche dei fichi, ma non ne trova,
trova solo foglie; maledice allora il fico dicendo: Mai più in
eterno nasca un frutto da te (Mt 21, 19). Poi Gesù con i suoi
prosegue verso Gerusalemme, dove scaccerà quelli che vendono e
comprano nel tempio. La sera ritorna a Betania con i discepoli per
passarvi la notte. Quando il mattino seguente ritorna a Gerusalemme,
Pietro si accorge che il fico è seccato fin dalle radici (Mc
11, 20) e, stupito, interroga il Signore, il quale coglie l’occasione
per dare alcuni insegnamenti. Questo è l’ordine con cui Marco
descrive l’episodio, Matteo invece lo riassume in un solo momento e
lo colloca dopo la cacciata dei venditori dal tempio. Sul fatto che
il fico non aveva fichi, Marco fa un’osservazione formidabile sulla
quale dovremo riflettere.
Come
gli antichi profeti
Se
consideriamo solo il racconto di Matteo potremmo provare a
comprendere l’episodio nel modo seguente. Il fatto che Gesù abbia
fame già al mattino e dopo aver fatto poca strada, sta ad indicare
che in realtà non è di una fame materiale o fisica che si tratta,
ma piuttosto di una fame spirituale, una fame di fede e di amore.
Gesù infatti da alcuni anni stava percorrendo la Casa di Israele
illuminando le menti con la sua predicazione, guarendo ogni malattia
in modo miracoloso, chinandosi su ogni miseria con delicatezza e
amore, suscitando nei cuori prospettive di vita eterna; in una
parola, facendo per gli uomini ciò che nessun altro aveva mai fatto.
Gesù amava ogni categoria di persone come nessun altro le aveva mai
amate. Ora l’amore, per sua natura, ha bisogno di una risposta
d’amore per essere perfetto, ed è di questa risposta che Gesù ha
fame. Ma il guaio e il dramma era che troppi in Israele non
rispondevano all’amore con l’amore; allora Gesù, alla maniera
dei profeti, compie un’azione simbolica che rappresenti questo
dramma, in modo che la sua azione si imprima indelebilmente nella
mente di chi assiste alla scena, così da indurre a meditare
attentamente sulla serietà del suo amore e sulla gravità di ciò
che accade se non si risponde a questo amore. Il rischio è una
maledizione e una sterilità senza rimedio.
L’osservazione
di Marco
Se
ci fosse solo il racconto di Matteo questa spiegazione potrebbe
funzionare abbastanza bene ed essere sufficiente. Ma c’è Marco che
con una piccola e candida osservazione viene a complicare
terribilmente le cose. Osserva infatti Marco che se Gesù non trova
dei fichi è perché non era la stagione dei fichi (Mc 11,
13). Penso che dovremmo cogliere qui un invito a non fuggire, o
evitare, o tacere la verità, anche se questa ci mette
implacabilmente di fronte a difficoltà grandi come una montagna. Per
coloro che vogliono seguire Gesù - proprio perché Gesù è anche
Dio, conosce da Dio, ama da Dio, pensa da Dio - le difficoltà grandi
come una montagna sono il pane quotidiano. Noi invece, in parte siamo
ciechi e non ci rendiamo conto delle difficoltà o delle stranezze o
delle enormità presenti nella vita in generale e nel cristianesimo
in particolare, in parte ci illudiamo di riuscire a cavarcela facendo
finta di niente, girando alla larga dalle difficoltà o, come ha
detto qualcuno, cambiando il vino della Parola di Dio in acqua. Don
Divo Barsotti, che per tutta la vita ha scrutato la Sacra Scrittura e
i misteri della vita, dice che “Il vangelo è cosa difficile a
capirsi oltreché a praticarsi”. Forse sarebbe ancora meglio dire
che è impossibile a capirsi e a praticarsi; è quanto afferma senza
esitazioni il santo dottore di Lisieux: «Oh, gl’insegnamenti di
Gesù, come sono contrari ai sentimenti della natura! Senza il
soccorso della grazia sarebbe impossibile non solamente metterli in
pratica, bensì anche capirli» (Man. C 1, 301). E allora? Allora
proprio nell’insegnamento collegato all’episodio del fico Gesù
ci dice: Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: se uno dicesse a
questo monte: «Lévati e gettati nel mare», senza dubitare in cuor
suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà. Per
questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate
