Non
molto tempo fa, ho avuto occasione di ammirare un rilievo in marmo
che rappresentava l'adorazione dei Magi al Dio Bambino. Gli facevano
corona altri rilievi raffiguranti quattro angeli, ognuno con un
simbolo: un diadema, il mondo coronato dalla croce, una spada, uno
scettro. In questo modo plastico, utilizzando segni ben noti, si è
voluto illustrare l'avvenimento che oggi commemoriamo: alcuni
sapienti — la tradizione dice che erano dei re — si prostrano
davanti a un Bambino, dopo aver domandato a Gerusalemme: Dov'è il
re dei giudei che è nato? (Mt 2, 2).
Anch'io,
spinto da questa domanda, contemplo ora Gesù adagiato in una
mangiatoia (Lc 2, 12), cioè in un posto adatto solo agli animali.
Dove sono, Signore, la tua regalità, il diadema, la spada, lo
scettro? Gli appartengono, ma non ne fa uso; regna avvolto in fasce.
È un re che appare a noi inerme, indifeso; un piccolo bambino. Come
non ricordare le parole dell'Apostolo: Spogliò se stesso, assumendo
la condizione di servo? (Fil 2, 7).
Il Signore nostro si è
incarnato per manifestarci la volontà del Padre, e ci ammaestra fin
dalla culla. Gesù ci cerca — con vocazione che è vocazione alla
santità — affinché assieme a Lui portiamo a compimento la
Redenzione. Ascoltiamo il suo primo insegnamento: dobbiamo
corredimere cercando non il trionfo sul nostro prossimo, ma su noi
stessi. A imitazione di Cristo, dobbiamo annullarci e metterci al
servizio degli altri, per condurli a Dio.
Dov'è il re? Dove
cercarlo se non là dove vuole regnare, cioè nel cuore, nel tuo
cuore? Per questo si fa bambino: chi non ama infatti una piccola
creatura? Dov'è allora il re, il Cristo che lo Spirito Santo cerca
di formare nella nostra anima? Non può essere di certo nella
superbia che ci separa da Dio, non nella mancanza di carità che ci
isola. Lì Cristo non c'è; lì l'uomo resta solo.
Ai piedi di
Gesù Bambino, nel giorno dell'Epifania, davanti a un Re che non
porta segni esterni di regalità, noi diciamo: Signore, strappa la
superbia dalla mia vita, distruggi il mio amor proprio, la mia smania
di affermazione, di impormi sugli altri. Fa' che l'identificazione
con te sia il fondamento della mia personalità.
La
meta non è facile: identificarsi con Cristo. Ma neppure è
difficile, se viviamo come il Signore ci ha insegnato: cioè se
facciamo quotidiano ricorso alla sua Parola e impregniamo la nostra
vita della realtà sacramentale — l'Eucaristia — che Egli ci ha
lasciato in alimento, perché la condizione del cristiano sulla
terra è quella del viandante. Dio ci ha chiamati con inequivocabile
chiarezza. Come i Magi, anche noi abbiamo scoperto nel cielo
dell'anima la stella che ci guida e illumina.
Abbiamo visto la sua
stella in Oriente, e siamo venuti ad adorarlo (Mt 2, 2). Tale è
anche la nostra esperienza. Anche noi abbiamo notato che nell'anima,
a poco a poco, si accendeva una luce nuova: il desiderio di essere
pienamente cristiani; l'ansia, direi, di prendere Dio sul serio. Se
ognuno di noi volesse ora raccontare ad alta voce l'intimo sviluppo
della sua vocazione soprannaturale, tutti riconosceremmo che è
stata una cosa divina. Ringraziamo Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito
Santo, e Maria Santissima, dalla cui mediazione ci vengono tutte le
benedizioni del Cielo, del dono che, assieme a quello della fede, è
il più grande che il Signore può concedere a una creatura: il
dono di un impulso efficace per giungere alla pienezza della carità,
convinti che è necessario — e non solo possibile — raggiungere
la santità anche in mezzo alle attività professionali, sociali...
Guardate con quanta delicatezza ci invita il Signore; si esprime con
parole umane, come un innamorato: Io ti ho chiamato per nome, tu mi
appartieni (Is 43, 1). Dio, che è la bellezza, la grandezza, la
sapienza, ci annuncia che gli apparteniamo, che siamo stati scelti
come oggetto del suo amore infinito. È necessaria una forte vita di
fede per non sciupare questa meraviglia che la Provvidenza divina
affida alle nostre mani: ci vuole una fede come quella dei Magi, che
ci faccia convinti che né deserto, né tempeste, né la quiete
delle oasi ci impediranno di giungere alla meta della Betlemme
eterna, della vita definitiva in Dio.
