Prima Parte
Capitolo
I
Le opere e perciò anche lo zelo sono voluti da Dio
E’
attributo della natura divina l’essere generosa. Dio è bontà
infinita e la bontà non desidera altro che diffondersi e comunicare
il bene di cui gode.
La
vita mortale del Signore non è stata altro che una manifestazione di
questa inesauribile generosità. Il Vangelo ci mostra il Redentore
che semina sul suo cammino i tesori amorosi di un Cuore avido di
attirare gli uomini alla verità e alla vita.
Quella
fiamma di apostolato, Gesù Cristo la comunicò alla Chiesa che è un
dono del suo amore, diffusione della sua vita, manifestazione della
sua verità, splendore della sua santità. Animata dallo stesso
fuoco, la mistica Sposa di Cristo continua, lungo il corso dei
secoli, l’opera d’apostolato del suo divino Modello.
O
ammirabile disegno e universale legge stabilita dalla divina
Provvidenza! L’uomo deve conoscere la via della salute per mezzo
dell’uomo [1].
Soltanto Gesù Cristo ha versato il Sangue che riscatta il mondo;
Egli solo avrebbe potuto conferirgli la virtù di agire
immediatamente sulle anime, come fa attraverso l’Eucarestia; ma
Egli ha voluto eleggersi dei cooperatori per diffondere i suoi
benefici. Per quale ragione? Certamente perché così l’esigeva la
Maestà Divina, ma non meno lo spingevano le sue tenerezze verso
l’uomo. Se al più grande dei monarchi è conveniente governare
solitamente per mezzo di ministri, quale condiscendenza da parte di
Dio, nel degnarsi di associare povere creature alle sue opere e alla
sua gloria!
Nata
sulla Croce, sgorgata dal costato trafitto di Cristo, la Chiesa
perpetua col ministero apostolico l’opera benefica e redentrice
dell’Uomo-Dio. Questo ministero voluto da Cristo diventa così il
fattore essenziale della diffusione della Chiesa tra le nazioni e lo
strumento il più ordinario delle sue conquiste.
In
questo apostolato figura in prima fila il clero, la cui gerarchia
forma i quadri dell’esercito di Cristo; clero illustrato da tanti
Vescovi e Sacerdoti santi e pieni di zelo, ed onorato così
gloriosamente dalla recente beatificazione del santo Curato d’Ars.
A
fianco di questo clero ufficiale, fin dalle origini del Cristianesimo
sorsero compagnie di volontari, veri corpi scelti, la cui fioritura
perenne e rigogliosa costituirà sempre uno dei fenomeni più
evidenti della vitalità della Chiesa.
Nei
primi secoli nacquero anzitutto gli Ordini Contemplativi, la cui
preghiera incessante e le macerazioni più dure tanto contribuirono
alla conversione delle genti pagane. Nel medioevo sorsero gli Ordini
Predicatori, gli Ordini Mendicanti, gli Ordini Militari, gli Ordini
che si votano all’eroica missione di riscattare i prigionieri dalle
mani degli infedeli. I tempi moderni infine hanno visto sorgere una
vera moltitudine di Milizie insegnanti, Istituti, Società di
Missionari, Congregazioni di ogni specie, che mirano a diffondere il
bene spirituale e corporale sotto tutte le forme.
Inoltre,
in ogni epoca della sua storia, la Chiesa ha sempre trovato preziosi
collaboratori nei semplici fedeli, come quei ferventi cattolici
divenuti oggi una legione, gli «uomini d’azione» – per usare
l’espressione consacrata – dal cuore ardente che, riuscendo ad
unire le loro forze, mettono al servizio della nostra Madre comune,
senza alcuna riserva, tempo, capacità, beni, immolando spesso la
propria libertà e non di rado versando il proprio sangue.
E’
veramente uno spettacolo mirabile e confortante questa provvidenziale
fioritura di opere che nascono a tempo dovuto e sempre
meravigliosamente adatte alle circostanze. La storia della Chiesa lo
dimostra: ogni nuovo bisogno da soddisfare, ogni pericolo da
scongiurare ha visto immancabilmente sorgere l’istituzione
richiesta dalle necessità del tempo.
Ed
anche oggi, a mali di particolare gravità, vediamo opporsi una
moltitudine di opere ieri appena conosciute: Catechismi in
preparazione alla prima Comunione, Catechismi di perseveranza,
Catechismi per i fanciulli abbandonati, Congregazioni, Confraternite,
Riunioni e Ritiri per uomini e giovani, per signore e ragazze,
Apostolato della preghiera, Apostolato della carità, Leghe per il
riposo festivo, Patronati, Circoli cattolici, Opere militari, Scuole
libere, Buona stampa eccetera: tutte forme di apostolato suscitate da
quello spirito che infiammava l’anima di S. Paolo – «In quanto a
me ben volentieri sacrificherò del mio, anzi tutto me stesso, per le
anime vostre» (2 Cor., 12, 15) – e che vuol diffondere ovunque i
benefici del sangue di Gesù Cristo.
Possano
queste umili pagine giungere a quei soldati che, pieni di zelo ed
ardore per la loro nobile missione, proprio a causa dell’attività
svolta, si espongono al pericolo di non essere prima di tutto uomini
di vita interiore e che, se venissero puniti un giorno con insuccessi
in apparenza inesplicabili, come pure da gravi danni spirituali,
potrebbero essere tentati di abbandonare la lotta e ritirarsi
scoraggiati sotto la tenda.
I
pensieri sviluppati in questo libro furono anche a me di grande aiuto
per lottare contro il perdersi nell’azione esteriore. Possano essi
evitare ad alcuni le delusioni e guidare meglio il loro coraggio,
mostrando a loro che il Dio delle opere non dev’essere mai
abbandonato per fare le opere di Dio, e che il motto «Guai a me, se
non avrò evangelizzato» (1 Cor., 4, 16) non ci dà mai il diritto
di dimenticare quest’altro: «Che giova all’uomo guadagnare fosse
anche tutto il mondo, se poi perde la propria anima?» (Mt. 16, 25)
I
padri e le madri di famiglia, per i quali il libro Introduzione alla
vita devota [2] non
è ormai sorpassato, gli sposi cristiani che si considerano
vicendevolmente obbligati ad un apostolato che esercitano nel tempo
stesso verso i propri figli per formarli all’amore e all’imitazione
del Salvatore, possono applicare anche a loro stessi l’insegnamento
di queste modeste pagine. Possano anch’essi meglio comprendere la
necessità d’una vita non solo pia ma anche interiore, per rendere
efficace il loro zelo e imbalsamare la loro casa con lo spirito di
Cristo e con quella pace inalterabile che, nonostante tutte le prove,
sarà sempre la caratteristica delle famiglie profondamente
cristiane.
Capitolo
II
Dio vuole che Gesù sia la Vita delle opere
La
scienza va giustamente fiera delle sue enormi conquiste. Ma una cosa
le fu finora e le sarà per sempre impossibile: creare la vita, far
uscire dal laboratorio chimico un chicco di frumento o una larva. Il
clamoroso fallimento dei difensori della generazione spontanea ci ha
istruito su tale pretesa. Iddio riserva per sé il potere di creare
la vita.
Nel
regno vegetale od animale, gli esseri viventi possono crescere e
moltiplicarsi, sebbene la loro fecondità si realizzi solo nelle
condizioni stabilite dal Creatore. Quando però si tratta della vita
intellettuale, Dio la riserva a sé ed è Lui stesso che crea
direttamente l’anima ragionevole. V’è tuttavia un altro ordine
di cui è ancora più geloso ed è quello della vita soprannaturale,
poiché essa è emanazione della Vita divina comunicata all’Umanità
dal Verbo Incarnato.
L’Incarnazione
e la Redenzione stabiliscono Gesù Cristo come Sorgente, e Sorgente
unica, di quella vita divina alla quale tutti gli uomini sono
chiamati a partecipare. «Per il Signore nostro Gesù Cristo: per
Lui, con Lui ed in Lui» (dalla Liturgia). Il compito essenziale
della Chiesa sta nel diffondere questa vita mediante i Sacramenti, la
preghiera, la predicazione e tutte le opere che vi si connettono.
Dio
non fa nulla se non mediante suo Figlio: «Tutto è stato fatto per
mezzo di Lui, e senza di Lui non è stato fatto nulla di ciò che
esiste» (Gv. 1, 3). Ciò è vero nell’ordine naturale, ma molto di
più nell’ordine soprannaturale, dove si tratta di comunicare la
sua vita intima e di far partecipare agli uomini la sua natura
trasformandoli in figli di Dio.
«Sono
venuto affinchè ricevessero la vita. Io sono la vita. In Lui era la
vita» (Gv. 10, 10; Gv. 14, 6; Gv. 1, 4). Che precisione in queste
parole! Quanta luce nella parabola della vite e dei tralci, in cui il
Maestro sviluppa questa verità! Quanta insistenza per imprimere
nello spirito dei suoi Apostoli questo principio fondamentale – Lui
solo, Gesù, è la Vita – e questa conseguenza: per partecipare a
questa vita e comunicarla agli altri, essi per primi devono essere
innestati sull’Uomo-Dio!