fede di averlo ottenuto e vi accadrà (Mc 11, 21-24). Se Gesù
propone ai suoi discepoli l’immagine di un monte che deve essere
gettato in mare, è perché sa che proprio di questa natura sono gli
ostacoli che incontreremo seguendo lui da Betania a Gerusalemme. E un
esempio l’abbiamo proprio nella difficoltà di comprendere il suo
comportamento nei confronti del fico senza fichi. Anche il salmo 26
ha un’immagine sorprendente e in qualche aspetto simile a quella
del monte da gettare in mare dove dice: Se contro di me si accampa
un esercito, il mio cuore non teme, se contro di me si scatena la
guerra, anche allora ho fiducia (Sal 26, 3). A questo siamo
chiamati: a spostare le montagne e a non temere anche se ci troviamo
soli a combattere contro un esercito. Nei confronti di queste parole
è normale provare uno stupore e uno sgomento simili a quelli dei
discepoli di fronte al fico fatto seccare perché non aveva fichi, e
lo sgomento è perché non era la stagione dei fichi, perché
non abbiamo una fede capace di spostare le montagne, perché di
solito abbiamo paura di pericoli molto minori di un esercito
schierato a battaglia; in certi momenti potremmo aver paura anche di
una giovane portinaia (Gv 18, 17). Questi esempi o queste situazioni
hanno una cosa in comune: ci mettono di fronte a qualcosa di
impossibile. La difficoltà, grande come una montagna, nell’episodio
del fico è che per sua natura un fico non può produrre fichi quando
non è la stagione dei fichi e quindi è ingiusto punire chi, per
natura, non può dare quanto gli viene chiesto: è allora chiaro come
il sole che Gesù ha compiuto ‘un’ingiustizia’ facendo seccare
il fico; giustamente i discepoli rimangono stupiti e perplessi.
Questo è un momento tipico e critico che i credenti prima o poi
incontrano sul loro cammino, il momento in cui si ha l’evidenza che
Dio agisce ingiustamente nei nostri confronti, o nei confronti delle
persone che amiamo, o nel governo delle vicende umane, o che ci stia
chiedendo ciò che non possiamo dare. È il momento della prova della
fede, è il momento in cui, contro ogni evidenza, siamo invitati a
fidarci comunque di Dio. Possiamo pensare al sacrificio di Abramo, a
Giobbe, a Giuseppe quando scopre la gravidanza di Maria, a Maria ai
piedi della croce, a ogni credente quando riceve Gesù nel sacramento
dell’Eucaristia, alle sorelle Marta e Maria quando Gesù, pur
pregato da persone amiche, non viene a guarire il loro fratello
Lazzaro… Ora, l’episodio del fico sollecitato a produrre dei
fichi anche quando non è la stagione dei fichi, serve a
rappresentare e a manifestare una caratteristica fondamentale della
vita cristiana. La vita cristiana infatti è una vita chiamata a
essere feconda, a produrre frutti, non per virtù naturali ma in
virtù della grazia, grazia che ci viene offerta da Gesù quando si
avvicina per manifestarci il suo amore. Se Gesù vuole dei fichi
quando è impossibile che ci siano dei fichi è perché, grazie a
lui, l’impossibilità naturale può essere superata mediante la sua
potenza soprannaturale. Grazie a me si trova frutto dice il
Signore nel libro di Osea (Os 14, 9). La vita cristiana è una vita
che deve funzionare non secondo le leggi della natura, ma secondo le
leggi della grazia, e una legge fondamentale della grazia è che ciò
che non è possibile per natura è possibile per grazia. In tutta la
Scrittura e soprattutto nel vangelo, vediamo costantemente all’opera
questa legge. Per natura è impossibile che una vergine dia alla luce
un bambino senza il concorso dell’uomo, eppure Maria dà alla luce
Gesù per opera dello Spirito Santo. Impossibile che i morti
risorgano, eppure risorgono la figlia di Giàiro (Mc 5, 41-42), il
figlio della vedova di Nain (Lc 7, 14-15), Lazzaro (Gv 11, 43), e
infine risorge Gesù per non morire mai più. Tutti i miracoli che
vediamo nel vangelo e nella Chiesa sono una conferma di questa legge
e chi vuole può ancora oggi accertare, verificare, studiare: non
sono i miracoli che mancano, ma persone che abbiamo il coraggio di
lasciarsi interrogare dai miracoli. Com’è possibile che accadano
fatti che la natura non può produrre?
