domenica 13 novembre 2016

L'ANIMA DI OGNI APOSTOLATO di Dom Jean-Baptiste Gustave Chautard


 Prima Parte

Capitolo I
Le opere e perciò anche lo zelo sono voluti da Dio

E’ attributo della natura divina l’essere generosa. Dio è bontà infinita e la bontà non desidera altro che diffondersi e comunicare il bene di cui gode.
La vita mortale del Signore non è stata altro che una manifestazione di questa inesauribile generosità. Il Vangelo ci mostra il Redentore che semina sul suo cammino i tesori amorosi di un Cuore avido di attirare gli uomini alla verità e alla vita.
Quella fiamma di apostolato, Gesù Cristo la comunicò alla Chiesa che è un dono del suo amore, diffusione della sua vita, manifestazione della sua verità, splendore della sua santità. Animata dallo stesso fuoco, la mistica Sposa di Cristo continua, lungo il corso dei secoli, l’opera d’apostolato del suo divino Modello.
O ammirabile disegno e universale legge stabilita dalla divina Provvidenza! L’uomo deve conoscere la via della salute per mezzo dell’uomo [1]. Soltanto Gesù Cristo ha versato il Sangue che riscatta il mondo; Egli solo avrebbe potuto conferirgli la virtù di agire immediatamente sulle anime, come fa attraverso l’Eucarestia; ma Egli ha voluto eleggersi dei cooperatori per diffondere i suoi benefici. Per quale ragione? Certamente perché così l’esigeva la Maestà Divina, ma non meno lo spingevano le sue tenerezze verso l’uomo. Se al più grande dei monarchi è conveniente governare solitamente per mezzo di ministri, quale condiscendenza da parte di Dio, nel degnarsi di associare povere creature alle sue opere e alla sua gloria!
Nata sulla Croce, sgorgata dal costato trafitto di Cristo, la Chiesa perpetua col ministero apostolico l’opera benefica e redentrice dell’Uomo-Dio. Questo ministero voluto da Cristo diventa così il fattore essenziale della diffusione della Chiesa tra le nazioni e lo strumento il più ordinario delle sue conquiste.

In questo apostolato figura in prima fila il clero, la cui gerarchia forma i quadri dell’esercito di Cristo; clero illustrato da tanti Vescovi e Sacerdoti santi e pieni di zelo, ed onorato così gloriosamente dalla recente beatificazione del santo Curato d’Ars.
A fianco di questo clero ufficiale, fin dalle origini del Cristianesimo sorsero compagnie di volontari, veri corpi scelti, la cui fioritura perenne e rigogliosa costituirà sempre uno dei fenomeni più evidenti della vitalità della Chiesa.
Nei primi secoli nacquero anzitutto gli Ordini Contemplativi, la cui preghiera incessante e le macerazioni più dure tanto contribuirono alla conversione delle genti pagane. Nel medioevo sorsero gli Ordini Predicatori, gli Ordini Mendicanti, gli Ordini Militari, gli Ordini che si votano all’eroica missione di riscattare i prigionieri dalle mani degli infedeli. I tempi moderni infine hanno visto sorgere una vera moltitudine di Milizie insegnanti, Istituti, Società di Missionari, Congregazioni di ogni specie, che mirano a diffondere il bene spirituale e corporale sotto tutte le forme.
Inoltre, in ogni epoca della sua storia, la Chiesa ha sempre trovato preziosi collaboratori nei semplici fedeli, come quei ferventi cattolici divenuti oggi una legione, gli «uomini d’azione» – per usare l’espressione consacrata – dal cuore ardente che, riuscendo ad unire le loro forze, mettono al servizio della nostra Madre comune, senza alcuna riserva, tempo, capacità, beni, immolando spesso la propria libertà e non di rado versando il proprio sangue.
E’ veramente uno spettacolo mirabile e confortante questa provvidenziale fioritura di opere che nascono a tempo dovuto e sempre meravigliosamente adatte alle circostanze. La storia della Chiesa lo dimostra: ogni nuovo bisogno da soddisfare, ogni pericolo da scongiurare ha visto immancabilmente sorgere l’istituzione richiesta dalle necessità del tempo.
Ed anche oggi, a mali di particolare gravità, vediamo opporsi una moltitudine di opere ieri appena conosciute: Catechismi in preparazione alla prima Comunione, Catechismi di perseveranza, Catechismi per i fanciulli abbandonati, Congregazioni, Confraternite, Riunioni e Ritiri per uomini e giovani, per signore e ragazze, Apostolato della preghiera, Apostolato della carità, Leghe per il riposo festivo, Patronati, Circoli cattolici, Opere militari, Scuole libere, Buona stampa eccetera: tutte forme di apostolato suscitate da quello spirito che infiammava l’anima di S. Paolo – «In quanto a me ben volentieri sacrificherò del mio, anzi tutto me stesso, per le anime vostre» (2 Cor., 12, 15) – e che vuol diffondere ovunque i benefici del sangue di Gesù Cristo.
Possano queste umili pagine giungere a quei soldati che, pieni di zelo ed ardore per la loro nobile missione, proprio a causa dell’attività svolta, si espongono al pericolo di non essere prima di tutto uomini di vita interiore e che, se venissero puniti un giorno con insuccessi in apparenza inesplicabili, come pure da gravi danni spirituali, potrebbero essere tentati di abbandonare la lotta e ritirarsi scoraggiati sotto la tenda.
I pensieri sviluppati in questo libro furono anche a me di grande aiuto per lottare contro il perdersi nell’azione esteriore. Possano essi evitare ad alcuni le delusioni e guidare meglio il loro coraggio, mostrando a loro che il Dio delle opere non dev’essere mai abbandonato per fare le opere di Dio, e che il motto «Guai a me, se non avrò evangelizzato» (1 Cor., 4, 16) non ci dà mai il diritto di dimenticare quest’altro: «Che giova all’uomo guadagnare fosse anche tutto il mondo, se poi perde la propria anima?» (Mt. 16, 25)
I padri e le madri di famiglia, per i quali il libro Introduzione alla vita devota [2] non è ormai sorpassato, gli sposi cristiani che si considerano vicendevolmente obbligati ad un apostolato che esercitano nel tempo stesso verso i propri figli per formarli all’amore e all’imitazione del Salvatore, possono applicare anche a loro stessi l’insegnamento di queste modeste pagine. Possano anch’essi meglio comprendere la necessità d’una vita non solo pia ma anche interiore, per rendere efficace il loro zelo e imbalsamare la loro casa con lo spirito di Cristo e con quella pace inalterabile che, nonostante tutte le prove, sarà sempre la caratteristica delle famiglie profondamente cristiane.

