Le
offese, di per sé, sono un male, ma sappiamo bene che Dio sa trarre
il bene anche dal male; certamente il Signore non vuole le offese ma,
dato che ci sono, occorre avere la sapienza di saperle usare. Le
offese infatti sono occasioni d'oro date da Dio per distruggere
l'amor proprio.
Tutti,
più o meno, siamo Superbi e orgogliosi, e siccome Dio ci ama, per
portarci con Sé in Paradiso, fa di tutto per renderci umili. Se tu
dici di te stesso: io non Son capace di far niente, va bene, ma se
Sono io a dirti che tu sei un buono a nulla, subito ti offendi: ciò
significa che non credevi a quanto dichiaravi.
Quindi
le offese, se viste come “occasioni”, sono in ultima analisi un
bene. I Padri del deserto erano campioni nel trasformare le offese in
doni del Cielo.
Ascoltate
questo episodio:
«Raccontavano
che il padre Gelasio aveva un libro di pergamena che valeva 18
monete. Conteneva il Vecchio e il Nuovo Testamento. Lo lasciava in
chiesa, perché potessero leggerlo i fratelli che lo desideravano. Un
giorno venne un fratello forestiero a far visita all'anziano e, visto
il libro, bramò di possederlo; lo rubò e se ne andò. Benché
l'avesse notato, l'anziano non gli corse dietro per prenderlo. Giunto
quegli in città, cercò di venderlo e, trovato un acquirente, gli
chiese la somma di 16 monete. Colui che voleva comprarlo gli disse:
"Dammelo. Prima lo faccio stimare e poi ti darò quello che
vale”. Avutolo lo portò da padre Gelasio perché lo stimasse,
dicendogli il prezzo richiesto dall' offerente. Lanziano gli disse:
“Compralo. È bello e vale il prezzo che hai detto”. L’altro,
tornato dal offerente, riferì la cosa diversamente da quanto
l'anziano gli aveva detto egli disse: "Ecco, l'ho mostrato a
padre Gelasio ed egli mi ha detto che non vale 16 monete, vale molto
meno” Udito ciò, il fratello gli chiese: "Padre Gelasio non
ti ha detto nient'altro?” “No”. Gli disse allora: “Non voglio
più vendertelo. Restituiscimelo”. E preso da compunzione, ritornò
dall'anziano per esprimergli il suo pentimento e lo pregò di
riprendere il libro. Questi non voleva ma, alle parole del fratello:
“Se non lo prendi non avrò più pace disse: "Se non puoi aver
più pace, lo prendo”. Il fratello rimase quindi presso di lui fino
alla morte, molto edificato dallo zelo del vecchio».
Vedete
questo padre? Quando il commerciante gli porta il libro da far
valutare, anziché smascherare tutto, suggerisce di Comprarlo e
soprattutto, quando ritorna il ladro, trasforma l'offesa fatta – il
furto Subito – in una cosa buona. Il padre sa tramutare il
risentimento in atto di perdono, ed è tale l'edificazione di questo
episodio che il padre che aveva rubato il libro si pente e rimane con
l'anziano fino alla morte.
Le
offese, dunque, per quanto oggettivamente atti malvagi, possono avere
un duplice effetto positivo: fare bene a noi che riceviamo l'offesa e
fare bene all'offensore stesso.
A
noi perché, come si è detto, distruggono l'amor proprio. Esse si
presentano come delle cannonate improvvise, inaspettate... Si
comincia a discutere per delle futilità e si finisce con l'offendere
il prossimo. Qual e l'effetto delle cannonate contro una città
fortificata? Distruggono le mura. Allo stesso modo, siccome noi
passiamo molto tempo a costruire il piedistallo Sul quale ci mettiamo
per essere ammirati, apprezzati e applauditi dal prossimo, ecco che
la Provvidenza manda qualche cannonata per distruggere il
piedistallo. Se Dio avesse altri modi, li userebbe, ma evidentemente
l'orgoglio è così radicato in noi che occorrono i bombardamenti.