Senza
vie di scampo
La
vita cristiana è una vita impossibile come è impossibile per un
fico produrre dei fichi quando non è la stagione dei fichi, come è
impossibile spostare una montagna, come è impossibile a una persona
sola affrontare un esercito schierato a battaglia. Il guaio, o la
fortuna, è che siamo immersi in queste situazioni impossibili,
dobbiamo affrontare queste difficoltà, senza avere vie di scampo. Un
esercito è schierato contro di noi, questo esercito è la
straordinaria forza dell’amore di Dio che ci assedia da ogni parte
perché desidera conquistare il nostro cuore. Un esercito in
battaglia tende a mettere a morte il suo nemico, così l’amore di
Dio tende a far morire in noi tutto ciò che si oppone all’amore,
alla vita, alla luce che Dio vuole comunicarci. Un malinteso
ampiamente diffuso fra noi e Gesù è nel fatto che la vita come la
intendiamo noi non è la vita come la intende Gesù, così l’amore,
così la gioia. I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le
vostre vie non sono le mie vie… (Is 55, 8). La differenza fra
il nostro modo di concepire la vita, l’amore e la gioia, è che noi
concepiamo questi beni in modo limitato, ristretto, mentre Dio li
concepisce in modo infinito: Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano
i vostri pensieri (Is 55, 9). Noi pensiamo a una vita, a una
gioia, a un amore naturali, ossia a produrre fichi secondo le leggi
della natura, ma Gesù pensa a una vita, a una gioia, a un amore
soprannaturali, ossia a produrre fichi secondo le leggi della grazia.
Il cardinale Journet ha un pensiero che riassume bene e conferma
queste riflessioni: “L’uomo è stato invitato da Dio, fin dal
principio, a partecipare in maniera inaudita alla beatitudine
propriamente divina. È stato creato non per divenire ciò che è per
natura, un uomo; ma per divenire, per grazia, ciò che non potrebbe
essere per natura, partecipe della stessa natura divina. E per
prepararlo a questo destino sublime, fin dai primi passi della sua
esistenza, i raggi della luce di fede e di grazia non cessano di
battere in mille maniere alle porte e alle finestre della sua anima”
(Conoscenza e inconoscenza di Dio).
Cambiare
il fondamento
La
difficoltà grande come una montagna nella vita cristiana, è che il
programma prevede un cambio di fondamenta: la nostra vita deve essere
fondata non sulle risorse naturali, ma soprannaturali, non su ciò
che vediamo, tocchiamo, gustiamo, ma su ciò che non vediamo, non
tocchiamo, non gustiamo. Ma allora questi beni che vediamo,
tocchiamo, gustiamo, che senso hanno? I beni visibili sono un segno,
un’indicazione per orientarci verso i beni invisibili, sono come i
cartelli stradali che permettono di raggiungere la meta. Quando un
bene naturale, forse a lungo cercato, ci lascia poi delusi e
amareggiati è come se dicesse: “Non sono io la meta, ciò che
cerchi, ciò che desideri, si trova al di là di ciò che io ti posso
dare”. Il guaio è che noi confondiamo molto facilmente i beni di
questo mondo con la meta; investiamo così un mucchio di risorse per
acquistare dei cartelli stradali, il che equivale a investire le
nostre risorse per rimanere fermi. La complicazione e il dramma è
che, essendo il nostro cuore fatto per l’assoluto, desidera
l’assoluto, ma cercando l’assoluto in ciò che assoluto non è,
reagisce con violenza a chi cerca in vario modo di staccarlo dai beni
a cui si è aggrappato.