Capitolo II
Dio vuole che Gesù sia la Vita delle opere

La scienza va giustamente fiera delle sue enormi conquiste. Ma una cosa le fu finora e le sarà per sempre impossibile: creare la vita, far uscire dal laboratorio chimico un chicco di frumento o una larva. Il clamoroso fallimento dei difensori della generazione spontanea ci ha istruito su tale pretesa. Iddio riserva per sé il potere di creare la vita.
Nel regno vegetale od animale, gli esseri viventi possono crescere e moltiplicarsi, sebbene la loro fecondità si realizzi solo nelle condizioni stabilite dal Creatore. Quando però si tratta della vita intellettuale, Dio la riserva a sé ed è Lui stesso che crea direttamente l’anima ragionevole. V’è tuttavia un altro ordine di cui è ancora più geloso ed è quello della vita soprannaturale, poiché essa è emanazione della Vita divina comunicata all’Umanità dal Verbo Incarnato.
L’Incarnazione e la Redenzione stabiliscono Gesù Cristo come Sorgente, e Sorgente unica, di quella vita divina alla quale tutti gli uomini sono chiamati a partecipare. «Per il Signore nostro Gesù Cristo: per Lui, con Lui ed in Lui» (dalla Liturgia). Il compito essenziale della Chiesa sta nel diffondere questa vita mediante i Sacramenti, la preghiera, la predicazione e tutte le opere che vi si connettono.
Dio non fa nulla se non mediante suo Figlio: «Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui non è stato fatto nulla di ciò che esiste» (Gv. 1, 3). Ciò è vero nell’ordine naturale, ma molto di più nell’ordine soprannaturale, dove si tratta di comunicare la sua vita intima e di far partecipare agli uomini la sua natura trasformandoli in figli di Dio.
«Sono venuto affinchè ricevessero la vita. Io sono la vita. In Lui era la vita» (Gv. 10, 10; Gv. 14, 6; Gv. 1, 4). Che precisione in queste parole! Quanta luce nella parabola della vite e dei tralci, in cui il Maestro sviluppa questa verità! Quanta insistenza per imprimere nello spirito dei suoi Apostoli questo principio fondamentale – Lui solo, Gesù, è la Vita – e questa conseguenza: per partecipare a questa vita e comunicarla agli altri, essi per primi devono essere innestati sull’Uomo-Dio!
Gli uomini chiamati all’onore di cooperare col Salvatore per trasmettere alle anime questa vita divina, devono perciò considerarsi come semplici canali incaricati di attingere a questa unica Sorgente.
L’uomo apostolico che, misconoscendo questi principi, credesse di produrre il minimo vestigio di vita soprannaturale senza attingerla totalmente dal Cristo, farebbe pensare che la sua ignoranza teologica sia pari solo alla sua sciocca presunzione.
Se l’apostolo, pur riconoscendo in teoria che il Redentore è la causa primordiale di ogni vita divina, in pratica però dimenticasse tale verità e, accecato da una folle presunzione che è un’ingiuria verso Gesù Cristo, facesse affidamento soltanto sulle proprie forze, sarebbe un disordine meno grave del precedente, ma sempre insopportabile agli occhi di Dio.
Respingere la verità o farne a meno nell’agire, è pur sempre un disordine intellettuale, sia esso dottrinale o pratico. E’ la negazione di un principio che deve informare la nostra condotta. Il disordine si aggraverà, evidentemente, se la verità, invece di potersi irraggiare, trova il cuore dell’uomo di azione in opposizione al Dio di ogni luce, per colpa del peccato o per tiepidezza volontaria.
Il comportamento di chi si occupa delle opere come se Gesù non fosse l’unico principio di vita, veniva bollato dal cardinale Mermillod come «eresia dell’azione». Con tale espressione, egli condannava l’aberrazione d’un apostolo il quale, dimenticando che il suo ruolo è secondario e subordinato, si attende i successi del suo apostolato unicamente dalla sua attività personale e dalle sue capacità. Non è questo una negazione pratica di una gran parte del Tractatus de Gratia? Ripugna a prima vista una simile conseguenza, ma a ben pensarci è fin troppo vera.
«Eresia dell’azione»! L’attività febbrile che si sostituisce all’azione di Dio; la Grazia misconosciuta; l’orgoglio umano che vuole detronizzare Gesù Cristo; la vita soprannaturale, la potenza della preghiera e l’economia della Redenzione relegate, almeno praticamente, fra le astrazioni: sono un caso tutt’altro che immaginario e che la conoscenza delle anime rivela essere frequentissimo, benché in gradi diversi, in questo secolo di naturalismo, in cui l’uomo giudica soprattutto in base alle apparenze ed agisce come se il successo di un’opera dipendesse principalmente da un’ingegnosa organizzazione.
Anche prescindendo dalla Rivelazione, al solo lume della filosofia, non si potrebbe che commiserare un uomo mirabilmente dotato, che si rifiutasse di riconoscere Dio come il principio dei magnifici talenti di cui è dotato.
Cosa proverebbe un cattolico istruito nella religione, vedendo un apostolo che ostenta, almeno implicitamente, la pretesa di comunicare alle anime il sia pur minimo grado di vita divina, facendo a meno di Dio?
«Ah, insensato!», esclameremmo nell’ascoltare un operaio evangelico che osasse dire: «Mio Dio, non suscitate ostacoli alla mia impresa, non venite ad intralciarla, ed io m’incaricherò di condurla a buon fine».
Il nostro sentimento sarebbe soltanto un riflesso dell’avversione provata da Dio alla vista di un tale disordine, alla vista di un presuntuoso che spingesse il suo orgoglio fino a voler dare la vita soprannaturale, produrre la fede, debellare il peccato, condurre alla virtù, infervorare le anime con le sole forze proprie e senza attribuire tali effetti all’azione diretta, costante, universale e sovrabbondante del Sangue divino, ch’è il prezzo, la causa e il mezzo di ogni grazia e d’ogni vita spirituale.
Per riguardo all’Umanità di suo Figlio, Dio deve confondere questi falsi cristi paralizzando le loro opere di superbia o permettendo ch’esse ottengano soltanto miraggi effimeri.
Fatta eccezione per tutto quello che agisce sulle anime ex opere operato, e sempre per un riguardo dovuto al Redentore, Dio deve privare l’apostolo pieno di sufficienza delle sue migliori benedizioni, per darle al tralcio che umilmente riconosce di trarre la sua linfa vitale dalla sola Vite divina. Altrimenti, se Dio benedicesse con risultati profondi e duraturi un’attività infetta da quel virus che abbiamo chiamato «eresia dell’azione», sembrerebbe che egli stesso incoraggiasse tale disordine e ne permettesse il contagio.

Capitolo III
Che cosa è la Vita interiore?

