Lc 10, 25-37
La domanda del dottore della legge
La domanda che il dottore della legge pone a Gesù:
Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna? è una
domanda molto importante e molto interessante. È interessante perché
esprime la preoccupazione per un'esigenza profonda del cuore
dell'uomo, l'esigenza di venire in possesso, in qualche modo, di una
vita che non finisce mai, una vita che meriti di non finire mai
perché sempre si rinnova, mai delude e mai annoia.
È interessante inoltre notare come il dottore della
legge sia consapevole che questa vita eterna è, allo stesso tempo,
qualche cosa che dipende dalla nostra condotta ed anche un dono di
Dio, di qui l'importanza di sapere quale deve essere la nostra
condotta per venirne in possesso, per questo chiede: Che cosa devo
fare per ereditare...? D'altra parte è anche consapevole che la
vita eterna si riceve come si riceve un'eredità, ossia come un dono.
La risposta di Gesù
Gesù non risponde direttamente, ma suscita la
risposta con la domanda: Che cosa sta scritto nella legge? Che
cosa vi leggi? Come se gli dicesse: "Tu che sei esperto
nelle Sacre Scritture, tu che ne conosci il contenuto, che cosa hai
capito a proposito delle opere da compiere per ereditare la vita
eterna?"
Il dottore della legge dimostra di meritare il suo
titolo, risponde infatti mostrando qual è il cuore di tutti i
comandamenti, qual è la sostanza di tutte le opere che dobbiamo
compiere per ereditare la vita eterna: Amerai il Signore Dio tuo,
con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua
forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso.
E questa è la risposta che Gesù stesso vuole dare, conclude
infatti: Hai risposto bene; fa' questo e vivrai.
Fa' questo e vivrai
Questa affermazione ci dice senza esitazioni da che
cosa dipende il nostro vivere o il nostro morire; noi vivremo infatti
se la preoccupazione principale della nostra vita sarà quella di
impegnare tutto noi stessi nell'amore di Dio e nell'amore del
prossimo; se lo faremo, se questo sarà il compito principale della
nostra esistenza, allora, a poco a poco, nella misura in cui il
nostro amore verso Dio e verso i fratelli crescerà e si
perfezionerà, incominceremo a sperimentare in noi il dono della vita
eterna. Più cercheremo di amare Dio, più lo conosceremo e più lo
conosceremo più lo ameremo e crescerà il nostro desiderio di
conoscerLo e di amarlo sempre di più; l'amore di Dio, poi, conduce
all'amore del prossimo e l'amore del prossimo all'amore di Dio,
perché solo se sperimenteremo in noi la dolcezza dell'amore di Dio
saremo capaci di amare veramente il prossimo, e solo se metteremo
dell'impegno per amare veramente il prossimo attireremo nel nostro
cuore la dolcezza delle benedizioni di Dio. Così, per la nostra
buona volontà e con l'aiuto della grazia giungeremo ad ereditare la
pienezza della vita eterna, ossia la pienezza della conoscenza di Dio
Padre e di Gesù suo Figlio, così come è detto nel Vangelo di
Giovanni: Questa è la vita eterna, che conoscano te, l'unico vero
Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,3).
Fa' questo e vivrai ci dice Gesù, ma che
cosa succede se non facciamo questo? Succede che l'affermazione di
Gesù diventa: Se non fai questo morirai. Infatti, se la
condizione per ereditare la vita eterna è quella di amare Dio con
tutto il cuore ed il prossimo come noi stessi, se non pratichiamo
questi comandamenti non erediteremo la vita, e come potremo vivere
senza il dono della vita?
La cosa la possiamo capire considerando che non
abbiamo la vita in noi stessi; è vero che abbiamo una certa
vitalità, ma questa vitalità naturale, lasciata a se stessa, tende
ad esaurirsi e a spegnersi, ossia tende alla morte. L'unico modo per
evitare questo esaurimento e questa morte, è agganciare la nostra
vitalità naturale alla vitalità inesauribile della vita divina, e
questo è possibile solo se l'amore di Dio e del prossimo diventano
l'impegno principale della nostra esistenza. Il Signore nel Vangelo
promette formalmente: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede
in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà
in eterno (Gv 11, 25). Non dice il Signore che il nostro corpo
non morirà, ma che la nostra anima, se vive di fede e di amore di
Dio, vivrà per sempre anche se il corpo muore; al contrario, anche
se il corpo è in buona salute, la nostra anima è morta se non è
vivo in lei l'amore di Dio.
