(Pawiak-Auschwitz,
febbraio-15 agosto 1941)
Polacco
in vita e in morte!
Massimiliano
Sa di essere nel mirino della Gestapo, prevede lucidamente la sua
fine: in molti gli avevano fatto presente che si stava tramando alle
sue spalle, per il suo arresto, chiedendogli di essere prudente.
Padre Massimiliano, anche durante l’occupazione tedesca, rivela
dunque talento e capacità non comuni, tanto da riuscire ad attirare
su di sé l’attenzione e l’affetto di ogni genere di persona.
Anche la polizia tedesca intuisce queste doti capaci d’influire,
specie attraverso la Stampa, Sul popolo polacco. La Gestapo, infatti,
al fine di catturarne il potere mediatico, arriverà addirittura a
offrirgli di assumere la cittadinanza tedesca, equivocando sul fatto
che il suo cognome, Kolbe, sia un cognome assai diffuso in Germania.
Fiero
delle sue origini polacche, onesto fino al martirio, egli rifiuta la
proposta, affermando di essere stato e di Voler rimanere polacco,
peggiorando così la sua situazione, già pesantemente condizionata
dalla sua appartenenza al popolo polacco e dallo stato di religioso
cattolico. Per questo ai polacchi è doppiamente caro: perché santo
e perché volle morire da polacco!
«Addio
cari figli, non sopravvivrò a questa guerra»
La
sera del 16 febbraio, Massimiliano sembra inquieto e più affettuoso
che mai con i suoi figlioli, tanto che questi, ripercorrendo in
seguito col pensiero quelle ultime ore con il padre, comprenderanno
solo dopo le sue parole e il perché di quel suo inconsueto, accorato
trasporto.
Tra
mezzanotte e le due del mattino, padre Kolbe telefona a fra Pelagio,
svegliandolo, per riprendere la conversazione spirituale che avevano
avuto durante il giorno, sprona il confratello alla fedeltà verso il
Signore e alla devozione all’Immacolata. Dopo un po', i due
recitano insieme la seguente preghiera: «Immacolata Concezione,
Immacolata Concezione, Immacolata di Dio, Immacolata di Dio, mia
Immacolata, mia Immacolata, Immacolata nostra, Immacolata nostra».
Padre Massimiliano torna poi nella sua stanza. Siamo alle prime ore
del 17 febbraio: il frate, allo stremo della fatica, non volendo però
rinunciare all’urgenza di lasciare sulla carta le sue meditazioni,
chiede a fra Arnaldo di scrivere sotto dettatura quelle che saranno
le ultime appassionate parole che illumineranno il mistero
dell’Immacolata, consegnandoci pagine di altissima mistica sulla
Santissima Trinità e sulla figura dell’Immacolata Concezione in
seno a essa.
«Fratelli,
non dimenticate l’amore!».
Intanto
si fa giorno. Verso le 10 del mattino del 17 febbraio 1941 arrivano a
Niepokalanów quattro uomini della Gestapo con i teschi sulla banda
del berretto. «Sia lodato Gesù Cristo», li saluta padre
Massimiliano. La risposta degli uomini è un silenzio minaccioso.
Segue una domanda: «Lei si chiama Massimiliano Kolbe?».
«Su,
accomodatevi nel mio ufficio». Quindi cominciano a interrogare il
sacerdote circa gli insegnamenti che egli offre ai giovani
Francescani, essendo i seminari proibiti dall’ordinamento nazista.
Il
padre, dopo aver risposto ai quesiti e rifiutandosi ancora di
considerarli come nemici, li invita a visitare il convento. Tornati
nel suo ufficio, viene compiuto l’arresto ufficiale del padre e di
altri quattro sacerdoti: Giustino Nazim, Urbano Cieslak, Antonio
Bajewski e Pio Bartosik (carissimo amico di Kolbe e da lui designato
a succedergli un giorno nella direzione di Niepokalanów).
La
motivazione dell’arresto è sostanzialmente da ricercare nella
funzione di contestazione che la Città dell’Immacolata oppone allo
spietato ingranaggio della macchina bellica. Si mira a eliminare
dalla scena politica i personaggi scomodi, soprattutto gli
intellettuali che, con il loro pensiero critico, tentano di
Smascherare l’Orrenda follia Omicida di Hitler e dei suoi
fedelissimi.
Prima
di partire padre Kolbe, rivolto ai frati rimasti, dice: «Fratelli,
non dimenticate l’amore!». Quindi, condotti sulle auto della
polizia, alle 11.50 vengono trasferiti alla nota prigione di Pawiak,
a Varsavia.