E
non pensate che la mancanza di reazioni violente sia sinonimo di
virtù; ci possono essere giudizi pesanti interiori anche se
esteriormente c'è il sorriso. E la cosiddetta “implosione
monastica”. Sapete la differenza fra implosione ed esplosione?
L'esplosione e una casa che salta per aria: si vede e si sente; i
monaci Invece implodono: fuori non si vede niente, rimangono
imperturbabili, ma dentro si irritano, giudicano e condannano.
Occorre
comunque arrivare alla fine ad eliminare non solo le esplosioni
verbali che creano reazioni a catena e liti successive con toni
sempre più accesi, ma anche le implosioni, perché è vero che le
offese possono essere usate per crescere nell'umiltà, ma è anche
vero che alla fine tra persone che si amano è meglio che le offese
non ci siano affatto.
Anche
Gesù ricevette molte offese durante gli anni della sua vita
pubblica. Nella Passione, luogo massimo delle offese, Egli reagì
alle provocazioni tacendo: Jesus autem tacebat (Mt 26,63). Sulla
croce si rivolse al Padre e chiese perdono per i suoi crocifissori:
“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc
23,34). Davanti a Pilato Gesù parla, ma di fronte alle offese tace.
Gesù si espone alle offese, il male si Scaglia Sul Bene assoluto, ed
Egli lascia fare. Sulla croce è fisso, non può muoversi perché i
chiodi lo tengono fermo: è un “esposto”. Nella Passione tutti
possono fare di Lui quello che vogliono, la violenza è inaudita,
brutale. Gesù potrebbe fulminare con uno sguardo, ma lascia che il
male si sfoghi totalmente su di Lui. È una sorta di parafulmine: il
male affonda, le offese si scagliano, e la reazione è tacere e
incassare le offese. In questo modo il male, esaurita la sua azione,
viene assorbito e perde la sua forza. È l'azione dell'amore, che
annulla e vanifica il male, dopo averlo totalmente assunto; è quel
famoso calice dei Salmi: fino alla feccia ne dovranno sorbire”
(Sal 75,9).
Venendo
a noi, come possiamo trasformare le offese in bene? Suggerisco cinque
azioni successive da applicare ogni volta che subiamo un'offesa.
1
– Bloccare l'ira con il silenzio.
Quando
vengo offeso, se voglio veramente approfittare di questa offesa e
ritenerla come opera di Dio o, meglio, l'offensore come l'inviato da
Dio per la mia crescita, devo stare zitto. Sono offeso e come
primissima reazione taccio.
2
– Guardare l'offensore con mitezza.
Quando
offendo qualcuno, posso trovarmi di fronte una persona che tace con
le parole, ma che mi fulmina Con lo sguardo e che manda i lampi dagli
occhi. Lo sguardo di Cristo in croce, invece, non è certo uno
sguardo distruttivo, tant'è che il buon ladrone ne rimane colpito e
si rivolge al Signore con le parole che sappiamo. Guardare l'altro
con mitezza! E lo sguardo di Gesù a Pietro dopo il rinnegamento: in
quel momento l'apostolo, lontano da Dio, ha tradito la fiducia del
suo maestro e questi lo ricambia con uno sguardo di misericordia che
fa piangere l'apostolo di amarezza. Ecco quanto può uno sguardo di
mitezza.
3
– Sentire la pena per il peccato che è in lui.
Dopo
aver guardato l'offensore con dolcezza, comincio addirittura a
soffrire per il fatto che lui, proprio per questa offesa, sia lontano
da Dio. Egli è dominato dalle passioni, dall'ira, quindi lo
compiango; è come avere un figlio gravemente malato e sentire un
amore pieno di compassione per lui.
4
– Chiedere perdono al Padre di quel peccato.