Un
cammino di fede è un cammino di sacrificio. La vocazione cristiana
non ci toglie dal nostro posto, ma esige che abbandoniamo tutto ciò
che è di ostacolo al volere divino. La luce che si accende non è
che l'inizio: dobbiamo seguirla, se vogliamo che quella luce divenga
stella e poi sole. Finché i Magi sono in Persia — scrive san
Giovanni Crisostomo — non vedono che una stella; ma quando
abbandonano la loro patria, vedono il sole stesso di giustizia. Non
avrebbero più visto nemmeno la stella se fossero rimasti nel loro
paese. Affrettiamoci perciò anche noi; e anche se tutti volessero
impedircelo, corriamo alla casa di questo Bambino (SAN GIOVANNI
CRISOSTOMO, In Matthaeum homiliae, 6, 5 [PG 57, 78]).
Abbiamo visto
la sua stella in Oriente, e siamo venuti ad adorarlo. All'udire
queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta
Gerusalemme (Mt 2, 2-3). Ancora oggi si ripete questa scena. Davanti
alla grandezza di Dio, davanti alla decisione pienamente umana e
profondamente cristiana di vivere in modo coerente la propria fede,
non mancano coloro che, sconcertati, si meravigliano o addirittura si
scandalizzano. Sembra che non concepiscano altra realtà che quella
che rientra nei loro limitati orizzonti terreni. Davanti alle prove
di generosità di quanti hanno ascoltato la chiamata del Signore,
sorridono con un senso di superiorità, si spaventano o — in
alcuni casi veramente patologici — concentrano tutti i loro sforzi
per impedire la santa decisione che una coscienza ha preso in piena
libertà.
Io ho assistito, in più di una occasione, a ciò che
potrei chiamare una mobilitazione generale contro chi aveva deciso di
dedicare tutta la vita al servizio di Dio e degli uomini. Vi sono
delle persone convinte che il Signore non può scegliere chi vuole
Lui, secondo il suo beneplacito, senza chiedere il loro permesso; o
convinte che l'uomo non è capace di piena libertà per rispondere
di sì all'Amore o respingerlo. La vita soprannaturale delle singole
anime è qualcosa di secondario per chi ragiona in questo modo.
Ritengono che essa meriti attenzione solamente dopo che sono state
soddisfatte fin le più piccole comodità e tutti gli egoismi
umani. Se così fosse, che cosa resterebbe del cristianesimo? Le
parole di Gesù, amorose e allo stesso tempo esigenti, sono solo da
ascoltare o anche da mettere in pratica? Egli ha detto: Siate
perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5, 48).
Il
Signore si rivolge a tutti gli uomini perché tutti gli vadano
incontro, perché tutti siano santi. Non chiama soltanto i Magi,
uomini saggi e potenti; prima aveva inviato ai pastori di Betlemme
non già una stella, ma uno dei suoi angeli (cfr Lc 2, 9). Ma tutti,
poveri o ricchi, sapienti o meno, devono maturare nell'anima la
disposizione umile che permette di ascoltare la voce di Dio.
Pensate
a Erode: è un potente della terra, e ha la possibilità di
servirsi della collaborazione dei sapienti. Riuniti tutti i sommi
sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in
cui doveva nascere il Messia (Mt 2, 4). Ma la sua potenza e la sua
scienza non lo portano a riconoscere Dio. Per il suo cuore indurito,
potere e scienza sono strumenti di malizia, di desiderio vano di
annientare Dio, di disprezzo per la vita di un pugno di bambini
innocenti.
Continuiamo a leggere il santo Vangelo. Gli risposero: «
A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del
profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più
piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che
pascerà il mio popolo, Israele » (Mt 2, 5). Non possiamo sorvolare
su questi particolari della misericordia divina: colui che veniva a
redimere il mondo nasce in un villaggio sperduto. Ma Dio — ci
ripete insistentemente la Scrittura — non fa discriminazione di
persone (cfr 2 Cr 19, 7; Rm 2, 11; Ef 6, 9; Col 3, 25; ecc.). Per
invitare un'anima a una vita di piena coerenza con la fede non
considera i suoi meriti, la nobiltà della famiglia, l'altezza della
sua coscienza. La vocazione precede tutti i meriti: La stella che
avevano visto in Oriente li precedeva, finché giunse e si fermò
sopra il luogo dove si trovava il Bambino (Mt 2, 9).
