giovedì 24 giugno 2021

L'INVIDIA...



Come abbiamo visto, l'attuale formulazione latino-cattolica dei sette vizi capitali risale a san Gregorio Magno. In essa compare come quinto vizio l'invidia, seguita da tristezza (o accidia) e vanagloria (o superbia). Nella più antica tradizione greco-orientale, invece, al quinto posto è la tristezza, poi l'accidia, poi la vanagloria e infine la superbia. 

Del concetto di tristitia, che pure ha molti tratti in comune con l'invidia, parleremo nel prossimo capitolo, dedicato all'accidia. Quanto all'invidia, dobbiamo subito chiarire il significato della parola: invidere in latino vuol dire propriamente «guardare di malocchio, guardare con ostilità», e da qui «invidiare». Il vizio dell'invidia esprime dunque rabbia, ostilità, odio. L'invidia desidera il male degli altri e brama per sé il bene altrui. 

L'invidia è frutto degli altri vizi: dell'ira (diventa invidioso chi ha un cuore pieno di risentimento, di negatività e di tensione rabbiosa), della gola, della lussuria, dell'avarizia (se l'invidioso ha odio verso gli altri è perché sono in ballo i "beni" dei piaceri carnali e del denaro), della superbia (desidero il male degli altri e ne godo, per poter dire: «Ecco, vedete? Avevo ragione io!»); infine, l'invidia è strettamente legata alla vanagloria: l'invidioso è colui che non sopporta di vedere che altri godono di più onore, gloria e benessere di lui: «Smettiamola di cercare la vanagloria, provocandoci e invidiandoci a vicenda» (Gal 5, 26). 

L'invidia è egocentrismo, è incapacità di desiderare il bene per gli altri, è incapacità di amare. L'invidioso vede tutto in funzione di se stesso e non conosce l'altruismo. Invidia è l'abitudine mentale a voler sempre di più e non accontentarsi mai. 

Molte sono le conseguenze distruttive dell'invidia sul piano sociale: «Da che cosa derivano infatti le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere, e allora uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra» (Gc 4, 1-2). 

Anche all'interno della Chiesa, a causa dell'invidia e della gelosia «si corre verso le eresie e gli scismi, mentre si criticano i sacerdoti, mentre si invidiano i vescovi [...1, per animosità e rivalità» (35). Già san Paolo scriveva: «Alcuni predicano Cristo per invidia e spirito di contesa» (Fil 1, 15). 

La nostra società, alimentando continuamente l'ambizione, l'avidità e la curiosità per le cose degli altri, stimola e incoraggia molto l'invidia, presentandola come "sana competitività": di fronte ai beni degli altri, il demone dell'invidia ci suggerisce: «Non essere da meno, non rimanere all'ultimo posto, fatti valere, realizza i tuoi desideri!». Queste parole, apprese sin dalla più tenera età, diventano un'abitudine mentale. Ogni giorno l'invidia penetra più a fondo nella nostra struttura mentale. 

L'invidia è la negazione del nono comandamento («Non desiderare la roba d'altri»), è un'auto-condanna a essere infelici. 

«Provocate dall'abitudine e dalla cattiva educazione spirituale, l'avversione e la brama ottenebrano e offuscano l'intelletto» (36); se l'uomo infatti vedesse quanti mali e quante sofferenze gli derivano da questo suo incessante bramare e avversare, cercherebbe di liberarsene. 

L'invidia provoca nell'uomo quel penoso stato d'animo che i Padri definivano tristitia, ovvero malessere, rancore, rabbia contro se stessi e contro gli altri, tormento interiore, insoddisfazione. 

Soprattutto i cristiani, nella misura in cui per scelta religiosa hanno rinunciato a seguire il benessere materiale e con fatica frenano in sé i piaceri della carne, sono particolarmente esposti alla tentazione dí invidiare gli atei che "si godono la vita": «Ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità degli empi; non c'è sofferenza per essi, il loro corpo è sano e pasciuto [...]. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell'innocenza le mie mani?» (Sal 73, 3-4.13). 

L'invidia muore quando muoiono le altre passioni di cui essa si nutre: quando non siamo più attaccati ai piaceri, ai soldi, alle comodità materiali, viene a mancare ciò per cui litigavamo e provavamo brama e invidia. Ad esempio, «l'avido, se subisce un danno economico, si rattrista molto, mentre chi disprezza le ricchezze non è toccato dalla tristezza» (37). 

Possiamo suggerire alcune pratiche concrete che la tradizione ascetica cristiana consiglia per sconfiggere questo vizio. 

— Proporsi ogni giorno qualche "fioretto": ad esempio fare gesti di altruismo, sacrificando i propri gusti e compiendo ciò che fa piacere agli altri.

— Leggere il Nuovo Testamento e i libri dei Padri e le vite dei Santi, che ci fanno gustare quanto è bello l'amore gratuito e il «dare la propria vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16). 

— Pregare espressamente per quelli che odiamo e invidiamo, e cercare di sviluppare per essi un sentimento di dolcezza e di tenerezza, riflettendo sulle loro debolezze umane, sui loro sogni e sulle loro paure, sulle loro lacrime e sul loro bisogno di amore.

 — Tenere con sé durante la giornata una tavoletta di cera — oggi diremmo un quaderno — dove segnare tutti i pensieri, le parole o le azioni che ci accorgiamo essere dettate dallo spirito di invidia: per esempio se ci sorprendiamo a lamentarci per qualcosa che non abbiamo e che gli altri invece hanno, oppure a manifestare fastidio quando qualcuno è stato più fortunato di noi o è stato preferito a noi in qualcosa (cf. Lc 15, 25-32). 

Tuttavia, affinché il meccanismo mentale dell'invidia non solo venga sanato, ma possa essere estirpato alla radice, è necessario anche sottrarsi all'influenza di tutti quei libri, mezzi di comunicazione o ambienti sociali in cui l'invidia e le altre passioni, tradotte in parole accattivanti, sono continuamente lodate. 

Anche nella vita religiosa chi si è liberato dalle forme più grossolane di invidia può ciò nonostante nutrire in sé questo vizio, ad esempio se si affligge nel vedere altri confratelli più virtuosi di lui e più dediti a Dio. Al posto di trarne un'occasione di sano zelo (cf. Rm 11, 14), si limita a invidiare con livore gli altri perché migliori di lui, però intanto, quanto a sé, cade nello scoraggiamento, nella tristitia e nell'accidia. 


35 Cipriano, La gelosia e l'invidia, VI. 

36 Clemente di Alessandria, Stromati, III, 93, 2. 

37 Evagrio, Gli otto spiriti della malvagità, XII. 


Dag Tessore – Tratto dal libro “I VIZI CAPITALI”



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