«L'iracondo, anche se facesse risuscitare i morti, non sarebbe gradito a Dio», diceva sant'Agatone (Detti dei padri [serie alfabetica] , Agatone, XIX).
L'ira, che possiamo chiamare anche collera o rabbia, è un «turbamento del cuore» (21), un ribollire impetuoso di sentimenti di avversione, un meccanismo difensivo della mente e del corpo, quando l'ego, sentendosi aggredito e offeso, produce avversione, la quale a sua volta si traduce in eccitazione, agitazione e aggressività del corpo.
Quando l'ira irrompe e ci sopraffà, mettiamoci ad osservarla: senso di oppressione al petto, battere forte del cuore, senso di tensione dei nervi e dei muscoli in tutto il corpo, avvampare di calore sanguigno al volto, respiro agitato, fronte aggrottata... Se poi chiudiamo gli occhi e guardiamo nella nostra mente, vediamo un turbinare tempestoso di pensieri e di immagini, e avvertiamo una chiara sensazione di sofferenza e di oppressione. Magari volevamo leggere un libro o fare un lavoro, ma l'ira sopravvenuta ce lo impedisce, tenendoci attanagliati in una morsa. Ci rendiamo conto allora che a causa dell'ira (come di qualunque altra passione) la nostra libertà è soffocata e diventiamo schiavi.
Osserviamola ancora nel corso della giornata: appena una persona mi risponde male, appena un bicchiere mi sfugge e si rompe, appena si affaccia alla mia mente il ricordo di un'ingiustizia, subito l'agitazione dell'ira comincia a prendere possesso di me; è dunque una reazione meccanica inconsapevole, il frutto di un'abitudine inveterata a reagire a ogni stimolo esterno o con brama e attaccamento (gola, lussuria, avidità...) o con avversione, paura, aggressività, ira, appunto.
Siamo abituati da sempre a identificarci con le nostre emozioni e i nostri pensieri. Ma quando l'ira ribolle in noi e la nostra mente comincia a costruire pensieri negativi e violenti, presentandoci tutti í "giusti motivi" per arrabbiarci, dobbiamo sforzarci di osservarli come elementi esterni a noi. Al di là di qualunque giustificazione più o meno sensata che la nostra mente confusa e agitata riesce a fabbricare in fretta e furia, quel che conta è che abbiamo ceduto all'ira perdendo così la pace interiore ed esteriore.
Nonostante che la collera sia una sensazione dolorosa, essa riesce però a renderci dipendenti in virtù del piacere che la mente (malata) prova nello sfogare la propria tensione interiore: è il piacere dell'orgoglio dell'ego nel progettare di "farla pagare" a chi ci ha umiliato, è il piacere che nasce dal «desiderio ardente di fare del male» a qualcuno. In questo senso «l'ira è sempre manifestazione di superbia» (22). Nulla infatti incendia la rabbia quanto il sentirsi umiliati e derisi.
La mentalità corrente riveste il demone dell'ira di belle parole per non farcelo riconoscere. In me nasce l'ira, e penso: "Giusta indignazione nei confronti dell'ingiustizia". Nutro ira, e penso: "Giusta difesa e rivendicazione dei miei diritti". Nutro ira: "Sano orgoglio verso chi mi umilia". Mi adiro con il mio coniuge: "Bisogna farsi rispettare!", oppure: "Dialogare significa anche litigare". E così, appoggiandomi da una parte sull'abitudine mentale e dall'altra sulle giustificazioni che il demone mi suggerisce (giustificazioni alle quali credo, avendo ormai una mente resa dall'ira stessa troppo confusa per riuscire a discernere con chiarezza) (23), continuo ad alimentare l'ira, fino a che essa diventa una componente del mio carattere da cui non posso più liberarmi, anche se lo voglio.
Ormai, anche quando vorrei fare pace con qualcuno o chiedere scusa o dimenticare un'offesa per ritrovare pace in me, non ci riesco: l'ira, l'orgoglio, il livore me lo impediscono. Ormai l'ira è come una belva che mi porto dentro e che a ogni occasione esce dalla tana del mio cuore per mordermi e lasciarmi insanguinato. E allora — spiega Cassiano (cf. Istituzioni cenobitiche, VIII, 19, 2) — l'uomo si adira e impreca e si inferocisce per il minimo fastidio: un coltello che non taglia bene, una penna che non scrive, una mosca che vola intorno, un cane che abbaia; oppure si infuria a ogni proprio insuccesso (se ha piantato storto un chiodo o se ha dimenticato di comprare una cosa o se ha offeso un amico in preda all'ira; si adira della sua stessa ira, «si sdegna per segreta superbia di essersi adirato per uno scacco subito» (24), poi «piange per essersi adirato, ma poi di nuovo si adira per aver pianto» (25).