La vocazione
precede ogni cosa; prima ancora di poterci rivolgere a Lui, Dio ci
ama e suscita in noi l'amore con il quale corrispondergli. La paterna
bontà di Dio ci viene incontro (cfr Sal 78, 8). Nostro Signore non
soltanto è giusto; Egli è molto di più: è misericordioso. Non
aspetta che ci rivolgiamo a Lui; ci previene con segni palesi di
affetto paterno.
La vocazione è la prima realtà e, come la
stella, splende davanti a noi e prima che noi fossimo, per orientarci
nel nostro cammino di amore a Dio; quindi non è ragionevole nutrire
dei dubbi se mai qualche volta ci nascondesse la sua luce. In
determinati momenti della nostra vita interiore, quasi sempre per
colpa nostra, può capitare quello che accadde ai Magi nel loro
viaggio: la stella scompare. Conosciamo ormai lo splendore divino
della nostra vocazione e siamo persuasi del suo carattere definitivo;
ma forse la polvere che solleviamo nel camminare — la polvere delle
nostre miserie — forma una spessa nube che impedisce alla luce di
filtrare.
Che fare, allora? Seguire l'esempio di quegli uomini santi:
domandare. Erode si servì della scienza per comportarsi
ingiustamente; i Magi l'utilizzano per operare il bene. Ma noi
cristiani non abbiamo bisogno di chiedere nulla a Erode e ai sapienti
della terra. Cristo ha dato alla sua Chiesa la sicurezza della
dottrina e il flusso ininterrotto della grazia dei Sacramenti; ha
disposto inoltre che vi siano persone capaci di orientare, di
guidare, di riproporre costantemente il cammino. Possiamo disporre di
un tesoro infinito di scienza: la parola di Dio, custodita nella
Chiesa; la grazia di Cristo, che viene data nei Sacramenti; la
testimonianza e l'esempio di chi vive rettamente vicino a noi, di chi
ha saputo costruire con la sua vita un cammino di fedeltà a Dio.
Permettetemi un consiglio: se qualche volta perdeste la chiarezza
della luce, ricorrete sempre al buon pastore. Chi è il buon
pastore? Colui che entra dalla porta della fedeltà alla dottrina
della Chiesa; colui che non si comporta come il mercenario che
vedendo venire il lupo, abbandona le pecore e fugge; e il lupo le
assale e disperde il gregge (cfr Gv 10, 1-21). Badate che la Parola
divina non è vana; e l'insistenza di Cristo — non vedete con
quale sollecitudine parla di pastori e di pecore, dell'ovile e del
gregge? — è una dimostrazione pratica della necessità di una
buona guida per la nostra anima.
Se non ci fossero cattivi pastori —
scrive sant'Agostino — Egli non avrebbe usato il qualificativo
"buono". E chi è il mercenario? Colui che fugge, se vede
il lupo; colui che cerca la sua gloria, non la gloria di Cristo;
colui che non ha il coraggio di riprendere con libertà di spirito i
peccatori. Il lupo azzanna una pecora e la trascina per il collo; il
diavolo induce un fedele a commettere adulterio. E tu taci, non
riprendi. Tu sei mercenario; hai visto venire il lupo e sei fuggito.
Forse egli dirà: no, sono qui, non sono fuggito. No, rispondo, sei
fuggito perché hai taciuto; e hai taciuto perché hai avuto paura
(SANT’AGOSTINO, In Ioannis Evangelium tractatus, 46, 8 [PL 35,
1732]).
La sposa di Cristo ha sempre manifestato la sua santità —
e oggi non meno di ieri — grazie all'abbondanza di buoni pastori.
Non dimentichiamo però che la fede cristiana ci insegna a essere
semplici, ma non ingenui. Ci sono dei mercenari che tacciono e altri
che dicono parole che non sono di Cristo. Pertanto, se il Signore
permette che restiamo nell'oscurità, sia pure in cose piccole, se
sentiamo che la nostra fede è insicura, ricorriamo al buon pastore.