Come
pecore senza pastore
I
frati si sentono Ormai come pecore senza pastore circondate da lupi
affamati. Si considerano orfani, privati di quel padre che li ha
guidati, consigliati e amati teneramente, di più, maternamente.
Il
buon pastore dà la propria vita per le pecore (Gv 10, //).
L’insegnamento incarnato dal padre, che testimonia fino al
sacrificio estremo l’amore per il Signore e per il prossimo,
resterà per sempre impresso nelle loro anime. Talmente grande è
l’affetto per il loro padre che essi, il 26 febbraio 1941,
invieranno una petizione firmata al Provinciale con la richiesta di
venire imprigionati loro al posto di Kolbe; «Vogliamo spiegare –
scrivono i frati – che nessuno ci ha plagiato o forzato: noi
abbiamo deciso di fare questo passo di nostra volontà. Allo stesso
tempo siamo pronti ad accettare volontariamente ogni responsabilità
e ogni accusa e le conseguenze che ne deriveranno».
La
loro richiesta non verrà accolta dalla polizia nazista. I nazisti
rifiutano la petizione, poiché hanno solo bisogno di padre
Massimiliano, vivo o morto, meglio se morto"! (
1 )
Caricato
su un autocarro come gli altri, Massimiliano è sereno e, durante il
viaggio, ricorda ai suoi compagni di essere in missione. Anche in
quel terribile frangente e, con il suo solito buon umore, fa notare
loro quanto fossero fortunati a essere trasportati dai tedeschi senza
spendere neanche un soldo!
Nella
prigione di Pawiak, padre Kolbe è rinchiuso nella cella numero 103,
rimanendovi serenamente raccolto e padrone di sé. Ha sempre il
sorriso sulle labbra e una parola di conforto per i suoi compagni di
prigionia, li sostiene spiritualmente e alimenta la loro fiducia
nella liberazione della Polonia, ma, cosa ancora più importante, li
conduce a Dio e all’Immacolata con il suo esempio e le sue parole.
Ora è Pawiak la sua Niepokalanów, cioè la sua missione:
conquistare all’Immacolata le migliaia di detenuti della prigione,
vicino Varsavia. -
(1)
Probabilmente i Kolbe non saprà mai niente di que nobile gesto
egli
che continuerà a pensare a loro raccomandando, nelle poche righe di
corrispondenza che gli sarà concesso di inviare, di non preoccuparsi
assolutamente per lui, ma di affidarsi in ogni bisogno
all'Immacolata. Alcuni fratilo seguiranno nello stesso destino di mar
tirio pagando la verità a prezzo del loro sangue, mentre altri,
sopravvissuti ai campi della morte, continueranno a tramandare il suo
messaggio spirituale di intrepida fede in Dio, diamore sconfinato all
Madonna e di piena disponibilità al servizio dei fratelli
Verso
la metà di marzo, in quella cella si consuma una drammatica scena.
Il sergente maggiore scorge padre Massimiliano che indossa il saio,
cinto dal cordone dal quale pende il rosario con il crocifisso.
Alla
vista del crocifisso, il tedesco lo afferra e tirandolo a Strattoni
dice:
«Credi
in questo?».
«Credo
eccome!».
Il
nazista, allora, lo colpisce in faccia con tutta la sua forza. Poi,
per ben tre volte gli ripeterà la domanda, ricevendo per tre volte
la medesima risposta e sferrando per tre volte schiaffi.
Poi
all’improvviso se ne va, sbattendo la porta della cella. Non può
sopportare la calma dimostrata dalla sua vittima. Dopo che il
capo-reparto se n'è andato, il padre si mette e pregare e calma chi
inveisce contro il gendarme, dicendo: «Ti prego, non angustiarti.
Hai già molte cose che ti preoccupano. Questa è una sciocchezza, è
tutto per la Mammina».
In
questo clima di ordinario orrore, padre Kolbe scrive ai confratelli a
Niepokalanów; «Tutti i fratelli preghino molto e bene, lavorino
diligentemente e non si rattristino, perché nulla può avvenire
senza che il buon Dio e la Vergine Immacolata lo sappiano e lo
permettano». È il 13 marzo.