Come nella Imitazione di Cristo [3], anche in questo libro le espressioni «vita d’orazione» e «vita contemplativa» vengono applicate allo stato di quelle anime che si dedicano seriamente ad una vita cristiana non comune, ma tuttavia accessibile a tutti e, nella sostanza, obbligatoria per tutti.4
Pur senza attardarci in uno studio di ascetica, ci limitiamo a richiamare ciò che ognuno è obbligato ad accettare come assolutamente certo per il governo intimo della sua anima.
Prima Verità. – La vita soprannaturale è, in me, la vita di Gesù Cristo medesimo, mediante la fede, la speranza e la carità, perché Gesù è la causa meritoria esemplare e finale e, in qualità di Verbo, in unione col Padre e lo Spirito Santo, è la causa efficiente della grazia santificante nelle anime nostre.
La presenza del Signore per mezzo di questa vita soprannaturale non è la presenza reale propria della santa Comunione, ma una presenza d’azione vitale, come l’azione della testa e del cuore sulle altre membra. Azione intima che Dio nasconde di solito alla mia anima per aumentare il merito della mia fede; azione pertanto abitualmente insensibile alle mie facoltà naturali, e che solo la fede mi impone di credere per obbligo; azione divina che preserva il mio libero arbitrio, e si serve di tutte le cause seconde – avvenimenti, persone e cose – per portarmi alla conoscenza della volontà di Dio e per offrirmi l’occasione d’acquistare ed accrescere la mia partecipazione alla vita divina.
Questa vita, iniziata nel Battesimo con lo stato di grazia, perfezionata dalla Cresima, ricuperata con la Penitenza, sostenuta e arricchita con l’Eucarestia, è la mia Vita cristiana.
Seconda Verità. – Per mezzo di questa vita, Gesù Cristo mi comunica il suo Spirito, divenendo così un principio di attività superiore che, se non l’ostacolo, mi porta a pensare, a giudicare, ad amare, a volere, a soffrire, a lavorare con Lui, in Lui, mediante Lui e come Lui. Le mie azioni esteriori diventano la manifestazione della vita di Gesù in me ed in tal modo io tendo a realizzare l’ideale della vita interiore formulato da san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal. 2, 20).
Vita cristiana, pietà, vita interiore, santità, non sono cose essenzialmente diverse, ma gradi di un medesimo amore; sono il crepuscolo, l’aurora, la luce, lo splendore di un medesimo sole.
Quando in questo libro usiamo l’espressione «vita interiore», non intendiamo tanto la vita interiore abituale, cioè – se così possiamo esprimerci – «il capitale della vita divina» che è in noi con la grazia santificante; intendiamo piuttosto la vita interiore attuale, ossia la valorizzazione di questo capitale con l’attività dell’anima e la sua fedeltà alle grazie attuali.
Posso pertanto così definire la vita interiore: lo stato di attività di un’anima che reagisce per regolare le sue naturali inclinazioni, e si sforza d’acquistare l’abitudine di giudicare e governarsi in tutto secondo le luci del Vangelo e gli esempi di Nostro Signore.
Ci sono dunque due movimenti. Col primo, l’anima si allontana da ciò che il creato può avere in opposizione alla vita soprannaturale e cerca di essere continuamente presente a se stessa: aversio a creaturis. Col secondo, l’anima va verso Dio per unirsi a Lui: conversio ad Deum.
Quest’anima vuole perciò essere fedele alla grazia che il Signore le offre in ogni momento; in una parola, vive unita a Gesù e realizza in se stessa le parole: «Se uno rimane in me e io in lui, costui porta gran frutto» (Gv. 15, 4).
Terza Verità. – Io mi priverei di uno dei più potenti mezzi per acquistare la vita interiore, se non mi sforzassi di avere una fede precisa e certa di questa presenza attiva di Cristo in me, e soprattutto di ottenere che tale presenza sia per me una realtà viva, anzi vivissima, che penetri sempre più l’atmosfera delle mie facoltà. Se Gesù diventasse la mia luce, il mio ideale, il mio consigliere, il mio appoggio, il mio rifugio, la mia forza, il mio medico, il mio conforto, la mia gioia, il mio amore, insomma tutta la mia vita, allora io acquisterei tutte le virtù. Soltanto allora potrò sinceramente recitare quella mirabile preghiera di san Bonaventura proposta dalla Chiesa ai Sacerdoti come ringraziamento dopo la santa Messa: «Transfige, dulcissime Domine Jesu...» [5]
Quarta Verità. – In proporzione all’intensità del mio amore per Dio, la mia vita soprannaturale può crescere in ogni momento mediante una nuova infusione della grazia della presenza attiva di Gesù Cristo in me, infusione che è prodotta:
1) in occasione di atti meritori, cioè virtù, lavoro, patimenti nelle loro varie forme, privazioni di creature, dolore fisico o morale, umiliazione, abnegazione, preghiera, Messa, atti di devozione verso Maria Santissima, eccetera;
2) dai Sacramenti ed in special modo dall’Eucarestia.
E’ dunque certo – e questa conseguenza mi schiaccia con la sua sublimità e profondità, ma più ancora mi dà gioia e coraggio – è dunque certo che per mezzo di ogni avvenimento, persona o cosa, siete Voi, o Gesù, Voi stesso, che vi presentate oggettivamente a me in ogni istante. Sotto quelle apparenze, Voi nascondete la vostra sapienza ed il vostro amore e sollecitate la mia cooperazione per accrescere la vostra Vita in me.
O anima mia, Gesù si presenta ogni volta a te per mezzo della grazia del momento presente, della preghiera da dire, della Messa da celebrare o da ascoltare, della lettura da fare, degli atti di pazienza, di zelo, di rinunzia, di lotta, di confidenza, di amore da compiere. Oseresti tu voltare la faccia o sottrarti?
Quinta verità. – Causata dal Peccato originale ed accresciuta da ciascuno dei miei peccati attuali, la triplice concupiscenza depone in me germi di morte, opposti alla vita di Gesù. Ora, nella stessa misura con cui tali germi si sviluppano, essi diminuiscono l’esercizio di questa vita e possono anche arrivare, ahimé, a sopprimerla.
Tuttavia, né inclinazioni, né sentimenti contrari a questa vita, né tentazioni per quanto violente e prolungate possono recarle danno, finché la mia volontà oppone resistenza. Anzi, e questa è una verità consolante, in proporzione del mio zelo, essi contribuiscono ad aumentarla come ogni altro elemento di lotta spirituale.
Sesta Verità. – Senza l’uso fedele di mezzi determinati, la mia intelligenza si acciecherà e la mia volontà diventerà troppo debole per cooperare con Gesù alla crescita o perfino al mantenimento della sua vita in me. Allora avviene una diminuzione progressiva di questa vita ed io m’incammino verso la tiepidezza della volontà [6]. Per dissipazione, per mollezza, per illusione o per acciecamento, vengo a patti col peccato veniale, e siccome questo dispone facilmente a cadere nel peccato mortale, divento quindi incerto della mia salvezza.
Se io avessi la disgrazia di cadere in questa tiepidezza (e a maggior ragione se cadessi più in basso) dovrei prendere ogni mezzo per uscirne: cioè
1) ravvivare il timor di Dio, riflettendo profondamente sul mio fine, sulla mia morte, sul giudizio di Dio, sull’inferno, sull’eternità, sul peccato, eccetera;
2) ravvivare la compunzione mediante la conoscenza amorosa delle vostre piaghe, o misericordioso Redentore. Con lo spirito sul Calvario, mi getterò ai vostri santi piedi, perché il vostro Sangue vivo, colando sulla mia testa e sul mio cuore, dissipi il mio acciecamento, sciolga il ghiaccio della mia anima e scuota il torpore della mia volontà.
Settima Verità. – Devo seriamente temere di non avere il grado di vita interiore che Gesù esige da me:
1) se tralascio di accrescere la sete di vivere di Gesù, sete che mi dà il desiderio di piacere in tutto a Dio ed il timore di dispiacergli in qualche modo. Ora questo avviene certamente se non faccio più uso dei mezzi che sono la preghiera del mattino, la Messa, i Sacramenti e l’Ufficio, gli esami di coscienza, particolare e generale, la lettura spirituale, oppure se per mia colpa essi non m’apportano più alcun profitto;
2) se non ho più quel minimo di raccoglimento che mi permetta, durante le mie occupazioni, di conservare il mio cuore in una purità e generosità sufficiente perché non sia soffocata la voce di Gesù, che mi mette in guardia dai fattori di morte che si presentano e m’invita a combatterli. Questo raccoglimento mi verrà a mancare, se io non uso i mezzi atti ad assicurarlo: e cioè vita liturgica, giaculatorie specialmente in forma di supplica, comunioni spirituali, esercizio della presenza di Dio, ecc.
Se manca questo raccoglimento, i peccati veniali verranno a pullulare nella mia vita, senza che nemmeno me ne renda conto. Per nasconderli, o perfino per non lasciar trasparire uno stato ancor più lacrimevole, l’illusione si servirà dell’apparenza di una pietà più speculativa che pratica, dello zelo per le opere d’apostolato ecc. Il mio accecamento sarà colpevole perché, con la mancanza del necessario raccoglimento, io ne avrò posta e mantenuta la causa.
Ottava Verità. – La mia vita interiore sarà proporzionata alla custodia del cuore: «Con ogni cura custodisci il tuo cuore, perché da ciò procede la vita» (Pv. 4, 23).
La custodia del cuore altro non è che l’abituale o almeno frequente sollecitudine di preservare tutti i miei atti, man mano che si presentano, da tutto ciò che potrebbe viziarli nel loro movente o nella loro esecuzione.
Sollecitudine calma, tranquilla, senza sforzo, ma anche energica e basata sul ricorso filiale a Dio. Questo è più un lavoro del cuore e della volontà che non della mente, la quale deve rimanere libera per compiere i suoi doveri. Lungi dal contrastare l’azione, la custodia del cuore la rende più perfetta, regolandola secondo lo spirito di Dio e mettendone a fuoco i doveri di stato.
Tale esercizio lo si può praticare in ogni momento; è come lo sguardo del cuore sulle azioni presenti ed un’attenzione moderata sulle diverse parti di un’azione che si sta compiendo. E’ l’osservanza esatta del motto «Age quod agis» (fai con cura quel che devi fare). Simile a vigile sentinella, esercita la sua vigilanza su tutti i movimenti del cuore, su tutto ciò che passa nel suo interno – impressioni, intenzioni, passioni, inclinazioni – insomma su tutti i suoi atti interni ed esterni, pensieri, parole, azioni.
La custodia del cuore esige un certo raccoglimento che non può realizzarsi in un’anima dissipata. Soltanto con la frequenza di questo esercizio se ne acquista l’abitudine.
«Quo vadam ed ad quid?» Dove sto andando e a che scopo? Cosa farebbe Gesù, come si comporterebbe al mio posto? Cosa mi consiglierebbe? Cosa mi chiede in questo momento? Tali sono le domande che vengono spontaneamente in mente all’anima avida di vita interiore.
Per l’anima che va a Gesù mediante Maria, questa custodia del cuore acquista un carattere ancor più facilmente affettivo e ricorrere a questa buona Madre diviene un bisogno incessante del suo cuore.
Nona Verità. – Gesù Cristo regna nell’anima quando essa aspira ad imitarlo seriamente, in ogni cosa e con affetto. In questa imitazione vi sono due gradi:
1) L’anima si sforza di diventare indifferente alle creature in se stesse, siano esse conformi o contrarie ai suoi gusti. Sull’esempio di Gesù, in tutte le cose non accetta altra legge che la volontà di Dio: «Sono disceso dal Cielo per fare non la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha inviato» (Gv. 6, 38).
2) «Cristo non cercò la propria soddisfazione» (Rom. 15, 3). L’anima tende più volentieri a ciò che è contrario e ripugna alla natura. Essa allora mette in pratica l’ «agendo contra» di cui parla Sant’Ignazio nella celebre meditazione sul Regno di Cristo [7], è l’azione contro la natura per andare di preferenza a ciò che imita la povertà del Salvatore e il suo amore per le sofferenze e le umiliazioni. Allora l’anima, secondo la parola di San Paolo, conosce veramente Cristo: «Didicistis Christum» (Ef. 4, 20).
Decima Verità. – In qualunque stato io mi trovi, se voglio pregare e diventare fedele alla sua grazia, Gesù mi offre tutti i mezzi per ritornare ad una vita interiore che mi restituisca la sua intimità e mi permetta di sviluppare la sua vita in me. Allora, nel progredire, l’anima non cesserà di possedere la gioia anche in mezzo alle prove e si realizzeranno in lei quelle parole di Isaia: «Allora la tua luce spunterà come l’aurora, presto verrà la tua guarigione, ti preverrà la tua giustizia e la gloria del Signore ti proteggerà. Allora tu pregherai e il Signore ti risponderà; appena alzerai la voce, egli dirà: Eccomi! (...) E il Signore ti darà eterno riposo e inonderà la tua anima di splendori, e darà vigore alle tue ossa, e tu sarai come un giardino irrigato e come una fontana di acqua viva alla quale non mancheranno mai zampilli» (Is. 58, 8-11).
Undicesima Verità. – Se Dio mi chiede di applicarmi non solo alla mia santificazione, ma anche alle opere di apostolato, dovrò prima di tutto formarmi nell’anima questa ferma convinzione: Gesù deve e vuole essere la vita di queste opere.
I miei sforzi, da soli, non sono nulla, assolutamente nulla: «Senza di me non potere far nulla» (Gv. 15, 5); essi non saranno né utili né benedetti da Dio, se non li unisco costantemente all’azione vivificante di Gesù mediante una vera vita interiore. Essi diventeranno allora onnipotenti: «Tutto posso, in Colui che mi dà forza» (Fil. 4, 13). Ma se questi sforzi provenissero da un’orgogliosa autosufficienza, dalla fiducia nei miei talenti e dal desiderio del successo, i miei sforzi sarebbero rigettati da Dio. Non sarebbe infatti una sacrilega follia da parte mia, se volessi rubare a Dio, per farmene bello, un poco della sua gloria?
Ben lungi dal rendermi pusillanime, tale convinzione sarà la mia forza. E come mi farà sentire il bisogno della preghiera per ottenere questa umiltà, tesoro per l’anima mia, sicurezza dell’aiuto di Dio e caparra di successo per le mie opere!
Penetrato dall’importanza di questo principio, mi esaminerò coscienziosamente nei giorni di ritiro, per verificare se non si è indebolita la convinzione che la mia azione è nulla quando è sola ma è forte quando è unita a quella di Gesù Cristo, se escludo spietatamente ogni compiacenza, ogni vanità ed ogni ripiegamento su me stesso nella mia vita di apostolo, se mi mantengo in un’assoluta diffidenza di me stesso, e se prego Dio di vivificare ogni mia opera e di preservarmi dall’orgoglio, ch’è il primo e principale ostacolo al suo aiuto.
Questo credo della vita interiore, una volta divenuto per l’anima la base della sua esistenza, le assicura fin da questa vita una partecipazione alla felicità celeste.
Vita interiore, vita di predestinati. Essa corrisponde al fine che Dio si è proposto nel crearci [8], ma corrisponde anche al fine dell’Incarnazione:
«Dio inviò nel mondo il Suo Figlio unigenito, affinché viviamo per Lui» (1 Gv., 4, 9).
E’ uno stato di beatitudine: «Il fine della creatura umana consiste nell’unirsi a Dio; in questo infatti consiste la sua felicità» (San Tommaso d’Aquino).
Al contrario delle gioie mondane, se fuori ci sono le spine, dentro ci sono le rose. «Come sono da compiangere i poveri mondani!», esclamava il santo curato d’Ars. Essi portano sulle spalle un mantello foderato di spine e non possono fare una mossa senza pungersi. I veri cristiani invece portano un mantello foderato di pelle di coniglio. «Si guarda la Croce, ma non si vede l’unzione» (San Bernardo).
E’ uno stato celeste in cui l’anima diventa un cielo vivente [9]. Con santa Margherita Alacoque si può dire: «In ogni tempo posseggo e in ogni luogo porto il Dio del mio cuore e il cuore del mio Dio».
E’ il principio della beatitudine: «Una certa qual anticipazione dell’eterna beatitudine»10. La grazia è il Cielo in germe.