Nel
tempio
Un
esempio della complessità e della gravità di questo dramma lo
vediamo in ciò che accade nel tempio. Nel tempio ci sono quelli che
vendono, quelli che comprano, quelli che trasportano cose, e poi ci
sono i capi dei sacerdoti e gli scribi; il giudizio che Gesù dà
della situazione è che il tempio è diventato un covo di ladri
(Mc 11, 17). C’è nel ladro una certa avidità che lo spinge a
impadronirsi ingiustamente di beni che non gli appartengono. Questa
avidità, unita alla violazione della legge, è il segno che il
ladro, attraverso i beni che brama, è alla ricerca disperata
dell’assoluto. E anche se lo cerca nel posto giusto, ossia nel
tempio, non lo cerca però nelle cose giuste, ossia: nel tempio di
Dio cerca dei beni che appartengono a Dio ma non sono Dio. Ora, nella
misura in cui nel tempio non si cerca Dio solo, è come se gli si
rubasse un bene che è solo suo, vale a dire il bene che lui ha
pensato per noi, il dono della sua stessa vita. Chiedendo l’assoluto
a dei beni che non possono darcelo compiamo un’ingiustizia, ed è
come voler rubare dei beni che non sono né nostri né delle cose che
desideriamo possedere, sprechiamo così un mucchio di risorse nel
vano tentativo di rubare un bene che le cose create non possiedono.
Così facendo rendiamo sterile il desiderio di Dio e allora, prima o
poi, diventeremo inevitabilmente sterili anche noi. L’avidità che
minaccia i capi dei sacerdoti e gli scribi è quella di chi ha
influenza o potere su altre persone, nel senso che il piacere che si
ottiene nell’essere in qualche modo un riferimento a cui gli altri
guardano o da cui altri dipendono, rischia di ubriacare o esaltare il
proprio io a tal punto da indurlo ad agire in ogni momento e in ogni
cosa per essere ammirato dagli uomini (Mt 23, 5). Si diventa
così ladri al sommo grado perché ci si appropria illegittimamente
della gloria che è dovuta a Dio solo. La gloria di Dio che i
sacerdoti e gli scribi dovrebbero servire, diventa invece un pretesto
per farsi riverire. Sant’Agostino descrive molto bene cosa nasce da
questo stato di cose, leggiamo infatti nella “Città di Dio”:
«Due amori hanno dunque fondato due città: l’amore di sé,
portato fino al disprezzo di Dio, ha generato la città terrena;
l’amore di Dio, portato fino al disprezzo di sé, ha generato la
città celeste. La prima si gloria di se stessa, la seconda in Dio,
perché quella cerca la gloria degli uomini, questa considera sua
massima gloria Dio» (De Civ. Dei 14, 28).
Una
forza pericolosa
Il
Cantico dei Cantici dice inoltre che l’amore è forte come la
morte (Ct 8, 6). Questa affermazione potremmo comprenderla
secondo diversi aspetti. Un primo aspetto potrebbe essere: come
nessuno di noi può sfuggire alla morte, così ognuno di noi deve
inevitabilmente fare i conti con una certa forza d’amore che ci
spinge a cercare l’assoluto. Un secondo aspetto è che un amore in
cerca di assoluto tende inevitabilmente a mettere a morte tutto ciò
che ostacola, impedisce o contrasta il suo desiderio. Un ulteriore
aspetto è che un amore in cerca di assoluto va inevitabilmente
incontro alla morte, e questa può avere due esiti opposti. Se uno si
sbaglia di assoluto e lo cerca in ciò che assoluto non è, la morte
a cui va incontro è una morte che distrugge senza rimedio e senza
speranza. Se uno invece si lascia attirare dall’assoluto che è
Dio, la sua morte può diventare un dono d’amore e preludere alla
beatitudine eterna. Ma ancor meglio bisogna dire: è vero che ognuno
di noi è in cerca di assoluto, ma soprattutto ognuno di noi è
cercato da un amore assoluto, e l’esito di questa ricerca è una
morte che può assomigliare a quella del fico sterile o a quella di
Gesù. Tutto questo per dire che una storia d’amore non è una
storia indolore. La storia d’amore in cui siamo coinvolti è la
storia di un combattimento fra la vita e la morte, fra la luce e le
tenebre, fra l’amore che è Dio e tutto ciò che contrasta ed è
incompatibile con questo amore. “Morte e Vita si sono affrontate in
un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo,
trionfa…” (Exultet).