Ai
primi di aprile Massimiliano si ammala: i suoi fragili polmoni
risentono delle tragiche condizioni del carcere. Viene ricoverato con
febbre alta nell’Ospedale del carcere – 84 letti in due stanze –
da dove viene trasferito nella biblioteca del carcere. Qui Kolbe
inizia a organizzare ritiri spirituali, confessa, prepara la Pasqua
del Signore per il 13 aprile. Il 1° maggio scrive ai confratelli a
Niepokalanów: «Oggi inizia il bel mese di maggio, dedicato alla
Madre di Dio. Spero anche che non mi dimentichiate nelle vostre
preghiere. Auguro a tutti i fratelli la benedizione dell’Immacolata
e li Saluto cordialmente. Padre Massimiliano Raimondo Kolbe». Ma
l’ultima lettera del padre dal Pawiak è del 12 maggio, giorno in
cui il comandante del carcere gli intima di indossare abiti civili,
segno dell’imminente suo trasferimento nel lager; in questa lettera
egli chiede che gli vengano inviati gli abiti e aggiunge:
«Lasciamoci
condurre sempre più perfettamente dall’Immacolata, dove e come
ella vuole metterci, affinché, adempiendo bene i nostri doveri,
contribuiamo a far sì che tutte le anime siano conquistate al suo
amore. Cordiali saluti e auguri a tutti e a ciascuno singolarmente.
Vostro
Raimondo Kolbe».
I
quattro confratelli di Kolbe, arrestati con lui il 17 febbraio, già
da tempo erano stati trasferiti nei lager: ora è giunto il momento
anche per lui.
Il
28 maggio 1941, padre Kolbe insieme agli altri 303 prigionieri viene
stipato su carri bestiame e trasportato verso la cittadina di
Oświęcim, in Polonia, più tristemente conosciuta con il nome
tedesco di Auschwitz. Del terribile viaggio durato l’intera
giornata testimonia un religioso della Società dei Pallottini, fra
Ladislao Swies, il quale così ricorda quelle terribili ore: «Appena
le guardie di scorta ci ebbero stipati nei vagoni, sprangando
dall’esterno le porte, un silenzio di tomba ci avvolse. Ma quando
il treno si mosse, qualcuno intonò canti religiosi e nazionali, che
molti di noi ripresero. Fui curioso di chiedere della persona che
aveva dato inizio a quei canti; seppi che era stato padre
Massimiliano Kolbe, fondatore di Niepokalanów».
Nell’orrore
del lager il padre dirà a un amico: «Nessuna conversione è
impossibile», giungendo a pregare anche per i suoi aguzzini,
ufficiali delle SS e feroci criminali comuni – i famigerati kapò –
tirati fuori dalle galere con la promessa della libertà al prezzo di
violenze inaudite perpetrate sui poveri prigionieri, presentati loro
come pericolosi nemici del Reich.
Il
treno che trasporta i prigionieri si ferma in aperta campagna, così
che essi sono costretti a percorrere i due chilometri che separano la
stazione dal campo di corsa, incalzati dalla furia dei cani aizzati
dai carnefici, pronti a colpire con il calcio del fucile i
ritardatari o i più deboli tra loro.
Ad
Auschwitz (dove al Blocco 4, stanza numero 2, è conservata la
storica foto dell’arresto del gruppo di religiosi di Niepokalanów,
tra i quali padre Kolbe), gli oltre 300 prigionieri, brutalmente
insultati e picchiati per scherno dalle SS, vengono ammassati per la
notte in uno stanzone di Otto metri per trenta, senza servizi
igienici e con le finestre sprangate: il mattino seguente Kolbe, come
tutti gli altri, spogliato del saio, dei pochi averi e del nome di
Massimiliano Maria per riavere quello di Raimondo, e dopo una doccia
gelata, riceve la divisa a grosse righe grigio-azzurre con un
triangolo rosso cucito sul petto e sui pantaloni e il numero 16670;
viene rapato a zero e accolto nel Blocco 18, dove i letti sono sacchi
di sabbia posati per terra.
Il
discorso di benvenuto
Il
comandante del campo, Rudolf Höss, all’arrivo dei nuovi internati,
fa loro il suo solito “discorso” di ingresso: «Vi dirò che non
siete arrivati alle terme della salute, ma in un campo di
concentramento tedesco. Avete una Sola Via di uscita: il camino del
forno crematorio. Se non vi piace quello che dico, potete uscire
anche subito sul filo spinato percorso da corrente elettrica. Ora, se
siete ebrei, avete il diritto di Vivere non più di due settimane; se
siete preti, un mese; il resto, tre mesi». In questo clima
infernale, padre Kolbe è odiato come tutti i preti in modo feroce
dalla Gestapo («Noi odiamo – essi solevano proclamare – la puzza
dell’incenso; essa guasta l’anima del tedesco come l’ebreo ne
guasta la razza»). Considerato un parassita della società, irriso e
offeso più degli altri prigionieri comuni, il padre viene, per i
primi tre giorni, destinato al trasporto di pietre per la costruzione
di una recinzione attorno al forno crematorio.
