Quale
è lo scopo della confessione frequente?
Può
ricevere frequentemente il sacramento della penitenza chi ricade
continuamente in un peccato mortale e vuole ottenerne il perdono da
Dio. Non è questo il senso nel quale noi qui parliamo di confessione
frequente. Ciò che qui intendiamo è la frequente confessione di una
persona che generalmente non commette nessun peccato mortale, che
vive dunque una vita di unione con Dio, e che a Lui è legata
nell’amore. Anche questi commette infedeltà e mancanze d’ogni
genere, e soffre di varie debolezze, abitudini e tendenze
disordinate, nella lotta contro la concupiscenza e l’amor proprio.
Egli non resta indifferente all’aver mancato in varie occasioni,
sia pure in cose senza alcuna sostanziale importanza, e all’aver
agito contro la propria coscienza. Ciò che gli preme è di
purificare la sua anima da ogni macchia di peccato o di errore, di
conservarla pura e di rafforzare la volontà nella lotta per
avvicinarsi a Dio. Per questa ragione egli ricorre spesso,
eventualmente anche tutte le settimane, alla confessione. Egli cerca
una purificazione interiore, cerca un consolidamento della volontà,
una nuova energia per lo sforzo diretto a raggiungere la perfetta
unione con Dio e con Cristo. Sa bene di non essere minimamente
obbligato in coscienza a confessare i peccati veniali che ha
commesso. Sa essere esplicita dottrina della Chiesa che i peccati
veniali possono venir taciuti nella confessione, perché esistono
molti altri mezzi con i quali la colpa dei peccati veniali viene
tolta dall’anima. Tali mezzi sono tutti gli atti di una vera
contrizione soprannaturale, tutte le preghiere per il perdono del
peccato, tutte le opere assunte e i dolori sopportati con spirito di
penitenza e di espiazione. Sono inoltre tutti gli atti di perfetta
carità verso Dio e Cristo, tutte le azioni e le opere di cristiano
amor del prossimo scaturite da moventi soprannaturali, come tutte le
opere compiute e i sacrifici offerti per amore soprannaturale. Un
altro mezzo è costituito dal giusto uso dei cosiddetti Sacramentali,
per es. dell’acqua benedetta, da una serie di preghiere liturgiche
come il Confiteor, L’Asperges e, specialmente, dalla partecipazione
alla S. Messa e dalla frequenza alla S. Comunione: per mezzo della S.
Comunione noi «veniamo liberati dalle colpe quotidiane» (Concilio
di Trento, sess. 13, cap. 2). Quanto facile ha reso dunque la
misericordia di Dio all’anima che compie un sincero sforzo, il
riparare immediatamente una mancanza nella quale sia incorsa!
I.
Quando esistono tante vie per purificare l’anima dal peccato
veniale anche all’infuori del sacramento della penitenza, quale
senso e quale valore ha la confessione dei peccati veniali? In che
cosa consiste l’«utilità» di questa confessione, della quale
parla il Concilio di Trento? Esso dice: «I peccati veniali, con i
quali non ci escludiamo dalla grazia di Dio e nei quali cadiamo più
di frequente, vengono giustamente (recte) e utilmente accusati nella
confessione, come è dimostrato dall’uso delle persone pie» (sess.
14, cap. 5).
a)
L’utilità della confessione dei peccati veniali sta anzitutto nel
fatto che si riceve un sacramento. La remissione dei peccati avviene
in virtù del sacramento, cioè di Cristo. Nel sacramento della
penitenza «a coloro che hanno peccato dopo il battesimo viene
applicato il beneficio della morte di Cristo» (Concilio di Trento,
sess. 14, cap. 1). Qui è bene osservare che non sono di per sé i
peccati commessi, ma è l’avversione interiore dell’uomo per il
suo peccato, quello che il sacramento accoglie ed eleva ad una unione
piena di grazia con Dio. Poiché si tratta di peccati esclusivamente
veniali, la grazia qui elargita non e',come
per i peccati mortali, il rinnovarsi della vita di grazia in noi, ma
è un rafforzamento, un aumento, un approfondimento della vita
soprannaturale nell’uomo, del santo amore. Il sacramento della
penitenza ha in primo luogo un’azione positiva: il rafforzamento
della nuova vita, l’aumento della grazia santificante e, in
relazione con essa, una grazia d’assistenza che spinge la nostra
volontà a un atto di amore o di pentimento. Questo atto d’amore
cancella il peccato veniale e lo espelle dall’anima, così come la
luce scaccia e disperde le tenebre.
L’utilità
della confessione del peccato veniale sta inoltre nel fatto che la
virtù del sacramento non soltanto cancella il peccato, ma ne
abbraccia e ne sana le conseguenze in modo più perfetto che non nel
caso dell’estinzione extra-sacramentale del peccato veniale. Ciò
significa che nel sacramento della penitenza sono condonate una parte
maggiore di pene temporali dovute per il peccato che non, pur con
uguali sentimenti di contrizione, per via extra-sacramentale. Ma,
prima di tutto, il sacramento della penitenza guarisce l’anima
dalla debolezza che è conseguenza del peccato veniale, dalla
stanchezza e dalla freddezza per il divino, dall’inclinazione alle
cose terrene sempre risorgente con il peccato veniale, dal
rinvigorimento degli istinti e tendenze disordinate, e dal potere dei
cattivi desideri — e tutto ciò in virtù del sacramento, vale a
dire di Cristo stesso. La confessione dei peccati veniali conferisce
quindi all’anima una freschezza interiore, una nuova forza
ascensionale, un nuovo slancio di dedizione a Dio e a Cristo, alla
cura della vita soprannaturale, che in genere non si ha
nell’estinzione extra-sacramentale del peccato veniale.
La
confessione frequente raggiunge una notevolissima utilità proprio in
quanto generalmente gli atti dell’esame di coscienza e, in
particolare, gli atti di contrizione, di proponimento, di volontà di
soddisfazione e di espiazione vengono molto più perfettamente
elaborati che non nell’estinzione extra-sacramentale del peccato
veniale per mezzo di una giaculatoria o del pio uso dell’acqua
benedetta. Ognuno sa ciò che costa il formulare bene l’accusa
dinanzi al sacerdote e quanta attenzione sia necessaria per compiere
bene gli atti di contrizione e i propositi, per risvegliare la
volontà di penitenza e di riparazione. Occorre impegnarsi in tutta
coscienza per compiere bene questi atti.
E
giustamente. Questi atti del nostro allontanamento interiore dalla
colpa costituiscono non soltanto un presupposto psicologico
necessario per ricevere il sacramento della penitenza, ma ne sono
addirittura gli elementi essenziali. Essi determinano l’attuarsi
del sacramento in generale, e la misura dell’effetto del
sacramento, dell’incremento di vita soprannaturale, e della
remissione del peccato. Il sacramento della penitenza è — accanto
al sacramento del matrimonio — il più personale dei sacramenti. La
presa di posizione personale del penitente, i suoi atti personali di
contrizione, di accusa e di volontà di riparazione sono decisivi per
l’efficacia del sacramento. Questa dipende essenzialmente dal
nostro giudizio personale sui peccati commessi e dalla disposizione
personale con la quale ci rivolgiamo a Dio e a Cristo. Nella
confessione sacramentale i nostri atti personali di penitenza sono
innalzati al di sopra della sfera puramente personale e sono uniti
alla virtù della passione e morte di Cristo, che agisce nel
sacramento. È qui che risplende tutta la grazia e l’utilità del
sacramento della penitenza.
La
cosiddetta grazia sacramentale che è propria del sacramento della
penitenza e che non è e non può essere operata da nessun altro
sacramento, è la grazia santificante, con la particolare impronta e
la particolare capacità di eliminare il rilassamento causato dal
peccato veniale, il deficit di forza, coraggio e slancio spirituale;
di rafforzare l’anima e di rimuovere gli ostacoli che si oppongono
alla grazia e alla sua azione nell’anima.
La
confessione frequente ha un senso e un’utilità particolare in
quanto il peccato veniale viene confessato al sacerdote quale
rappresentante della Chiesa, e quindi è confessato alla Chiesa, alla
comunità. Chi incorre in un peccato veniale resta un membro vivente
della Chiesa. Con il peccato veniale egli ha mancato non soltanto
contro Dio e Cristo, e contro il bene della propria anima, ma ha
anche danneggiato la Chiesa, tutto il Corpo mistico, e il suo
peccato è «una macchia e una ruga» della Sposa di Cristo, un
ostacolo al libero espandersi, in tutti i membri della Chiesa,
dell’amore che lo Spirito Santo effonde su di essa. Il peccato
veniale è un danno arrecato alla comunità, una mancanza d’amore
verso la Chiesa, solo in seno alla quale il cristiano può attingere
la salute e la vita. Perciò questo peccato non può essere più
efficacemente espiato che quando sia palesato al rappresentante della
Chiesa, da lui rimesso, ed infine espiato mediante la penitenza da
lui imposta.
b)
Il significato della confessione frequente non si
esaurisce nel fatto che in questo sacramento viene cancellata la
mancanza commessa e viene sanata l’intima debolezza dell’anima.