L’attacco
Se
il Signore ha affrontato questo “prodigioso duello”, non potranno
certo evitarlo né coloro che lo vogliono seguire, né coloro che non
lo vogliono seguire. Il nostro modo di concepire la vita si incontra
o si scontra necessariamente con “la Realtà”, ossia con il modo
di concepire la vita di Dio. Il fatto poi che in noi e attorno a noi
la concezione della vita in parte si incontri e in parte si scontri
con la Realtà, dà origine alle situazioni straordinariamente
complesse in cui siamo immersi. Gesù dunque, mosso da infinito amore
per il Padre suo e per gli uomini, scatena la battaglia: Rovesciò
i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non
permetteva che si trasportassero cose attraverso il tempio. E
insegnava loro dicendo: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà
chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete
fatto un covo di ladri» (Mc 11, 15-17). Questo dobbiamo
aspettarci dal Signore, ossia che sconvolga, mandi all’aria ed
ostacoli tutto ciò che fa di noi dei ladri perché cerchiamo
l’assoluto in modo illegittimo nei nostri traffici, nei nostri
commerci, nelle nostre relazioni. Il vero traffico, il vero
commercio, la vera relazione sono i beni che possiamo ottenere con la
preghiera, ossia nella ricerca dell’amicizia con Dio a cui la
preghiera tende. E il grado di amicizia che il Signore ha in mente è
quello di chi con la preghiera può chiedere qualunque cosa, anche a
un monte di gettarsi nel mare; è un grado di amicizia per cui
l’amico è talmente intimo all’amico da essere certo che otterrà
quanto chiede nella preghiera (Mc 11, 24). Prima che giungiamo a un
tale grado di amicizia, molta acqua deve ancora passare sotto i
ponti, inoltre è impossibile per noi raggiungere una tale amicizia
senza l’aiuto di una guida, senza accettare che Gesù, quando è il
caso, rovesci i nostri tavoli e le nostre sedie e ci impedisca di
trasportare cose attraverso il tempio, ossia di utilizzare le cose di
Dio secondo i nostri corti pensieri, o di attaccarci a dei beni che
non sono Dio chiedendo loro di fare le veci di Dio.
Il
contrattacco
Quando
in un “prodigioso duello” c’è un attacco, bisogna aspettarsi
il contrattacco; infatti Marco puntualmente annota: Lo udirono i
capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire
(Mc 11, 18). Evidentemente i capi dei sacerdoti e gli scribi si
sentivano minacciati sia dal comportamento, sia dalle parole di Gesù:
Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato
del suo insegnamento (Mc 11, 18). Questo voleva dire che se i
capi dei sacerdoti e gli scribi non avessero preso qualche
contromisura, il favore e l’amore della gente si sarebbero
orientati sempre più verso Gesù e sempre meno verso di loro. Ora,
il favore della gente era per i capi dei sacerdoti e per gli scribi
una questione di vitale importanza, tanto vitale, tanto importante,
tanto assoluta, da essere una questione di vita o di morte, nel senso
che, se veniva loro meno il favore del popolo, veniva meno la loro
stessa vita e allora non potevano che decidere di mettere a morte
colui che stava mettendo a morte la loro vita. Forte come la morte
è l’amore… le sue vampe sono vampe di fuoco (Ct 8, 6). Fuoco
che tende a bruciare e distruggere tutto ciò che si oppone al suo
cammino. Un fuoco cammina davanti a lui e brucia tutt’intorno i
suoi nemici (Sal 96, 3). Se il fondamento della città dei capi
dei sacerdoti e degli scribi fosse stato l’amore di Dio, avrebbero
dovuto rallegrarsi e accogliere con riconoscenza e amore chi veniva
ad offrire su Dio un insegnamento molto superiore a quello che
potevano offrire loro. Un insegnamento che aveva un’autorità, una
luminosità, una profondità tali da lasciare stupiti e ammirati
quanti lo ascoltavano. Ma avendo fondato la loro città sull’amore
di sé, facevano la guerra a colui che era il capo della città di
Dio.