L'ira è una belva che ha fame, è una tensione che ha bisogno di sfogarsi: cerca sempre, inconsciamente, pretesti per infiammarsi, provoca negli altri irritazione e fastidi, in modo da potersi pascere dell'offesa che le verrà lanciata. Gode di essere maltrattata, per potersi accanire.
Non importa contro che cosa ci si adiri, se contro un assalitore o contro se stessi o contro un marciapiede: se ci si adira vuol dire che la "belva", dentro, c'è. E quando c'è la rabbia nel cuore, innaffiata e alimentata ogni giorno, seguono naturalmente litigi e insulti (con il conseguente sfaldamento delle famiglie), violenze, risse, odi, vendette, guerre. Anche piccolissimi gesti, come esclamare, quando ci si alza la mattina e si vede il cielo piovigginoso: «Che brutto tempo!», alimentano inconsapevolmente l'abitudine all'avversione e alla rabbia.
Vediamo allora, come abbiamo fatto con gli altri vizi, quali siano le medicine adatte per curare questa malattia. Già la Bibbia sottolinea la gravità dell'ira e raccomanda di frenarla sempre: «Lo stolto esterna subito la sua ira; l'accorto dissimula l'offesa» (Prv 12, 16; cf. anche Lv 19, 18; Qo 7, 9; Sir 27, 30; Ef 4, 31). E Gesù diceva: «Chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5, 22).
I Padri consigliano di reprimere sempre la rabbia: non pronunciare mai parole dure e offensive, anche quando si è adirati, e imporsi rigorosamente di non rispondere, né con parole né con gesti, a chi ci offende o insulta. «Inizio della via che conduce alla vittoria sull'ira è il silenzio delle labbra pur nel turbamento del cuore» (26). Questa regola, sebbene puramente esteriore, serve però a non innescare la terribile ruota dell'ira, a evitare il contagio del male: sono adirato, ma almeno non trasferisco la mia collera sugli altri e non la accresco eccitandola con l'ira altrui.
«La medicina perfetta per guarire questo morbo sarà quella di essere prima di tutto ben persuasi che non ci è consentito adirarci mai e in nessun modo, né per cause ingiuste né per cause giuste, sapendo che perdiamo subito il lume del discernimento, la fermezza del retto consiglio, il senso dell'onestà e i criteri stessi della giustizia, appena i recessi del nostro cuore vengono invasi da questa tenebra» e «il nostro animo diventa null'altro che un campo di reazioni» (27). Talvolta si crede giusto doversi adirare per correggere gli altri: ma «come potrebbe togliere la pagliuzza dall'occhio del suo fratello, uno che intanto porta la trave dell'ira dentro il proprio occhio?» (28).
«Se nel rimproverare il tuo prossimo ti lasci prendere dall'ira, non fai che alimentare una tua passione: non perdere te stesso per salvare gli altri!» (29).
Tuttavia, è evidente che «non solo bisogna recidere la collera dal nostro comportamento esteriore, ma occorre estirparla ugualmente dalle più profonde radici della nostra anima» (30). Giovanni Climaco (La scala del paradiso, Recapitulatio [172]) elenca tre rimedi efficaci:
1) «La ricerca del disonore»: allenarsi a sopportare, come salutare medicamento, le offese e le umiliazioni che ci vengono dagli altri, anche attraverso una volontaria ricerca di occasioni per "umiliarsi" e sviluppare pazienza e mitezza per spezzare la meccanica abitudine dell'ira a reagire sulla difensiva e a rispondere con aggressività. Questa pratica, che a prima vista potrebbe sembrare estremamente spiacevole e penosa, è invece proprio un modo per liberarci dalle sofferenze che ci causa ogni giorno l'indurimento orgoglioso del nostro ego, per aprirci alla meravigliosa libertà e pace di chi non è più turbato né ferito dalle cose esteriori.
2) «La musica sacra»: «Qualche volta l'armonia del canto riesce a dissipare i fumi dell'ira nella maniera migliore», quando si tratta di melodie pacate e letificanti, soprattutto se accompagnate da parole che ispirino pace, amore e tenerezza.