Da quanto si è detto dovrebbe risultare abbastanza
chiaro che, mettere o non mettere in pratica i due comandamenti
fondamentali della legge di Dio non è una questione di poco conto,
ma è una questione di vita o di morte: se li metteremo in pratica
vivremo, se non li metteremo in pratica moriremo.
Chi è il mio prossimo?
Il dottore della legge sposta poi l'attenzione sul
secondo comandamento: Quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù:
- E chi è il mio prossimo -?. Con questa domanda il dottore
della legge vuole conoscere fin dove bisogna estendere la propria
benevolenza verso gli altri; c'erano infatti diversi modi di
intendere la parola "prossimo": c'era chi la voleva
limitare ai componenti della propria famiglia, chi la voleva
estendere agli abitanti del proprio villaggio o della propria città,
e chi la voleva estendere a tutti i membri della nazione; c'era in
definitiva la preoccupazione di stabilire un certo limite all'amore.
Gesù risponde con la famosa parabola del buon
Samaritano e noi, dopo duemila anni di cristianesimo, siamo in grado
di rispondere: il mio prossimo è ogni uomo che incontro lungo il
cammino della vita. Il fatto che Gesù non si sia limitato ad una
risposta così sintetica, ma abbia voluto raccontare una storia ricca
di particolari, dovrebbe richiamare la nostra attenzione ed il nostro
impegno per cercare di comprendere più a fondo i misteri che il
Signore ci propone.
Elementi della parabola
Cerchiamo allora di esaminare gli elementi
fondamentali del racconto. Ci viene detto in primo luogo che un uomo,
incamminato su una strada che scende verso il basso, si trova
coinvolto in una brutta avventura, la disavventura è talmente grave
che il malcapitato si trova in pericolo di morte e morirebbe
sicuramente se qualcuno non si fermasse a soccorrerlo; tuttavia,
quelli da cui poteva sperare aiuto non si curano di lui, viene invece
premurosamente soccorso da uno straniero, uno verso cui c'è
inimicizia da parte dei Giudei, questo straniero viene poi indicato
come modello da imitare nell'esercizio dell'amore del prossimo.
Per ricavare luce e conforto da questa parabola,
potremmo dividere la nostra riflessione in tre parti: nella prima
parte proviamo a considerare come questo racconto manifesti la
visione di Dio sulla storia dell'umanità, nella seconda cercheremo
di vedere quello che Dio fa per l'umanità, e nella terza cercheremo
di capire quello che dobbiamo fare noi.
I - Come Dio vede la storia dell'umanità
Per capire come questa parabola esprima la visione
di Dio sulla storia dell'uomo, è opportuno soffermarci su alcuni
aspetti di carattere geografico. Un uomo scendeva da Gerusalemme a
Gerico… così inizia il racconto di Gesù. Gerusalemme era la
capitale politica e religiosa di Israele, a Gerusalemme c'era il
tempio e tutto il popolo vi saliva periodicamente per esprimere il
suo amore al Signore, per compiere voti per offrire sacrifici;
Gerusalemme rappresentava dunque il luogo della comunione con Dio.
Ora, Gerusalemme si trova ad un'altitudine di circa 750 metri sopra
il livello del mare mentre Gerico è una città poco distante dalle
rive del Mar Morto che si trova a circa 250 metri sotto il livello
del mare, il dislivello fra Gerusalemme e Gerico è quindi di circa
1000 metri; la strada che collega le due città è impervia e
pericolosa, proprio percorrendo questa strada l'uomo incappa nei
briganti.
La storia dell'umanità è simile a quella dell'uomo
che scendeva da Gerusalemme a Gerico, infatti, come quell'uomo si era
incamminato su una strada scoscesa e pericolosa, una strada che lo
portava sempre più in basso, tanto in basso da terminare sotto il
livello del mare, come quell'uomo si era incamminato su una strada
che lo conduceva sempre più lontano da Gerusalemme, ossia dal luogo
della comunione con Dio…così, l'umanità ha voltato le spalle a
Dio e si è incamminata su una strada scoscesa e pericolosa, una
strada che la porta sempre più in basso e sempre più lontano dalla
comunione con Lui, e chi cammina lontano da Dio non potrà più
beneficiare delle sue premure e della sua protezione, ma si troverà
esposto alle insidie dei briganti e, come i briganti hanno spogliato
e percosso quell'uomo lasciandolo mezzo morto, così l'umanità,
lontana da Dio, cade in molteplici e dolorose disavventure. Come
quell'uomo fu spogliato, così l'uomo quando si allontana da Dio
viene spogliato della dignità di figlio di Dio, e questo non è
senza conseguenze. Infatti, se viene meno la dignità che deriva
dall'essere tutti figli di un unico Padre, viene anche meno il
rispetto reciproco e il rispetto verso se stessi, ed allora non
possono che aumentare le reciproche offese, le prepotenze, le
ingiustizie.