La confessione frequente non guarda soltanto indietro, verso ciò che
è stato, verso le colpe passate, ma guarda anche in avanti, verso
l’avvenire; vuole costruire, vuol fare un lavoro proficuo per il
futuro. Con la sua stessa frequenza essa mira a uno scopo
eminentemente positivo: a consolidare e a ravvivare la volontà nella
sua lotta per conseguire la vera virtù cristiana e la perfetta
purezza, per piacere a Dio e raggiungere la piena signoria dell’uomo
spirituale e soprannaturale in noi, la signoria dello spirito sugli
istinti, i sentimenti, le passioni e le debolezze dell’uomo vecchio
in noi. La confessione frequente serve a farci progredire sempre più
addentro nello spirito e nel senso di Cristo, specialmente nell’odio
di Cristo per tutto ciò che in noi potrebbe dispiacere a Dio, e in
quello spirito di espiazione, di penitenza, di riparazione per i
nostri peccati e per quelli degli altri, che Cristo ha portato nel
mondo. Dalla sincera disposizione alla penitenza procede la prontezza
a tutti i sacrifici, i dolori, le difficoltà, le prove che il
Signore lascia in qualche modo venire su di noi, tutti valori
preziosi di cui diveniamo partecipi quanto più spesso e meglio
riceviamo il santo sacramento della penitenza.
c)
Molti mettono in evidenza, quale ulteriore utilità della
confessione frequente, la direzione spirituale attraverso il
confessore. È un fatto che la direzione spirituale è utile e
altamente desiderabile, se non spesso addirittura moralmente
necessaria, per coloro che tendono ai vertici della vita cristiana e
religiosa. Oggi i più cercano la direzione spirituale presso il
confessore. E giustamente. Una delle ragioni principali per cui la
santa Chiesa prescrive in modo esplicito la confessione frequente, o
addirittura settimanale, ai sacerdoti, ai candidati al sacerdozio e a
tutti i religiosi, potrebbe essere proprio quella di assicurare con
questo mezzo, nel più semplice dei modi, la direzione spirituale di
tutti coloro che sono particolarmente impegnati a tendere alla
perfezione cristiana. Secondo S. Alfonso de’ Liguori uno dei
principali doveri del confessore è quello di essere direttore
spirituale. Ciò nonostante sarebbe un errore ritenere che la
direzione spirituale sia sempre necessariamente legata alla
confessione, e alla confessione frequente. Non sarebbe neanche giusto
il voler mettere la confessione frequente tanto strettamente in
rapporto con la direzione spirituale, da perdere quasi di vista, come
spesso accade, il lato sacramentale della confessione, e porre in
primo piano il vantaggio della cura d’anime. Il religioso e la
religiosa, in specie, trovano la normale direzione spirituale nella
stretta osservanza della vita regolare di comunità, nella vita
claustrale come è intesa dalla regola e dai superiori. La vita
claustrale è per il religioso la vera via che egli deve percorrere
per arrivare a Dio. Essa gli offre normalmente i mezzi dei quali ha
bisogno per raggiungere la meta della vita spirituale, la santità.
II.
Si possono confessare di nuovo, «includere», peccati già
in precedenza regolarmente confessati, siano essi peccati mortali o
peccati veniali? Abbiamo già osservato come ciò che nella
confessione viene accolto non è il peccato, ma sono gli atti interni
della volontà di rinnegamento del peccato commesso, del pentimento,
della volontà di riparazione ecc. Tuttavia il peccato, una volta
commesso, rimane come un fatto storicamente esistito anche quando
esso sia condonato. Perciò è anche possibile che l’uomo torni
sempre ad allontanarsi interiormente dal peccato commesso, a
condannarlo, a pentirsene con volontà di evitarlo, di farne
penitenza, di migliorarsi. Quando c’è questa disposizione
interiore non esiste più alcun ostacolo perché essa sia innalzata a
un ritorno a Dio pieno di grazia, mercé la virtù di Gesù Cristo
che agisce nel sacramento della penitenza. Anche in questo caso, in
cui ci si accusa di peccati già confessati e rimessi, il sacramento
produce il suo effetto essenziale: esso aumenta la grazia
santificante che, come frutto del sacramento della penitenza, per sua
intima natura cancella il peccato, quando ve n’è uno. La grazia
operata dal sacramento della penitenza non si può pensare se non in
ordine al peccato, che essa toglie dall’anima qualora la trovi in
stato di peccato. Le parole del sacerdote: «Io ti assolvo»
conservano quindi il loro pieno valore anche quando si tratta
soltanto di produrre o aumentare la grazia, e non di cancellare il
peccato, in quanto non vi è più nessun peccato da condonare. Perciò
la Chiesa dichiara che i peccati già regolarmente confessati e
rimessi sono «materia sufficiens», vale a dire un oggetto
sufficiente della confessione (C. J. C., can. 902). Benedetto XI, nel
1304, ha dichiarato «salutare» l’accusarsi nuovamente di peccati
già confessati.
III.
Da quanto abbiamo detto si comprende in che senso si possa
parlare di confessione frequente. La confessione frequente è quella
confessione atta a far raggiungere efficacemente un duplice scopo: la
purificazione dal peccato veniale e, in pari tempo, il rafforzamento
della volontà nel tendere al bene, a una più perfetta unione con
Dio. Questo scopo è raggiunto, secondo l’opinione e l’esperienza
generale, mediante una confessione settimanale, quindicinale o, al
massimo, mensile: la santa Chiesa prevede anche il caso che si vada
più volte nella settimana alla confessione (C. J. C. can. 595, 3;
1367, 2); d’altra parte essa dichiara che, senza confessarsi
espressamente, si possono ottenere tutte le indulgenze se ci si
confessa almeno due volte al mese, o se, con retta intenzione e in
stato di grazia, si riceve giornalmente, o quasi giornalmente, la S.
Comunione (C. J. C. can. 931, 3).
Da
quanto abbiamo detto risulta inoltre che la confessione frequente
presuppone ed esige un serio sforzo verso la purezza interiore e la
virtù, verso l’unione con Dio e Cristo, cioè una vera vita
interiore. Chi vuole accontentarsi soltanto di evitare il peccato
mortale; chi non dà importanza al peccato veniale, a determinate
infedeltà o mancanze, e non vi fa attenzione; chi non è risoluto a
combatterle con tutta serietà, non è nella disposizione necessaria
per fare con profitto la confessione frequente. Questa è
inconciliabile con una vita di tiepidezza, anzi, nella intima
intenzione, è uno dei mezzi più efficaci per combattere ed
allontanare la tiepidezza. Se essa è fatta con serietà, spinge
necessariamente allo sforzo verso il bene e la perfezione, alla lotta
contro ogni benché minimo peccato, infedeltà, negligenza
consapevole.
Le
anime perfette cercano e trovano nella confessione frequente la forza
e il coraggio di combattere per la virtù, e una vita “per” e
“con” Dio. Ma, oltre a questo, prima di tutto cercano la perfetta
purezza dell’anima. Esse sono profondamente sensibili al dolore che
con una infedeltà hanno arrecato al Padre che le ama. Hanno
continuamente davanti agli occhi Cristo, lo sposo dell’anima loro,
pieno di bellezza, d’immacolata purezza e santità. Vogliono
partecipare alla sua vita, viverla con Lui, continuarla, essere un
altro Cristo. Spinte dall’amore verso il Padre, spinte dall’amore
verso Gesù, al quale vogliono ogni giorno più somigliare, vanno
spesso alla confessione. È il santo amore di Dio e di Cristo che
spinge queste anime a ricevere spesso il sacramento della penitenza.
La confessione frequente è per esse un vero bisogno. Le anime meno
perfette cercano e trovano nella confessione frequente un ottimo
mezzo per lottare efficacemente contro le imperfezioni, contro le
mancanze quotidiane, contro le tendenze e abitudini disordinate,
soprattutto contro la stanchezza morale e il pericolo dello
scoraggiamento. Proprio con il ricevere il sacramento della penitenza
queste anime sperimentano in sé stesse che in loro e con loro Uno
«più forte» combatte e vince: Cristo il Signore, che ha debellato
il peccato e che può e vuole debellarlo nelle membra del suo corpo
mistico.
Chiudiamo
questo capitolo con le parole dell’Enciclica di Pio XII, Mystici
Corporis, del 29 giugno 1943: «È chiarissimo che in queste fallaci
dottrine (falso quietismo) il mistero di cui trattiamo non sarebbe
diretto al profitto spirituale dei fedeli, ma si volgerebbe
miseramente alla loro rovina. Da tali false asserzioni proviene anche
che alcuni affermino non doversi molto inculcare la confessione
frequente dei peccati veniali, poiché meglio si adatta quella
confessione generale che ogni giorno la Sposa di Cristo con i suoi
figli a sé congiunti nel Signore fa per mezzo dei sacerdoti sul
punto di ascendere all’altare di Dio. È vero che in molte e
lodevoli maniere possono espiarsi questi peccati. Ma per un più
spedito progresso nel quotidiano cammino della virtù, raccomandiamo
sommamente quel pio uso introdotto dalla Chiesa per ispirazione dello
Spirito Santo, della confessione frequente, mercé la quale si
accresce la retta conoscenza di sé stesso, si sviluppa la cristiana
umiltà, si sradica la perversità dei costumi, si resiste alla
negligenza e al torpore spirituale, si purifica la coscienza, si
rinvigorisce la volontà, si procura la salutare direzione delle
coscienze e si aumenta la grazia in forza dello stesso sacramento.
Quelli dunque che fra il giovane clero attenuano o estinguono la
stima della confessione frequente, sappiano che intraprendono cosa
aliena allo Spirito di Cristo e funestissima al Corpo mistico del
nostro Salvatore».
Come
dobbiamo fare la confessione frequente?
È
una domanda a cui non è facile rispondere. Anche qui vale il detto:
Ciò che è buono per uno non è buono per tutti. Tra coloro che
fanno la confessione frequente si devono distinguere due categorie di
persone.
Molte
di queste sono immerse nella vita con la sua fretta, la sua
agitazione, il suo frastuono, nella famiglia, nell’ufficio, nella
fabbrica, nella scuola, nella professione, negli affari. Si
preoccupano sinceramente di condurre una vita pura, che piaccia a
Dio; si mantengono sempre nello stato di grazia e di filiazione
divina, ma ricadono continuamente in mancanze d’ogni genere. Si
accostano ogni settimana, o almeno ogni mese, alla confessione, si
pentono sul serio delle loro colpe e, pentiti e pieni di buona
volontà, se ne accusano come meglio possono, ma forse in una forma
non del tutto perfetta. Vorremmo forse dire che una confessione di
questo genere non sia per loro una benedizione? Vorremmo noi turbarli
a motivo della maniera maldestra, forse anche impacciata con cui
fanno la confessione, e senza urgente necessità indurli a farla
altrimenti? Non dovremmo piuttosto aiutarli a fare un proposito serio
e pratico e a conservare il coraggio di andare avanti, malgrado ogni
deficienza, per progredire così nella vita spirituale? Lo stesso
normalmente dovrebbe valere per gli anni della vita spirituale nei
quali avvengono ancora spesso grossolani errori, infedeltà e
mancanze, diciamo pure peccati veniali consapevoli e deliberati. Per
questi anni sarebbe raccomandabile di mettere la confessione
strettamente in rapporto con la meditazione e con l’esame di
coscienza generale e particolare.