3) «La compassione»: attraverso la meditazione sul Vangelo, esercitarsi a sviluppare sentimenti e parole di dolcezza e mitezza verso tutti: «Una parola gentile calma la collera, una risposta pungente eccita l'ira» (Prv 15, 1); «mitezza vuol dire anche pregare con tutta tranquillità e serenità per il tuo prossimo che ti molesta» (La scala del paradiso, XXIV 134]).
È utile inoltre fare quotidianamente un esame di coscienza per individuare i momenti della giornata in cui ci si è lasciati andare all'ira (con i pensieri o anche con le parole e i gesti), e ogni volta dire: "Questa si chiama ira", senza giustificazioni, con lucida e serena consapevolezza, senza adirarsi neppure contro se stessi e contro la propria iracondia, perché altrimenti non si farebbe che innaffiare l'ira.
Vincere l'ira significa poi vincere le altre passioni, poiché «non c'è chi sia turbato dall'ira se non è in lite a motivo di cibo, ricchezze, onore» o altri desideri e attaccamenti (31).
Bisogna inoltre evitare tutto ciò che contribuisce ad alimentare l'ira e l'aggressività: le musiche frenetiche e agitate, í film e gli spettacoli violenti e aggressivi, la compagnia di persone iraconde e impulsive, il traffico stradale e tutti quegli ambienti rumorosi che generano agitazione, tensione e aggressività.
Ricordiamoci che «il risultato ultimo della nostra correzione e della nostra tranquillità non dipende dalla buona volontà degli altri, poiché un tale esito non potrebbe mai essere in nostro potere: esso invece dipende solo dalla nostra volontà. Perciò non dobbiamo aspettare la condotta ineccepibile degli altri per non adirarci, ma frenare l'ira per nostra propria virtù, la quale non si acquista grazie alla pazienza degli altri, bensì attraverso l'esercizio della propria longanimità» (32).
C'è poi chi crede di aver sconfitto l'ira, ma essa si è solamente camuffata: non risponde male, non si inalbera, ma nel cuore cova risentimento e disprezzo e, mentre risponde con ipocrita gentilezza e con educata freddezza, il tono di voce, il silenzio, gli occhi rivelano che l'ira ha lasciato il posto a un vizio molto peggiore: la superbia sprezzante.
C'è chi non si arrabbia con gli altri, ma la tensione nervosa e iraconda del suo cuore si manifesta attraverso i gesti bruschi e violenti con cui, ad esempio, apre e chiude le porte, o sfoglia i libri, o impugna la penna. Anche questi sono sintomi di una malattia profonda.
C'è chi non si arrabbia mai, ma il rigorismo moralista verso se stesso e verso gli altri, la durezza e inflessibilità dei giudizi taglienti, l'ascetismo "vendicativo" sono sintomi di una rabbia tutt'altro che sopita.
C'è chi, al contrario, è mite e bonario, davvero alieno dall'iracondia, ma non per questo alieno dalle passioni: forse la sua bonarietà e mansuetudine nascondono eccessiva indulgenza e mancanza dí rigore morale, fino a scivolare nella lussuria o nei compromessi con il male, oppure sono espressioni del vizio dell'accidia, quel torpore annoiato e pigro che ci rende incapaci di qualsiasi impegno faticoso e serio. Per questo i Padri dicono che «esiste tra le passioni un'ira dell'intelletto, che è secondo natura» (33) e che è appunto quel vigore combattivo di chi non si arrende languidamente e pigramente ad essere tiranneggiato dalle passioni, ma con fermezza prende in mano la sua vita e «si arma d'ira contro i demoni che lo avversano nella mente» (34).
21 Giovanni Climaco, La scala del paradiso, VIII (74).
22 Ibid., VIII (7374).
23 Cf. Evagrio, Gli otto spiriti della malvagità, IX: «Come la nebbia addensa l'aria, così il moto della collera intorbida la mente dell'iracondo. Come una nube che si frappone al di sotto del sole lo oscura, così il pensiero rancoroso ottenebra la mente».
24 Giovanni Climaco, La scala del paradiso, VIII (76).
25 Mid.,XVIII (115).
26 Ibid.,VIII (73).
27 Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VIII, 22.
28 Ibid., VIII, 5.
29 Detti dei padri (serie alfabetica), Macario, XVII.
30 Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VIII, 20, 1.
31 Evagrio, Sul discernimento, I (secondo la Filocalia).
32 Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VIII, 17.
33 Isaia l'Anacoreta, Asceticon, I (secondo la Filocalia).
34 Filoteo Sinaita, Quaranta capitoli sulla sobrietà, XXV.
Dag Tessore – Tratto da”7 I VIZI CAPITALI”
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