Faceva
così Silvano del Monte Athos. Se veramente sento pena per quel
peccatore, comincio nel mio Cuore – magari non subito, ma più
tardi - a chiedere perdono al Signore di quel peccato che mi ha
offeso. A questo punto non è più il suo peccato, direbbe Silvano;
ora è il nostro, perché io sono solidale con il mondo dei
peccatori. Se mi offendi ed io riesco a vincere la primissima
reazione, alla fine davvero prego per te, perché so che la tua ira
ti allontana da Dio ed io ne provo pena.
5
– Ringraziare Dio che non ci siamo lasciati scappare
quell'occasione.
Ringraziare
Dio perché ne abbiamo fatto tesoro, perché siamo riusciti,
attraverso l'offensore, a diventare più miti, a far crollare in noi
una parte dell'amor proprio e abbiamo trasformato l'offesa in atto di
ringraziamento.
Forse
Sarete un po' scoraggiati (sono cinque passaggi un po' difficili...),
ma il passo più faticoso è il primo. Se riuscite a farlo, il
secondo è già più facile e poi il terzo, il quarto e il quinto
arrivano quasi di conseguenza. Dovrete riuscire d'ora in poi a
governare il primo istinto di rispondere malamente. Mettete subito il
silenzio, contando fino a dieci, anche se dentro vi rimbomba l'offesa
e Pira; state Zitti, state fermi.
Anche
Gesù sentiva le offese sulla croce. Pensate non le sentisse? Pensate
gli facessero piacere? No, però subito venivano vissute in questo
processo di perdono: “Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì
la sua bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora
muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca” (Is
53,7).
Il
risultato finale dell'intero processo è l'acquisizione di una grande
pace interiore, mentre l'ira lascia uno strascico che a volte va
avanti per anni. Se l'offesa è stata grave e la risposta anche, si
rischia di rompere definitivamente con il fratello senza possibilità
di ricucire. Se invece applichi subito la cura, sentirai una grande
pace. E chissà che tale pace non finisca anche all'offensore
malvagio che, vedendo te così tranquillo e pacificato, si
dimenticherà del male fatto e sentirà di aver sbagliato.
E
se uno non ce la fa a tacere? Allora scatta il piano B, detto piano
di santa Teresa”. Una volta santa Teresa di Gesù Bambino fu messa
nell'occasione di percorrere queste cinque tappe, ma non riuscendo a
viverle a dovere, sentite come se la cavò:
«Cara
madre, le cito un esempio che forse la farà sorridere. Durante una
delle sue bronchiti, io venni un mattino pian piano a riportarle le
chiavi della grata perché ero sacrestana e in fondo non ero affatto
contrariata di quell'occasione di vederla, anzi, ero molto contenta,
ma mi guardai bene dal farlo conoscere. Una consorella, animata da
Santo zelo, che mi amava molto, vedendomi entrare nella sua stanza,
madre mia, credette che io l'avrei svegliata e volle prendermi le
chiavi, ma io ero troppo smaliziata per dargliele e cedere i miei
diritti. Le dissi, con la maggior cortesia possibile che anch'io
desideravo non svegliarla, che stava a me restituirle le chiavi.
Capisco allora che sarebbe stato più perfetto cedere a quella
consorella che era anche più anziana di me. Non lo capivo allora,
perciò volendo assolutamente entrare dietro a quella, nonostante che
ella mi spingesse la porta per impedirmi di passare, ben presto il
guaio che temevamo accadde. Il rumore che facevamo le fece aprire gli
occhi. Allora, madre mia, tutto ricadde su di me. La povera
consorella alla quale io avevo resistito si mise a tirare fuori tutto
un discorso il cui fondo era questo: è suor Teresa di Gesù che ha
fatto tutto questo rumore. Mio Dio Com'è sgradevole lo sentivo tutto
il contrario e avevo una gran voglia di difendermi. Fortunatamente mi
venne un'idea luminosa. Mi dissi che se certamente avessi cominciato
a giustificarmi, non avrei potuto mantenere in pace la mia anima,
sentivo che non avevo abbastanza virtù per lasciarmi accusare senza
dir nulla, perciò l'ultima tavola di salvezza era la fuga, pensare e
fare un tutt'uno. Partii senza tamburo né tromba mentre sentivo che
la consorella continuava con il suo discorso che assomigliava alle
imprecazioni di Camilla contro Roma. Il cuore mi batteva tanto forte
che mi fu impossibile andar lontano e mi sedetti sulle scale per
godere in pace il frutto della mia vittoria. Non era un atto di
grande valore, è vero, ma tuttavia credo che sia meglio non esporsi
alla battaglia quando la sconfitta è sicura».