Con il venir meno della dignità di figlio di Dio,
l'uomo viene privato del riferimento all'autorità del Padre Celeste,
autorità a cui bisognerà rendere conto delle proprie azioni un
giorno, allora, con il venir meno della coscienza e del timore per il
giorno del giudizio, le furberie, la corruzione, la violenza,
l'immoralità, tendono a dilagare. Spogliato della dignità di figlio
di Dio l'uomo viene privato della speranza di giungere al possesso di
quel bene che solo può appagare il suo cuore, senza la speranza di
abitare un giorno nella casa di Dio la prospettiva dell'uomo è
ristretta ai soli beni terreni e questi sono destinati a lasciarlo
sempre insoddisfatto.
Allontanandosi da Dio viene meno nell'uomo l'amore
di Dio, ossia viene meno la vita della sua anima, perché l'anima
dell'uomo vive solo se è vivo in lei l'amore di Dio. Così, percosso
da svariati mali, l'uomo giace a terra ferito, sanguinante, solo,
mezzo morto, non completamente morto e non completamente vivo, è lì
tra la vita e la morte e se non viene soccorso da qualcuno morirà
sicuramente.
Un sacerdote scendeva
Per caso, un sacerdote scendeva per quella
medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte.
Per l'uomo ferito, morente e solo è una prima frustrazione, una
prima delusione: aver bisogno di aiuto, sperare un aiuto e non
riceverlo è una ulteriore ferita che accresce il dolore e la
solitudine. Ma come poteva ricevere aiuto da uno che, anche se
sacerdote, stava percorrendo una strada pericolosa, una strada che lo
conduceva lontano dalla casa di Dio? In realtà la situazione di quel
sacerdote era peggiore di quella dell'uomo che giaceva a terra
ferito, perché questo era ormai consapevole del suo male, della sua
caduta e della necessità di chiedere aiuto, e più in basso di
dov'era non andava, mentre il sacerdote, per la durezza del suo
cuore, proseguiva la sua discesa.
Passò oltre dall'altra parte
È sempre scomodo e doloroso lasciarsi sconvolgere
dal mistero della sofferenza e del male, allora si preferiscono le
scappatoie e le fughe verso luoghi più rassicuranti, luoghi in cui
si riesce a far rientrare la realtà entro i propri schemi; ma sia il
mistero del male che quello del bene sono più grandi dei nostri
poveri schemi e se non ci lasceremo iniziare, secondo una pedagogia
che Dio solo conosce, alla comprensione e alla convivenza con questi
due misteri, un giorno o l'altro il loro peso ci schiaccerà. In
fondo, dietro ogni fuga c'è l'ingenuità o la presunzione di voler
affrontare il cammino della vita con le sole nostre forze, ma con le
sole nostre forze di fronte a certe situazioni non rimane che la
fuga.
Anche un levita
Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e
passò oltre. Visto il comportamento, quel levita non poteva che
essere diretto anche lui verso il basso, e il povero malcapitato
riceve un altro colpo, rimane cioè ferito dall'indifferenza di chi
gli passa accanto e non si ferma per dargli almeno un po' di
conforto; la sua angoscia aumenta ancora e rischia di trasformarsi in
disperazione, infatti, se proprio un sacerdote e un levita, ossia
coloro che sono chiamati al servizio di Dio e alla conoscenza della
sua Parola, non hanno avuto compassione di lui, da chi mai potrà
sperare compassione?
È spesso quando si giunge all'estremo delle forze e
della disperazione, quando non è più possibile contare né su se
stessi né sul soccorso degli altri, è allora che può sorgere dal
nostro cuore quella preghiera che Dio da tempo aspettava, quella
preghiera che è una richiesta umile e sincera del suo intervento
nella nostra vita. Allora, per vie imprevedibili Dio interviene e
mostra cosa è capace di fare per coloro che si affidano a Lui.