Capitolo IV
Quanto sia misconosciuta questa vita interiore

San Gregorio Magno, che fu tanto esperto amministratore ed apostolo zelante quanto grande contemplativo, con questa semplice espressione: «Secum vivebat» – egli viveva presso di sé – caratterizza lo stato d’animo di san Benedetto mentre gettava a Subiaco le basi della sua Regola, divenuta ben presto una fra le più potenti leve d’apostolato di cui Dio si è servito sulla terra.
Della maggior parte dei contemporanei bisogna dire il contrario. Vivere presso di sé, in se stesso, voler governare se stesso, non lasciarsi governare dalle cose esteriori, ridurre l’immaginazione, la sensibilità, perfino l’intelligenza e la memoria al ruolo di servi della volontà e conformare costantemente questa volontà a quella di Dio, è un programma che si accetta sempre meno, in questo secolo di agitazioni che ha visto nascere un nuovo ideale: l’amore dell’azione per l’azione.
Per eludere questa disciplina delle facoltà, tutti i pretesti sono buoni: affari, sollecitudine per la famiglia, igiene, buon nome, amor patrio, prestigio della categoria, pretesa gloria di Dio, fanno a gara per impedirci di vivere in noi stessi. Questa specie di delirio della vita esteriore giunge anche ad esercitare su noi una irresistibile attrattiva.
Come stupirsi, allora, se la vita interiore è misconosciuta?
Ma dire misconosciuta è troppo poco; essa viene spesso disprezzata e ridicolizzata proprio da coloro che più di tutti dovrebbero apprezzarne i vantaggi e la necessità. Per protestare contro le pericolose conseguenze d’un’ammirazione esclusiva per le opere, fu necessaria la citata memorabile lettera inviata da Leone XIII al Card. Gibbons, arcivescovo di Baltimora.
Per evitare il lavoro della vita interiore, l’uomo di chiesa giunge al punto di misconoscere l’eccellenza della vita con Cristo, in Cristo, per mezzo di Cristo, dimenticando che, nel piano della Redenzione, tutto si fonda sulla vita eucaristica, tanto quanto poggia sulla rocca di Pietro. Relegare in second’ordine ciò che è essenziale, è appunto quanto inconsciamente compiono i partigiani di quella spiritualità moderna chiamata Americanismo.
Costoro non giungono a considerare le chiese come templi protestanti, per loro il tabernacolo non è ancor vuoto, ma la vita eucaristica non sarebbe più sufficiente né adatta alle esigenze della civiltà moderna; la vita interiore, che deriva necessariamente dalla vita eucaristica, avrebbe ormai fatto il suo tempo.
Per le persone imbevute di tali teorie – e sono una legione – la Comunione ha perduto quel vero senso che aveva per i primi cristiani. Credono ancora nell’Eucaristia, ma non ci vedono più un elemento di vita così necessario tanto per loro che per le loro opere. Non c’è perciò da stupirsi se, non esistendo più per essi l’incontro intimo con Gesù-Ostia, la vita interiore sia considerata come un ricordo del medioevo.
In verità, a sentir parlare questi uomini d’azione delle loro opere, ci sarebbe quasi da credere che l’Onnipotente, il quale creò il mondo come per gioco e dinanzi al quale l’universo non è che polvere e nulla, non possa fare a meno del loro collaborazione! Molti cristiani ed anche alcuni sacerdoti e religiosi, attraverso il culto dell’azione, giungono inavvertitamente a formarsene una specie di dogma che ispira la loro condotta e le loro azioni e li spinge ad abbandonarsi sfrenatamente ad una vita esteriore.
Si vorrebbe poter dire: «la Chiesa, la diocesi, la parrocchia, la congregazione, le opere di apostolato hanno bisogno di me... Io sono più che utile a Dio». Anche se non si arriva ad esprimere apertamente simile vanità, ci sono però nascosti nel fondo del cuore la presunzione che ne è la base e l’attenuazione di fede che l’ha generata.
Sovente si ordina al nevrastenico di astenersi, magari per molto tempo, da ogni occupazione; ma questo è per lui un rimedio insopportabile, appunto perché la sua malattia lo mette in un’agitazione febbrile che diventa come una seconda natura e lo spinge a cercare instancabilmente nuovi dispendi di forze e nuove emozioni che aggravano il suo male.
Altrettanto avviene spesso all’uomo di azione riguardo alla vita interiore. Egli la disprezza, anzi ne sente maggior ripugnanza appunto perché solo nella sua pratica si trova il remedio del suo stato morboso; anzi, cercando di stordirsi sempre più con una valanga di lavori crescenti e disordinati, egli scarta ogni possibilità di guarigione.
La nave corre a tutto vapore; ma se il pilota si compiace della velocità, Dio invece giudica che quella nave, priva di un saggio timoniere, sta andando all’avventura e rischia di rovinarsi. «Adoratori in spirito e verità»: ecco ciò che Nostro Signore innanzitutto reclama. L’Americanismo invece pretende di dare maggior gloria a Dio puntando principalmente ai risultati esteriori.
Questo stato d’animo dimostra che, se oggi sono ancora apprezzate le scuole, i dispensari, le missioni e gli ospedali, è sempre meno compresa l’abnegazione nella sua forma intima, cioè nella penitenza e nella preghiera. Colui che non sa più credere al valore dell’immolazione nascosta, non si accontenterà di trattare da vili e visionari quelli che la praticano nella solitudine del chiostro, – i quali invece non dimostrano minor ardore per la salvezza delle anime che i più infaticabili missionari – ma giungerà a ridicolizzare anche quegli apostoli che ritengono indispensabile sottrarre qualche momento alle occupazioni, anche a quelle più utili, per andare a purificare e riaccendere il loro zelo davanti al Tabernacolo e così ottenere dall’Ospite divino i migliori risultati alle loro fatiche.

Capitolo V
Risposta ad una prima obiezione: la vita interiore è oziosa?