Gli
uomini chiamati all’onore di cooperare col Salvatore per
trasmettere alle anime questa vita divina, devono perciò
considerarsi come semplici canali incaricati di attingere a questa
unica Sorgente.
L’uomo
apostolico che, misconoscendo questi principi, credesse di produrre
il minimo vestigio di vita soprannaturale senza attingerla totalmente
dal Cristo, farebbe pensare che la sua ignoranza teologica sia pari
solo alla sua sciocca presunzione.
Se
l’apostolo, pur riconoscendo in teoria che il Redentore è la causa
primordiale di ogni vita divina, in pratica però dimenticasse tale
verità e, accecato da una folle presunzione che è un’ingiuria
verso Gesù Cristo, facesse affidamento soltanto sulle proprie forze,
sarebbe un disordine meno grave del precedente, ma sempre
insopportabile agli occhi di Dio.
Respingere
la verità o farne a meno nell’agire, è pur sempre un disordine
intellettuale, sia esso dottrinale o pratico. E’ la negazione di un
principio che deve informare la nostra condotta. Il disordine si
aggraverà, evidentemente, se la verità, invece di potersi
irraggiare, trova il cuore dell’uomo di azione in opposizione al
Dio di ogni luce, per colpa del peccato o per tiepidezza volontaria.
Il
comportamento di chi si occupa delle opere come se Gesù non fosse
l’unico principio di vita, veniva bollato dal cardinale Mermillod
come «eresia dell’azione». Con tale espressione, egli condannava
l’aberrazione d’un apostolo il quale, dimenticando che il suo
ruolo è secondario e subordinato, si attende i successi del suo
apostolato unicamente dalla sua attività personale e dalle sue
capacità. Non è questo una negazione pratica di una gran parte del
Tractatus de Gratia? Ripugna a prima vista una simile conseguenza, ma
a ben pensarci è fin troppo vera.
«Eresia
dell’azione»! L’attività febbrile che si sostituisce all’azione
di Dio; la Grazia misconosciuta; l’orgoglio umano che vuole
detronizzare Gesù Cristo; la vita soprannaturale, la potenza della
preghiera e l’economia della Redenzione relegate, almeno
praticamente, fra le astrazioni: sono un caso tutt’altro che
immaginario e che la conoscenza delle anime rivela essere
frequentissimo, benché in gradi diversi, in questo secolo di
naturalismo, in cui l’uomo giudica soprattutto in base alle
apparenze ed agisce come se il successo di un’opera dipendesse
principalmente da un’ingegnosa organizzazione.
Anche
prescindendo dalla Rivelazione, al solo lume della filosofia, non si
potrebbe che commiserare un uomo mirabilmente dotato, che si
rifiutasse di riconoscere Dio come il principio dei magnifici talenti
di cui è dotato.
Cosa
proverebbe un cattolico istruito nella religione, vedendo un apostolo
che ostenta, almeno implicitamente, la pretesa di comunicare alle
anime il sia pur minimo grado di vita divina, facendo a meno di Dio?
«Ah,
insensato!», esclameremmo nell’ascoltare un operaio evangelico che
osasse dire: «Mio Dio, non suscitate ostacoli alla mia impresa, non
venite ad intralciarla, ed io m’incaricherò di condurla a buon
fine».
Il
nostro sentimento sarebbe soltanto un riflesso dell’avversione
provata da Dio alla vista di un tale disordine, alla vista di un
presuntuoso che spingesse il suo orgoglio fino a voler dare la vita
soprannaturale, produrre la fede, debellare il peccato, condurre alla
virtù, infervorare le anime con le sole forze proprie e senza
attribuire tali effetti all’azione diretta, costante, universale e
sovrabbondante del Sangue divino, ch’è il prezzo, la causa e il
mezzo di ogni grazia e d’ogni vita spirituale.
Per
riguardo all’Umanità di suo Figlio, Dio deve confondere questi
falsi cristi paralizzando le loro opere di superbia o permettendo
ch’esse ottengano soltanto miraggi effimeri.
Fatta
eccezione per tutto quello che agisce sulle anime ex opere operato, e
sempre per un riguardo dovuto al Redentore, Dio deve privare
l’apostolo pieno di sufficienza delle sue migliori benedizioni, per
darle al tralcio che umilmente riconosce di trarre la sua linfa
vitale dalla sola Vite divina. Altrimenti, se Dio benedicesse con
risultati profondi e duraturi un’attività infetta da quel virus
che abbiamo chiamato «eresia dell’azione», sembrerebbe che egli
stesso incoraggiasse tale disordine e ne permettesse il contagio.
Capitolo
III
Che cosa è la Vita interiore?
Come
nella Imitazione di Cristo [3],
anche in questo libro le espressioni «vita d’orazione» e «vita
contemplativa» vengono applicate allo stato di quelle anime che si
dedicano seriamente ad una vita cristiana non comune, ma tuttavia
accessibile a tutti e, nella sostanza, obbligatoria per tutti.4
Pur
senza attardarci in uno studio di ascetica, ci limitiamo a richiamare
ciò che ognuno è obbligato ad accettare come assolutamente certo
per il governo intimo della sua anima.
Prima
Verità. – La vita soprannaturale è, in me, la vita di Gesù
Cristo medesimo, mediante la fede, la speranza e la carità, perché
Gesù è la causa meritoria esemplare e finale e, in qualità di
Verbo, in unione col Padre e lo Spirito Santo, è la causa efficiente
della grazia santificante nelle anime nostre.
La
presenza del Signore per mezzo di questa vita soprannaturale non è
la presenza reale propria della santa Comunione, ma una presenza
d’azione vitale, come l’azione della testa e del cuore sulle
altre membra. Azione intima che Dio nasconde di solito alla mia anima
per aumentare il merito della mia fede; azione pertanto abitualmente
insensibile alle mie facoltà naturali, e che solo la fede mi impone
di credere per obbligo; azione divina che preserva il mio libero
arbitrio, e si serve di tutte le cause seconde – avvenimenti,
persone e cose – per portarmi alla conoscenza della volontà di Dio
e per offrirmi l’occasione d’acquistare ed accrescere la mia
partecipazione alla vita divina.
Questa
vita, iniziata nel Battesimo con lo stato di grazia, perfezionata
dalla Cresima, ricuperata con la Penitenza, sostenuta e arricchita
con l’Eucarestia, è la mia Vita cristiana.
Seconda
Verità. – Per mezzo di questa vita, Gesù Cristo mi comunica il
suo Spirito, divenendo così un principio di attività superiore che,
se non l’ostacolo, mi porta a pensare, a giudicare, ad amare, a
volere, a soffrire, a lavorare con Lui, in Lui, mediante Lui e come
Lui. Le mie azioni esteriori diventano la manifestazione della vita
di Gesù in me ed in tal modo io tendo a realizzare l’ideale della
vita interiore formulato da san Paolo: «Non sono più io che vivo,
ma è Cristo che vive in me» (Gal. 2, 20).
Vita
cristiana, pietà, vita interiore, santità, non sono cose
essenzialmente diverse, ma gradi di un medesimo amore; sono il
crepuscolo, l’aurora, la luce, lo splendore di un medesimo sole.
Quando
in questo libro usiamo l’espressione «vita interiore», non
intendiamo tanto la vita interiore abituale, cioè – se così
possiamo esprimerci – «il capitale della vita divina» che è in
noi con la grazia santificante; intendiamo piuttosto la vita
interiore attuale, ossia la valorizzazione di questo capitale con
l’attività dell’anima e la sua fedeltà alle grazie attuali.
Posso
pertanto così definire la vita interiore: lo stato di attività di
un’anima che reagisce per regolare le sue naturali inclinazioni, e
si sforza d’acquistare l’abitudine di giudicare e governarsi in
tutto secondo le luci del Vangelo e gli esempi di Nostro Signore.
Ci
sono dunque due movimenti. Col primo, l’anima si allontana da ciò
che il creato può avere in opposizione alla vita soprannaturale e
cerca di essere continuamente presente a se stessa: aversio a
creaturis. Col secondo, l’anima va verso Dio per unirsi a Lui:
conversio ad Deum.
Quest’anima
vuole perciò essere fedele alla grazia che il Signore le offre in
ogni momento; in una parola, vive unita a Gesù e realizza in se
stessa le parole: «Se uno rimane in me e io in lui, costui porta
gran frutto» (Gv. 15, 4).