II - Ciò che Dio fa per l'umanità
Siamo così giunti alla seconda parte della nostra
riflessione, quella che si propone di considerare quello che Dio fa
per l'umanità. Visto che l'uomo, nella situazione in cui si trova,
non riesce a risollevarsi da solo perché è troppo debole e sono
troppo gravi le sue ferite, Dio decide di venire Lui in persona in
suo soccorso.
Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli
accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò
le ferite, versandovi olio e vino, poi caricatolo sopra il suo
giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno
seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore dicendo:
"Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò
al mio ritorno".
Questa descrizione corrisponde a quello che Gesù ha
insegnato e fatto per gli uomini. Anche Gesù si è messo in viaggio
per venire a cercare l'uomo che si è perduto, che è caduto nelle
mani dei briganti e giace a terra mezzo morto. Il suo viaggio è
stato dal Cielo alla terra e dalla terra al Cielo. Gesù, giunto
sulla terra, vede la triste condizione dell'uomo e il suo cuore si
commuove, non come il cuore del sacerdote e del levita che, pur
avendo visto, si erano chiusi alla compassione ed avevano proseguito
il loro cammino.
Gli si fece vicino e per l'uomo afflitto e
sofferente è un primo sollievo, un primo conforto, un motivo di
speranza, Gesù però, non solo si avvicina ma si mette anche a
curare le sue ferite. Lui sa cosa bisogna fare per curare chi giace a
terra ferito e nudo, Lui sa come curare chi, consapevole del proprio
stato, accetta di lasciarsi toccare da Lui, di lasciare che vengano
esaminate proprio le ferite più gravi, quelle che forse si ha
vergogna a mostrare. Solo Gesù sa come curare la nostra infelicità,
il nostro scoraggiamento, le delusioni, la solitudine, l'incapacità
di amare, le durezze di cuore, i dubbi, le disperazioni, l'orgoglio,
certe pigrizie, passioni disordinate, ire, aggressività,
vigliaccherie, tradimenti… Chi di noi non ha sofferto o non soffre,
tanto o poco, per qualcuna di queste ferite?
Gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino.
Quest'olio e questo vino potremmo paragonarli alla misericordia e
alla giustizia, alla dolcezza e alla forza, alla consolazione e alla
punizione che Gesù mette in atto per curare le nostre ferite. Chi ha
il compito di educare o di governare, se vuole agire con saggezza sa
che, per curare certi mali, un'eccessiva severità o un'eccessiva
durezza sarebbero controproducenti, come pure un'eccessiva clemenza,
la saggezza consiste invece nell'usare con sapienza sia l'uno che
l'altro rimedio.
Caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una
locanda e si prese cura di lui. Chi è debole e dolorante a causa
di molte ferite non può essere lasciato sulla strada, ma deve essere
trasportato in un luogo in cui possa riposare, nutrirsi, essere
protetto dalle intemperie e riprendere così, a poco a poco, le forze
e la salute. Allo stesso modo, per guarire i nostri mali Gesù ci
conduce nella sua Chiesa, luogo in cui troviamo riposo, almeno una
volta alla settimana, veniamo nutriti con la Parola di Dio ed i
sacramenti, veniamo educati ad amare Dio ed i fratelli, veniamo
difesi e protetti dai pericoli che insidiano la salute della nostra
anima. La Chiesa è il luogo in cui Gesù si prende cura di noi.
È poi detto che il Samaritano trascorre la notte
nella locanda, e il giorno seguente paga di tasca sua per provvedere
al sostentamento dell'uomo ferito. La notte che il Samaritano
trascorre nella locanda potremmo vederla come una figura della
passione e morte di Gesù per noi, e il rialzarsi al mattino come una
figura della sua risurrezione; è infatti con la sua passione e morte
che Gesù paga il nostro debito d'amore nei confronti del Padre: Il
giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore
dicendo: "Abbi cura di lui".
Quell'abbi cura di lui è come un'eco della
preghiera che Gesù farà al Padre per i suoi discepoli durante
l'ultima cena; così infatti prega Gesù in quella notte: Io non
sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a Te.
Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che
mi hai dato, perché siano una cosa sola come noi... non chiedo che
tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal
maligno (Gv 17, 11; 15). Gesù si apprestava infatti a partire e
durante la sua assenza voleva affidare i suoi alle cure e alla
protezione del Padre suo; e per chi è ancora debole, in chi c'è
ancora il rischio di qualche ricaduta, è di conforto sapere che c'è
qualcuno incaricato di vegliare su di lui e sa come regolarsi anche
nel caso di possibili ricadute; termina infatti la parabola: Abbi
cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio
ritorno. C'è in quest'ultima frase un'allusione abbastanza
evidente sia alla partenza di Gesù da questo mondo secondo la sua
forma visibile, sia al suo ritorno alla fine dei tempi quando
regolerà ogni conto rimasto in sospeso, quando nel giorno del
giudizio sistemerà definitivamente ogni cosa.
Gesù termina invitando a riconoscere al di là
delle antipatie - i Giudei non erano in buoni rapporti con i
Samaritani - chi si era comportato secondo il comandamento dell'amore
del prossimo; chiede infatti Gesù al dottore della legge: Chi di
questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato
nei briganti? E il dottore della legge deve ammettere: Chi ha
avuto compassione di lui. La conclusione di Gesù: Va e anche
tu fa lo stesso, ci invita al nostro ultimo sforzo, quello di
riflettere, alla luce dell'esempio che Gesù ci ha mostrato, su che
cosa dobbiamo fare noi.
III - Quello che dobbiamo fare noi
Quello che dobbiamo fare noi dipende dallo stato in
cui si trova la nostra anima. Ci sono dei momenti o dei periodi in
cui la nostra anima è nello stato in cui si trovava l'uomo percosso
dai briganti prima che giungesse il buon Samaritano, altri momenti in
cui non deve far altro che lasciarsi medicare le ferite dal Signore,
ed altri ancora in cui, nell'albergo, riacquista le forze e si
esercita nelle attività di una vita normale.
Il momento del dolore e dell'abbandono
Ci possono dunque essere, nella vita di ogni uomo,
dei momenti in cui si è percossi fino alla morte dal volgere
impietoso degli eventi, momenti in cui, come dicono i profeti: Meglio
sarebbe morire piuttosto che vivere, momenti in cui si spera
vivamente l'aiuto di chi ci passa accanto ma l'aiuto non viene, anzi,
chi ci passa accanto contribuisce ad approfondire le nostre ferite
con la sua insensibilità e la sua indifferenza, quando poi questa
esperienza si protrae nel tempo, si giunge a rasentare la
disperazione. In questi momenti si sperimenta quanto è amaro vivere
lontano dalla casa del Padre, esuli figli di Eva, come dice il
Salve Regina. Questa è la situazione dell'uomo percosso dai briganti
prima di incontrare il buon Samaritano.
Ebbene, la parabola di Gesù ci dice che in questa
situazione, da cui non si esce con le proprie forze perché sono
esaurite, né con l'aiuto degli uomini perché o non vedono o girano
alla larga dal nostro dramma, una speranza è ancora possibile: un
viaggiatore straniero e misterioso, uno verso cui, forse, non c'è
molta simpatia, può giungere fino a noi ed avere compassione di noi,
può ravvivare la nostra speranza e curare le nostre ferite, il suo
nome è Gesù. Quello che dobbiamo fare quando siamo in questa
situazione è sapere che Gesù può e Gesù vuole venire in nostro
soccorso.
Il momento delle cure
Se poi lo stato della nostra anima è quello in cui
l'incontro con il buon Samaritano è già avvenuto e lui ha
incominciato a curare le nostre ferite, quello che dobbiamo fare è
lasciarlo lavorare e non rallentare la sua azione volendo suggerirgli
qual è la cura più indicata per il nostro caso. Dobbiamo lasciarlo
lavorare anche quando non comprendiamo quello che sta facendo; il
Signore ha dei tempi e dei metodi imprevedibili e sorprendenti, il
rischio che corriamo è quello di ritirargli la nostra fiducia ed il
nostro consenso quando quello che ci succede sfugge al nostro
controllo e alla nostra comprensione, allora, forse non a parole ma
nei fatti gli ritiriamo la nostra fiducia, e il Signore si vede
costretto a sospendere le cure perché la nostra libertà gli
resiste, rischiamo così di privarci della possibilità di acquistare
le vere forze, la vera salute, la vera vita, la vita di Dio in noi.