Se
sentite che state per rispondere malamente, Scappate. Meglio
andarsene che reagire. Il frutto è la pace, come confessa la santa:
“Mi fermai a godere il frutto di questa vittoria”.
L'offesa
fa bene anche all'offensore. Sembra strano, ma una possibilità c'è.
Scrive san Paolo: “Non rendete a nessuno male per male (...) non
fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira
divina (ECCO il principio della fuga! Non è vigliaccheria, ma io
lascio fare all'ira divina), sta scritto infatti: a me la vendetta,
sono io che ricambierò, dice il Signore. Al contrario, se il tuo
nemico ha fame, dagli da mangiare; se il nemico ha sete, dagli da
bere: così facendo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo
capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”
(Rm 12,17-21).
Esiste
una giustizia e questa giustizia la compie Dio. Noi non siamo in
grado di dare la risposta adeguata alle offese, quindi è saggio
rimettere la nostra causa al giustiziere.
Secondo:
se alla passione dell'ira risponde altrettanta passione dell'ira, non
si esce dallo scontro. Ira chiama ira, quindi: “Benedite coloro che
vi perseguitano, benedite e non maledite” (Rm 12,14). La grazia ha
l'effetto di scaricare la passione, di calare la tensione. Io voglio
la salvezza di quel peccatore: allora accumulare carboni sulla Sua
testa vuol dire creargli dei problemi di coscienza; se io sto
continuamente in silenzio, se assorbo tutto, se l'ira si sfoga verso
di me e non reagisco mai, se dono uno sguardo d'amore e prego
ardentemente per lui, la sua ira può scatenarsi in modo
inverosimile, ma può darsi che, Scaricata tutta, il peccatore si
arrenda e crolli. E se non crolla allora lo consegneremo veramente
nelle mani di Dio, perché noi non possiamo fare altro.
Dio
vuole la salvezza di quel peccatore, ma dal momento che egli è sordo
alla sua voce, manda noi. In quel momento siamo una sorta di
missionari, gli inviati del Cielo, gli angeli di Dio per quel
peccatore. E comunque, anche se il nostro silenzio e la nostra pace
lo fa arrabbiare ancora di più, il pentimento può arrivare più
tardi, foss'anche alla fine della vita. Alcuni mariti in fondo alla
pista confessano: “In tutta la mia vita ho fatto tribolare mia
moglie, ma adesso che sto morendo capisco tutto il male che ho fatto
e chiedo perdono”. E. stata proprio la pazienza della moglie che ha
creato il pentimento finale. Di fatto, colui che assorbe l'ira mette
l'altro in condizione prima o poi di pentirsi. Se si pente subito,
voi guadagnate un fratello e avrete compiuto un'opera di misericordia
che rimarrà scritta in eterno nel libro della Vita.