Questo libro è rivolto unicamente agli uomini d’azione animati dal desiderio ardente di dedicarsi all’apostolato, ma esposti al pericolo di trascurare i mezzi necessari affinché la loro dedizione sia feconda per le anime senza diventare un dissolvente della loro vita interiore.
Non è nostro scopo stimolare i pretesi apostoli che hanno il culto del riposo, né scuotere le anime illuse dall’egoismo, che fa loro vedere nell’ozio un mezzo che favorisce la pietà, e neppure intendiamo smuovere l’indifferenza di quegli indolenti ed addormentati che, nella speranza di ottenere vantaggi ed onori, accettano di dare il loro nome a determinate opere purché non sia turbata la loro pace ed il loro ideale di tranquillità: per costoro ci vorrebbe ben altro libro.
Lasciamo ad altri l’incarico di far comprendere a questa categoria di apatici la responsabilità d’una esistenza che Dio voleva attiva e che il demonio, d’accordo con la natura, rende sterile per mancanza di attività e di zelo, e torniamo a rivolgerci ai venerabili fratelli cui vogliamo riservare queste pagine.
Nessun termine di paragone può riflettere la infinita intensità dell’attività che si svolge in seno a Dio. La vita interiore del Padre è tale che genera una Persona divina; dalla vita interiore del Padre e del Figlio procede lo Spirito Santo.
La vita interiore comunicata agli Apostoli nel Cenacolo, accese subito in loro la fiamma dello zelo.
Per chiunque abbia istruzione e non si sforzi di snaturarla, questa vita interiore è un principio di abnegazione.
E se anche non si rivelasse con manifestazioni esteriori, la vita di preghiera è in sé ed intimamente una sorgente di attività che non può essere paragonata a nessun’altra. Non vi è nulla di più falso del considerarla come una specie di oasi in cui ci si possa rifugiare per trascorrervi pigramente l’esistenza. Basta che essa sia la via più breve che porta al Regno dei Cieli, perché le si possano applicare in modo speciale quelle parole: «Il Regno dei Cieli lo si ottiene con la forza e sono i violenti a conquistarselo» (Mt. 11, 12).
Don Sebastiano Wyart, il quale aveva conosciuto il lavoro dell’asceta e le lotte del militare, la fatica dello studio e le cure inerenti alla carica di superiore, soleva dire che vi sono tre specie di lavoro:
a) Il lavoro quasi esclusivamente fisico di coloro che esercitano un mestiere manuale – di contadino, di artigiano, di soldato -; comunque si pensi, diceva, questo lavoro è il meno duro di tutti.
b) Il lavoro intellettuale dello scienziato e del pensatore dediti alla ricerca, spesso ardua, della verità; il lavoro dello scrittore e del professore che fanno ogni sforzo per far penetrare questa verità in altre intelligenze; il lavoro del diplomatico, del negoziante, dell’ingegnere eccetera; gli sforzi mentali del generale in battaglia per prevedere, dirigere e decidere. Questo lavoro è in se stesso molto più penoso del primo, come espresso dal noto proverbio: «la lama consuma il fodero».
c) Infine c’è il lavoro della vita interiore. Il santo sacerdote non esitava a proclamarlo il più assorbente dei tre, se viene fatto sul serio [11]. Ma è allo stesso tempo quello che ci dà in questa vita maggiori consolazioni ed è anche il più importante, perché forma non soltanto la professione dell’uomo, ma l’uomo stesso. Quanti si gloriano d’essere coraggiosi nei due primi generi di lavoro che portano alla fortuna e al successo, ma non sono altro che inerti, pigri e vili quando si tratta di lavorare per la virtù!
Sforzarsi continuamente per dominare se stesso e il proprio ambiente, per agire mirando in ogni cosa alla sola gloria di Dio, è l’ideale dell’uomo risoluto ad acquistare la vita interiore. Per realizzarlo, egli si sforza in ogni circostanza di restare unito a Gesù Cristo, di tener sempre l’occhio fisso al fine da raggiungere e di ponderare ogni cosa alla luce del Vangelo. Ripete spesso con Sant’Ignazio: «Quod vadam et ad quid?» Intelligenza e volontà, memoria e sensibilità, immaginazione e sensi: tutto in lui è regolato da un principio. Ma a prezzo di quali sforzi arriva a tali risultati! Sia che si mortifichi o si conceda qualche onesto piacere, che pensi o realizzi, che lavori o si riposi, che ami il bene o che provi avversione per il male, che desìderi o tema, che accetti la gioia o la tristezza, che sia pieno di speranza o di timore, indignato o pacifico, sempre e in tutte le cose egli si sforza di tenere con tenacia il timone nella direzione del divino beneplacito. Nella preghiera e soprattutto vicino all’Eucaristia, egli s’isola ancor più completamente da tutto quanto lo circonda, onde poter trattare con l’invisibile Dio come se lo vedesse [12]. Anche in mezzo alle fatiche apostoliche egli mira a praticare quell’ideale che San Paolo ammirava in Mosé.
Avversità della vita o bufere delle passioni, nulla può sviarlo dalla linea di condotta che si è imposto; se per caso s’indebolisce un momento, subito si rialza per riprendere più vigorosamente la marcia in avanti.
Quale lavoro! E si comprende allora come già su questa terra Dio ricompensi con gioie particolari colui che non indietreggia davanti allo sforzo richiesto da questo lavoro.
«Oziosi, i veri religiosi? – concludeva don Wyart – Oziosi, i sacerdoti di vita interiore e zelanti? Ma via! Vengano i mondani, anche quelli più affaccendati, a constatare se la loro fatica è paragonabile alla nostra!»
Chi non ne ha fatta l’esperienza? Alle volte si è tentati di preferire magari lunghe ore di faticoso lavoro a una mezz’ora d’orazione ben fatta, ad un’assistenza devota alla Messa, alla recita attenta dell’Ufficio [13]. Il padre Faber esprimeva il suo rammarico nel dover costatare che per certuni «il quarto d’ora che segue la Comunione è il più noioso della giornata». Se si tratta di fare un breve ritiro di tre giorni, quale ripugnanza si dimostra! Sottrarsi per tre giorni alla vita facile (benché molto occupata) per vivere nel soprannaturale e farlo penetrare, durante quel tempo di ritiro, in tutti i particolari della propria vita; sforzare la mente perché esamini tutto, per quel tempo, alla luce della fede; sforzare il proprio animo a dimenticare tutto per respirare solo Gesù e la sua Vita, rimanere faccia a faccia con se stessi per mettere a nudo le infermità e le debolezze dell’anima, gettandola nel crogiolo, senza commiserare le sue proteste: ecco una prospettiva che fa indietreggiare moltissime persone che magari sono pronte a qualunque fatica, finché si tratta d’impegnarsi in un’attività puramente naturale.
Ma se tre giorni appena di tale occupazione sembrano già così penosi, cosa proverà mai la nostra natura all’idea di sottoporre gradatamente una vita intera al regime della vita interiore?
Senza dubbio, in questo lavoro di spogliamento, a svolgere il ruolo principale è quella grazia che rende soave il giogo e leggero il peso. Ma quanta materia di sforzo da compiere vi trova l’anima! Le costa sempre molto il rimettersi sulla retta via e ritornare al principio «la nostra patria sta nei Cieli» (Fil. 3, 20). Lo spiega molto bene san Tommaso. L’uomo, dice, è posto tra le cose terrene e i beni spirituali nei quali si trova l’eterna beatitudine. Quanto più aderisce alle prime, tanto più s’allontana dai secondi [14]. Accade come nella bilancia: se un piattello si abbassa, l’altro s’innalza in proporzione.
Orbene, la catastrofe del peccato originale che ha sconvolto l’economia del nostro essere, ha reso penoso questo duplice movimento di adesione e di allontanamento. Da allora, per poter ristabilire e mantenere, mediante la vita interiore, l’ordine e l’equilibrio in questo «piccolo mondo» che è l’uomo, ci vuole fatica, dolore e sacrificio. Si tratta di ricostruire un edificio rovinato e preservarlo poi da nuova rovina.
Distogliere costantemente dalle cure terrrene, per mezzo della vigilanza, della rinunzia e della mortificazione, questo cuore aggravato da tutto il peso della natura corrotta, «aggravati di cuore» (Ps. 4, 3); riformare il proprio carattere specialmente su quei punti in cui è più dissimile dalla fisionomia dell’anima di Nostro Signore – dissipazione, trasporti d’ira, compiacenza di sé e fuori di sé, manifestazioni di orgoglio o di naturalismo, come pure durezza, egoismo, mancanze di bontà, eccetera -; resistere alla brama del piacere presente e sensibile, con la speranza di una felicità spirituale che si potrà godere solo dopo una lunga attesa; distaccarsi da tutto ciò che può farci amare la vita presente; fare un olocausto senza riserve di tutto: creature, desideri, cupidigie, concupiscenze, beni esterni, volontà e proprie vedute... quale còmpito!
Eppure questa non è che la parte purgativa della vita interiore. Dopo questa lotta a corpo a corpo – lotta che faceva gemere san Paolo [15] e che il padre de Ravignan descriveva con queste parole: «Voi mi domandate cosa ho fatto durante il noviziato? Eravamo in due; ne ho gettato uno dalla finestra e sono rimasto solo» – dopo questa lotta senza tregua contro un nemico sempre pronto a rinascere, è necessario proteggere dai minimi ritorni dello spirito naturalistico un cuore che, purificato dalla penitenza, è ora consumato dal desiderio di riparare gli oltraggi fatti a Dio; bisogna dispiegare tutta l’energia per tenerlo unicamente attaccato alle bellezze invisibili delle virtù da acquistarsi onde imitare quelle di Cristo; bisogna sforzarsi di conservare anche nelle minime circostanze della vita un’assoluta fiducia nella Provvidenza: questa è la parte positiva della vita interiore. Chi non intravvede l’immensità di questo campo di lavoro che si presenta?
E’ un lavoro intimo, assiduo e costante; ma è proprio con questo lavoro che l’anima acquista una meravigliosa facilità ed una stupefacente rapidità di esecuzione nelle fatiche apostoliche. Solo la vita interiore possiede questo segreto.
Le opere immense compiute, nonostante una salute precaria, da un Agostino, da un Giovanni Crisostomo, da un Bernardo, da un Tommaso d’Aquino, da un Vincenzo de’ Paoli, ci gettano nello stupore. Ma ancor più ci meraviglia vedere come questi uomini, pur essendo immersi in occupazioni quasi continue, sapevano mantenersi nella più costante unione con Dio. Nel dissetarsi più degli altri alla sorgente della Vita per mezzo della contemplazione, questi santi ne attingevano le più vaste capacità di lavoro.
E’ pure questa la verità che uno dei nostri grandi Vescovi, sovraccarico di lavoro, esprimeva ad un uomo di Stato, anch’egli oppresso dagli affari, il quale gli domandava il segreto della sua continua serenità e dei mirabili successi delle sue opere: «Mio caro amico, aggiungete a tutte le vostre occupazioni una mezz’ora di meditazione ogni mattina: non solo sbrigherete i vostri affari, ma troverete anche il tempo per realizzarne dei nuovi».
Infine noi sappiamo che il santo Re Luigi IX, nelle otto o nove ore che abitualmente dedicava agli esercizi della vita interiore, trovava il segreto e la forza di applicarsi agli affari dello Stato e al bene dei sudditi con tanta sollecitudine che, per ammissione di un oratore socialista, mai, neppure ai nostri tempi, fu fatto tanto in favore delle classi lavoratrici quanto lo è stato sotto il regno di questo principe.