Normalmente
però, a poco a poco, in tutto il campo della vita interiore, ha
luogo un processo di continua semplificazione, a cui è soggetta la
meditazione come l’esame di coscienza, l’anelito di perfezione e
la vita di preghiera. A questo processo di semplificazione sottostà
anche il modo di accostarsi al sacramento della penitenza. Con il
progresso nella vita interiore diminuiscono i peccati veniali
consapevoli e deliberati e restano in genere quasi unicamente i
cosiddetti peccati di fragilità. Qui cominciano le difficoltà
pratiche rispetto alla confessione, che diventano, in certo senso,
tanto maggiori quanto più l’anima avanza nella purezza e si
avvicina a Dio. Per entrambe le categorie di anime valgono le
seguenti considerazioni sul modo come dobbiamo fare la confessione
frequente. Cominciamo con il proposito.
A.
Il proposito.
Se
la confessione frequente vuol essere non soltanto degna e valevole,
ma positivamente costruttiva, come anche significativa ed efficace
per l’incremento della vita interiore, valga come direttiva: Si
accuserà nella confessione quello contro cui siamo fermamente ed
espressamente risoluti a lavorare. Con ciò il proposito si pone al
centro della confessione frequente.
I.
Il proposito è inseparabile dal pentimento e deriva, per intima
necessità, dalla perfetta contrizione della quale è il naturale
frutto. Appunto perché parte del pentimento, il proposito è, come
il pentimento stesso, un elemento essenziale e indispensabile della
confessione.
Bisogna
distinguere nettamente il proposito esplicito da quello
implicitamente contenuto nel pentimento. Quest’ultimo non è un
nuovo e particolare atto della volontà, separato dall’atto del
pentimento, ma consiste nel dolore e nell’orrore del peccato che il
pentimento porta con sé. Esso è sufficiente per ricevere
validamente il sacramento della penitenza. Se quindi prima
dell’accusa si è fatto soltanto un serio atto di contrizione,
senza pensare al proposito e senza quindi formularne alcuno, la
confessione è valida, in quanto il necessario proposito è incluso
nella contrizione. Ma se si vuol rendere feconda la confessione e
farne un mezzo di progresso interiore e di santificazione, allora è
opportuno un proposito esplicito separato dall’atto di contrizione.
Il proposito esplicito può essere generale o particolare. Generale è
quando si riferisce a tutti i peccati veniali o almeno concerne tutti
i peccati veniali dei quali ci si deve accusare in quella data
confessione. Il proposito particolare è la volontà di evitare o di
combattere seriamente questo o quel determinato peccato veniale o
difetto.
Per
la validità della confessione di peccati esclusivamente veniali
basta il proposito di voler evitare o combattere tutti o almeno uno
dei peccati confessati; o il proposito di volersi astenere da un
genere determinato di peccati veniali; o infine il proposito di
evitare il più possibile i peccati veniali non del tutto
consapevoli, cioè i cosiddetti peccati di fragilità, o di
adoperarsi con il massimo zelo a diminuirne almeno il numero. Il
proposito non deve essere quello di evitare assolutamente tali
peccati veniali, come è quello che deve farsi contro il peccato
mortale: basta il proposito di combatterli o di adoperare i mezzi
necessari per ridurne il numero e la frequenza.
Molti
di coloro che fanno la confessione frequente incorrono in un grosso
errore in quanto non fanno alcun serio proposito per quel che
riguarda gran parte dei peccati che confessano. S. Francesco di Sales
(Filotea, 2, 9) chiama un abuso il confessare un peccato che non si
sia risoluti di evitare o di combattere seriamente. Purtroppo questo
abuso è divenuto quasi un uso soprattutto in conseguenza di un certo
modo di confessarsi abitudinario e superficiale per cui si accusano
sempre le stesse cose senza mai ottenere un progresso, una
diminuzione nel numero o nel genere dei peccati veniali o una più
energica avversione al peccato e un aumento dello zelo per il bene.
Qui dunque deve far difetto qualche cosa. Fa difetto il proposito. Si
prende l’abitudine di accusare questo o quel peccato veniale senza
pensare con assoluta serietà a combatterlo energicamente. Vi è un
proposito generale, o almeno uno implicito, nell’atto di
contrizione; la confessione è quindi valida, ma difficilmente essa
potrà in tal modo essere feconda, costruttiva e atta a promuovere la
vita interiore. Qui i confessori hanno una responsabilità di fronte
a quelli che praticano la confessione frequente; ma non essi
soltanto, bensì in primo luogo i penitenti stessi.
Innanzi
tutto quindi le anime più progredite e più pure non accuseranno
nella confessione frequente
nessuna della mancanze, infedeltà o peccati di fragilità che non
siano risolute ad evitare o a combattere con tutta la buona volontà.
Ma è impossibile all’uomo di concentrare durevolmente tutte le
proprie energie e tutta la propria attenzione su un gran numero di
punti, di mancanze e di debolezze, ad un tempo. Perciò vale qui il
principio: poco, ma bene, con tutta la serietà e la buona volontà,
con coerenza e perseveranza. Divide et impera! Per tali anime è
quindi necessario limitare il proposito della confessione a
pochissimi punti, spesso soltanto a una singola colpa contro la quale
vogliono lavorare, ad un singolo punto che vogliono tener d’occhio
e sul quale vogliono concentrare tutti i loro pensieri e i loro
sforzi. Prima di tutto, ciò che vi è per loro di più importante e
necessario nel momento e nelle circostanze in cui si trovano. Molto
dipende dal fatto che questo proposito sia ben scelto e ben
formulato.
Tali
anime dovranno specialmente curarsi di fare un proposito positivo,
vale a dire un proposito diretto ad esercitare una determinata virtù.
Noi non superiamo le piccole mancanze e debolezze combattendole e
occupandoci continuamente di loro, ma piuttosto tenendo lo sguardo
rivolto a ciò che positivamente è buono e santo e perseguendolo con
ogni energia. Le anime che veramente tendono alla perfezione, lottano
innanzi tutto per il puro amore di Dio e di Cristo; l’amore di Dio
è amor del prossimo; amore che sopporta, perdona, aiuta, serve,
consola; e dà, insieme, la forza per questo amore. Tali anime
lottano per la purezza e il giusto ordine da porre nei motivi della
loro condotta giornaliera; per la preghiera ininterrotta in virtù
della quale riportano a Dio, al Salvatore, tutto quello che colpisce
l’anima loro. L’amor di Dio, del Salvatore, dà loro forza per i
piccoli e grandi sacrifici quotidiani, per la pazienza, per la
sincerità, per la vita in comune, per l’umile soggezione alla
croce che può presentarsi nelle varie forme di situazioni difficili,
di malattie, di debolezza e insufficienza propria, di deficienze
molteplici, di difficoltà nella vita interiore, di stati d’aridità,
di vuoto e freddezza interiori, di stanchezza, di indisposizione
fisica, di ripugnanza per la preghiera, ecc. L’amore fa tutto
questo: «La carità è paziente, benigna, non invidia, non si vanta,
non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca il proprio vantaggio, non
s’irrita, non pensa il male, tutto crede, tutto spera, tutto
sopporta... Seguite dunque l’amore» (I Cor 13, 1 e segg.), il
santo amore di Dio e di Cristo. Nell’amore ci è data ogni virtù!
Il
proposito deve essere anzitutto praticamente effettuabile. Si fa per
esempio il proposito: non voglio più essere distratto nella
preghiera, non voglio più irritarmi, non voglio più essere
suscettibile, non voglio più aver pensieri superbi ecc. Questi sono
tutti propositi praticamente ineseguibili e non servono ad altro che
ad ammucchiare nuove rovine sulle antiche. L’uomo, qui sulla terra,
non può presumere di non essere soggetto ad alcuna distrazione nella
preghiera, a nessuna irritazione, di non risentirsi più delle cose
spiacevoli e ingiuste, di non sentire più insorgere in sé pensieri
orgogliosi. Quel che importa è soltanto che le distrazioni,
irritazioni ecc. non siano volontarie e che siano combattute non
appena se ne divenga consapevoli. Si formuli dunque un proposito che
possa essere effettivamente mantenuto. Per es. non appena noto che
sono distratto voglio raccogliermi, non appena noto un’irritazione
voglio suscitare in me un atto di pazienza, di conformità al volere
di Dio; ogni volta che mi accade qualche cosa di spiacevole voglio
rivolgermi al Signore: «Signore aiutami»; oppure: «Voglio
sopportarlo per amor Tuo». A volere ottenere di più il proposito è
sbagliato e genera in noi soltanto delusione e scoraggiamento.
Il
proposito deve essere adatto alle esigenze e alle condizioni del
momento. Deve riguardare una colpa che mi dà da fare e che m’importa
soprattutto di contrastare, deve tener conto dell’intima azione
della grazia che così spesso si riannoda a particolari misteri di
Cristo, o della liturgia, o dell’anno liturgico, ad un avvenimento
determinato, alla meditazione, alla lettura spirituale, a una
illuminazione interiore ecc.
Il
proposito non può e non deve essere cambiato ad ogni confessione,
ma, se non è mutato, deve essere rinnovato, rafforzato e
approfondito ad ogni confessione. Di regola deve essere mantenuto
e rinnovato finché il difetto preso di mira dal proposito non
risulti effettivamente domato con una certa sicurezza e stabilità, e
scosso sensibilmente nel suo potere, o anche finché non si creino
circostanze esterne differenti. Certe colpe esteriori come la
curiosità degli occhi, o la violazione del silenzio o i discorsi
contro la carità debbono essere combattuti con un proposito
particolare che dobbiamo mantenere fintanto che non ci abbia giovato
ad acquistare un’abitudine opposta. Qui di nuovo concorrono ad
aiutarci l’esame particolare e la meditazione giornaliera.
Il
proposito può anche riferirsi immediatamente a determinati mezzi con
i quali si vuol combattere una mancanza. Così per evitare meglio le
distrazioni nella preghiera si può fare il proposito di essere più
fedeli alla propria meditazione; oppure per resistere ai moti
d’impazienza, di critica, poco caritatevoli, si fa il proposito di
tenersi maggiormente alla presenza di Dio, di Cristo, di dominare i
propri sentimenti.