Sacerdoti,
scribi e noi
Ora,
tutta questa storia di scribi, di capi di sacerdoti, di gente che
traffica nel tempio, ha forse qualche relazione con la nostra vita
quotidiana? A prima vista siamo tentati di dire che non c’è
nessuna relazione, ma, se guardiamo più attentamente e più in
profondità, scopriamo che siamo immersi in questa storia fino al
collo. Conviene osservare che la decisione di mettere a morte Gesù
si annida nei cuori dei sacerdoti e degli scribi. I sacerdoti poi
sono capi di sacerdoti, ossia persone che avevano il potere di
prendere delle decisioni in materia religiosa. Gli scribi invece
avevano una conoscenza approfondita delle Scritture e delle cose di
Dio e la trasmettevano al popolo, erano un po’ come i teologi, gli
intellettuali, le menti pensanti della comunità. Ora, ognuno di noi
in fatto di religione, nelle cose che riguardano Dio, è al tempo
stesso sacerdote e scriba: sacerdote capo perché inevitabilmente
dobbiamo prendere una decisione a favore o contro Dio, e questa
decisione la prendiamo in base alla nostra conoscenza in materia
religiosa. Così lo scriba sta alla nostra intelligenza e il
sacerdote alla nostra volontà. Nessuno può rimanere neutrale, ma
necessariamente con la nostra intelligenza e la nostra volontà ci
collochiamo da una parte o dall’altra del campo e, a seconda
dell’amore a cui vogliamo rispondere, scegliamo di abitare la città
terrena o la città di Dio. Dobbiamo poi sapere che la convivenza di
queste due città non è affatto pacifica ma, a causa del desiderio
di assoluto che è al lavoro nell’una e nell’altra, un
combattimento all’ultimo sangue è in atto, in maniera palese o
nascosta, fino alla fine dei tempi.
La
condanna a morte di Gesù
Cercavano
il modo di farlo morire… Il modo più diffuso per cui il nostro
sacerdote capo e il nostro scriba tendono a realizzare questo
proposito, è quello di ignorare colpevolmente la persona di Gesù.
Sentiamo o intravediamo più o meno lucidamente, più o meno
confusamente che la persona di Gesù potrebbe minacciare l’equilibrio
confortevole che abbiamo raggiunto, o un certo benessere, una certa
felicità, una certa tranquillità a cui non vogliamo assolutamente
rinunciare e allora chiudiamo ermeticamente le porte e le finestre
del nostro cuore per non sentire i suoi richiami, per non lasciarci
interpellare dalle sue provocazioni. La nostra visione della vita e
il benessere che abbiamo acquisito, guai a chi ce li tocca! Una
provocazione molto efficace con cui il Signore ci interpella sono i
santi. Ad esempio, Madre Teresa di Calcutta osservava acutamente come
il grande male del nostro tempo sia “l’indifferenza”. Abbiamo
paura che i nostri tavoli, le nostre sedie, le nostre
cose siano messi sottosopra dal fuoco che arde nel cuore di
Gesù, e allora ci difendiamo rinchiudendoci in una corazza
impenetrabile di indifferenza. Ma la paura di Gesù non giustifica e
non giustificherà la nostra chiusura nei suoi confronti. Se lo
accogliamo, Gesù manderà all’aria i nostri tavoli e le nostre
sedie, il che non sarà un gran danno, ma se colpevolmente non lo
accogliamo dobbiamo sapere che una maledizione e una sterilità senza
rimedio pesano su di noi. La maledizione e la sterilità per chi non
ha voluto rispondere all’amore. Il grande male è la nostra
indifferenza nei confronti dell’amore di Dio; questa indifferenza,
ancor più dell’ostilità manifesta, ferisce e mette a morte Gesù;
perché l’indifferenza gli lega le mai e i piedi rendendo
impossibile ogni sua azione, ogni sua influenza sul nostro cuore. E
Gesù morente, incredibilmente, nonostante tutto, prega per noi
dicendo: Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno
(Lc 23, 34). Noi non sappiamo quello che facciamo quando chiudiamo le
porte del nostro cuore a Gesù… Nella misura in cui la nostra
incoscienza ha delle attenuanti e delle giustificazioni, siamo
autorizzati a sperare nel perdono del Padre, ma la nostra incoscienza
e la nostra indifferenza potrebbero anche non avere delle scusanti e
allora rischiamo di rendere vana l’estrema preghiera, l’estrema
supplica di Gesù, la quale, oltre che al Padre suo, è anche rivolta
al nostro cuore. Siccome nessuno può sapere con certezza in che
misura offende in vario modo l’amore di Dio, in che misura siamo
colpevoli e in che misura siamo innocenti, dobbiamo accettare questa
incertezza con il sano timore ad essa collegato. Il timore di chi,
consapevole della propria miseria, sa di mancare in ogni momento e in
mille modi nei confronti di un amore infinito che pesa su di sé.