L’ultimo
giorno di maggio, il tenente delle SS Fritzsch si reca al Blocco 17,
dove sono state messe delle assi che fungono da letti per i
prigionieri. «Preti, uscite e marciate dietro a me!». Fritzsch
conduce i prigionieri terrorizzati al comando Babice, destinato ai
lavori più duri e comandato da un criminale noto come “Krott il
sanguinario”.
«Tieni,
qui ci sono dei parassiti della società. Insegna loro come si fa a
lavorare davvero!». «So piuttosto bene come prendermi cura di loro.
Li proverò personalmente», risponde l’altro. Il lavoro consiste
nel tagliare e trasportare rami e pali che servono per recintare i
luoghi paludosi e malsani. Il lavoro deve essere eseguito
velocemente. Krott sceglie padre Kolbe e gli ordina di portare un
carico di rami due o tre volte superiore a quello degli altri
prigionieri. Quando alcuni preti cercano di aiutarlo a portare quel
peso, egli generosamente rifiuta e li prega di non esporsi ai colpi
delle SS: «L’Immacolata mi aiuterà e ce la farò!». Non
soddisfatto, allora, un giorno Krott decide di dare a padre
Massimiliano il colpo di grazia: s’incarica personalmente di porre
sulle spalle del frate rami pesanti e poi gli ordina di correre fino
al luogo indicato.
Durante
questa dura prova, padre Massimiliano cade sotto il terribile peso.
Krott se ne accorge, comincia a dargli calci nello stomaco e in
faccia e lo frusta ripetutamente con bestiale violenza. «No vuoi
lavorare, fannullone? Ti farò vedere io cosa significa lavorare!»,
gli urla furiosamente. Padre Massimiliano si alza con enorme
difficoltà e con occhi sereni guarda il feroce criminale, che in
tutta risposta gli ordina di sdraiarsi su un tronco per ricevere 50
frustrate da uno dei prigionieri più forti.
Padre
Kolbe sviene, quindi Krott, adirato, lo scaraventa nel fango e sopra
di lui getta alcuni rami, pensando che sia la fine per Massimiliano.
«Il
buon Dio c’è in ogni luogo...»
Ben
presto, però, capisce che non è quella la fine di Massimiliano.
Alla sera i suoi compagni di prigionia lo portano al campo.
Ricoverato all’ospedale, vi rimarrà dal 2 al 20 luglio 1941. La
diagnosi del medico del campo parla di polmonite e debilitazione
generale. La situazione dell’ospedale del campo è intollerabile,
più che luogo di cure è luogo di agonia. I tavolacci che fungono da
letti, disposti in due o tre piani, sono occupati da due o tre
pazienti ognuno. Alla condizione miserevole dei malati si aggiungono
pidocchi, mosche e Odori nauseanti.
Padre
Massimiliano indirizza la sua unica lettera dal campo a sua madre.
Nel momento più difficile della sua vita, dall’abisso della sua
sofferenza, le scrive queste parole: -
«Mia
amata mamma, verso la fine del mese di maggio sono giunto con un
convoglio ferroviario nel campo di Auschwitz (Oświęcim). Da me va
tutto bene. Amata mamma, stai tranquilla per me e per la mia salute,
perché il buon Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a
tutti e a tutto».
I
moribondi e i malati gravi avvertono che questo Strano Sacerdote è
la loro unica consolazione e la loro unica salvezza, e strisciano di
nascosto per recarsi al suo tavolaccio, implorandolo per avere una
parola di conforto o l’assoluzione sacramentale.
Egli,
da parte sua, li consola nel modo più amorevole. «Tutto finisce.
Anche questa sofferenza finirà. La strada per la gloria è la strada
della croce, la strada regale. La santissima Madre di Dio è con noi,
lei ci aiuta sempre». Talvolta si ode un lamento, proVeniente da
cuori gonfi di dolore: «Padre, non ce la faccio più a sopportare
questa vita del campo». E lui risponde: «Mettiti sotto la
protezione di Maria. Proprio come un figlio si aggrappa alle mani
della mamma, fa così anche tu. Sii calmo e tranquillo, perché la
Vergine Maria ti ha preso sotto la sua protezione».