Non
si dimentichi che la buona volontà è una volontà attuale e che per
conseguenza può ben conciliarsi con il timore, anzi addirittura con
la verosimile previsione di una ricaduta, almeno in mancanze
inconsapevoli. Dobbiamo sempre tener conto di un importante articolo
di fede, e cioè che all’uomo, anche quando è in stato di grazia
santificante «non è possibile, a meno di un particolare privilegio
divino come quello che la Santa Chiesa riconosce per la Madre di Dio,
Maria, di evitare per tutta la vita qualsiasi peccato veniale»
(Concilio di Trento, sess. 6, can. 23). Non si tratta per noi di non
commettere comunemente alcuna mancanza, ma piuttosto di non restare
mai indifferenti di fronte alle mancanze e alle trasgressioni, alle
loro cause e alle loro radici, di respingerle decisamente, di non
scendere mai a patti con esse e di pervenire alle altezze del santo
amor di Dio.
B.
La Confessione(accusa)
I.
Il Concilio di Trento sottolinea il fatto che i peccati veniali non
devono necessariamente essere confessati. Essi «possono essere
confessati recte et utiliter, tuttavia possono essere taciuti senza
colpa (citra culpam) ed espiati con molti altri mezzi» (sess. 14,
cap. 5; Denz. 899).
Oggettodella
confessione possono essere soltanto peccati, e precisamente peccati
commessi dopo il santo battesimo. Ciò che non è peccato non può
venir confessato. Possono dunque essere confessati quelli commessi
scientemente e volontariamente, i cosiddetti peccati veniali
volontari e deliberati; così come i cosiddetti peccati di fragilità
che commettiamo per precipitazione ed eccitazione momentanea, per
avventatezza, smemorataggine, superficialità, senza piena avvertenza
o piena libertà. Numero e circostanze che aggravano la mancanza non
devono necessariamente venir confessate; peraltro non sarà
inopportuno rendersene conto ed esporle nell’accusa quando si
tratta di mancanze più gravi e persistenti. Sono circostanze
aggravanti, ad es., il mancare di carità subito dopo la santa
Comunione, o verso un benefattore. Un tempo fu contestato se si
potessero o dovessero confessare anche le cosiddette imperfezioni,
per es. il cercare di giustificarsi, quando sarebbe stato più
perfetto (anche se non strettamente doveroso) tacere; il concedersi
qualche cosa cui sarebbe stato meglio di rinunciare. Oggi si usa
confessare anche le imperfezioni, sia perché alla base di un’azione
imperfetta sta, il più delle volte, qualche colpa o negligenza, sia
perché il conoscerle è utile al confessore per la direzione
spirituale. Distrazioni nella preghiera, veramente involontarie,moti
d’impazienza, pensieri che affiorano contro la carità, avversioni,
sentimenti e giudizi poco caritatevoli se sono sicuramente
involontari, non formano oggetto di confessione.
II.
Le anime che si dedicano seriamente alla vita spirituale, primi fra
tutti i religiosi che per vocazione sono obbligati a una vita di
perfezione cristiana, quando abbiano superato gli inizi
della vita spirituale, confesseranno, come norma generale, solo quei
peccati e quelle mancanze che sono risoluti a combattere decisamente.
Essi dunque deliberatamente non confesseranno tutte le mancanze e le
imperfezioni avvenute per caso, ma soltanto quelle contro le quali è
diretto il loro proposito. Proposito e confessione (accusa) corrono
paralleli. Anche qui vale il detto: non molte e svariate cose, ma
poche e bene. Non multa sed multum. Dall’insieme delle mancanze,
infedeltà, trasgressioni quotidiane si sceglie una o l’altra:
quella che appare più persistente, che avviene più consapevole e
volontaria, con la quale mettiamo a più dura prova la sopportazione
di chi ci sta attorno, quella che proviene da una passione, da una
inclinazione o da un’abitudine disordinata. Quest’accusa limitata
è particolarmente raccomandabile a coloro che malgrado tutta la
buona volontà perdono ogni tanto il controllo di sé, vanno soggetti
a mancanze di natura più grave dovute all’abitudine o al
temperamento; a quelli che si sentono tardi e pigri, senza intima
forza e vero desiderio di tendere alla virtù; a quelli che corrono
il pericolo di diventare tiepidi e negligenti; a quelli che solo a
fatica riescono a liberarsi di determinati difetti; infine a quelli
che sono facilmente tormentati dal dubbio di non avere abbastanza
deplorato i peccati già confessati.
«Noi
non facciamo altro che sostituire le nostre vedute personali alla
legge di Dio, quando ci sentiamo in obbligo di recitare tutta una
litania di peccati veniali, di storie e circostanze
particolareggiate. Denunziare tutto questo con compiutezza è
assolutamente impossibile. Quindi mille inquietudini e scrupoli
dipendenti dal fatto che abbiamo tralasciato per mera impossibilità,
una parte di ciò che avremmo potuto trascurare del tutto e
deliberatamente, senza peccato». In questa mania di accusare tutti i
peccati veniali vi è spesso, accanto a molta ignoranza e
inconsideratezza, anche molto amor proprio e molto orgoglio: si vuole
essere soddisfatti del proprio modo di agire e della propria
confessione; si vuole poter testimoniare a sé stessi di aver detto
tutto ciò che era possibile dire. Così facendo molte anime si
illudono che basti confessare perché si sia fatto tutto. È un
errore pericoloso.
Il
conoscere la radice dei peccati veniali, soprattutto del difetto
dominante, e le occasioni di determinate mancanze può essere utile
al confessore. Di tanto in tanto converrà parlarne nella
confessione.
III.
In pratica vi sono vari modi per fare bene e con profitto l’accusa,
e per approfondire e semplificare la confessione frequente. O si
confessano tutte le mancanze, oppure solo le più importanti nelle
quali si è incorsi dall’ultima confessione. Così faranno molte
anime e lo faranno giustamente e utilmente.
Ma
se si tratta di anime più progredite, che tendono con un vero e
serio sforzo a Dio, nel mondo o nello stato sacerdotale e religioso,
allora crediamo di poter indicare le seguenti vie. Primo: si prende
di mira una mancanza molto ben determinata in cui si è incorsi dopo
l’ultima confessione. In questo caso l’accusa prende la seguente
forma: Io ho scientemente mancato alla carità nel giudicare e nel
parlare. In tutta la mia vita ho spesso peccato contro l’amore del
prossimo con giudizi poco caritatevoli in pensieri e parole, e mi
accuso di tutti questi peccati della mia vita. Includo anche tutti
gli altri peccati e mancanze con cui mi sono reso colpevole dinanzi a
Dio. È questo un modo semplice e molto proficuo purché si cerchi di
avere un serio pentimento. Dal pentimento scaturisce il proposito
chiaro e concreto: lavorerò per riuscire a desistere dai giudizi e
dai discorsi poco caritatevoli (coscienti).
Un
secondo modo di confessarsi prende le mosse da un determinato
comandamento o da una determinata passione, inclinazione, abitudine
disordinata; comunque sempre da un punto che sul momento è
importante per lo sforzo interiore. Allora la confessione prende
all’incirca questa forma: Io sono facilmente irritabile, mi
inquieto subito contro persone e avvenimenti, parlo e critico, lascio
sorgere in me antipatie e malumori. Me ne accuso poiché in questa
maniera ho peccato molto nella mia vita. Includo anche tutti gli
altri peccati
e mancanze con cui mi sono reso colpevole dinanzi a Dio. Anche questo
è un genere di confessione frequente semplice e proficuo. Esso
presuppone ed esige che il penitente prenda di mira e combatta
energicamente per lungo tempo una determinata mancanza o la causa di
determinate mancanze, o in genere un punto importante per il suo
sforzo interiore. Anche qui quello che conta è il pentimento. Questo
genere di accusa rende relativamente facile al confessore di
conoscere l’individualità del penitente e quindi di sostenerlo nei
suoi sforzi.
Infine
si può anche prendere le mosse dai peccati commessi nella propria
vita contro questo o quel comandamento, ad es.: Io ho peccato molto e
sovente di impazienza, di mancanza di dominio su me stesso, di
volubilità, di sensualità. Mi accuso anche di tutti gli altri
peccati mortali e veniali della mia vita.
Da
quanto abbiamo detto si desume: chi vuol far bene la confessione
frequente e trarne veramente profitto bisogna che abbia un certo
ordine nella sua economia interiore. Egli deve vedere con chiarezza
quali sono per lui i punti importanti ed essenziali. Deve conoscere
bene i punti deboli della sua natura e studiare il modo di
eliminarli. Se poi da parte sua anche il confessore, comprensivo e
pieno di santo interesse per il progresso spirituale del suo
penitente, aiuta e collabora attivamente con lui, allora la
confessione frequente diventa un mezzo veramente ottimo per
l’edificazione e lo sviluppo della vita morale e religiosa, per
crescere in Cristo e nel suo Spirito.
C.
L’esame di coscienza
I.
L’esame di coscienza fatto allo scopo di ricevere il
sacramento della penitenza è in strettissimo rapporto con
l’esercizio dell’esame di coscienza più generale.
Mentre
i maestri di vita spirituale, dagli antichi monaci fino ai tempi
nostri, hanno sempre considerato l’esame di coscienza giornaliero,
sia generale che particolare, come una parte essenziale della vita di
vera pietà cristiana, vi sono oggi alcuni circoli cattolici che non
vogliono più saperne di un esame di coscienza particolareggiato.
Essi respingono innanzi tutto l’esame di coscienza cosiddetto
«particolare» e vogliono sostituirlo con un «semplice sguardo»
allo stato dell’anima. Dimenticano che almeno per i principianti è
assolutamente necessario scendere in particolari se vogliono
conoscere quali siano le loro mancanze e le cause di esse, le varie
passioni e gli atteggiamenti interiori disordinati, e se aspirano a
migliorarsi. Proprio i principianti sono esposti al pericolo di
accontentarsi di uno sguardo superficiale che non vada in profondità
e lasci sussistere le passioni, abitudini disordinate, ecc. «Come
sarebbe doloroso se anche in questo punto si avverasse la parola di
Cristo: i figli di questo mondo sono nel loro genere più avveduti
dei figli della luce. Con quanta alacrità li vediamo condurre i loro
affari! Quanto spesso confrontano le entrate e le uscite! Come esatta
e rigorosa è la loro contabilità» (Pio X, Exhortatio).