Capitolo VI
Risposta ad una seconda obiezione: la vita interiore è egoistica?

Non parliamo qui del pigro né del goloso spirituale, che fanno consistere la vita interiore nelle gioie di una piacevole oziosità e cercano più le consolazioni di Dio che il Dio delle consolazioni: costoro non hanno che una falsa pietà. Ma colui che, per leggerezza o per pregiudizio, definisce egoistica la vita interiore, non l’ha certo compresa meglio.
Abbiamo già detto che questa vita è la sorgente pura e ricca delle più generose opere di carità verso le anime e della carità che allieva le miserie terrene. Ora esaminiamo l’utilità di questa vita sotto un altro aspetto.
Egoistica e sterile sarebbe dunque la vita interiore di Maria e di Giuseppe? Che bestemmia e che assurdità! Eppure, a loro non viene attribuita nessuna opera esteriore. Ma l’irradiazione sul mondo di una intensa vita interiore e i meriti delle preghiere e dei sacrifici applicati all’estensione dei benefici della Redenzione, sono bastati da soli a costituire Maria Regina degli Apostoli e san Giuseppe Patrono della Chiesa Universale [16].
Lo sciocco presuntuoso, che solo vede le sue opere esteriori ed i loro risultati, non fa che ripetere le parole di Marta: «Mia sorella mi ha lasciata sola a servire!» (Lc. 10, 40).
La sua fatuità e la sua scarsa comprensione delle vie divine non arrivano al punto di fargli supporre che Dio non sappia quasi fare a meno di lui. Ma intanto ripete volentieri con Marta, incapace di apprezzare la vita contemplativa della sorella: «Dille dunque che mi aiuti» (Lc. 10, 40), e magari giunge ad esclamare: «A che pro tutto questo spreco?» (Mt. 24, 8), rimproverando come uno perdita di tempo i momenti che i suoi fratelli di apostolato, i quali fan più vita interiore di lui, si riservano per assicurare la loro unione con Dio.
«Io santifico me stesso per loro, affinché essi pure siano santificati nella verità» (Gv. 17, 19): ecco come risponde l’anima che ha compreso tutta la portata della parola del Maestro. Conoscendo il valore della preghiera, alle lacrime ed al sangue del Redentore quest’anima unisce le lacrime dei suoi occhi e il sangue di un cuore che si purifica ogni giorno di più.
Con Gesù, l’anima di vita interiore sente la voce dei delitti del mondo salire verso il cielo e domandare sui loro autori un castigo di cui essa ritarda l’esecuzione con l’onnipotenza della supplica, capace di trattenere la mano di Dio pronta a scagliare i fulmini.
«Coloro che pregano – diceva dopo la sua conversione l’eminente statista Juan Donoso Cortés – fanno per il mondo più di quelli che combattono, e se il mondo va di male in peggio, ciò è dovuto al fatto che vi sono più battaglie che preghiere».
«Le mani alzate – diceva Bossuet – sbaragliano più battaglioni di quelle che colpiscono». E i solitari della Tebaide, anche in mezzo al deserto, avevano spesso nel cuore il fuoco che bruciava San Francesco Saverio. Sembrava – dice Sant’Agostino – che avessero abbandonato il mondo più di quanto era necessario: «Videntur nonnullis res humanas plus quam oportet, deseruisse»; ma non si riflette – aggiungeva – che le loro preghiere, rese più pure dal loro grande distacco dal mondo, diventavano più efficaci e più necessarie a questo mondo corrotto.
Una preghiera breve, ma fervente, di norma affretterà una conversione ben più che lunghe discussioni e discorsi. Colui che prega tratta con la Causa prima e agisce direttamente su di essa, ed ha in mano tutte le cause seconde, perché queste ricevono la loro efficacia unicamente da questo Principio superiore. Perciò l’effetto desiderato viene allora ottenuto più sicuramente e più presto.
Secondo un’attendibile rivelazione, diecimila eretici furono convertiti da una sola preghiera infuocata della serafica Santa Teresa, la cui anima incendiata per Cristo non poteva comprendere una vita contemplativa che si disinteressasse della sollecitudine del Salvatore per la conversione delle anime. «Accetterei il purgatorio fino al giorno del Giudizio universale – diceva – pur di liberare una sola di esse. Poco importa la durata delle mie sofferenze, se così potrò liberare una sola anima (e, meglio ancora, parecchie anime) per la maggior gloria di Dio». E alle sue religiose diceva: «Figlie mie, indirizzate a questo fine totalmente apostolico le vostre orazioni, le vostre discipline, i vostri digiuni e i vostri desideri».
Appunto questa è l’opera di Carmelitani, Trappisti, Clarisse. Essi seguono le orme degli Apostoli, sostenendoli con la sovrabbondanza delle loro preghiere e delle loro penitenze. Le loro preghiere piombano dall’alto e giungono, fin dove cammina la Croce e splende il Vangelo, sulle anime, su questi bottini di guerra del Signore. O per meglio dire, è il loro amore nascosto ma attivo che suscita ovunque, nel mondo dei peccatori, la voce della misericordia.
Nessuno quaggiù conosce il perché di quelle lontane conversioni di pagani, dell’eroica fermezza di quei cristiani perseguitati, della gioia celeste di quei missionari martirizzati. Tutto questo è invisibilmente legato alla preghiera di un’umile claustrale. Con le dita poste sulla tastiera delle divine misericordie e dei lumi soprannaturali, la sua anima silenziosa e solitaria presiede alla salute delle anime e alle conquiste della Chiesa [17].
Diceva Mons. Favier, vescovo di Pechino: «Io voglio dei Trappisti in questo Vicariato Apostolico; anzi, desidero che si astengano da qualunque ministero, affinché nulla possa distrarli dalle opere di preghiera, di penitenza e degli studi sacri; so bene infatti quale aiuto porterà ai missionari l’esistenza di un monastero di ferventi contemplativi in mezzo ai nostri miseri Cinesi». E in seguito testimoniava: «Siamo finalmente riusciti a penetrare in una regione sinora inavvicinabile. Attribuisco questo successo ai nostri cari Trappisti».
«Dieci Carmelitani che pregano – diceva un Vescovo della Cocincina al Governatore di Saigon – mi daranno maggior aiuto di venti missionari che predicano».
I sacerdoti secolari, i religiosi e le religiose votati alla vita attiva, ma anche alla vita interiore, partecipano allo stesso potere che le anime del chiostro hanno sul cuore di Dio. Ne sono esempi magnifici un Padre Chevier, un Don Bosco e un S. Antonio Maria Zaccaria. La Beata Anna Maria Taigi, nelle sue funzioni di povera massaia, era un’apostola, come lo era S. Benedetto Giuseppe Labre che schivava le vie battute. Il signor Dupont, il santo di Tours, il colonnello Pacqueron ecc., divorati dalla medesimo ardore, erano potenti nelle loro opere in quanto uomini di vita interiore. Il generale De Sonis, tra una battaglia e l’altra, trovava il segreto del suo apostolato nell’unione con Dio.
Egoistica e sterile la vita del Santo Curato d’Ars? Il silenzio sarebbe l’unica risposta meritata da una tale affermazione. Ogni mente saggia attribuisce precisamente alla sua perfetta intimità con Dio lo zelo ed i magnifici successi di questo prete povero di talenti ma che, contemplativo quanto un certosino, era divorato da una grande sete di anime, resa inestinguibile dai suoi progressi nella vita interiore, e riceveva dal Signore, di cui viveva, una certa partecipazione della potenza divina nell’operare le conversioni.
Infeconda la sua vita intima? Ma supponiamo un Curato d’Ars in ogni diocesi. In meno di dieci anni, la nazione sarebbe completamente rigenerata, e lo sarebbe più profondamente che non da una moltitudine di opere insufficientemente basate sulla vita interiore e per quanto organizzate con l’aiuto di grandi mezzi finanziari, dell’ingegno e dell’attività di migliaia di apostoli.
Non dubitiamone: la principale ragione di sperare nella risurrezione della nostra Patria, sta nel fatto che, come si può constatare da alcuni anni, in nessun altro tempo forse vi furono, anche tra i semplici fedeli, tante anime così ardentemente desiderose di vivere unite al Cuore di Gesù e di estendere il suo Regno facendo germogliare attorno a loro la vita interiore. Queste anime elette sono un’infima minoranza, certo; ma che importa il numero quando vi è l’intensità? Se la nostra Patria è risorta dopo la Rivoluzione, lo si deve attribuire a quel gruppo di sacerdoti maturati nella vita interiore mediante la persecuzione. Per mezzo di loro, una corrente di Vita divina venne a riscaldare una generazione, che l’apostasia e l’indifferenza sembravano aver condannato ad una morte che nessuno sforzo umano poteva evitare.
Dopo cinquant’anni di libertà d’insegnamento, dopo quel mezzo secolo che ha visto il rifiorire d’innumerevoli opere, e durante il quale noi abbiamo avuto nelle nostre mani tutta la gioventù nazionale e l’appoggio quasi completo dei governanti, come mai, nonostante risultati apparentemente gloriosi, non abbiamo potuto formare in seno alla nazione una maggioranza così profondamente cristiana da poter lottare contro la lega dei ministri di Satana? [18].
Senza dubbio hanno contribuito a questa impotenza l’abbandono della vita liturgica e la cessazione del suo irraggiamento sui fedeli. La nostra spiritualità è divenuta gretta, arida, superficiale, esteriore o del tutto sentimentale; quindi non ha più quella penetrazione e quel fascino sulle anime che suol dare la liturgia, questa grande forza di vitalità cristiana.
Ma non vi è forse un’altra causa in questo fatto?
Non sarà che noi sacerdoti ed educatori, mancando di un’intensa vita interiore, non abbiamo potuto creare nelle anime che una pietà superficiale, senza potenza ideale e senza forti convinzioni? Come docenti non ci dimostrammo forse preoccupati più del successo dei diplomi e del prestigio delle scuole, che non di dare alle anime una solidissima istruzione religiosa? Non abbiamo forse speso le nostre energie senza mirare innanzi tutto alla formazione della volontà, per stampare l’impronta di Gesù Cristo su caratteri ben temprati? E questa mediocrità non è stata forse spesso causata dalla banalità della nostra vita interiore?
Come si suol dire, a sacerdote santo corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio. In coloro che vengono generati nello spirito, c’è sempre un grado di vita in meno.
Non arriviamo ad accettare tale affermazione, ma notiamo che le seguenti parole di Sant’Alfonso esprimono sufficientemente a quale causa dobbiamo attribuire la responsabilità della nostra attuale situazione: «I buoni costumi e la salvezza dei popoli dipendono dai buoni pastori. Se alla testa di una parrocchia c’è un buon pastore, ben presto la devozione fiorirà, i sacramenti saranno frequentati e l’orazione mentale messa in onore. Di qui il proverbio: ‘Quale il pastore, tale la parrocchia’, che riprende il detto dell’Ecclesiastico: ‘Quale il governante della città, tali i suoi abitanti’» [19].