L’amore
vince l’odio
Egli
deve anche vincere l’odio mortale presente nel cuore degli uomini,
tangibile nel campo, e dice che l’odio non è forza creativa; solo
l’amore crea. Quelle sofferenze non li avrebbero spezzati, ma
aiutati a diventare sempre più forti. Non migliorando le sue
condizioni di salute, il padre viene trasferito nel reparto
“infettivi”, Ove le cuccette sono a tre piani; gli Viene
assegnato il piano più basso, quello più vicino alla porta. Quando
qualcuno gli offre un posto miglio re, lui risponde: «Da questo
posto così basso posso assolvere più facilmente i miei compagni e
benedire i deceduti che vengono portati al forno crematorio».
Una
volta, quando un infermiere molto disponibile porta a padre
Massimiliano una tazza di vero tè – gentilezza decisamente
insolita in un campo di concentramento – egli dice:
«Quel
prigioniero ne ha più bisogno di me». E pone la tazza di tè a un
altro malato.
«Come
può fare questo, padre? Si indebolirà sempre di più».
«Io
sono forte e posso tutto in colui che mi dà forza», risponde il
Kolbe, usando le parole di san Paolo.
La
Niepokalanów più intima e spirituale
È
sempre pronto a patire al posto di un altro, a cedere il suo pasto a
chi ha più fame e quando lo si vuole portare in ospedale c’è –
a suo dire – sempre qualcuno che ne ha diritto più di lui. Ha una
parola di conforto per i disperati, di consolazione per i sofferenti,
di pacificazione per i ribelli: con la sua calma e la sua Serenità
riesce a riconciliare con Dio, con se stessi e con gli altri: egli
ribalta la prospettiva di Caino, il quale rifiuta di essere
responsabile del proprio fratello e fa suo l’imperativo opposto a
quello della mentalità Omicida: «Tu Sei il custode del tuo
fratello».
Dinanzi
al prodigio di un tale amore a oltranza i compagni vengono
conquistati dal carisma della sua santità che, anche in
quell’inferno, offre la possibilità di scorgere il volto amoroso
del Padre dei cieli. Kolbe ribadisce, nonostante gli oltraggi, le
persecuzioni e gli orrori, di credere nel Signore e nella sua
misericordia senza confini, cosa che fa infuriare le guardie naziste
e i loro capi, il cui obiettivo è quello di svilire gli esseri umani
fino a spogliarli proprio della loro dignità di figli di Dio. Pur
subendo vessazioni inenarrabili, il frate non perde la sua pace,
tutto soffrendo per la causa dell’Immacolata. La sofferenza diviene
per lui una grazia specialissima, attraverso la quale dimostrare a
Dio il suo amore assoluto e incondizionato, che va oltre qualsiasi
possibile beneficio materiale o spirituale. Egli riscuote
l’ammirazione unanime degli altri condannati («attirava le persone
a sé come una calamita», riferisce don Corrado Szweda), proprio
perché sa essere umano, in virtù di una certezza e di una forza
sovrumana, là dove tutto pare disumano.
Attira
le persone a sé come una calamita
Quando
padre Kolbe lascia l’ospedale è mandato prima al Blocco dei
convalescenti e poi al Blocco 14 e assegnato alla sezione
responsabile della pelatura delle patate. I suoi ultimi raggi X, come
testimoniano i registri, vengono fatti il 28 luglio. Una domenica
pomeriggio, alcuni sacerdoti polacchi si riuniscono segretamente per
la preghiera comune e per un incontro spirituale. È la seconda metà
di luglio e padre Massimiliano tiene un indimenticabile riflessione
sul suo argomento preferito: il rapporto tra l’Immacolata e la
Santissima Trinità.
Alcuni
giorni dopo quest’incontro, il campo di concentramento è scosso
dalla notizia che un prigioniero del Blocco 14A è scappato. Si sa
bene che questo fatto non rimarrà impunito, particolarmente per i
prigionieri dello stesso Blocco, tra cui anche Massimiliano.
Padre
Kolbe mantiene la pace profonda del suo spirito in virtù del suo
totale abbandono tra le braccia dell’Immacolata: è attraverso di
lei che egli, ora come in passato, trova le forze per affrontare con
sereno affidamento le prove più dure della sua esistenza. Egli
cammina sulla terra, mai indifferente alle sofferenze degli altri, ma
il suo cuore abita stabilmente il cielo con Maria Santissima. Il
Comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, fin dall’inizio del suo
mandato aveva stabilito che, per ogni prigioniero fuggito, dieci
prigionieri dello stesso Blocco, per rappresaglia, sarebbero stati
condannati a morire.