La
Chiesafa dell’esame di coscienza quotidiano un dovere per i
sacerdoti e i religiosi, e respinge esplicitamente la proposizione di
Molinos che sia «una grazia il non poter riflettere sui propri
difetti» (Denz. 1230). Fu la nota quietista Madame de Guyon a
opinare che basti di «esporsi» semplicemente alla luce divina. È
significativo che anche recenti scrittori insistano tanto su una
sorta di particolare e naturale esame di coscienza ai fini di
un’auto-educazione puramente naturale ed umana.
II.
Con ragione i maestri di vita spirituale mettono in evidenza come
l’esame di coscienza sia necessario e indispensabile per la
purificazione dell’anima e per il progresso nella vita virtuosa.
Senza un metodico esame le nostre mancanze non affiorano che
parzialmente alla nostra coscienza. Esse si accumulano; le cattive
inclinazioni e le passioni disordinate divengono più potenti e
minacciano seriamente la vita della grazia. Il santo amore
in particolare
non può svilupparsi pienamente ed interamente.
L’esame
di coscienza ha varie possibilità: o si propone come fine la
conoscenza di quei peccati veniali — qui facciamo astrazione dai
peccati gravi —, che avvengono con piena consapevolezza; oppure si
propone la conoscenza anche dei peccati di fragilità poco o appena
consapevoli; o, infine, si propone di rendersi conto del come si
sarebbe potuto o dovuto corrispondere alla grazia di Dio. È chiaro
che noi possiamo fare un esame di coscienza veramente buono e retto
soltanto con l’aiuto della grazia soprannaturale.
L’esame
generale considera e controlla tutte le azioni della giornata
trascorsa: pensieri, moti, parole, opere. Quando è fatto con
regolarità quest’esame di coscienza non è difficile: si sa bene
dove si manca abitualmente, cosicché le eventuali mancanze si notano
senza speciale fatica. Qualora sia accaduta una particolare mancanza
questa opprime senz’altro e continuamente una persona che tenda
seriamente alla perfezione. Se c’è una vera vita spirituale non
occorre essere minuziosi in questa introspezione. Ciò che più
importa è l’atto di contrizione. Partendo da questo, l’esame di
coscienza può sempre essere vivificato e approfondito. Dalla
contrizione sgorga il proposito che in generale sarà poi quello
della confessione.
L’esame
di coscienza generale è completato dall’esame cosiddetto
«particolare». Esso si occupa più a lungo di un difetto
determinato in precedenza che si vuole vincere ed eliminare, o di una
determinata virtù che si vuole acquistare. L’indagine sulle
mancanze parte dalle mancanze esteriori che molestano o irritano il
nostro prossimo; passa quindi alle mancanze interiori, ai difetti
propri del carattere, al punto debole della nostra natura e della
nostra vita. Se la mancanza non avviene più che raramente o soltanto
in determinate circostanze, allora è il caso di passare all’esame
positivo di determinati atti di virtù, ricerca che con il progresso
della vita spirituale assume sempre più la forma di un rafforzamento
della volontà onde acquistare una data virtù, e di una preghiera
rivolta a Dio perché voglia consolidarci e perfezionarci in tale
virtù, per es. nell’amore di Dio, nell’amore del prossimo, nello
spirito di fede, nell’umiltà, nella vita di preghiera. All’oggetto
dell’esame particolare si collega generalmente il proposito della
confessione frequente. Per questo l’esame particolare ha grande
importanza proprio per le anime religiose e ferventi, specie nel
senso che abbiamo detto, di rafforzare e ancorare la volontà nella
virtù.
III.
Non basta solamente il conoscere le mancanze e gli atti
difettosi. Altrettanto e forse più importante è verificare gli
atteggiamenti e le disposizioni interiori. Per questo si raccomanda
il cosiddetto esame di coscienza «abituale», cioè quella
introspezione breve e frequente, quello sguardo sull’inclinazione
che momentaneamente predomina e dirige il cuore, sui sentimenti e
sulle aspirazioni che lo signoreggiano in quel momento. Tra i molti
sentimenti che urgono ed agitano il cuore dell’uomo c’è sempre
un sentimento che predomina, che imprime al cuore la sua direzione e
determina i suoi movimenti. Ora è un bisogno di approvazione, ora il
timore di un biasimo, di una umiliazione, di un dolore, ora una
gelosia o un rancore per un torto patito, ora un sospetto, una
preoccupazione esagerata per il lavoro, per la salute. Ora è un
sentirsi quasi privo di energie, ora uno scoraggiamento di fronte a
certe difficoltà, insuccessi, avvenimenti. Questo sentimento
predominante può tuttavia coesistere con l’amor di Dio, con il
bisogno di sacrificarsi, con un ardente zelo per Dio, con la gioia
nel servizio di Dio, con la soggezione a Dio, con il desiderio di
umiliarsi e di mortificarsi, con la dedizione a Dio: «Dove è il mio
cuore?» Qual’è l’inclinazione principale che lo determina, la
vera molla che mette in movimento tutte le parti del meccanismo? Può
essere un’inclinazione profondamente radicata, una simpatia,
un’amarezza, un’avversione; può essere un impressione
momentanea, così forte e profonda che a lungo continua a palpitare
nel cuore. Domandiamoci: «Dove è il mio cuore?» Così potremo
spesso stabilire quale ne sia l’inclinazione e la tendenza
momentanea, ci spingeremo fino al punto centrale da cui partono i
vari atti, parole e azioni,
e discerneremo quello che ci accade in bene come in male.
Questa
conoscenza serve sia all’esame di coscienza generale e particolare,
sia all’esame di coscienza per la confessione. Riconosceremo senza
difficoltà ciò che è importante ed essenziale per il nostro
sforzo, rinnoveremo il pentimento, ringrazieremo quando vedremo
ordine nei nostri sentimenti più intimi, pregheremo per ottenere
grazia e forza. Riconosceremo ciò che va preso in considerazione per
l’accusa nella confessione e per il proposito; soprattutto, con
l’abitudine a questa rapida e ripetuta introspezione, riconosceremo
su quali basi fondare solidamente l’esame di coscienza generale e
particolare.
IV.
L’esame di coscienza per la confessione frequente non si estenderà
a tutte le mancanze dall’ultima confessione in poi, ma terrà conto
ed esaminerà prima di tutto il proposito dell’ultima confessione,
oppure l’oggetto dell’esame particolare, per vedere se e fino a
qual punto abbiamo lavorato nella direzione di questo proposito. Se
nel corso della settimana è avvenuta qualche cosa di molto speciale,
una mancanza più grave, questa brucia di per sé nella coscienza. La
completa conoscenza delle mancanze commesse è assicurata dall’esame
di coscienza generale. Non è quindi necessario che l’esame di
coscienza per la confessione si addentri in tutti i singoli peccati
veniali dall’ultima confessione in poi. Riconosciamo tuttavia che
l’esame di coscienza per la confessione frequente esige e
presuppone l’esame di coscienza generale e particolare nonché
quello «abituale» di cui abbiamo precedentemente parlato.
«I
peccati veniali possono essere taciuti senza colpa ed espiati con
molti altri mezzi» (Concilio di Trento, sess. 14, cap. 5). Poiché
dunque non siamo obbligati ad accusarci dei peccati veniali, siamo
completamente liberi di decidere se e quali vogliamo accusare. A
rigore è quindi sufficiente quell’esame di coscienza in cui in
qualche modo, io riconosca un peccato veniale che abbia commesso una
volta nella mia vita. Perciò non si ha alcun dovere di estendere
l’esame di coscienza a tutti i peccati veniali che siano occorsi
dopo l’ultima confessione. La teologia morale cattolica insegna
esplicitamente: Per l’esame di coscienza prima della confessione
non è necessario «uno studio straordinario, anche se così facendo
si scoprirebbero ancora altri peccati. Chi sa di non aver commesso
alcun peccato mortale dopo l’ultima confessione non è strettamente
obbligato all’esame di coscienza, basta che si preoccupi di avere
un oggetto sufficiente per l’assoluzione» (F. A. Göpfert,
Moraltheologie III, Nr. 119).
Anche
nell’esame di coscienza è importante che distinguiamo il più dal
meno necessario, l’essenziale dal meno essenziale, l’importante
dall’irrilevante. In una settimana può esservi un punto che
risulti particolarmente importante, può trovarsi l’occasione di
una mancanza, un’emozione particolarmente forte e disordinata, una
difficoltà, un caso che richieda una lotta particolare o che sia
divenuto occasione di rancore, di avversione ecc. Su questo deve
imperniarsi l’esame di coscienza. Quanto più l’esame è limitato
ai punti veramente importanti ed è messo in relazione con il
proposito e con l’accusa, tanto più ha valore. Non occorre quindi
per la confessione frequente esaminare la coscienza in base ai dieci
Comandamenti di Dio o ad uno schema già preparato.
D.
Il pentimento
I.
Nel considerare il pentimento concernente la confessione
di peccati esclusivamente veniali (o di peccati sia veniali che
mortali già in precedenza validamente confessati) valgono gli stessi
princìpi che per il pentimento dei peccati veniali in generale.
Senza pentimento non vi è remissione.
Oggettodel
pentimento richiesto per la confessione frequente può essere
soltanto ciò che può
essere oggetto di accusa e di assoluzione, cioè il peccato, ossia la
volontaria trasgressione, in qualche modo riconosciuta e scientemente
voluta, del comando di Dio. Ciò che non è peccato non può in
realtà essere oggetto di pentimento, anche se possa e debba essere
deplorato.
Per
ricevere validamente e degnamente il sacramento della penitenza è
richiesto, ed è sufficiente, il cosiddetto pentimento soprannaturale
imperfetto. Questo proviene da motivi soprannaturali: il timore del
castigo in questa vita (la privazione della grazia, l’essere
inferiori al grado che nella vita spirituale avremmo potuto o dovuto
raggiungere) e dopo questa vita (ritardo nell’ammissione al
possesso di Dio, diminuzione del grado di eterna beatitudine che
avremmo potuto avere). Sarebbe esagerato il voler trascurare tutto il
complesso di questi motivi imperfetti e in qualche modo egoistici.