Terza
Verità. – Io mi priverei di uno dei più potenti mezzi per
acquistare la vita interiore, se non mi sforzassi di avere una fede
precisa e certa di questa presenza attiva di Cristo in me, e
soprattutto di ottenere che tale presenza sia per me una realtà
viva, anzi vivissima, che penetri sempre più l’atmosfera delle mie
facoltà. Se Gesù diventasse la mia luce, il mio ideale, il mio
consigliere, il mio appoggio, il mio rifugio, la mia forza, il mio
medico, il mio conforto, la mia gioia, il mio amore, insomma tutta la
mia vita, allora io acquisterei tutte le virtù. Soltanto allora
potrò sinceramente recitare quella mirabile preghiera di san
Bonaventura proposta dalla Chiesa ai Sacerdoti come ringraziamento
dopo la santa Messa: «Transfige, dulcissime Domine Jesu...» [5]
Quarta
Verità. – In proporzione all’intensità del mio amore per Dio,
la mia vita soprannaturale può crescere in ogni momento mediante una
nuova infusione della grazia della presenza attiva di Gesù Cristo in
me, infusione che è prodotta:
1)
in occasione di atti meritori, cioè virtù, lavoro, patimenti nelle
loro varie forme, privazioni di creature, dolore fisico o morale,
umiliazione, abnegazione, preghiera, Messa, atti di devozione verso
Maria Santissima, eccetera;
2)
dai Sacramenti ed in special modo dall’Eucarestia.
E’
dunque certo – e questa conseguenza mi schiaccia con la sua
sublimità e profondità, ma più ancora mi dà gioia e coraggio –
è dunque certo che per mezzo di ogni avvenimento, persona o cosa,
siete Voi, o Gesù, Voi stesso, che vi presentate oggettivamente a me
in ogni istante. Sotto quelle apparenze, Voi nascondete la vostra
sapienza ed il vostro amore e sollecitate la mia cooperazione per
accrescere la vostra Vita in me.
O
anima mia, Gesù si presenta ogni volta a te per mezzo della grazia
del momento presente, della preghiera da dire, della Messa da
celebrare o da ascoltare, della lettura da fare, degli atti di
pazienza, di zelo, di rinunzia, di lotta, di confidenza, di amore da
compiere. Oseresti tu voltare la faccia o sottrarti?
Quinta
verità. – Causata dal Peccato originale ed accresciuta da ciascuno
dei miei peccati attuali, la triplice concupiscenza depone in me
germi di morte, opposti alla vita di Gesù. Ora, nella stessa misura
con cui tali germi si sviluppano, essi diminuiscono l’esercizio di
questa vita e possono anche arrivare, ahimé, a sopprimerla.
Tuttavia,
né inclinazioni, né sentimenti contrari a questa vita, né
tentazioni per quanto violente e prolungate possono recarle danno,
finché la mia volontà oppone resistenza. Anzi, e questa è una
verità consolante, in proporzione del mio zelo, essi contribuiscono
ad aumentarla come ogni altro elemento di lotta spirituale.
Sesta
Verità. – Senza l’uso fedele di mezzi determinati, la mia
intelligenza si acciecherà e la mia volontà diventerà troppo
debole per cooperare con Gesù alla crescita o perfino al
mantenimento della sua vita in me. Allora avviene una diminuzione
progressiva di questa vita ed io m’incammino verso la tiepidezza
della volontà [6].
Per dissipazione, per mollezza, per illusione o per acciecamento,
vengo a patti col peccato veniale, e siccome questo dispone
facilmente a cadere nel peccato mortale, divento quindi incerto della
mia salvezza.
Se
io avessi la disgrazia di cadere in questa tiepidezza (e a maggior
ragione se cadessi più in basso) dovrei prendere ogni mezzo per
uscirne: cioè
1)
ravvivare il timor di Dio, riflettendo profondamente sul mio fine,
sulla mia morte, sul giudizio di Dio, sull’inferno, sull’eternità,
sul peccato, eccetera;
2)
ravvivare la compunzione mediante la conoscenza amorosa delle vostre
piaghe, o misericordioso Redentore. Con lo spirito sul Calvario, mi
getterò ai vostri santi piedi, perché il vostro Sangue vivo,
colando sulla mia testa e sul mio cuore, dissipi il mio acciecamento,
sciolga il ghiaccio della mia anima e scuota il torpore della mia
volontà.
Settima
Verità. – Devo seriamente temere di non avere il grado di vita
interiore che Gesù esige da me:
1)
se tralascio di accrescere la sete di vivere di Gesù, sete che mi dà
il desiderio di piacere in tutto a Dio ed il timore di dispiacergli
in qualche modo. Ora questo avviene certamente se non faccio più uso
dei mezzi che sono la preghiera del mattino, la Messa, i Sacramenti e
l’Ufficio, gli esami di coscienza, particolare e generale, la
lettura spirituale, oppure se per mia colpa essi non m’apportano
più alcun profitto;
2)
se non ho più quel minimo di raccoglimento che mi permetta, durante
le mie occupazioni, di conservare il mio cuore in una purità e
generosità sufficiente perché non sia soffocata la voce di Gesù,
che mi mette in guardia dai fattori di morte che si presentano e
m’invita a combatterli. Questo raccoglimento mi verrà a mancare,
se io non uso i mezzi atti ad assicurarlo: e cioè vita liturgica,
giaculatorie specialmente in forma di supplica, comunioni spirituali,
esercizio della presenza di Dio, ecc.
Se
manca questo raccoglimento, i peccati veniali verranno a pullulare
nella mia vita, senza che nemmeno me ne renda conto. Per nasconderli,
o perfino per non lasciar trasparire uno stato ancor più
lacrimevole, l’illusione si servirà dell’apparenza di una pietà
più speculativa che pratica, dello zelo per le opere d’apostolato
ecc. Il mio accecamento sarà colpevole perché, con la mancanza del
necessario raccoglimento, io ne avrò posta e mantenuta la causa.
Ottava
Verità. – La mia vita interiore sarà proporzionata alla custodia
del cuore: «Con ogni cura custodisci il tuo cuore, perché da ciò
procede la vita» (Pv. 4, 23).
La
custodia del cuore altro non è che l’abituale o almeno frequente
sollecitudine di preservare tutti i miei atti, man mano che si
presentano, da tutto ciò che potrebbe viziarli nel loro movente o
nella loro esecuzione.
Sollecitudine
calma, tranquilla, senza sforzo, ma anche energica e basata sul
ricorso filiale a Dio. Questo è più un lavoro del cuore e della
volontà che non della mente, la quale deve rimanere libera per
compiere i suoi doveri. Lungi dal contrastare l’azione, la custodia
del cuore la rende più perfetta, regolandola secondo lo spirito di
Dio e mettendone a fuoco i doveri di stato.
Tale
esercizio lo si può praticare in ogni momento; è come lo sguardo
del cuore sulle azioni presenti ed un’attenzione moderata sulle
diverse parti di un’azione che si sta compiendo. E’ l’osservanza
esatta del motto «Age quod agis» (fai con cura quel che devi fare).
Simile a vigile sentinella, esercita la sua vigilanza su tutti i
movimenti del cuore, su tutto ciò che passa nel suo interno –
impressioni, intenzioni, passioni, inclinazioni – insomma su tutti
i suoi atti interni ed esterni, pensieri, parole, azioni.
La
custodia del cuore esige un certo raccoglimento che non può
realizzarsi in un’anima dissipata. Soltanto con la frequenza di
questo esercizio se ne acquista l’abitudine.
«Quo
vadam ed ad quid?» Dove sto andando e a che scopo? Cosa farebbe
Gesù, come si comporterebbe al mio posto? Cosa mi consiglierebbe?
Cosa mi chiede in questo momento? Tali sono le domande che vengono
spontaneamente in mente all’anima avida di vita interiore.
Per
l’anima che va a Gesù mediante Maria, questa custodia del cuore
acquista un carattere ancor più facilmente affettivo e ricorrere a
questa buona Madre diviene un bisogno incessante del suo cuore.
Nona
Verità. – Gesù Cristo regna nell’anima quando essa aspira ad
imitarlo seriamente, in ogni cosa e con affetto. In questa imitazione
vi sono due gradi:
1)
L’anima si sforza di diventare indifferente alle creature in se
stesse, siano esse conformi o contrarie ai suoi gusti. Sull’esempio
di Gesù, in tutte le cose non accetta altra legge che la volontà di
Dio: «Sono disceso dal Cielo per fare non la mia volontà, ma la
volontà di Colui che mi ha inviato» (Gv. 6, 38).
2)
«Cristo non cercò la propria soddisfazione» (Rom. 15, 3). L’anima
tende più volentieri a ciò che è contrario e ripugna alla natura.
Essa allora mette in pratica l’ «agendo contra» di cui parla
Sant’Ignazio nella celebre meditazione sul Regno di Cristo [7],
è l’azione contro la natura per andare di preferenza a ciò che
imita la povertà del Salvatore e il suo amore per le sofferenze e le
umiliazioni. Allora l’anima, secondo la parola di San Paolo,
conosce veramente Cristo: «Didicistis Christum» (Ef. 4, 20).