I
prigionieri tremano per la paura e la disperazione. Vi sono anche
alcuni coraggiosi e tra questi uno, più tranquillo e padrone di sé
rispetto agli altri.
E’
padre Massimiliano che, per caso, ascolta un giovane prigioniero
sussurrare: «Ci sarà una decimazione e io sono terrorizzato».
Padre Kolbe, allora, lo stringe a sé e gli dice: «Non temere,
figlio. La morte non è così terribile e in Paradiso ci spetta
l’Immacolata». Il giorno seguente, mentre tutti gli altri partono
per andare a lavorare, i prigionieri del Blocco 14A rimangono
sull’attenti, al loro posto per l’appello, mentre l’ardente
sole di fine luglio batte senza pietà sulle loro teste. Sono in
piedi, come uomini condannati, senza un goccio d’acqua... Stanno in
piedi...
Chi
perde i sensi non viene rianimato con l’acqua, ma a suon di
frustate. Se queste non sortiscono effetto, lo svenuto viene gettato
come un tronco inanimato su una pila di uomini ridotti come lui.
Voglio
prendere io il posto...
Padre
Massimiliano, nonostante i venticinque giorni di tubercolosi, non
cade. Rimane in piedi, eretto, come la Madre ai piedi della croce
sulla quale era sospeso suo Figlio.
Gli
altri prigionieri tornano dal lavoro. Ora anche loro stanno in piedi
per l’appello, per essere testimoni della Sentenza inflitta alle
dieci vittime sfortunate. Fritzsch, uno dei dirigenti del campo, si
avvicina ai prigionieri del Blocco 14A e comincia ad annunciare ad
alta voce: «Il fuggitivo non è stato ritrovato. Per punizione dieci
di voi moriranno nel bunker della fame».
Quindi,
con passo deliberatamente lento, comincia a percorrere le file dei
prigionieri terrorizzati, indicandone di volta in volta uno e
pronunciando per ben dieci volte una terribile parola: «Questo!».
Dal
gruppo dei condannati si ode il singhiozzare di un uomo, Francesco
Gajowniczek: «Mia moglie, i miei poveri bambini! Non li rivedrò mai
più!».
Improvvisamente
e inaspettatamente qualcuno esce dalle fila dei prigionieri e va
verso Fritzsch.
«Fermo!
Cosa vuoi?», grida il tedesco furibondo.
«Voglio
prendere io il posto di uno di quei condannati». È padre
Massimiliano che parla, calmo e controllato.
Inizialmente,
Fritzsch non capisce che cosa stia Succedendo.
Come
può quest’uomo che ora sta di fronte a lui, vincere in se stesso
la paura, il terrore della morte per fame?
«Perché?»,
chiede Fritzsch, e con lui le migliaia di testimoni di questo
insolito evento.
«Perché
uno di questi uomini ha moglie e figli. Io nox.
«Per
chi Vuoi morire?». «Per questo», dice padre Kolbe indicando
Francesco Gajowniczek, un sergente del 36° Reggimento di Fanteria.
«Chi
sei?», chiede Fritzsch ancora attonito. «Un Sacerdote cattolico».
«Molto
bene. Vai!», decide infine Fritzsch. Non si poteva far scappare
l’occasione di uccidere un "pretonzolo” (in tedesco pfaffe)
come erano soliti chiamare i consacrati: così forte è, infatti, il
disprezzo e l’odio che i nazisti nutrono per i sacerdoti, in virtù
dell’abisso ideologico che li divide.
I
condannati scelti con tanta sprezzante ferocia psicologica si avviano
al Blocco 11, mentre Kolbe cammina sorreggendo un compagno di
sventura che non ce la fa più a stare in piedi. Così ne relaziona
fra Ladislao, presente a quegli eventi: «Le dieci vittime mi
passarono davanti e vidi che padre Kolbe barcollava sotto il peso di
uno degli altri condannati, poiché egli sosteneva quest'uomo che non
era in grado di camminare con le Sue forze».
Mentre
i condannati si trovano ancora fuori dal Blocco 11, la guardia
intima: «Spogliatevi!»; è l’ennesima umiliazione, e dopo averli
rinchiusi nell’orribile cella Sotterranea Sibila: «Vi Seccherete
come tulipani!». Ancora una volta, in questa totale spoliazione,
padre Kolbe si rende simile a Gesù Cristo, morto nudo sulla croce:
davanti al Blocco 11, come davanti all’undicesima stazione della
Via Crucis.