Non dobbiamo tuttavia fermarci a questi, ma cercare consapevolmente
di raggiungere un pentimento perfetto. Questo va oltre la
considerazione del proprio io, del proprio utile o danno, vantaggio o
svantaggio, ma vede soltanto Dio al quale con il peccato abbiamo
fatto torto; il cui comando, onore, interesse, volontà, desiderio,
abbiamo — anche nel peccato veniale — posposto alla nostra voglia
o svogliatezza o capriccio. Ciò che conta nel pentimento, anche in
quello perfetto, non è il sentimento, ma solo la volontà: Vorrei
non aver mai peccato; vorrei non aver mai pensato, detto, fatto od
omesso questo o quest’altro.
II.
Perché la confessione frequente sia valida basta pentirsi
di un unico peccato veniale o di un unico determinato genere di
peccati veniali che si confessano, anche se ci si accusa di altri
peccati veniali dei quali non ci si è pentiti. Basta inoltre
pentirsi almeno della negligenza e della noncuranza con cui ci si
abbandona al peccato veniale o si manca di vigilare e di prevenire i
peccati di sorpresa. Ma per chi si confessa frequentemente non si
tratta di fare una confessione appena appena valida, bensì una buona
confessione che aiuti efficacemente l’anima nel suo sforzo verso
Dio. Se la confessione frequente deve raggiungere questo scopo,
bisogna prendere molto sul serio la seguente proposizione: Senza
pentimento non v’è remissione del peccato. Ne deriva per il
penitente la norma: non si confessano peccati (veniali) di cui non ci
si sia seriamente e sinceramente pentiti.
Esiste
un pentimento generico; ed è il dolore e il disgusto dell’anima
per i peccati commessi in tutta la vita anteriore. Questo pentimento
generico è di grandissima importanza per la confessione frequente.
In ogni confessione dobbiamo includere coscientemente nel pentimento
tutti i peccati sia mortali che veniali di ogni specie, e mettere
tutto il nostro impegno per suscitare un atto di contrizione
veramente buono. Questo pentimento deve essere grande per tutti i
peccati, anche per le minime infedeltà, tanto rispetto alla
considerazione che essi sono il peggiore dei mali, quanto rispetto
alla forza dell’atto di volontà con il quale il peccato viene
detestato. Si capisce poi che il pentimento provato a suo tempo per
un peccato (già rimesso) possa continuamente rinnovarsi. Anzi in un
certo senso è un dovere quello di rinnovare sempre il pentimento dei
peccati commessi, perché «sempre deve dispiacere all’uomo di aver
peccato» (Tommaso d’Aquino, Summa theol. III, q. 84, a. 8). Se una
volta egli vi indulgesse e lo approvasse, così facendo, come nota lo
stesso S. Tommaso, egli peccherebbe. Perciò ogni volta che facciamo
la confessione frequente dobbiamo cercare con insistenza di destare
in noi un profondo pentimento che abbracci tutta la vita anteriore.
Quanto maggiore sarà la serietà del nostro pentimento, tanto
maggiore sarà la sicurezza di giungere a quell’atteggiamento di
compunzione che è così importante per la vita interiore e che deve
essere proprio il frutto della confessione frequente. Questo
pentimento generico va incondizionatamente raccomandato per la
confessione frequente; e ciò per un duplice motivo: il primo è
quello di giungere a un vero e proprio atto di contrizione. Una
piccola mancanza qualunque dal tempo dell’ultima confessione, o un
singolo peccato veniale qualunque della nostra vita passata, che noi
«includiamo», non ha in generale la forza di chiarirci tanto il
pieno significato
del peccato, da elevarci a un atto di contrizione il più possibile
intenso e perfetto, dettato anzitutto dall’amore di Dio. La cosa è
ben diversa se noi abbracciamo in un solo sguardo tutto ciò in cui
abbiamo errato e peccato nella nostra vita. Allora sì che possiamo
suscitare in noi un atto di aborrimento dinanzi a ciò che abbiamo
fatto; un atto di esecrazione; un atto di dolore per aver offeso Dio,
per essergli stati ingrati; un atto di interiore rinnegamento del
peccato, unito con la ferma risoluzione di evitarlo e di espiarlo. Un
secondo motivo è questo: che è in contrasto con la riverenza dovuta
al sacramento il confessare, accanto a peccati veniali di cui ci si è
pentiti, altri per cui non proviamo pentimento.
Naturalmente
a questo pentimento generale per tutti i peccati della nostra vita
uniremo il pentimento dei singoli peccati e mancanze che ci occupano
sul momento in modo particolare e che ci pesano sul cuore. Pentimento
per offese alla carità, per mancanze più grossolane, per difetti
radicati e ostinati, derivanti dal nostro difetto principale, oppure
da un’inclinazione o abitudine disordinata e prepotente.
Un
tale pentimento servirà a ravvivare e approfondire la confessione
frequente e sarà un mezzo per salvaguardarla dal meccanizzarsi.
III.
Il sacramento della penitenza è il più personale dei sacramenti.
Anche nel senso che nella confessione ha una parte decisiva la
valutazione personale dei peccati e delle mancanze. Quanto più uno
si innalza verso Dio tanto più conseguirà l’intelligenza dei
difetti segreti e degl’impulsi nascosti del suo cuore corrotto.
Quanto più l’anima sarà unita a Dio, tanto più comprenderà la
parola: «Se diciamo che non abbiamo alcun peccato, inganniamo noi
stessi» (I Gv 1, 8). Acquisterà un’intelligenza tanto più
profonda della santità e purezza di Dio; una sensibilità tanto più
delicata per la più lieve deviazione dalla volontà e dai desideri
di Dio e da tutto ciò che gli deve; una sensibilità tanto maggiore
del danno spirituale arrecato ad altri con le sue parole e la sua
condotta. Sentirà cosa sia il peccato di omissione e quanto
smisurato sia il campo di tali peccati; saprà ciò che significhi
abusare di una grazia: se essa l’avesse utilizzata giustamente
allora molte anime e tutta la Chiesa se ne sarebbero avvantaggiate.
Vi è qualcosa di grande nella delicata coscienza di un’anima
santa. Su questo terreno germoglierà un pentimento, una disposizione
al pentimento, che farà del sacramento della penitenza
frequentemente ricevuto una necessità e una benedizione.
E.
La soddisfazione (penitenza)
I.
La soddisfazione consiste nell’assumersi delle opere di
penitenza (preghiere, digiuni, elemosine) allo scopo di estinguere le
pene temporali dovute per il peccato. Se queste opere sono imposte
dal sacerdote nel sacramento della penitenza costituiscono una
soddisfazione sacramentale, che rimette la pena temporale in virtù
del sacramento. Essa è più perfetta ed ha una maggiore efficacia di
quella non sacramentale, cioè della soddisfazione imposta al di
fuori del sacramento o volontariamente assunta. Quanto più numerose
sono le opere di penitenza che ci vengono imposte nel sacramento
della penitenza e che noi siamo pronti ad accettare, con tanta
maggior sicurezza, perfezione ed efficacia estinguiamo le pene
temporali che per lo più permangono dopo il perdono della colpa, in
particolare le pene del Purgatorio.
II.
Riguardo all’accettazione e all’adempimento della penitenza
valgono per la confessione frequente gli stessi princìpi che valgono
per ogni altra confessione. Cioè:
a)
Il penitente è obbligato in coscienza ad accettare ed adempiere la
penitenza imposta dal confessore.
b)
Non è necessario che la penitenza sia scontata prima
dell’assoluzione o prima della santa
Comunione susseguente la confessione.
c)
Se qualcuno, per es., è volontariamente distratto nella
preghiera di penitenza, anche così egli adempie la penitenza
impostagli, e fornisce la soddisfazione sacramentale.
d)
Se, con o senza colpa, si dimentica la penitenza imposta, non si è
obbligati a replicare la confessione. Se si presume che il confessore
si ricordiancora della penitenza da lui imposta, si può, ma senza
che vi sia obbligo, rivolgersi a lui e domandargliela. Tuttavia il
santo fervore che ci spinge alla confessione frequente ci indurrà,
qualora non possiamo interrogare il confessore, a dettarci da noi una
penitenza corrispondente.
e)
Qualora il confessore abbia dimenticato d’imporre una penitenza —
ciò che può anche avvenire —, è consigliabile di ricordargliela.
Se non è il caso ci si fissi da sé una penitenza.
III.
È conforme allo spirito della confessione l’accettare e
il sopportare le fatiche, i sacrifici, le pene, i lavori e
l’adempimento dei propri doveri con l’espressa intenzione di
offrirli in espiazione. Nel sacramento della penitenza, secondo la
parola del grande S. Tommaso d’Aquino, siamo infatti uniti «al
nostro Signore sofferente per i nostri peccati». Ricevendo il
sacramento della penitenza noi vogliamo prendere parte al giudizio di
morte del Signore sul peccato, e consapevolmente compiere e lasciar
compiere in noi questo giudizio, in una pratica partecipazione alla
morte di Cristo. Questo morire con Cristo si effettua mediante un
costante spirito di penitenza, che ritorna sul peccato commesso per
farne espiazione. Esso è volto ad un tempo verso l’avvenire per
fortificarci e prepararci a sopportare coraggiosamente le fatiche, le
miserie, le sofferenze e le difficoltà della vita, e ad offrire con
spirito di espiazione e di partecipazione alle sofferenze e alla
morte riparatrice di Cristo, del Signore, quei sacrifici che ci sono
imposti. Lo spirito di penitenza consiste nel continuo dolore
dell’anima per il peccato commesso, insieme con la volontà di
espiarlo e di superarlo sollevandosi alle altezze della virtù e
dell’amor di Dio. Quest’atteggiamento di penitenza, di cosciente
disgusto del peccato una volta commesso, e di sforzo per superare
pienamente in noi il peccato, è di fondamentale importanza per una
vera vita cristiana. «Fate penitenza!» (Mt 3, 4; Mc 1, 15). La
penitenza è la via e la porta del Regno di Dio. Senz’essa non vi è
né via, né porta. La penitenza ci rende umili e riverenti dinanzi a
Dio. Quando lo spirito di penitenza è vivo in noi la preghiera e il
modo di ricevere i sacramenti divengono più fervorosi, più
profondi, più efficaci. Cresce in noi la gratitudine verso Colui che
ci perdona e ci solleva dal peccato. Sperimentiamo in noi la verità
della parola del Signore: «Amerà più colui al quale più fu
perdonato» (Lc 7, 43). Lo spirito di penitenza ci rende umili di
fronte agli altri, dolci, mansueti, pronti al perdono. Crea in noi la
delicatezza della coscienza e la fortezza contro tutto ciò che è
peccato e disordine. Quando lo spirito di penitenza è vivo in noi
apre le fonti della santa gioia e dell’interiore libertà.