Decima
Verità. – In qualunque stato io mi trovi, se voglio pregare e
diventare fedele alla sua grazia, Gesù mi offre tutti i mezzi per
ritornare ad una vita interiore che mi restituisca la sua intimità e
mi permetta di sviluppare la sua vita in me. Allora, nel progredire,
l’anima non cesserà di possedere la gioia anche in mezzo alle
prove e si realizzeranno in lei quelle parole di Isaia: «Allora la
tua luce spunterà come l’aurora, presto verrà la tua guarigione,
ti preverrà la tua giustizia e la gloria del Signore ti proteggerà.
Allora tu pregherai e il Signore ti risponderà; appena alzerai la
voce, egli dirà: Eccomi! (...) E il Signore ti darà eterno riposo e
inonderà la tua anima di splendori, e darà vigore alle tue ossa, e
tu sarai come un giardino irrigato e come una fontana di acqua viva
alla quale non mancheranno mai zampilli» (Is. 58, 8-11).
Undicesima
Verità. – Se Dio mi chiede di applicarmi non solo alla mia
santificazione, ma anche alle opere di apostolato, dovrò prima di
tutto formarmi nell’anima questa ferma convinzione: Gesù deve e
vuole essere la vita di queste opere.
I
miei sforzi, da soli, non sono nulla, assolutamente nulla: «Senza di
me non potere far nulla» (Gv. 15, 5); essi non saranno né utili né
benedetti da Dio, se non li unisco costantemente all’azione
vivificante di Gesù mediante una vera vita interiore. Essi
diventeranno allora onnipotenti: «Tutto posso, in Colui che mi dà
forza» (Fil. 4, 13). Ma se questi sforzi provenissero da
un’orgogliosa autosufficienza, dalla fiducia nei miei talenti e dal
desiderio del successo, i miei sforzi sarebbero rigettati da Dio. Non
sarebbe infatti una sacrilega follia da parte mia, se volessi rubare
a Dio, per farmene bello, un poco della sua gloria?
Ben
lungi dal rendermi pusillanime, tale convinzione sarà la mia forza.
E come mi farà sentire il bisogno della preghiera per ottenere
questa umiltà, tesoro per l’anima mia, sicurezza dell’aiuto di
Dio e caparra di successo per le mie opere!
Penetrato
dall’importanza di questo principio, mi esaminerò
coscienziosamente nei giorni di ritiro, per verificare se non si è
indebolita la convinzione che la mia azione è nulla quando è sola
ma è forte quando è unita a quella di Gesù Cristo, se escludo
spietatamente ogni compiacenza, ogni vanità ed ogni ripiegamento su
me stesso nella mia vita di apostolo, se mi mantengo in un’assoluta
diffidenza di me stesso, e se prego Dio di vivificare ogni mia opera
e di preservarmi dall’orgoglio, ch’è il primo e principale
ostacolo al suo aiuto.
Questo
credo della vita interiore, una volta divenuto per l’anima la base
della sua esistenza, le assicura fin da questa vita una
partecipazione alla felicità celeste.
Vita
interiore, vita di predestinati. Essa corrisponde al fine che Dio si
è proposto nel crearci [8],
ma corrisponde anche al fine dell’Incarnazione:
«Dio
inviò nel mondo il Suo Figlio unigenito, affinché viviamo per Lui»
(1 Gv., 4, 9).
E’
uno stato di beatitudine: «Il fine della creatura umana consiste
nell’unirsi a Dio; in questo infatti consiste la sua felicità»
(San Tommaso d’Aquino).
Al
contrario delle gioie mondane, se fuori ci sono le spine, dentro ci
sono le rose. «Come sono da compiangere i poveri mondani!»,
esclamava il santo curato d’Ars. Essi portano sulle spalle un
mantello foderato di spine e non possono fare una mossa senza
pungersi. I veri cristiani invece portano un mantello foderato di
pelle di coniglio. «Si guarda la Croce, ma non si vede l’unzione»
(San Bernardo).
E’
uno stato celeste in cui l’anima diventa un cielo vivente [9].
Con santa Margherita Alacoque si può dire: «In ogni tempo posseggo
e in ogni luogo porto il Dio del mio cuore e il cuore del mio Dio».
E’
il principio della beatitudine: «Una certa qual anticipazione
dell’eterna beatitudine»10. La grazia è il Cielo in germe.
Capitolo
IV
Quanto sia misconosciuta questa vita interiore
San
Gregorio Magno, che fu tanto esperto amministratore ed apostolo
zelante quanto grande contemplativo, con questa semplice espressione:
«Secum vivebat» – egli viveva presso di sé – caratterizza lo
stato d’animo di san Benedetto mentre gettava a Subiaco le basi
della sua Regola, divenuta ben presto una fra le più potenti leve
d’apostolato di cui Dio si è servito sulla terra.
Della
maggior parte dei contemporanei bisogna dire il contrario. Vivere
presso di sé, in se stesso, voler governare se stesso, non lasciarsi
governare dalle cose esteriori, ridurre l’immaginazione, la
sensibilità, perfino l’intelligenza e la memoria al ruolo di servi
della volontà e conformare costantemente questa volontà a quella di
Dio, è un programma che si accetta sempre meno, in questo secolo di
agitazioni che ha visto nascere un nuovo ideale: l’amore
dell’azione per l’azione.
Per
eludere questa disciplina delle facoltà, tutti i pretesti sono
buoni: affari, sollecitudine per la famiglia, igiene, buon nome, amor
patrio, prestigio della categoria, pretesa gloria di Dio, fanno a
gara per impedirci di vivere in noi stessi. Questa specie di delirio
della vita esteriore giunge anche ad esercitare su noi una
irresistibile attrattiva.
Come
stupirsi, allora, se la vita interiore è misconosciuta?
Ma
dire misconosciuta è troppo poco; essa viene spesso disprezzata e
ridicolizzata proprio da coloro che più di tutti dovrebbero
apprezzarne i vantaggi e la necessità. Per protestare contro le
pericolose conseguenze d’un’ammirazione esclusiva per le opere,
fu necessaria la citata memorabile lettera inviata da Leone XIII al
Card. Gibbons, arcivescovo di Baltimora.
Per
evitare il lavoro della vita interiore, l’uomo di chiesa giunge al
punto di misconoscere l’eccellenza della vita con Cristo, in
Cristo, per mezzo di Cristo, dimenticando che, nel piano della
Redenzione, tutto si fonda sulla vita eucaristica, tanto quanto
poggia sulla rocca di Pietro. Relegare in second’ordine ciò che è
essenziale, è appunto quanto inconsciamente compiono i partigiani di
quella spiritualità moderna chiamata Americanismo.
Costoro
non giungono a considerare le chiese come templi protestanti, per
loro il tabernacolo non è ancor vuoto, ma la vita eucaristica non
sarebbe più sufficiente né adatta alle esigenze della civiltà
moderna; la vita interiore, che deriva necessariamente dalla vita
eucaristica, avrebbe ormai fatto il suo tempo.
Per
le persone imbevute di tali teorie – e sono una legione – la
Comunione ha perduto quel vero senso che aveva per i primi cristiani.
Credono ancora nell’Eucaristia, ma non ci vedono più un elemento
di vita così necessario tanto per loro che per le loro opere. Non
c’è perciò da stupirsi se, non esistendo più per essi l’incontro
intimo con Gesù-Ostia, la vita interiore sia considerata come un
ricordo del medioevo.
In
verità, a sentir parlare questi uomini d’azione delle loro opere,
ci sarebbe quasi da credere che l’Onnipotente, il quale creò il
mondo come per gioco e dinanzi al quale l’universo non è che
polvere e nulla, non possa fare a meno del loro collaborazione! Molti
cristiani ed anche alcuni sacerdoti e religiosi, attraverso il culto
dell’azione, giungono inavvertitamente a formarsene una specie di
dogma che ispira la loro condotta e le loro azioni e li spinge ad
abbandonarsi sfrenatamente ad una vita esteriore.
Si
vorrebbe poter dire: «la Chiesa, la diocesi, la parrocchia, la
congregazione, le opere di apostolato hanno bisogno di me... Io sono
più che utile a Dio». Anche se non si arriva ad esprimere
apertamente simile vanità, ci sono però nascosti nel fondo del
cuore la presunzione che ne è la base e l’attenuazione di fede che
l’ha generata.
Sovente
si ordina al nevrastenico di astenersi, magari per molto tempo, da
ogni occupazione; ma questo è per lui un rimedio insopportabile,
appunto perché la sua malattia lo mette in un’agitazione febbrile
che diventa come una seconda natura e lo spinge a cercare
instancabilmente nuovi dispendi di forze e nuove emozioni che
aggravano il suo male.
Altrettanto
avviene spesso all’uomo di azione riguardo alla vita interiore.
Egli la disprezza, anzi ne sente maggior ripugnanza appunto perché
solo nella sua pratica si trova il remedio del suo stato morboso;
anzi, cercando di stordirsi sempre più con una valanga di lavori
crescenti e disordinati, egli scarta ogni possibilità di guarigione.