Ritorniamo a colui che entra dalla porta, esercitando il suo diritto;
a colui che, dando la sua vita per gli altri, vuole essere, nella
parola e nella condotta, un'anima innamorata; a colui che è
fors'anche un peccatore, ma un peccatore che confida sempre nel
perdono e nella misericordia di Cristo.
Se la coscienza vi rimprovera
qualche mancanza — anche se non vi sembra grave — ricorrete, nel
dubbio, al Sacramento della Penitenza. Recatevi dal sacerdote che
può aver cura di voi, che sa esigere da voi fede vigorosa,
delicatezza d'animo, vera fortezza cristiana. Nella Chiesa esiste
piena libertà di confessarsi da qualunque sacerdote che ne abbia
ricevuto la facoltà; ma un cristiano di visione chiara ricorrerà
— liberamente — a colui che riconosce come buon pastore, a colui
che può aiutarlo a elevare lo sguardo e a ritrovare lassù la
stella del Signore.
Videntes autem stellam, gavisi sunt gaudio magno
valde (Mt 2, 10); così il testo latino, con quell'ammirevole
ripetizione: hanno scoperto nuovamente la stella e gioiscono di
grandissima gioia. Perché tanta letizia? Perché essi, che non
avevano mai dubitato, ricevono dal Signore la prova che la stella non
era scomparsa: non potevano più contemplarla sensibilmente, ma
l'avevano conservata sempre nell'anima. Tale è anche la vocazione
del cristiano: se non si perde la fede e si mantiene la speranza in
Gesù Cristo, che sarà con noi fino alla consumazione dei secoli
(Mt 28, 20), la stella riappare. E quando si comprova una volta di
più la realtà della vocazione, nasce, più grande che mai, una
gioia che aumenta in noi la fede, la speranza e l'amore.
Entrati
nella casa, videro il Bambino con Maria, sua Madre, e prostratisi lo
adorarono (Mt 2, 11). Ci inginocchiamo anche noi dinanzi a Gesù, al
Dio nascosto nell'umanità: gli ripetiamo che non vogliamo voltare
le spalle alla sua divina chiamata, che non ci allontaneremo mai da
Lui, che toglieremo dal nostro cammino tutto ciò che è di
ostacolo alla fedeltà, che desideriamo sinceramente essere docili
alle sue ispirazioni. Tu, nel tuo intimo, e io con te — perché
anch'io faccio la mia orazione interiore, con grida profonde e
silenziose — stiamo dicendo al Bambino che desideriamo compiere la
sua volontà, come quei servitori della parabola, affinché possa
dire anche a noi: Rallegrati, servo buono e fedele (Mt 25, 23).
Poi
aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra
(Mt 2, 11). Fermiamoci un po' e cerchiamo di capire questo passo del
Vangelo. Come è possibile che noi, che siamo nulla e nulla valiamo,
possiamo fare delle offerte a Dio? Dice la scrittura: Ogni buon
regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto (Gc 1, 17). L'uomo non
riesce neppure a scoprire pienamente la profondità e la bellezza
dei doni del Signore: Se tu conoscessi il dono di Dio! (Gv 4, 10),
dice Gesù alla samaritana. Gesù ci ha insegnato ad attendere
tutto dal Padre, a cercare prima di ogni cosa il regno di Dio e la
sua giustizia, perché tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù,
ed Egli sa bene di che cosa abbiamo bisogno (cfr Mt 6, 32-33).
Nell'economia della salvezza, il Padre nostro dei Cieli si prende
cura di ogni anima con amorosa delicatezza: Ciascuno ha il proprio
dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro (1 Cor 7, 7).
Sembrerebbe pertanto inutile preoccuparsi di presentare al Signore
qualcosa di cui Egli possa aver bisogno; dalla situazione di debitori
che non hanno di che pagare (cfr Mt 18, 25), i nostri doni sarebbero
simili a quelli dell'Antica Legge, che Dio ormai non accetta più:
Non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né
olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono
offerte secondo la Legge (Eb 10, 8).
Ma il Signore sa che il dare è
proprio degli innamorati, ed Egli stesso ci indica che cosa desidera
da noi. Non gli importano le ricchezze, i frutti o gli animali della
terra, del mare o dell'aria, perché tutto è suo; vuole qualcosa
di intimo che gli dobbiamo offrire con libertà: Figlio mio, dammi
il tuo cuore (Pro 23, 26). Vedete? Non si accontenta di spartire:
vuole tutto. Torno a ripetere che non cerca le nostre cose, cerca noi
stessi. Solo da qui, da questo primo dono, acquistano senso tutti gli
altri doni che possiamo offrire al Signore.