Capitolo VII
Obiezione tratta dall’importanza della salvezza delle anime
«Ma – dirà l’anima esteriore in cerca di pretesti contro la vita interiore – come si può pretendere di limitare le mie opere di zelo? Posso io impegnarmi troppo, soprattutto quando si tratta di salvare le anime? La mia attività non supplisce forse a tutto il resto, e vantaggiosamente, con il sublime esercizio dell’abnegazione? Chi lavora prega e il sacrificio supera l’orazione. E San Gregorio non definisce forse lo zelo per le anime come il sacrificio più gradito che si possa offrire a Dio? «Nessun sacrificio è più gradito a Dio che lo zelo per le anime» [20].
Prima di tutto, precisiamo il vero senso di queste parole di San Gregorio, seguendo la voce del Dottore Angelico.
Offrire spiritualmente a Dio un sacrificio, dice San Tommaso, è offrirgli qualcosa che gli dà gloria; fra tutti i beni che l’uomo può offrire a Dio, quello più gradito è senza dubbio la salvezza di un’anima. Ma ciascuno deve innanzitutto offrirgli la propria stessa anima, secondo le parole della Scrittura: «Se vuoi piacere a Dio, abbi pietà della tua anima». Una volta compiuto questo primario sacrificio, potremo poi permetterci di procurare ad altri una simile felicità. Quanto più l’uomo unisce strettamente a Dio dapprima l’anima sua e poi quella degli altri, tanto più gradito è il suo sacrificio. Ma questa unione intima, generosa e umile non la si può ottenere che per mezzo dell’orazione. Applicare se stesso e far applicare altri alla vita d’orazione e alla contemplazione, è dunque più gradito al Singore che il dedicarsi o impegnare altri all’azione, alle opere.
Perciò, conclude l’Angelico, quando San Gregorio afferma che il sacrificio più gradito a Dio è la salvezza delle anime, non intende con ciò preferire la vita attiva a quella contemplativa, ma vuol dire soltanto che offrire a Dio anche un’anima sola, Gli dà infinitamente più gloria, ed è per noi molto più meritorio, che offrirgli quanto c’è di più prezioso sulla terra [21].
La necessità della vita interiore deve così poco distogliere le anime generose dalle opere di zelo, se l’evidente volontà di Dio esige da loro di accettarne l’incarico, che volersi sottrarre a tale lavoro o dedicarvisi con negligenza, disertare il campo di battaglia col pretesto di meglio coltivare la propria anima e arrivare ad un’unione più perfetta con Dio, sarebbe una pericolosa illusione e, in certi casi, causa di gravi pericoli. «Guai a me, se non avrò evangelizzato», disse S. Paolo (1 Cor. 9, 16).
Ma, fatta questa riserva, diciamo subito che dedicarsi alla conversione delle anime dimenticando la propria, genera un’illusione ancor più grave. Dio vuole che amiamo il prossimo come noi stessi, ma giammai più di noi stessi, cioè mai fino al punto di nuocere a noi stessi personalmente; in pratica si richiede di aver maggior cura della nostra anima che di quella degli altri, perché il nostro zelo deve essere regolato dalla carità e l’assioma teologico insegna che «la prima carità è quella verso se stessi».
«Io amo Gesù Cristo – diceva Sant’Alfonso de’Liguori – e perciò ardo dal desiderio di dargli delle anime: ma prima la mia e poi un incalcolabile numero di altre». Ciò significa tradurre in pratica il «tuus esto ubique» di S. Bernardo: «Non è saggio colui che non è padrone di sé» [22].
Il santo abate di Chiaravalle, che fu un prodigio di zelo apostolico, seguiva questa regola. Goffredo, suo segretario, così ce lo dipinge: «Innanzitutto egli è tutto di se stesso, quindi è tutto per gli altri» [23].
Così scriveva il medesimo santo al Papa Eugenio III: io non voglio che vi sottraiate completamente dalle occupazioni secolari, ma vi esorto soltanto a non dedicarvici interamente. Se siete l’uomo di tutto il mondo, siatelo anche di voi stesso. Se no, che vi gioverebbe guadagnare tutti gli altri se poi perdeste voi stesso? Riservate dunque qualcosa per voi; se tutto il mondo viene a bere alla vostra fonte, beveteci anche voi. Voi solo dunque rimarreste assetato? Cominciate sempre col pensare a voi stesso. Invano vi dareste ad altre sollecitudini, se finiste col trascurare voi stesso. Tutte le vostre riflessioni comincino e finiscano con voi, dunque. Siate per voi il primo e l’ultimo, ricordando che, nell’affare della vostra salute, nessuno v’è più prossimo del figlio unico di vostra madre [24].
E’ molto suggestivo questo appunto di ritiro spirituale lasciato da monsignor Dupanloup:
«Io ho un’attività terribile che rovina la mia salute, turba la mia pietà e non serve affatto al mio sapere: bisogna che la regoli. Dio mi ha fatta la grazia di conoscere che ciò che si oppone soprattutto in me allo stabilimento di una vita interiore tranquilla e fruttuosa, sono l’attività naturale e il potere trascinatore delle occupazioni. Inoltre, ho scoperto che proprio questa mancanza di vita interiore è la sorgente delle mie colpe, dei miei turbamenti, delle mie aridità, dei miei disgusti e della mia cattiva salute. Ho dunque deciso di rivolgere tutti i miei sforzi all’acquisto di questa vita interiore che mi manca e per questo, con la grazia di Dio, ho fissato i seguenti punti fermi:
1) Qualunque cosa debba fare, per compierla mi prenderò più tempo di quel che sia necessario; questo è l’unico mezzo per non essere mai premuto dalla fretta né trascinato.
2) Siccome ho sempre più cose da fare che tempo per farle, e siccome questa prospettiva mi preoccupa e mi travolge, d’ora innanzi non considererò più le cose che debbo fare bensì il tempo che ho da impiegarvici. Lo impiegherò senza perderne nulla, cominciando dalle cose più importanti e non mi inquieterò per tutto ciò che rimarrà da fare, ecc.».
Un abile gioielliere preferisce il minimo frammento di diamante a parecchi zaffiri. Così, secondo l’ordine stabilito da Dio, la nostra intimità con Lui lo glorifica più di tutto quanto potremmo procurare a beneficio di molte anime, ma a danno del nostro progresso spirituale. Quest’armonia nel nostro zelo la vuole il Padre celeste, il quale si applica più nel governare un cuore in cui regna, che non nel governo naturale di tutto l’universo e nel governo civile di tutti gl’imperi [25].
Se vede che un’opera diventa un ostacolo allo sviluppo della carità nell’anima che se ne occupa, talvolta Egli preferisce lasciarla scomparire.
Satana, al contrario, non esita a favorire successi del tutto superficiali se, in cambio di essi, può impedire che l’apostolo progredisca nella vita interiore, tanto la sua rabbia sa indovinare quali sono i veri tesori agli occhi di Gesù Cristo. Purché si distrugga un diamante, concede volentieri qualche zaffiro.