La
nave corre a tutto vapore; ma se il pilota si compiace della
velocità, Dio invece giudica che quella nave, priva di un saggio
timoniere, sta andando all’avventura e rischia di rovinarsi.
«Adoratori in spirito e verità»: ecco ciò che Nostro Signore
innanzitutto reclama. L’Americanismo invece pretende di dare
maggior gloria a Dio puntando principalmente ai risultati esteriori.
Questo
stato d’animo dimostra che, se oggi sono ancora apprezzate le
scuole, i dispensari, le missioni e gli ospedali, è sempre meno
compresa l’abnegazione nella sua forma intima, cioè nella
penitenza e nella preghiera. Colui che non sa più credere al valore
dell’immolazione nascosta, non si accontenterà di trattare da vili
e visionari quelli che la praticano nella solitudine del chiostro, –
i quali invece non dimostrano minor ardore per la salvezza delle
anime che i più infaticabili missionari – ma giungerà a
ridicolizzare anche quegli apostoli che ritengono indispensabile
sottrarre qualche momento alle occupazioni, anche a quelle più
utili, per andare a purificare e riaccendere il loro zelo davanti al
Tabernacolo e così ottenere dall’Ospite divino i migliori
risultati alle loro fatiche.
Capitolo
V
Risposta ad una prima obiezione: la vita interiore è oziosa?
Questo
libro è rivolto unicamente agli uomini d’azione animati dal
desiderio ardente di dedicarsi all’apostolato, ma esposti al
pericolo di trascurare i mezzi necessari affinché la loro dedizione
sia feconda per le anime senza diventare un dissolvente della loro
vita interiore.
Non
è nostro scopo stimolare i pretesi apostoli che hanno il culto del
riposo, né scuotere le anime illuse dall’egoismo, che fa loro
vedere nell’ozio un mezzo che favorisce la pietà, e neppure
intendiamo smuovere l’indifferenza di quegli indolenti ed
addormentati che, nella speranza di ottenere vantaggi ed onori,
accettano di dare il loro nome a determinate opere purché non sia
turbata la loro pace ed il loro ideale di tranquillità: per costoro
ci vorrebbe ben altro libro.
Lasciamo
ad altri l’incarico di far comprendere a questa categoria di
apatici la responsabilità d’una esistenza che Dio voleva attiva e
che il demonio, d’accordo con la natura, rende sterile per mancanza
di attività e di zelo, e torniamo a rivolgerci ai venerabili
fratelli cui vogliamo riservare queste pagine.
Nessun
termine di paragone può riflettere la infinita intensità
dell’attività che si svolge in seno a Dio. La vita interiore del
Padre è tale che genera una Persona divina; dalla vita interiore del
Padre e del Figlio procede lo Spirito Santo.
La
vita interiore comunicata agli Apostoli nel Cenacolo, accese subito
in loro la fiamma dello zelo.
Per
chiunque abbia istruzione e non si sforzi di snaturarla, questa vita
interiore è un principio di abnegazione.
E
se anche non si rivelasse con manifestazioni esteriori, la vita di
preghiera è in sé ed intimamente una sorgente di attività che non
può essere paragonata a nessun’altra. Non vi è nulla di più
falso del considerarla come una specie di oasi in cui ci si possa
rifugiare per trascorrervi pigramente l’esistenza. Basta che essa
sia la via più breve che porta al Regno dei Cieli, perché le si
possano applicare in modo speciale quelle parole: «Il Regno dei
Cieli lo si ottiene con la forza e sono i violenti a conquistarselo»
(Mt. 11, 12).
Don
Sebastiano Wyart, il quale aveva conosciuto il lavoro dell’asceta e
le lotte del militare, la fatica dello studio e le cure inerenti alla
carica di superiore, soleva dire che vi sono tre specie di lavoro:
a)
Il lavoro quasi esclusivamente fisico di coloro che esercitano un
mestiere manuale – di contadino, di artigiano, di soldato -;
comunque si pensi, diceva, questo lavoro è il meno duro di tutti.
b)
Il lavoro intellettuale dello scienziato e del pensatore dediti alla
ricerca, spesso ardua, della verità; il lavoro dello scrittore e del
professore che fanno ogni sforzo per far penetrare questa verità in
altre intelligenze; il lavoro del diplomatico, del negoziante,
dell’ingegnere eccetera; gli sforzi mentali del generale in
battaglia per prevedere, dirigere e decidere. Questo lavoro è in se
stesso molto più penoso del primo, come espresso dal noto proverbio:
«la lama consuma il fodero».
c)
Infine c’è il lavoro della vita interiore. Il santo sacerdote non
esitava a proclamarlo il più assorbente dei tre, se viene fatto sul
serio [11].
Ma è allo stesso tempo quello che ci dà in questa vita maggiori
consolazioni ed è anche il più importante, perché forma non
soltanto la professione dell’uomo, ma l’uomo stesso. Quanti si
gloriano d’essere coraggiosi nei due primi generi di lavoro che
portano alla fortuna e al successo, ma non sono altro che inerti,
pigri e vili quando si tratta di lavorare per la virtù!
Sforzarsi
continuamente per dominare se stesso e il proprio ambiente, per agire
mirando in ogni cosa alla sola gloria di Dio, è l’ideale dell’uomo
risoluto ad acquistare la vita interiore. Per realizzarlo, egli si
sforza in ogni circostanza di restare unito a Gesù Cristo, di tener
sempre l’occhio fisso al fine da raggiungere e di ponderare ogni
cosa alla luce del Vangelo. Ripete spesso con Sant’Ignazio: «Quod
vadam et ad quid?» Intelligenza e volontà, memoria e sensibilità,
immaginazione e sensi: tutto in lui è regolato da un principio. Ma a
prezzo di quali sforzi arriva a tali risultati! Sia che si mortifichi
o si conceda qualche onesto piacere, che pensi o realizzi, che lavori
o si riposi, che ami il bene o che provi avversione per il male, che
desìderi o tema, che accetti la gioia o la tristezza, che sia pieno
di speranza o di timore, indignato o pacifico, sempre e in tutte le
cose egli si sforza di tenere con tenacia il timone nella direzione
del divino beneplacito. Nella preghiera e soprattutto vicino
all’Eucaristia, egli s’isola ancor più completamente da tutto
quanto lo circonda, onde poter trattare con l’invisibile Dio come
se lo vedesse [12].
Anche in mezzo alle fatiche apostoliche egli mira a praticare
quell’ideale che San Paolo ammirava in Mosé.
Avversità
della vita o bufere delle passioni, nulla può sviarlo dalla linea di
condotta che si è imposto; se per caso s’indebolisce un momento,
subito si rialza per riprendere più vigorosamente la marcia in
avanti.
Quale
lavoro! E si comprende allora come già su questa terra Dio
ricompensi con gioie particolari colui che non indietreggia davanti
allo sforzo richiesto da questo lavoro.
«Oziosi,
i veri religiosi? – concludeva don Wyart – Oziosi, i sacerdoti di
vita interiore e zelanti? Ma via! Vengano i mondani, anche quelli più
affaccendati, a constatare se la loro fatica è paragonabile alla
nostra!»
Chi
non ne ha fatta l’esperienza? Alle volte si è tentati di preferire
magari lunghe ore di faticoso lavoro a una mezz’ora d’orazione
ben fatta, ad un’assistenza devota alla Messa, alla recita attenta
dell’Ufficio [13].
Il padre Faber esprimeva il suo rammarico nel dover costatare che per
certuni «il quarto d’ora che segue la Comunione è il più noioso
della giornata». Se si tratta di fare un breve ritiro di tre giorni,
quale ripugnanza si dimostra! Sottrarsi per tre giorni alla vita
facile (benché molto occupata) per vivere nel soprannaturale e farlo
penetrare, durante quel tempo di ritiro, in tutti i particolari della
propria vita; sforzare la mente perché esamini tutto, per quel
tempo, alla luce della fede; sforzare il proprio animo a dimenticare
tutto per respirare solo Gesù e la sua Vita, rimanere faccia a
faccia con se stessi per mettere a nudo le infermità e le debolezze
dell’anima, gettandola nel crogiolo, senza commiserare le sue
proteste: ecco una prospettiva che fa indietreggiare moltissime
persone che magari sono pronte a qualunque fatica, finché si tratta
d’impegnarsi in un’attività puramente naturale.
Ma
se tre giorni appena di tale occupazione sembrano già così penosi,
cosa proverà mai la nostra natura all’idea di sottoporre
gradatamente una vita intera al regime della vita interiore?
Senza
dubbio, in questo lavoro di spogliamento, a svolgere il ruolo
principale è quella grazia che rende soave il giogo e leggero il
peso. Ma quanta materia di sforzo da compiere vi trova l’anima! Le
costa sempre molto il rimettersi sulla retta via e ritornare al
principio «la nostra patria sta nei Cieli» (Fil. 3, 20). Lo spiega
molto bene san Tommaso. L’uomo, dice, è posto tra le cose terrene
e i beni spirituali nei quali si trova l’eterna beatitudine. Quanto
più aderisce alle prime, tanto più s’allontana dai secondi [14].