Diamogli pertanto
dell'oro: l'oro puro dello spirito di distacco dal denaro e dai mezzi
materiali, cose che pure sono buone, perché vengono da Dio. Ma il
Signore ha disposto che le utilizzassimo senza lasciarvi il cuore,
mettendole a frutto per il bene comune di tutti gli uomini.
I
beni della terra non sono cattivi; si pervertono quando l'uomo li
trasforma in idoli, davanti ai quali si prostra; si nobilitano,
invece, quando li usiamo come strumenti di bene, in un compito
cristiano di giustizia e di carità. Non possiamo correre dietro ai
beni materiali, come se in essi fosse il nostro tesoro. Il nostro
tesoro è qui, adagiato in una mangiatoia; è Cristo, e in Lui
devono orientarsi tutti i nostri affetti, perché là dov'è il
tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore (Mt 6, 21).
Offriamogli poi
l'incenso: è l'anelito, che sale fino al Signore, di condurre una
vita nobile che diffonda intorno a sé il bonus odor Christi (2 Cor
2, 15), il profumo di Cristo. Quando le parole e le azioni sono
impregnate del bonus odor, si semina comprensione, amicizia. La
nostra vita deve accompagnare quella degli altri perché nessuno sia
o si senta solo. La nostra carità deve essere anche affetto, calore
umano.
Ce lo insegna Gesù. L'umanità attendeva da secoli la
venuta del Salvatore; i profeti l'avevano annunciato in mille modi; e
fin nei più remoti angoli della terra — benché si fosse
perduta, per il peccato e l'ignoranza, gran parte della rivelazione
di Dio agli uomini — si conservava il desiderio di Dio, l'ansia di
essere redenti.
Giunge la pienezza dei tempi e per compiere questa
missione non viene a noi un genio filosofico come Platone o Socrate,
non si stabilisce sulla terra un potente conquistatore come
Alessandro Magno. Nasce un bambino a Betlemme. È il Redentore del
mondo; e ancor prima di parlare ama con le opere. Non porta nessuna
formula magica, perché sa che la salvezza che offre deve passare
attraverso il cuore dell'uomo. E affinché ci innamorassimo di Lui e
sapessimo accoglierlo nelle nostre braccia, le sue prime azioni sono
il sorriso e il pianto di un bambino, il sonno inerme di un Dio
incarnato.
Ci rendiamo conto una volta di più che il cristianesimo
è fatto così. Se il cristiano non ama con le opere, è fallito
come cristiano; ed è come dire che è fallito anche come uomo. Non
puoi pensare agli altri come fossero dei numeri o degli scalini per
arrampicarsi; oppure come fossero massa da esaltare o da umiliare, da
adulare o disprezzare, a seconda dei casi. Prima di ogni altra cosa,
devi pensare agli altri, a coloro che ti sono vicini, stimandoli per
quello che sono: figli di Dio, con tutta la dignità di questo
titolo meraviglioso.
Con i figli di Dio dobbiamo comportarci come
figli di Dio: il nostro amore deve essere abnegato, quotidiano, ricco
di mille sfumature di comprensione, di sacrificio silenzioso, di
donazione nascosta. È questo il bonus odor Christi che faceva dire
a quelli che vivevano tra i primi fratelli nella fede: Guardate come
si amano! (TERTULLIANO, Apologeticum, 39 [PL 1, 471]).
Non si tratta
di un ideale remoto. Il cristiano non è un Tartarino di Tarascona
che pretende di cacciare leoni là dove non può trovarli: nel
corridoio di casa sua. Desidero parlare sempre della vita quotidiana
e concreta: quella della santificazione del lavoro, dei rapporti
famigliari, dell'amicizia. Se non siamo cristiani in queste
occasioni, dove mai lo saremo? Il buon odore dell'incenso promana da
un carbone acceso che brucia, umilmente, una manciata di granelli; il
bonus odor Christi si avverte, in mezzo agli uomini, non per la
fiammata di un fuoco fatuo, ma per l'efficacia delle braci accese
delle virtù: la giustizia, la lealtà, la fedeltà, la
comprensione, la generosità, la gioia...