L’Amore
e il “non amore”
Nella
vita spirituale può accadere ad un certo punto questo strano
fenomeno: più l’amore di Dio si avvicina, più noi diventiamo
consapevoli di essere il “non amore”, più ci rendiamo conto di
essere incapaci di rispondere a tale amore, più ci rendiamo conto di
essere indegni di tale amore. Tutta la difficoltà, la complessità e
il dramma della vita cristiana è nell’incertezza delle nostre
reazioni e della nostra risposta alle manifestazioni dell’amore di
Dio. C’è dunque un momento, una fase della manifestazione
dell’amore per cui, manifestando se stesso, l’amore di Dio
manifesta anche il nostro non amore. Se accettiamo questo momento
piuttosto critico e disagevole, se non bariamo e non rifiutiamo una
luce che fa anche soffrire, se avremo “il coraggio di aver paura”
come dice il padre Molinié, beneficeremo degli aiuti di cui abbiamo
bisogno per attraversare questo momento. L’aiuto è il
presentimento di una misericordia che di generazione in
generazione si stende su quelli che lo temono (Lc 1, 50). Solo
chi ha il sincero timore di offendere l’Amore può ricevere
dall’Amore il rimedio a questo timore.
Diventare
misericordiosi
Un’altra
disposizione per ricevere la misericordia è quella di esercitarci a
essere noi stessi misericordiosi. Essendo noi il “non amore” che
ha relazioni quotidiane con altri “non amore”, capita con una
certa frequenza che siamo feriti e a nostra volta feriamo i nostri
fratelli; soffriamo per le loro mancanze d’amore e a nostra volta
li facciamo soffrire per le nostre mancanze d’amore. Se non si
corre ai ripari, il nostro non amore aiutato dal non amore di chi ci
sta accanto può trasformare la vita in un inferno. Il rimedio,
indicato in varie circostanze e a più riprese dal Signore, è di
disporre il nostro cuore a perdonare. Perdonare gli altri, perdonare
noi stessi, perdonare tutto, perdonare sempre. Così infatti il
Signore conclude il suo insegnamento di fronte al fico ormai secco:
Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno,
perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a
voi le vostre colpe (Mc 11, 25). E se perdonare può essere in
certi momenti una difficoltà grande come una montagna, il Signore ci
dice: «Abbiate fede in Dio, tutto è possibile con il
soccorso della grazia». Grazia che abbondantemente possiamo
attingere guardando e ascoltando Gesù sulla croce mentre prega il
Padre di perdonare noi peccatori. Se poi la grazia che mostra la
nostra incapacità di amare…, il nostro peccato…, ci mette a
disagio e rischia di farci fuggire come gli apostoli, ancora una
volta il Signore ci incoraggia dicendo: «Sono io, non temete…
Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me, ogni peccatore
pentito tornerà a casa giustificato e nella casa del Padre
mio riceverà in dono la beatitudine senza fine».
Eugenio
Pramotton Dal sito http://www.medvan.it/
Nessun commento:
Posta un commento