Accade come nella bilancia: se un piattello si abbassa, l’altro
s’innalza in proporzione.
Orbene,
la catastrofe del peccato originale che ha sconvolto l’economia del
nostro essere, ha reso penoso questo duplice movimento di adesione e
di allontanamento. Da allora, per poter ristabilire e mantenere,
mediante la vita interiore, l’ordine e l’equilibrio in questo
«piccolo mondo» che è l’uomo, ci vuole fatica, dolore e
sacrificio. Si tratta di ricostruire un edificio rovinato e
preservarlo poi da nuova rovina.
Distogliere
costantemente dalle cure terrrene, per mezzo della vigilanza, della
rinunzia e della mortificazione, questo cuore aggravato da tutto il
peso della natura corrotta, «aggravati di cuore» (Ps. 4, 3);
riformare il proprio carattere specialmente su quei punti in cui è
più dissimile dalla fisionomia dell’anima di Nostro Signore –
dissipazione, trasporti d’ira, compiacenza di sé e fuori di sé,
manifestazioni di orgoglio o di naturalismo, come pure durezza,
egoismo, mancanze di bontà, eccetera -; resistere alla brama del
piacere presente e sensibile, con la speranza di una felicità
spirituale che si potrà godere solo dopo una lunga attesa;
distaccarsi da tutto ciò che può farci amare la vita presente; fare
un olocausto senza riserve di tutto: creature, desideri, cupidigie,
concupiscenze, beni esterni, volontà e proprie vedute... quale
còmpito!
Eppure
questa non è che la parte purgativa della vita interiore. Dopo
questa lotta a corpo a corpo – lotta che faceva gemere san
Paolo [15] e
che il padre de Ravignan descriveva con queste parole: «Voi mi
domandate cosa ho fatto durante il noviziato? Eravamo in due; ne ho
gettato uno dalla finestra e sono rimasto solo» – dopo questa
lotta senza tregua contro un nemico sempre pronto a rinascere, è
necessario proteggere dai minimi ritorni dello spirito naturalistico
un cuore che, purificato dalla penitenza, è ora consumato dal
desiderio di riparare gli oltraggi fatti a Dio; bisogna dispiegare
tutta l’energia per tenerlo unicamente attaccato alle bellezze
invisibili delle virtù da acquistarsi onde imitare quelle di Cristo;
bisogna sforzarsi di conservare anche nelle minime circostanze della
vita un’assoluta fiducia nella Provvidenza: questa è la parte
positiva della vita interiore. Chi non intravvede l’immensità di
questo campo di lavoro che si presenta?
E’
un lavoro intimo, assiduo e costante; ma è proprio con questo lavoro
che l’anima acquista una meravigliosa facilità ed una stupefacente
rapidità di esecuzione nelle fatiche apostoliche. Solo la vita
interiore possiede questo segreto.
Le
opere immense compiute, nonostante una salute precaria, da un
Agostino, da un Giovanni Crisostomo, da un Bernardo, da un Tommaso
d’Aquino, da un Vincenzo de’ Paoli, ci gettano nello stupore. Ma
ancor più ci meraviglia vedere come questi uomini, pur essendo
immersi in occupazioni quasi continue, sapevano mantenersi nella più
costante unione con Dio. Nel dissetarsi più degli altri alla
sorgente della Vita per mezzo della contemplazione, questi santi ne
attingevano le più vaste capacità di lavoro.
E’
pure questa la verità che uno dei nostri grandi Vescovi,
sovraccarico di lavoro, esprimeva ad un uomo di Stato, anch’egli
oppresso dagli affari, il quale gli domandava il segreto della sua
continua serenità e dei mirabili successi delle sue opere: «Mio
caro amico, aggiungete a tutte le vostre occupazioni una mezz’ora
di meditazione ogni mattina: non solo sbrigherete i vostri affari, ma
troverete anche il tempo per realizzarne dei nuovi».
Infine
noi sappiamo che il santo Re Luigi IX, nelle otto o nove ore che
abitualmente dedicava agli esercizi della vita interiore, trovava il
segreto e la forza di applicarsi agli affari dello Stato e al bene
dei sudditi con tanta sollecitudine che, per ammissione di un oratore
socialista, mai, neppure ai nostri tempi, fu fatto tanto in favore
delle classi lavoratrici quanto lo è stato sotto il regno di questo
principe.
Capitolo
VI
Risposta ad una seconda obiezione: la vita interiore è
egoistica?
Non
parliamo qui del pigro né del goloso spirituale, che fanno
consistere la vita interiore nelle gioie di una piacevole oziosità e
cercano più le consolazioni di Dio che il Dio delle consolazioni:
costoro non hanno che una falsa pietà. Ma colui che, per leggerezza
o per pregiudizio, definisce egoistica la vita interiore, non l’ha
certo compresa meglio.
Abbiamo
già detto che questa vita è la sorgente pura e ricca delle più
generose opere di carità verso le anime e della carità che allieva
le miserie terrene. Ora esaminiamo l’utilità di questa vita sotto
un altro aspetto.
Egoistica
e sterile sarebbe dunque la vita interiore di Maria e di Giuseppe?
Che bestemmia e che assurdità! Eppure, a loro non viene attribuita
nessuna opera esteriore. Ma l’irradiazione sul mondo di una intensa
vita interiore e i meriti delle preghiere e dei sacrifici applicati
all’estensione dei benefici della Redenzione, sono bastati da soli
a costituire Maria Regina degli Apostoli e san Giuseppe Patrono della
Chiesa Universale [16].
Lo
sciocco presuntuoso, che solo vede le sue opere esteriori ed i loro
risultati, non fa che ripetere le parole di Marta: «Mia sorella mi
ha lasciata sola a servire!» (Lc. 10, 40).
La
sua fatuità e la sua scarsa comprensione delle vie divine non
arrivano al punto di fargli supporre che Dio non sappia quasi fare a
meno di lui. Ma intanto ripete volentieri con Marta, incapace di
apprezzare la vita contemplativa della sorella: «Dille dunque che mi
aiuti» (Lc. 10, 40), e magari giunge ad esclamare: «A che pro tutto
questo spreco?» (Mt. 24, 8), rimproverando come uno perdita di tempo
i momenti che i suoi fratelli di apostolato, i quali fan più vita
interiore di lui, si riservano per assicurare la loro unione con Dio.
«Io
santifico me stesso per loro, affinché essi pure siano santificati
nella verità» (Gv. 17, 19): ecco come risponde l’anima che ha
compreso tutta la portata della parola del Maestro. Conoscendo il
valore della preghiera, alle lacrime ed al sangue del Redentore
quest’anima unisce le lacrime dei suoi occhi e il sangue di un
cuore che si purifica ogni giorno di più.
Con
Gesù, l’anima di vita interiore sente la voce dei delitti del
mondo salire verso il cielo e domandare sui loro autori un castigo di
cui essa ritarda l’esecuzione con l’onnipotenza della supplica,
capace di trattenere la mano di Dio pronta a scagliare i fulmini.
«Coloro
che pregano – diceva dopo la sua conversione l’eminente statista
Juan Donoso Cortés – fanno per il mondo più di quelli che
combattono, e se il mondo va di male in peggio, ciò è dovuto al
fatto che vi sono più battaglie che preghiere».
«Le
mani alzate – diceva Bossuet – sbaragliano più battaglioni di
quelle che colpiscono». E i solitari della Tebaide, anche in mezzo
al deserto, avevano spesso nel cuore il fuoco che bruciava San
Francesco Saverio. Sembrava – dice Sant’Agostino – che avessero
abbandonato il mondo più di quanto era necessario: «Videntur
nonnullis res humanas plus quam oportet, deseruisse»; ma non si
riflette – aggiungeva – che le loro preghiere, rese più pure dal
loro grande distacco dal mondo, diventavano più efficaci e più
necessarie a questo mondo corrotto.
Una
preghiera breve, ma fervente, di norma affretterà una conversione
ben più che lunghe discussioni e discorsi. Colui che prega tratta
con la Causa prima e agisce direttamente su di essa, ed ha in mano
tutte le cause seconde, perché queste ricevono la loro efficacia
unicamente da questo Principio superiore. Perciò l’effetto
desiderato viene allora ottenuto più sicuramente e più presto.
Secondo
un’attendibile rivelazione, diecimila eretici furono convertiti da
una sola preghiera infuocata della serafica Santa Teresa, la cui
anima incendiata per Cristo non poteva comprendere una vita
contemplativa che si disinteressasse della sollecitudine del
Salvatore per la conversione delle anime. «Accetterei il purgatorio
fino al giorno del Giudizio universale – diceva – pur di liberare
una sola di esse. Poco importa la durata delle mie sofferenze, se
così potrò liberare una sola anima (e, meglio ancora, parecchie
anime) per la maggior gloria di Dio». E alle sue religiose diceva:
«Figlie mie, indirizzate a questo fine totalmente apostolico le
vostre orazioni, le vostre discipline, i vostri digiuni e i vostri
desideri».