«Li
riconoscerete dai loro frutti» (Mt 7, 16 20) «Ogni albero buono
porta frutti buoni» (id. 7, 17). L’albero buono è la frequente
confessione. Il suo frutto è lo spirito di penitenza, la
disposizione alla penitenza. Da questo il confessore, come anche il
penitente stesso, può riconoscere se e quale sia il profitto delle
confessioni che egli è solito fare: se le fa bene e con vantaggio,
oppure no. Quando la confessione frequente è fatta con retta
intelligenza e con buona volontà, promuove sempre lo spirito di
penitenza, lo spirito e l’opera di espiazione e di soddisfazione,
in unione con il Signore che espia per le nostre colpe.
Direttore
spirituale, confessore e penitente.
I.
Forse tutti coloro che praticano la confessione frequente cercano,
accanto agli effetti e ai frutti essenziali del sacramento, anche, e
specialmente, una guida nelle vie della vita spirituale. E con
ragione. Viene sempre il momento, che sentiamo tutti, in cui ci è
necessaria una direzione spirituale. I principianti che escono
dall’Egitto e che voglionoliberarsi dalle loro passioni disordinate
hanno bisogno di un Mosè che li conduca; i proficienti, che seguono
il Signore, Cristo, e vogliono gustare la libertà dei figli di Dio,
hanno bisogno di qualcuno che rappresenti presso di loro Cristo, ed
al quale essi possano obbedire con piena fiducia (S. Giovanni
Climaco). Chi mai vorrebbe guidarsi da solo nei santi, ardui sentieri
pieni di responsabilità, e insieme così misteriosi e oscuri, della
vita interiore? «Chi prende sé stesso a maestro si fa alunno di uno
stolto» (S. Bernardo). Molte anime fervorose si sono già smarrite
per non aver avuto una guida. Le vie della vita interiore non sono
palesi ad ogni occhio. Inoltre la vita cristiana, quanto più è
vissuta perfettamente, tanto più porta con sé sacrifici, rinunce,
sforzi ed anche pericoli di illusioni. L’anima ha bisogno di una
mano sicura che sostenga il suo coraggio, le doni nuovo fervore,
sciolga i suoi dubbi, l’aiuti a superare scoraggianti difficoltà.
La vita interiore consiste specialmente nel retto spirito che informa
il nostro modo di agire, di considerare, di giudicare, di accettare
le cose; nella prontezza a guardare tutto con spirito di fede e ad
agire in tutto per motivi soprannaturali. Ma anche in anime pie e
fervorose il principale punto debole sta nel pensare e giudicare
facilmente in modo troppo naturale e umano, e nel lasciarsi guidare
da motivi troppo naturali ed umani. Perciò generalmente esse hanno
bisogno di una direzione che torni sempre ad indirizzare il loro
sguardo e il loro sforzo verso i vertici della vita della fede e dei
motivi veramente soprannaturali. Ma questa direzione è oggi data
normalmente, il più delle volte, dal confessore nella confessione
frequente. Dobbiamo tuttavia tener sempre presente che in ultima
analisi è lo Spirito Santo che guida l’anima. Il direttore
spirituale agisce rispetto al penitente come la madre la quale stende
le mani sul bambino vacillante e ancora incapace di camminare sicuro,
per mantenerlo in equilibrio. Egli sprona ed incita l’anima a stare
attenta all’ispirazione della grazia e a corrispondervi; si
preoccupa che l’anima non si scosti dalla guida della grazia e non
si metta per una falsa strada.
II.
Vi sono varie specie di direttori spirituali ed ognuno di
essi ha le sue doti particolari: qualcuno si adatta meglio ai
principianti, qualcun altro ai proficienti, qualcun altro ancora ai
perfetti; l’uno è esperto nel trattare con gli scrupoli, l’altro
nel trattare con le prove interiori, con i problemi della vocazione,
ecc. «È difficile che ognuno sia un buon direttore spirituale per
tutti, o anche per una singola persona durante tutta la vita»
(Faber, Il progresso dell’anima). Un direttore spirituale adatto è
per una anima una grande grazia.
In
generale il cambiamento di direttore spirituale è dannoso; d’altra
parte sarebbe esagerato il rappresentare un simile cambiamento come
il peggiore dei danni per la vita spirituale, e di metterlo alla pari
con l’eterna rovina dell’anima. Certamente Faber non ha torto
affermando che non sia affatto desiderabile che noi ci attacchiamo
tanto ansiosamente al nostro direttore spirituale. «Dal momento in
cui noi non ci sentiamo più liberi e a nostro agio nei rapporti con
lui, egli ha perduto per noi la sua grazia, e ciò senza colpa da una
parte, né dall’altra. Né tentazione, né scrupolo, né
mortificazione, né obbedienza devono ispirarci il minimo sentimento
di costrizione in questa materia; poiché il fine della direzione
spirituale, in tutti i gradi della vita interiore, è unico ed
invariabile: la libertà dello spirito» (Faber, Il progresso
dell’anima, pag. 420).
III.
Il figlio spirituale deve al direttore un santo e profondo rispetto,
poiché egli è per lui il rappresentante di Dio, rivestito
dell’autorità di Dio, proprio per gli interessi più intimi e
santi della sua anima. Il santo e soprannaturale rispetto preserva da
ogni disordine interno ed esterno che potrebbe insinuarsi nei
rapporti tra direttore e figlio spirituale.
Al
rispetto filiale soprannaturale si unisce un’infantile fiducia e
una assoluta franchezza nel manifestare al direttore spirituale il
bene e il male che vivono nel proprio intimo. Si deve infine al
direttore spirituale docilità ed obbedienza. Per altro l’obbedienza
verso il direttore spirituale è diversa da quella di un religioso
verso i propri superiori competenti. Un falso concetto
dell’obbedienza dovuta al direttore spirituale ha già indotto
qualche anima ad abbandonarsi a uno spensierato senso di sicurezza,
come se avesse trasferito nel direttore spirituale anche la sua
coscienza, come se nelle cose spirituali non avesse da prendere più
alcuna iniziativa, come se fosse sciolta da ogni responsabilità,
come se potesse addossare al confessore cose che è possibile
chiedere soltanto a Dio, come se dovesse e potesse ormai rinunciare a
ogni autonomia e in tutte le cose andare semplicemente a prendere le
istruzioni dal confessore. Che nelle questioni importanti della vita
interiore si interroghi il direttore spirituale, è nella natura
stessa della cosa. I nostri peccati e imperfezioni, la forza delle
nostre passioni, le inclinazioni disordinate, le tentazioni e i
segreti suggerimenti del maligno, l’ordinamento delle nostre
giornate, i nostri moti interiori, ecc. devono essergli sottoposti
con l’ampiezza necessaria, perché egli possa giudicare del nostro
stato, consigliarci ed assisterci. Ma delle cose di tutti i giorni
ognuno deve prendersi e volersi prendere la responsabilità.
I
rapporti con il direttore spirituale debbono essere limitati al solo
indispensabile. Non è il caso che gli sottoponiamo questioni non
pertinenti al suo ufficio, e neanche che ci rivolgiamo a lui senza
aver ben riflettuto se c’è una ragione sufficiente o se possiamo
rispondere noi stessi dinanzi a Dio e alla nostra coscienza. Non
dobbiamo prolungare i «colloqui» e le confessioni più del
necessario. Non dobbiamo dare al confessore motivo di parlare molto.
Lo sviluppo della vita spirituale è così lento che non v’è ogni
giorno qualche cosa di nuovo da dire; altrimenti saremo indotti a
battere ogni giorno una nuova strada e a far così della nostra
cosiddetta vita spirituale un vano gioco di alternative e di
esperimenti sempre nuovi.
Non
rubare al confessore e direttore spirituale troppo tempo, specie
quando anche altri aspettano il suo aiuto.
Taci
sulla confessione e sul confessore. Questi è obbligato al più
rigoroso silenzio. Ciò che egli ha esposto al penitente riferendosi
a una cosa ben determinata, viene da questi per lo più ripetuto in
un contesto diverso da quello in cui il confessore lo ha detto. Tali
discorsi degenerano troppo facilmente in un torto fatto al confessore
e producono molto male.
IV.
«Sebbene Paolo risponda volentieri a domande di
casistica, tuttavia un continuo domandare e appoggiarsi ad autorità
non è affatto per lui un ideale cristiano. Un continuo desiderio di
guida, un’irrisoluta ricerca di decisioni ecclesiastiche, un
ansioso aggrapparsi alla stola del confessore e direttore spirituale,
sarebbe per lui la prova di uno stato di immaturità e di uno scarso
senso di responsabilità, che è naturale nei bambini, ma che è
indegno di un cristiano maturo... Nell’epistola agli Efesini egli
(Paolo) indica come fine di tutta la cura d’anime (4, 11 segg.)
“rendere idonei i fratelli (cioè i cristiani) a compiere il
ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo: finché arriviamo
tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio,
allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena
maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più fanciulli
sballottati dalle onde (...). Al contrario, vivendo secondo la verità
nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è
il capo, Cristo”. Questa pienezza di maturità si riferisce da una
parte all’energia e alla forza di resistenza morale di fronte al
mondo dei sensi, ma d’altra parte, e quasi ancora di più, alla
solidità e all’autonomia nella conoscenza della dottrina
cristiana, che salvaguarda i singoli da errori e da false concezioni.
L’Apostolo delle Genti non è quindi fautore di quella pedagogia
miope che scorge nella subordinazione religiosa un’espressione
particolarmente chiara del «sentire cum Ecclesia» (pensare
all’unisono con la Chiesa) e che vede molto di buon occhio che il
penitente si rivolga per ogni inezia al consiglio del direttore
spirituale» (A. Adam, Spannungen und Harmonie, Kevelaer 1940, pag.