Un
bel giorno da san Serafino di Sarov arrivarono due persone
malintenzionate armate di bastoni. Il santo abitava in una capanna di
legno a quindici chilometri dal convento; i ladri credevano che gli
eremiti avessero chissà quale ricchezza nascosta, forse dei soldi
sotto il materasso. San Serafino era un omaccione grande e grosso
abituato a spaccare della legna; quando gli arrivarono addosso
minacciosi, tutta la sua natura di uomo della Russia venne fuori e
cominciò a difendersi. Ma capì che non doveva farlo, e si lasciò
bastonare senza reagire. Gliene diedero tante da massacrarlo, perché
volevano proprio ucciderlo; poi videro che nella Capanna non c'era
niente e fuggirono. Quando san Serafino riuscì a riprendersi, fece
la strada verso il monastero strisciando sui gomiti, arrivando più
morto che vivo. Lo curarono, stette diversi mesi infermo, ma di fatto
non si riprese mai più e rimase tutto il resto della vita ingobbito
e sciancato. Dopo non tanto tempo i due briganti bussarono al
convento pieni di rimorso, perché avevano capito che Serafino era un
grande santo, e questi cosa fece? Li fece monaci! Visto il
pentimento, trasformò immediatamente il male in bene.
Io
invece – confesso la mia mediocrità - una volta trovai un ladro
dentro Casa San Sergio. Stavamo pranzando e mi ricordai di una cosa
che avevo lasciato in cella; salii e vidi nella stanza del padre
Barsotti un uomo con le mani nel cassetto del comò. Ci guardammo e
Ovviamente capii subito che si trattava di un ladro. “Scusa, ma tu
cosa stai facendo?”. E lui: “Ehm... Avrebbe per caso un bicchiere
d'acqua?”. "Penso piuttosto che chiamerò i carabinieri”,
gli risposi. Al che egli uscì rapidamente di stanza e si diresse
verso l'uscita; io gli corsi dietro fino ad un motorino parcheggiato
nel piazzalino fuori. Salì e mentre partiva gli dissi chiaramente
(non come san Serafino di Sarov): “Guarda che ti ho visto bene in
faccia: cerca di non tornare più”. Di fatto non si vide più.
Diedi un pessimo esempio: con San Serafino i ladri tornarono e si
fecero monaci, con me invece il brigante non si è più fatto vivo e
ha continuato a fare il ladro.
Un'altra
volta fu il turno di padre Silvano trovare un ladro a Casa San
Sergio, addirittura dentro la sua cella (immaginate entrare in camera
vostra e trovarvi un ladro... Non è il massimo della vita). Con il
suo aplomb nordico e il suo Sorriso celestiale, Silvano gli disse
dolcemente: "Vieni con me”. Questi, stranamente, anziché
reagire o scappare, lo seguì. Silvano lo portò in cappella e
indicando col dito il tabernacolo gli disse: "Vedi, lì c'è
Gesù”. Il povero ladro era confuso, non sapeva che dire... Fece un
cenno di genuflessione e se ne andò pian piano in silenzio!
Vedete
come il diverso comportamento della persona lesa può cambiare il
cuore dell'offensore.
Racconto
rabbinico
Un
giorno rabbi Meher-Baba fece ai suoi discepoli questa domanda:
“Perché le persone quando sono arrabbiate gridano?”. I discepoli
ci pensarono un po' poi risposero: “Perché perdono la calma, per
questo gridano”, “Ma perché gridare – ribadì il maestro –
quando l'altra persona ti sta vicino? Non le puoi parlare a bassa
voce? Perché alzare la voce?”. I discepoli diedero altre risposte,
ma nessuna di esse risultò soddisfacente al maestro.
Alla
fine Meher-Baba spiegò: “Quando due persone sono arrabbiate, i
loro cuori si allontanano molto. Per coprire la distanza dei cuori,
si mettono ad urlare nel tentativo di sentirsi più vicini; e più
sono arrabbiati più gridano, per superare la loro distanza”.
Il
maestro chiese poi: “E che cosa succede quando due persone si
innamorano? Non gridano, parlano dolcemente, perché i loro cuori
sono molto vicini. La distanza è ridottissima. E quanto più si
amano, tanto più non parlano, ma sussurrano e si guardano negli
occhi. Alla fine non hanno più bisogno di discorsi e si contemplano
in silenzio: il loro stesso cuore parla”.
padre Serafino Tognetti – Tratto dal libro
“MISERICORDIA ULTIMO ATTO”
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