Appunto
questa è l’opera di Carmelitani, Trappisti, Clarisse. Essi seguono
le orme degli Apostoli, sostenendoli con la sovrabbondanza delle loro
preghiere e delle loro penitenze. Le loro preghiere piombano
dall’alto e giungono, fin dove cammina la Croce e splende il
Vangelo, sulle anime, su questi bottini di guerra del Signore. O per
meglio dire, è il loro amore nascosto ma attivo che suscita ovunque,
nel mondo dei peccatori, la voce della misericordia.
Nessuno
quaggiù conosce il perché di quelle lontane conversioni di pagani,
dell’eroica fermezza di quei cristiani perseguitati, della gioia
celeste di quei missionari martirizzati. Tutto questo è
invisibilmente legato alla preghiera di un’umile claustrale. Con le
dita poste sulla tastiera delle divine misericordie e dei lumi
soprannaturali, la sua anima silenziosa e solitaria presiede alla
salute delle anime e alle conquiste della Chiesa [17].
Diceva
Mons. Favier, vescovo di Pechino: «Io voglio dei Trappisti in questo
Vicariato Apostolico; anzi, desidero che si astengano da qualunque
ministero, affinché nulla possa distrarli dalle opere di preghiera,
di penitenza e degli studi sacri; so bene infatti quale aiuto porterà
ai missionari l’esistenza di un monastero di ferventi contemplativi
in mezzo ai nostri miseri Cinesi». E in seguito testimoniava: «Siamo
finalmente riusciti a penetrare in una regione sinora inavvicinabile.
Attribuisco questo successo ai nostri cari Trappisti».
«Dieci
Carmelitani che pregano – diceva un Vescovo della Cocincina al
Governatore di Saigon – mi daranno maggior aiuto di venti
missionari che predicano».
I
sacerdoti secolari, i religiosi e le religiose votati alla vita
attiva, ma anche alla vita interiore, partecipano allo stesso potere
che le anime del chiostro hanno sul cuore di Dio. Ne sono esempi
magnifici un Padre Chevier, un Don Bosco e un S. Antonio Maria
Zaccaria. La Beata Anna Maria Taigi, nelle sue funzioni di povera
massaia, era un’apostola, come lo era S. Benedetto Giuseppe Labre
che schivava le vie battute. Il signor Dupont, il santo di Tours, il
colonnello Pacqueron ecc., divorati dalla medesimo ardore, erano
potenti nelle loro opere in quanto uomini di vita interiore. Il
generale De Sonis, tra una battaglia e l’altra, trovava il segreto
del suo apostolato nell’unione con Dio.
Egoistica
e sterile la vita del Santo Curato d’Ars? Il silenzio sarebbe
l’unica risposta meritata da una tale affermazione. Ogni mente
saggia attribuisce precisamente alla sua perfetta intimità con Dio
lo zelo ed i magnifici successi di questo prete povero di talenti ma
che, contemplativo quanto un certosino, era divorato da una grande
sete di anime, resa inestinguibile dai suoi progressi nella vita
interiore, e riceveva dal Signore, di cui viveva, una certa
partecipazione della potenza divina nell’operare le conversioni.
Infeconda
la sua vita intima? Ma supponiamo un Curato d’Ars in ogni diocesi.
In meno di dieci anni, la nazione sarebbe completamente rigenerata, e
lo sarebbe più profondamente che non da una moltitudine di opere
insufficientemente basate sulla vita interiore e per quanto
organizzate con l’aiuto di grandi mezzi finanziari, dell’ingegno
e dell’attività di migliaia di apostoli.
Non
dubitiamone: la principale ragione di sperare nella risurrezione
della nostra Patria, sta nel fatto che, come si può constatare da
alcuni anni, in nessun altro tempo forse vi furono, anche tra i
semplici fedeli, tante anime così ardentemente desiderose di vivere
unite al Cuore di Gesù e di estendere il suo Regno facendo
germogliare attorno a loro la vita interiore. Queste anime elette
sono un’infima minoranza, certo; ma che importa il numero quando vi
è l’intensità? Se la nostra Patria è risorta dopo la
Rivoluzione, lo si deve attribuire a quel gruppo di sacerdoti
maturati nella vita interiore mediante la persecuzione. Per mezzo di
loro, una corrente di Vita divina venne a riscaldare una generazione,
che l’apostasia e l’indifferenza sembravano aver condannato ad
una morte che nessuno sforzo umano poteva evitare.
Dopo
cinquant’anni di libertà d’insegnamento, dopo quel mezzo secolo
che ha visto il rifiorire d’innumerevoli opere, e durante il quale
noi abbiamo avuto nelle nostre mani tutta la gioventù nazionale e
l’appoggio quasi completo dei governanti, come mai, nonostante
risultati apparentemente gloriosi, non abbiamo potuto formare in seno
alla nazione una maggioranza così profondamente cristiana da poter
lottare contro la lega dei ministri di Satana? [18].
Senza
dubbio hanno contribuito a questa impotenza l’abbandono della vita
liturgica e la cessazione del suo irraggiamento sui fedeli. La nostra
spiritualità è divenuta gretta, arida, superficiale, esteriore o
del tutto sentimentale; quindi non ha più quella penetrazione e quel
fascino sulle anime che suol dare la liturgia, questa grande forza di
vitalità cristiana.
Ma
non vi è forse un’altra causa in questo fatto?
Non
sarà che noi sacerdoti ed educatori, mancando di un’intensa vita
interiore, non abbiamo potuto creare nelle anime che una pietà
superficiale, senza potenza ideale e senza forti convinzioni? Come
docenti non ci dimostrammo forse preoccupati più del successo dei
diplomi e del prestigio delle scuole, che non di dare alle anime una
solidissima istruzione religiosa? Non abbiamo forse speso le nostre
energie senza mirare innanzi tutto alla formazione della volontà,
per stampare l’impronta di Gesù Cristo su caratteri ben temprati?
E questa mediocrità non è stata forse spesso causata dalla banalità
della nostra vita interiore?
Come
si suol dire, a sacerdote santo corrisponde un popolo fervente; a
sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a
sacerdote onesto un popolo empio. In coloro che vengono generati
nello spirito, c’è sempre un grado di vita in meno.
Non
arriviamo ad accettare tale affermazione, ma notiamo che le seguenti
parole di Sant’Alfonso esprimono sufficientemente a quale causa
dobbiamo attribuire la responsabilità della nostra attuale
situazione: «I buoni costumi e la salvezza dei popoli dipendono dai
buoni pastori. Se alla testa di una parrocchia c’è un buon
pastore, ben presto la devozione fiorirà, i sacramenti saranno
frequentati e l’orazione mentale messa in onore. Di qui il
proverbio: ‘Quale il pastore, tale la parrocchia’, che riprende
il detto dell’Ecclesiastico: ‘Quale il governante della città,
tali i suoi abitanti’» [19].
«Ma
– dirà l’anima esteriore in cerca di pretesti contro la vita
interiore – come si può pretendere di limitare le mie opere di
zelo? Posso io impegnarmi troppo, soprattutto quando si tratta di
salvare le anime? La mia attività non supplisce forse a tutto il
resto, e vantaggiosamente, con il sublime esercizio dell’abnegazione?
Chi lavora prega e il sacrificio supera l’orazione. E San Gregorio
non definisce forse lo zelo per le anime come il sacrificio più
gradito che si possa offrire a Dio? «Nessun sacrificio è più
gradito a Dio che lo zelo per le anime» [20].
Prima
di tutto, precisiamo il vero senso di queste parole di San Gregorio,
seguendo la voce del Dottore Angelico.
Offrire
spiritualmente a Dio un sacrificio, dice San Tommaso, è offrirgli
qualcosa che gli dà gloria; fra tutti i beni che l’uomo può
offrire a Dio, quello più gradito è senza dubbio la salvezza di
un’anima. Ma ciascuno deve innanzitutto offrirgli la propria stessa
anima, secondo le parole della Scrittura: «Se vuoi piacere a Dio,
abbi pietà della tua anima». Una volta compiuto questo primario
sacrificio, potremo poi permetterci di procurare ad altri una simile
felicità. Quanto più l’uomo unisce strettamente a Dio dapprima
l’anima sua e poi quella degli altri, tanto più gradito è il suo
sacrificio. Ma questa unione intima, generosa e umile non la si può
ottenere che per mezzo dell’orazione. Applicare se stesso e far
applicare altri alla vita d’orazione e alla contemplazione, è
dunque più gradito al Singore che il dedicarsi o impegnare altri
all’azione, alle opere.