Blocco
11, quello della morte di fame
Nei
giorni successivi, testimoni raccontano di aver udito canti religiosi
provenire dalla porta di ferro, di là della quale Massimiliano Kolbe
e gli altri condannati giacciono inermi, in attesa della morte che
giungerà al termine di una lenta e straziante agonia. Sepolti vivi
nel blocco sotterraneo, non hanno altra modalità di comunicazione
con l’esterno che quella degli aguzzini che si affacciano a
controllare se qualcuno è morto. Nessuno, d’altra parte, può
chiedere notizie dei condannati senza correre il
rischio,
a sua volta, di essere rinchiuso nel bunker. In qualità di
confessore e di guida spirituale, Kolbe accompagna i suoi fratelli
alla morte, rischiarando il clima di terrore e di odio con il fuoco
vivo dell’amore, riconciliando nella preghiera e nel canto le anime
a Dio. Nel buio di quella angusta cella sotterranea, buia,
maleodorante e imbrattata di ogni genere di sporcizia, si consuma il
supremo mistico atto di amore del padre: egli trasforma con la sua
parola, che è “la Parola” in un luogo di preghiera e di speranza
per i fratelli, donando loro in tanto orrore uno spiraglio di pace e
di serenità. Essi così riescono persino a trovare la forza di
intonare inni a Maria e di pregare con il Rosario; gli stessi
ufficiali delle SS ne resteranno allibiti e turbati.
Una
fede e una forza contagiosi
Gli
altri condannati stanno impazzendo al pensiero di non tornare più
alle loro famiglie, alle loro case, gridano e imprecano per la
disperazione. Massimiliano riesce a rendere loro la pace. Con il dono
della consolazione che egli offre loro, prolunga le vite dei
condannati, che di solito, così psicologicamente distrutti, morivano
in pochi giorni. Per risollevare il loro spirito, li incoraggia
dicendo che il fuggitivo può ancora essere ritrovato e che loro
sarebbero stati rilasciati. Allora, si uniScono a lui e pregano a
voce alta. Le porte della cella sono di quercia, e grazie al silenzio
e all’acustica, la voce di Kolbe in preghiera si estende anche alle
altre celle, dove i prigionieri possono udirla bene. Anche questi
ultimi si uniscono a lui. Da allora in poi, si ode la recita delle
preghiere, il Rosario, gli inni. Padre Kolbe li guida e gli altri
rispondono in coro. Poiché queste preghiere e gli inni risuonano in
ogni parte del bunker, lo stesso interprete polacco testimonierà di
avere l’impressione di essere in una chiesa.
«Qui
non abbiamo mai avuto un prete come quello»
Ogni
giorno gli uomini delle SS incaricati del blocco della morte
ispezionano le celle per portare via i corpi di quelli che sono morti
durante la notte. Qualche volta il gruppo di padre Kolbe è così
assorto in preghiera che non si accorge nemmeno che le SS aprono la
porta, nonostante i grossi strilli dei nazisti per attirare
l’attenzione dei prigionieri. Le SS sono, infatti, abituate a
vedere i poveri disgraziati, che piangendo, mendicano una crosta di
pane e dell’acqua, che regolarmente non ottengono, anzi se uno di
questi poveretti, avendone ancora la forza, si avvicina alla porta,
immediatamente le SS lo prendono a calci nello stomaco, ma in modo
così violento da farlo cadere all’indietro Sul cemento, tanto da
causarne la morte immediata, oppure lo uccidono subito dopo.
Padre
Kolbe non chiede niente e non si lamenta mai. Guarda direttamente
negli occhi, con intensità, coloro che entrano nella Cella. Gli
uomini delle SS non possono sostenere il suo sguardo così
incredibilmente penetrante e sbraitano: «Guarda il pavimento, non
noi!».
Anche
presso i nazisti induriti dall’odio, la figura di padre Kolbe
suscita ammirazione e turbamento.
Egli
è considerato «un uomo eccezionale in tutto» capace di provocare
un vero e proprio «trauma psichico, uno shock» per le SS costrette
a sostenere il suo sguardo, non uno sguardo famelico, che reclama
cibo, bensì assetato di amore e di desiderio di liberare i suoi
stessi aguzzini dal male. Un giorno uno di loro dice: «Qui non
abbiamo mai avuto un prete come quello. Deve essere un uomo
eccezionale in tutto».
Fine
o inizio?