Assieme ai Magi, offriamo
infine la mirra, ossia il sacrificio, che non deve mai mancare nella
vita cristiana. La mirra ci porta alla memoria la Passione del
Signore: sulla croce gli diedero da bere mirra mista a vino (cfr Mc
15, 23), e con la mirra unsero il suo corpo per la sepoltura (cfr Gv
19, 39). Ma non crediate che riflettere sulla necessità del
sacrificio e della mortificazione sia come aggiungere una nota di
tristezza alla gioia della festa che oggi celebriamo.
Mortificazione
non è pessimismo, non è grettezza d'animo. La mortificazione non
vale niente senza la carità. Dobbiamo pertanto cercare sacrifici
che, pur rendendoci capaci di padroneggiare le cose della terra, non
mortifichino coloro che convivono con noi. Il cristiano non può
essere né carnefice né meschino; è un uomo che sa amare con le
opere, che saggia il suo amore con la pietra di paragone del dolore.
Devo dire peraltro, ancora una volta, che tale mortificazione non
consisterà ordinariamente in grandi rinunce, che non saranno
neppure frequenti; sarà composta di piccole vittorie: sorridere a
chi ci importuna, negare al corpo capricciosi desideri superflui,
abituarsi ad ascoltare gli altri, far fruttare il tempo che Dio ci
mette a disposizione... E tante altre piccole cose apparentemente
senza senso—
contrarietà, difficoltà,
amarezze — che si presentano senza essere cercate nel corso di ogni
giornata.
Concludo ripetendo alcune parole del Vangelo odierno:
Entrati nella casa, videro il Bambino, con Maria, sua madre. La
Madonna non si separa da suo figlio. I Magi non sono ricevuti da un
re assiso sul trono, ma da un bambino nelle braccia di sua madre.
Chiediamo alla Madre di Dio e Madre nostra di guidarci al cammino che
porta all'amore pieno: Cor Mariae dulcissimum, iter para tutum! Il
suo dolce cuore conosce la via più sicura per trovare Cristo.
I
Magi ebbero una stella; noi abbiamo Maria, stella maris, stella
Orientis. E oggi le diciamo: Maria Santissima, stella del mare,
stella del mattino, aiuta i tuoi figli. Il nostro zelo per le anime
non deve conoscere frontiere, poiché nessuno è escluso dall'amore
di Cristo. I Magi furono le primizie dei gentili; ma consumata la
Redenzione, non c'è più giudeo né greco; non c'è più
schiavo né libero; non c'è più uomo né donna — non c'è
discriminazione alcuna — poiché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù (Gal 3, 28).
Noi cristiani non possiamo essere esclusivisti,
non possiamo discriminare o classificare le anime. Molti verranno
dall'Oriente e dall'Occidente (Mt 8, 11); tutti hanno spazio nel
cuore di Cristo. Le sue braccia — guardiamolo di nuovo nel presepe
— sono quelle di un bambino: ma sono le stesse che aprirà sulla
croce per attirare a sé tutti gli uomini (cfr Gv 12, 32).
Un ultimo
pensiero per quell'uomo giusto, san Giuseppe, nostro padre e signore,
che, nella scena dell'Epifania, come pure altrove, passa inosservato.
Io lo immagino raccolto in contemplazione, mentre protegge con amore
il Figlio di Dio che, fatto uomo, è stato affidato alle sue cure
paterne. Con la meravigliosa delicatezza di chi non vive per sé, il
santo Patriarca si prodiga in un servizio silenzioso ed efficace.
Abbiamo parlato oggi di vita d'orazione e di zelo apostolico. Quale
maestro migliore di san Giuseppe? Se volete un consiglio, vi dirò
quello che ripeto instancabilmente da molti anni: Ite ad Ioseph (Gn
41, 55), ricorrete a san Giuseppe; egli vi mostrerà vie pratiche e
modi ad un tempo umani e divini di avvicinarvi a Gesù. E ben presto
oserete fare come lui: Portare in braccio, baciare, vestire,
custodire il Dio Bambino che ci è nato (dall'orazione a san
Giuseppe, preparatoria alla Santa Messa: O felicem virum, beatum
Ioseph, cui datum est Deum, quem multi reges voluerunt videre et non
viderunt, audire et non audierunt; non solum videre et audire, sed
portare, deosculari, vestire et custodire!). Assieme all'omaggio
della loro venerazione, i Magi offrirono a Gesù oro, incenso e
mirra; Giuseppe gli diede intero il suo cuore giovane e innamorato.
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