Una delle debolezze fondamentali, una delle ferite
più profonde che abbiamo è proprio la mancanza di confidenza in
Dio, mancanza di confidenza nel suo amore, mancanza di confidenza nel
suo desiderio e nel suo potere di guarirci, di fortificarci, di
renderci felici. Questo perché il fondamento su cui poggia la nostra
esistenza siamo noi stessi e non Dio, allora, quando Dio vuole farci
cambiare il fondamento è come se ci mancasse la terra sotto i piedi,
è come se ci fosse il terremoto, tutto crolla e noi abbiamo paura,
allora, a seconda dei casi, Dio diluisce questi terremoti lungo il
corso della nostra esistenza così che, a poco a poco, impariamo a
fidarci di Lui anche quando tutto crolla intorno a noi.
Un altro metodo per infondere in noi la confidenza è
quello di farci passare per situazioni contrarie alla nostra
sensibilità e alle nostre inclinazioni; chi accetta di passarvi, si
rende poi conto che se si è riusciti a reggere in certe situazioni,
non è stato per le proprie forze o per la propria volontà, la quale
non trovava che disgusto e ribellione, ma per un dono misterioso
della grazia.
Ma se ogni volta che siamo invitati a passare per
dove non ci piace diciamo di no e ci tiriamo indietro, come farà il
Signore ad aumentare la nostra fede? Come farà a stabilirci su quel
fondamento che non crolla anche se vacillano le fondamenta della
terra? Se poi insistiamo nel voler fare di testa nostra, se
continuiamo a respingere le proposte del Signore, ricadremo
inevitabilmente in situazioni più dolorose e complicate di quelle
che la nostra cocciutaggine e le nostre paure avrebbero voluto
evitare.
Dobbiamo lasciarLo lavorare anche quando nel curare
le nostre piaghe è costretto a farci un po' male, vale a dire
quando, illuminando la nostra coscienza, ci rende consapevoli
dell'insufficienza della nostra fede, della durezza del nostro cuore,
delle nostre inquietudini e delle brutture e miserie che sorgono dal
nostro cuore; questo accade perché impariamo sia a conoscere noi
stessi, sia a riconoscere che le nostre miserie possono venir sanate
dalla sua misericordia, e la nostra povertà può venir colmata dalla
sua ricchezza.
Il momento della riabilitazione
Rimane infine da considerare lo stato di coloro che
si trovano nell'albergo. Questi, come abbiamo detto, riacquistano le
forze e si esercitano nelle attività di una vita normale, ossia sono
coloro che, dopo cure varie, hanno posto il fondamento della loro
vita quotidiana in Dio più che in loro stessi e per questo
riacquistano le forze e con esse si esercitano nell'amore di Dio e
nell'amore del prossimo.
Consapevoli che da se stessi non possono fare nulla,
si studiano di mettere in pratica la dottrina e gli esempi che il
Signore ci ha lasciati. Così, se nei primi tempi non riusciranno ad
imitare in tutto il Signore, provano tuttavia a fare quel che
possono. Ad esempio, se lungo il corso della loro vita incontrano
qualcuno che soffre nel corpo o nello spirito, non passeranno oltre,
ma gli offriranno almeno il conforto della loro vicinanza, se non
possono fare altro offriranno la loro comprensione e le loro
preghiere contribuendo ad alleviare, almeno un po', almeno per un
momento, il dolore di chi è nella prova.
Altri, un po' più robusti, faranno come il giumento
del buon samaritano, ossia, contribuiranno con il loro sacrificio, le
loro preghiere, il loro buon esempio o la loro parola, a trasportare
nell'albergo, ossia nella Chiesa, coloro che, incamminati per vie
pericolose, feriti e doloranti, accettano di ritornare sulla via
della rettitudine e della comunione con il Signore.
Come in un albergo ci sono varie mansioni, tutte
ordinate a soddisfare le esigenze degli ospiti, così nella Chiesa ci
sono diverse vocazioni e diverse attività, tutte ordinate a
soddisfare le esigenze dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo.
Così ci sarà chi è più sensibile ai bisogni di coloro che
soffrono nel corpo, altri si dedicheranno a confortare e curare
coloro che soffrono nell'anima; altri saranno impegnati a prevenire
sia gli uni che gli altri mali. Cercando di amare come Gesù ama,
ognuno è impegnato a crescere nell'amore e ad avere uno sguardo di
bontà verso tutti, i vicini e i lontani, i bambini e gli anziani,
gli amici ed i nemici.
Meditazione
di Eugenio Pramotton -
Tratto dal sito http://www.medvan.it
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