NOTE PARTE I
[1] «Appartiene alla comune legge, con la quale il provvidentissimo Iddio ha decretato che gli uomini di norma si salvino sempre mediante altri uomini, (...) che impariamo da Dio per bocca di uomini» (S.S. Leone XIII, Testem benevolentiae, lettera al Card. Gibbons del 22 gennaio 1899; cfr. Acta Leonis XIII, vol. XI (1900), pp. 5-20).
[2] L’Autore allude al celebre classico della letteratura spirituale scritto nel 1609 da san Francesco di Sales (ediz. it. Rizzoli, Milano 1998) (N. d. T.)
[3] L’autore allude al celeberrimo scritto di ascetica e mistica pubblicato anonimo nel XIV secolo, dapprima attribuito a Tommaso da Kempis e oggi al monaco Gersonio (ediz. ital. Paoline, Roma 1997) (N. d. T.)
[4] Anche prescindendo dai fenomeni che accompagnano certi stati d’unione con Dio, siamo persuasi che Dio spesso concede, all’infuori di simili fenomeni, grazie speciali di orazione alle anime generose che bramano vivere in intimità con Lui.
[5] La riportiamo qui integralmente: «O dolcissimo Signore Gesù, trafiggi le midolla e le viscere dell’anima mia con la soave e salutare ferita del tuo amore, con la vera, sincera e sacrosanta carità, sicché l’anima mia languisca e si strugga ora e sempre per il solo amore e desiderio di Te; brami solo Te ed aneli alle tue dimore, desideri di svilcolarsi dal corpo e di stare con Te. Fa’ che la mia anima abbia fame di Te, Pane degli Angeli, cibo delle amine sante, nostro Pane quotidiano, più che sostanziale, che ha ogni dolcezza di sapore ed ogni delizia di soavità. Il mio cuore abbia sempre sete di Te, fontana di vita, di sapienza e di scienza, sorgente di eterno lume, torrente di voluttà, dovizia della Casa di Dio. Te sempre ambisca, Te cerchi, Te trovi, a Te si tenda, a Te pervenga, Te mediti, di Te parli e tutto faccia in lode e gloria del tuo Nome, con umiltà e discrezione, con con amore e diletto, con prontezza e bontà, con perseveranza sino alla fine; Tu solo sii sempre tutta la mia speranza, fiducia, ricchezza, delizia, gioia, gaudio, quiete e tranquillità, pace, soavità, profumo, dolcezza, cibo, refezione, rifugio, soccorso, sapienza, eredità, possesso, tesoro, in cui siano sempre fissi e stabili e immobilmente radicati la mia mente e il mio cuore. Così sia» (N. d. T.).
[6] Questa tiepidezza è ben diversa dall’aridità e dal disgusto che provano talvolta, loro malgrado, i fervorosi. Le mancanze veniali che sfuggono alla fragilità, ma che sono combattute e prontamente detestate non appena commesse, non indicano affatto la tiepidezza di volontà. L’anima afflitta da questa tiepidezza ha due opposti voleri: uno buono, l’altro cattivo; uno caldo, l’altro freddo. Da una parte ella vuole salvarsi, per cui evita i peccati mortali evidenti; dall’altra non accetta la esigenze dell’amor di Dio, anzi vuole le agiatezze di una vita libera e facile; per questo ella si concede peccati veniali deliberati... Quando la tiepidezza della volontà non è combattuta, per questo stesso fatto, v’è nell’anima una cattiva volontà non totale ma parziale. V’è cioè una parte della volontà che dice a Dio: «su questo o quel punto non voglio smettere di darti dispiacere». (P. Desurmont, Le retour continuel à Dieu).
[7] Cfr. S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, meditazione XVI (trad. it. Apostolato della Preghiera, Roma 1990)
[8] «L’uomo fu creato per contemplare il suo Creatore, affinché cercasse sempre il Suo volto e dimorasse sempre nella stabilità del Suo amore» (S. Gregorio Magno, Moralia in Job, l. VII, cap. XII; trad. it. Commento morale a Giobbe, Città Nuova, Roma 1997).
[9] «Semper memineris Dei, et caelum mens tua evadit» (S. Efrem). «Mens animae paradisus est, in qua, dum caelestia meditatur, quasi in Paradiso voluptatis delectatur» (Ugo di S. Vittore).
[10] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-IIae, q. 180, a. 4 (trad. it. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998)
[11] «Lottare contro le passioni e i vizi è ben maggior lavoro che sudare per le fatiche corporali» (S. Gregorio Magno).
[12] «Egli rimase incrollabile, come se vedesse l’invisibile Iddio» (Ebr. 11, 27).
[13] Quali che siano le difficoltà della vita attiva, vi sono solamente gli inesperti che osino negare le prove della vita interiore. Molte persone «attive», pur essendo sinceramente pie, confessano che molto spesso ciò che più costa nella loro vita non è l’azione, ma la parte obbligatoria dell’orazione e si sentono sollevate quando arriva l’ora dell’azione (Dom Festugière O.S.B.).
[14] «L’uomo è posto tra le cose di questo mondo e i beni spirituali, nei quali consiste l’eterna beatitudine; dimodoché, quanto più si avvicina e aderisce alle prime, tanto più si allontana e separa dagli altri, e viceversa» (S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, I-IIae, q. 108, a. 4).
[15] «Infatti, nel mio intimo, acconsento alla Legge di Dio; ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge di peccato che domina le mie membra. Sventurato che sono! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rom. 7, 22-24).
[16] In un altro capitolo si vedrà quale sia questa vita interiore che dà alle opere la loro fecondità (parte IV).
[17] Cfr. P. Léon, O.F.M.Capp., Lumière et flamme.
[18] L’A. si riferisce alla situazione della Francia nel secolo XIX. Passata la tempesta della Rivoluzione Francese, i cattolici riottennero gradualmente le libertà a partire dalla Restaurazione, giungendo negli anni Settanta a riconquistare la piena libertà dell’insegnamento superiore. Ma sùbito dopo tornarono al potere i massoni, e le scuole cattoliche furono sottoposte a vessazioni di vario genere e private gradualmente dei diritti ottenuti con tante lotte; finché si giunse alla legge del 9 dicembre 1905, che sanciva una radicale separazione tra Chiesa e Stato, impediva numerose opere cattoliche e sopprimeva gli ordini religiosi e sequestrava i beni della Chiesa (N. d. T.)
[19] S. Alfonso de’ Liguori, Homo apostolicus, VII, 16.
[20] S. Gregorio Magno, Homiliae XII in Ezechielem; trad. it. Omelie su Ezechiele, Città Nuova, Roma 1993.
[21] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-IIae, q. 182, a. 2.
[22] S. Bernardo, De consideratione, l. II, cap. III (trad. it. La considerazione, Città Nuova, Roma 1980).
[23] Goffredo di Auxerre, Vita sancti Bernardi.
[24] S. Bernardo, De consideratione, l. II, cap. III.
[25] P. Lallemant S.J., La dottrina spirituale, Ed. Paoline, Roma 1990.



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