Intanto,
si consuma tragicamente l’agonia dei prigionieri, sfiniti dalla
fame e dalla sete, fisicamente sempre più degradati, fino al
drammatico epilogo.
I
prigionieri, seppur sempre più deboli, continuano le preghiere,
quasi sussurri.
Nonostante
ciò, anche quando gli altri vengono trovati morti sul pavimento
durante le ispezioni, padre Kolbe è in piedi o in ginocchio, con il
Volto sereno.
Sono
già passate due settimane.
I
prigionieri muoiono uno dopo l’altro e ne rimangono solo quattro,
tra i quali padre Kolbe, ancora in stato di coscienza. Le SS sentono
che le cose stanno andando troppo per le lunghe, allora decidono di
inviare il criminale tedesco Bock per fare un’iniezione di acido
fenico ai prigionieri”. (2)
Quando
Bock arriva da lui, padre Kolbe, in preghiera, porge da solo il
braccio al suo assassino dicendo le sue ultime parole: «Ave Maria».
Gli altri corpi, nudi e sporchi, erano stesi sul pavimento, con i
volti che mostravano i segni della sofferenza.
Padre
Kolbe è seduto, eretto, appoggiato al muro.
Il
suo corpo non è sporco come gli altri, ma pulito e luminoso.
La
testa è piegata leggermente da una parte. I suoi occhi sono aperti.
Il
suo volto è puro e sereno, raggiante. Così commenta lo stesso
interprete polacco: «Chiunque avrebbe notato e pensato che questi
fosse un santo».
(2)
Dopo che l'ago è stato inflato nella vena del braccio sinistro, si
può seguire il gonfiore che va dal braccio al petto ingrossandosi
man mano che questo si avvicina al cuore. Quando lo raggiunge, la
vittima cade a terra morta. Tra l'infezione e la morte passano poco
più di dieci secondi.
Si
accende una luce
La
tragica notizia della morte di Kolbe si diffonde in fretta nel lager:
il dolore e il rimpianto per la fine atroce di un uomo, che in poco
più di due mesi ha saputo amare e farsi amare dai compagni di
prigionia, anche da quelli più induriti, sconvolge e, nello stesso
tempo, ridona speranza a quegli uomini disperati e abbrutiti dalle
violenze assurde, perpetrate dai loro carcerieri. - Un raggio di luce
celestiale è finalmente penetrato nel profondo del cuore dei poveri
prigionieri. Negli stessi tedeschi è rimasta un’impressione
vivissima, persino nel comandante del campo di Auschwitz, Rudolf
Höss: quest'uomo, aspirante chierichetto nell’infanzia, sarebbe
diventato in età adulta l’automa esecutore e perfezionatore di
un’implacabile macchina di morte. La sua reazione alla morte di
Kolbe è di rabbia stizzita di fronte a un’evidente dimostrazione
di Superiorità: «Stupidi! Avreste dovuto prendere sia il prete sia
l’altro uomo che era stato scelto! Gli avete permesso di imporsi su
di voi!». Forse, anche sul suo pentimento finale, prima di essere
impiccato come uno tra i più grandi criminali della storia, si può
intravedere la mano benedicente di san Massimiliano che intercede per
tutti gli infelici della terra. Neppure nel buio del bunker, padre
Kolbe aveva smesso di amare e di donare ai fratelli il coraggio per
amare. Il suo desiderio, espresso in Giappone anni prima, che alla
morte le sue ceneri venissero sparse dal vento per tutto il mondo,
trovava così la Sua realizzazione.
La
profezia si avvera
Il
corpo di padre Kolbe, che alcuni amici avevano chiesto non Venisse
bruciato nel forno Crematorio del campo, la mattina del 15 agosto
1941, fu portato per primo, così che tutti potessero vederlo e
Onorarlo, Verso il terribile forno: era la Solennità dell’Assunzione
della beata Vergine Maria al cielo. Il grande innamorato della
Madonna, che per tutta la vita l’aveva amata alla follia, la
raggiungeva in cielo proprio in una delle più grandi feste a lei
dedicate: la corona bianca, la purezza, e la corona rossa, il
martirio, che egli ancora bambino aveva accettate entrambe e
volontariamente dalle mani di Maria, sono ora sul suo capo: ha dunque
trovato piena realizzazione l’antica VisiOne infantile. Quando i
carcerieri bruciano il suo corpo nel forno crematorio, non sanno
certo di realizzare il più bell’auspicio di padre Kolbe: «Vorrei
essere come polvere, per viaggiare con il vento e raggiungere ogni
parte del mondo e predicare la Buona Novella».
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