101 sg).
L’educazione
della coscienza
Noi
siamo esseri dotati di coscienza. La sentiamo come una potenza santa
e intangibile alla quale dobbiamo piegarci; come una misteriosa voce
che ci dice ciò che dobbiamo fare ed evitare, ciò che è permesso e
che non è permesso; una voce che sanziona ed approva la nostra
risoluzione e la nostra condotta o, all’opposto, la respinge, la
condanna e ci muove rimprovero ogni volta che abbiamo agito contro
questa voce interiore.
I.
La coscienza presuppone una legge, una determinata norma e regola
della condotta morale. Questa legge è, in ultima analisi,
l’espressione della volontà legiferatrice di Dio, che ci impegna e
ci vincola. Essa mi dice quello che la santa volontà di Dio esige,
oppure permette o non permette che io faccia o non faccia, che io lo
faccia in un modo o in un altro. Vi è una legge eterna e
invariabile, data da Dio, una legge che ordina e indirizza a Dio come
ultimo fine tutta la mia condotta. Questa «legge eterna» (lex
aeterna) è la prima sorgente di tutte le altre leggi, cioè della
cosiddetta legge naturale, della legge soprannaturale del Vecchio e
del Nuovo Testamento, come anche della legge umana, sia dello Stato
che della Chiesa, in cui la legge naturale e la legge soprannaturale
trovano la loro integrazione.
La
legge è la norma esteriore e oggettiva della condotta. Tuttavia
nella consapevolezza dell’uomo si è introdotta un’intima
rivelazione della legge che gli dice come in un dato momento egli
deve condursi: tale rivelazione ha luogo attraverso la coscienza.
Questa è la sentenza data dalla ragion pratica; non il giudizio su
un caso, su un dato di fatto, ma su ciò che si deve, oppure su ciò
che si può o non si può fare. Appunto perché è un giudizio della
ragion pratica, la coscienza è una atto della conoscenza spirituale.
Su questo giudizio agiscono certamente anche altre forze e altri
fattori: le varie inclinazioni e passioni, la vita istintiva, il
sentimento, la volontà; ma la coscienza, nell’intimo della sua
essenza, rimane pur sempre un atto della ragion pratica che,
illuminata dalla conoscenza e spinta da un’esigenza, ci dice ad
ogni istante come dobbiamo condurci.
La
coscienza è sacra, intangibile come un altare consacrato, un calice
consacrato. È quindi qualche cosa dinanzi a cui l’uomo deve
inchinarsi riverente. Perché è sacra? Perché essa è intimamente
collegata con il Dio santo: è la voce di Dio nel nostro interno, che
ci attira e ammonisce, ci mette in guardia e incoraggia, ci
ricompensa e castiga. Perciò la coscienza impone un obbligo, e non
un obbligo generico, ma assoluto, così che all’uomo non è
permesso di sottrarsi al suo comando o alla sua proibizione. Essa
esige e impegna con l’autorità di Dio, che parla in essa. Chi si
leva contro la propria o l’altrui coscienza, si leva contro la
maestà e il diritto sovrano di Dio. La coscienza stessa, appunto
perché sacra, si ribella contro una tale violazione.
II.
Qui tocchiamo una difficoltà che continuamente ci si para
dinanzi: la coscienza è sacra e perciò in ogni caso impegnativa,
eppure è allo stesso tempo soggetta ad errore. Se la coscienza fosse
la voce immediata di Dio non potrebbe mai errare. Il fondamento della
coscienza, cioè l’innata capacità e facilità della ragion
pratica a riconoscere i princìpi base della moralità, non è
evidentemente soggetta ad errore. Per tutti è chiaro che «Il bene
si deve fare e il male evitare». Su questo fondamento della
coscienza (synderesis), a poco a poco, mediante l’educazione,
l’esperienza, lo studio, si edifica il sapere morale (scientia
moralis come habitus) e la coscienza attuale, cioè la valutazione
attuale e il comando per la condotta personale del momento. Ma poiché
ambedue, il sapere morale e la coscienza attuale, attingono la loro
conoscenza da fonti umane passibili di errore, esse stesse sono in
vari modi soggette ad errore. Così la coscienza può essere tanto
prevenuta da un’opinione errata, da non avere la possibilità di
abbandonarla (errore insormontabile). Ma esiste anche un errore
sormontabile, cioè un errore di cui l’uomo può liberarsi con una
cura e uno sforzo adeguato. In questo caso accanto al giudizio sul
potere o non potere, sorge dal fondo dell’anima
un dubbio che la coscienza sia in errore, come un ammonimento a
riesaminare la cosa. La ragione non può quindi considerarsi
senz’altro come la voce di Dio. Cosa dobbiamo fare? Si deve
superare per quanto è possibile l’errore (sormontabile) con la
propria riflessione, chiedendo il parere di altri, con la preghiera.
Ben diverso è il caso dell’errore insormontabile. Anche qui vale
il principio che tutto ciò che non si fa con coscienza certa (cioè
con convinzione personale sicura che qualche cosa sia lecita e
giusta) è peccato (cfr Rm 14, 23). Ci si può e deve uniformare alla
coscienza insormontabilmente erronea. Per chi è in errore azioni
oggettivamente buone possono tramutarsi in moralmente cattive, azioni
oggettivamente peccaminose tramutarsi in azioni moralmente lecite,
anzi buone e doverose.
Per
agire moralmente bene si deve in ogni caso avere la sicurezza che
quello a cui ci si risolve è lecito, cioè non si deve mai agire nel
dubbio che ciò che ci si propone sia o non sia moralmente lecito.
Qualora nel giudicare se una cosa sia lecita o illecita sorgano seri
motivi tanto in favore quanto contro la legittimità di quest’azione
(dubbio positivo), allora non è permesso di agire in questo stato di
dubbio. Ci si esporrebbe infatti consapevolmente al pericolo di
peccare. Bisogna prima formarsi una coscienza sicura, cioè un
giudizio sicuro sulla legittimità o illegittimità dell’azione. Se
si riflette seriamente sulla cosa, si invoca l’aiuto di Dio
mediante la preghiera, si ricorre al consiglio e ai chiarimenti di
altri, di uomini moralmente elevati o di libri, si può generalmente
arrivare a formarsi una coscienza sicura.
III.
La coscienza è il giudizio della ragion pratica. Questa è da una
parte la ragione naturale che attinge la sua conoscenza dalla
contemplazione del mondo e della propria esistenza, e dall’altra la
ragione della fede che attinge la sua conoscenza dalla rivelazione
soprannaturale. In quanto la coscienza è una conoscenza naturale e
di fede, essa può crescere in ampiezza, profondità, chiarezza e
certezza. In quanto poi nell’attività della coscienza si tratta
specialmente di applicare verità e leggi generali ai singoli casi
pratici, è aperto ad essa un vastissimo campo di sviluppo. Ma la
coscienza nei suoi giudizi resta pur sempre sotto l’influsso del
sentimento, della volontà, della gioia o dell’angoscia, del
desiderio o della paura. Sappiamo per propria ed altrui esperienza,
quanto facilmente il sentimento e il desiderio umano potrebbero
piegare in direzione diversa da quella che la coscienza esige. Molto
dipende dal fatto che la coscienza, anche nei suoi movimenti
provocati dal sentimento e dalla volontà, sia educata nel modo più
possibilmente perfetto ad essere sincera e fedele a sé stessa.
L’educazione
della coscienza è duplice: una più negativa, in relazione con
l’esame di coscienza. Questo guarda alla colpa e al peccato, ma si
spinge anche fino all’esame dei motivi e delle radici da cui i
peccati provengono. Tuttavia chi prende con assoluta serietà la
propria vita interiore, va oltre e cerca di arrivare ad una
educazione della coscienza indirizzata positivamente e che tutto
comprenda. Questa educazione si pone come fine di elevare il sapere
morale fino alle altezze della saggezza cristiana di vita, e il senso
del dovere fino a una fedeltà e delicatezza di coscienza seria e
pronta al sacrificio. In altre parole essa vuole porre a norma della
vita cristiana l’immagine del Dio vivo, incarnato in Cristo, e la
santissima volontà di Dio.
Quest’educazione
generale della coscienza è parte integrante della formazione morale
e religiosa del cristiano. Essa si compie quasi inavvertita, senza
alcun sistema, giorno per giorno, nella preghiera, nella lettura
spirituale, nello studio della Sacra Scrittura, nella partecipazione
ai santi Sacramenti. Oggi però che molte verità etico-religiose e
norme fondamentali di vita, sotto l’assalto del modo di pensare
pagano, mondano, laicista, scristianizzato del nostro tempo, cadono
quasi necessariamente in oblio, e l’immagine viva di Dio e di
Cristo è sopraffatta e sepolta dalle sollecitudini del giorno, noi
reclamiamo un’educazione della coscienza più regolare e
sistematica.
Questa
si compie mediante un esame ordinato e profondo dello stato della
nostra coscienza. Elenchiamo i più importanti compiti della vita
cristiana in qualche schema di esame ad es. sui dieci Comandamenti di
Dio; ricordiamo però che essi debbono venire considerati anche in
base al loro contenuto positivo ed al punto di vista cristiano.
Attualmente molti preferiscono mettere in rapporto lo schema di esame
con le petizioni del Padre nostro o con il grande comandamento
dell’amore di Dio e del prossimo. Altri ancora pongono a base della
formazione della coscienza, specie per i giovani, l’idea della
gloriosa e più grande vita a cui Cristo ci chiama, e che si apre a
noi in Cristo. Il giovane cristiano gioirà contemplando lo splendore
della vita cristiana; ringrazierà il Padre per la grandezza e la
nobiltà di tutto ciò che egli, con la grazia di Dio, può operare
ed offrire. Riconoscerà anche quanto lontano egli sia dall’altezza
che qui può intravvedere. Questo riconoscimento lo renderà piccolo
ed umile dinanzi a Dio, ma sarà per lui anche uno sprone a lottare
coraggiosamente per raggiungere le altezze, fiducioso della grazia di
Dio.
Un
esame più profondo dello stato della coscienza dovrebbe essere fatto
almeno qualche volta l’anno: in determinati giorni anniversari, o
in giorni di ritiro o all’inizio dell’Avvento e della Quaresima.
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