Perciò,
conclude l’Angelico, quando San Gregorio afferma che il sacrificio
più gradito a Dio è la salvezza delle anime, non intende con ciò
preferire la vita attiva a quella contemplativa, ma vuol dire
soltanto che offrire a Dio anche un’anima sola, Gli dà
infinitamente più gloria, ed è per noi molto più meritorio, che
offrirgli quanto c’è di più prezioso sulla terra [21].
La
necessità della vita interiore deve così poco distogliere le anime
generose dalle opere di zelo, se l’evidente volontà di Dio esige
da loro di accettarne l’incarico, che volersi sottrarre a tale
lavoro o dedicarvisi con negligenza, disertare il campo di battaglia
col pretesto di meglio coltivare la propria anima e arrivare ad
un’unione più perfetta con Dio, sarebbe una pericolosa illusione
e, in certi casi, causa di gravi pericoli. «Guai a me, se non avrò
evangelizzato», disse S. Paolo (1 Cor. 9, 16).
Ma,
fatta questa riserva, diciamo subito che dedicarsi alla conversione
delle anime dimenticando la propria, genera un’illusione ancor più
grave. Dio vuole che amiamo il prossimo come noi stessi, ma giammai
più di noi stessi, cioè mai fino al punto di nuocere a noi stessi
personalmente; in pratica si richiede di aver maggior cura della
nostra anima che di quella degli altri, perché il nostro zelo deve
essere regolato dalla carità e l’assioma teologico insegna che «la
prima carità è quella verso se stessi».
«Io
amo Gesù Cristo – diceva Sant’Alfonso de’Liguori – e perciò
ardo dal desiderio di dargli delle anime: ma prima la mia e poi un
incalcolabile numero di altre». Ciò significa tradurre in pratica
il «tuus esto ubique» di S. Bernardo: «Non è saggio colui che non
è padrone di sé» [22].
Il
santo abate di Chiaravalle, che fu un prodigio di zelo apostolico,
seguiva questa regola. Goffredo, suo segretario, così ce lo dipinge:
«Innanzitutto egli è tutto di se stesso, quindi è tutto per gli
altri» [23].
Così
scriveva il medesimo santo al Papa Eugenio III: io non voglio che vi
sottraiate completamente dalle occupazioni secolari, ma vi esorto
soltanto a non dedicarvici interamente. Se siete l’uomo di tutto il
mondo, siatelo anche di voi stesso. Se no, che vi gioverebbe
guadagnare tutti gli altri se poi perdeste voi stesso? Riservate
dunque qualcosa per voi; se tutto il mondo viene a bere alla vostra
fonte, beveteci anche voi. Voi solo dunque rimarreste assetato?
Cominciate sempre col pensare a voi stesso. Invano vi dareste ad
altre sollecitudini, se finiste col trascurare voi stesso. Tutte le
vostre riflessioni comincino e finiscano con voi, dunque. Siate per
voi il primo e l’ultimo, ricordando che, nell’affare della vostra
salute, nessuno v’è più prossimo del figlio unico di vostra
madre [24].
E’
molto suggestivo questo appunto di ritiro spirituale lasciato da
monsignor Dupanloup:
«Io
ho un’attività terribile che rovina la mia salute, turba la mia
pietà e non serve affatto al mio sapere: bisogna che la regoli. Dio
mi ha fatta la grazia di conoscere che ciò che si oppone soprattutto
in me allo stabilimento di una vita interiore tranquilla e fruttuosa,
sono l’attività naturale e il potere trascinatore delle
occupazioni. Inoltre, ho scoperto che proprio questa mancanza di vita
interiore è la sorgente delle mie colpe, dei miei turbamenti, delle
mie aridità, dei miei disgusti e della mia cattiva salute. Ho dunque
deciso di rivolgere tutti i miei sforzi all’acquisto di questa vita
interiore che mi manca e per questo, con la grazia di Dio, ho fissato
i seguenti punti fermi:
1)
Qualunque cosa debba fare, per compierla mi prenderò più tempo di
quel che sia necessario; questo è l’unico mezzo per non essere mai
premuto dalla fretta né trascinato.
2)
Siccome ho sempre più cose da fare che tempo per farle, e siccome
questa prospettiva mi preoccupa e mi travolge, d’ora innanzi non
considererò più le cose che debbo fare bensì il tempo che ho da
impiegarvici. Lo impiegherò senza perderne nulla, cominciando dalle
cose più importanti e non mi inquieterò per tutto ciò che rimarrà
da fare, ecc.».
Un
abile gioielliere preferisce il minimo frammento di diamante a
parecchi zaffiri. Così, secondo l’ordine stabilito da Dio, la
nostra intimità con Lui lo glorifica più di tutto quanto potremmo
procurare a beneficio di molte anime, ma a danno del nostro progresso
spirituale. Quest’armonia nel nostro zelo la vuole il Padre
celeste, il quale si applica più nel governare un cuore in cui
regna, che non nel governo naturale di tutto l’universo e nel
governo civile di tutti gl’imperi [25].
Se
vede che un’opera diventa un ostacolo allo sviluppo della carità
nell’anima che se ne occupa, talvolta Egli preferisce lasciarla
scomparire.
Satana,
al contrario, non esita a favorire successi del tutto superficiali
se, in cambio di essi, può impedire che l’apostolo progredisca
nella vita interiore, tanto la sua rabbia sa indovinare quali sono i
veri tesori agli occhi di Gesù Cristo. Purché si distrugga un
diamante, concede volentieri qualche zaffiro.
NOTE
PARTE I
[1] «Appartiene
alla comune legge, con la quale il provvidentissimo Iddio ha
decretato che gli uomini di norma si salvino sempre mediante altri
uomini, (...) che impariamo da Dio per bocca di uomini» (S.S. Leone
XIII, Testem benevolentiae, lettera al Card. Gibbons del 22 gennaio
1899; cfr. Acta Leonis XIII, vol. XI (1900), pp. 5-20).
[2] L’Autore
allude al celebre classico della letteratura spirituale scritto nel
1609 da san Francesco di Sales (ediz. it. Rizzoli, Milano 1998) (N.
d. T.)
[3] L’autore
allude al celeberrimo scritto di ascetica e mistica pubblicato
anonimo nel XIV secolo, dapprima attribuito a Tommaso da Kempis e
oggi al monaco Gersonio (ediz. ital. Paoline, Roma 1997) (N. d. T.)
[4] Anche
prescindendo dai fenomeni che accompagnano certi stati d’unione con
Dio, siamo persuasi che Dio spesso concede, all’infuori di simili
fenomeni, grazie speciali di orazione alle anime generose che bramano
vivere in intimità con Lui.
[5] La
riportiamo qui integralmente: «O dolcissimo Signore Gesù, trafiggi
le midolla e le viscere dell’anima mia con la soave e salutare
ferita del tuo amore, con la vera, sincera e sacrosanta carità,
sicché l’anima mia languisca e si strugga ora e sempre per il solo
amore e desiderio di Te; brami solo Te ed aneli alle tue dimore,
desideri di svilcolarsi dal corpo e di stare con Te. Fa’ che la mia
anima abbia fame di Te, Pane degli Angeli, cibo delle amine sante,
nostro Pane quotidiano, più che sostanziale, che ha ogni dolcezza di
sapore ed ogni delizia di soavità. Il mio cuore abbia sempre sete di
Te, fontana di vita, di sapienza e di scienza, sorgente di eterno
lume, torrente di voluttà, dovizia della Casa di Dio. Te sempre
ambisca, Te cerchi, Te trovi, a Te si tenda, a Te pervenga, Te
mediti, di Te parli e tutto faccia in lode e gloria del tuo Nome, con
umiltà e discrezione, con con amore e diletto, con prontezza e
bontà, con perseveranza sino alla fine; Tu solo sii sempre tutta la
mia speranza, fiducia, ricchezza, delizia, gioia, gaudio, quiete e
tranquillità, pace, soavità, profumo, dolcezza, cibo, refezione,
rifugio, soccorso, sapienza, eredità, possesso, tesoro, in cui siano
sempre fissi e stabili e immobilmente radicati la mia mente e il mio
cuore. Così sia» (N. d. T.).
[6] Questa
tiepidezza è ben diversa dall’aridità e dal disgusto che provano
talvolta, loro malgrado, i fervorosi. Le mancanze veniali che
sfuggono alla fragilità, ma che sono combattute e prontamente
detestate non appena commesse, non indicano affatto la tiepidezza di
volontà. L’anima afflitta da questa tiepidezza ha due opposti
voleri: uno buono, l’altro cattivo; uno caldo, l’altro freddo. Da
una parte ella vuole salvarsi, per cui evita i peccati mortali
evidenti; dall’altra non accetta la esigenze dell’amor di Dio,
anzi vuole le agiatezze di una vita libera e facile; per questo ella
si concede peccati veniali deliberati... Quando la tiepidezza della
volontà non è combattuta, per questo stesso fatto, v’è
nell’anima una cattiva volontà non totale ma parziale. V’è cioè
una parte della volontà che dice a Dio: «su questo o quel punto non
voglio smettere di darti dispiacere». (P. Desurmont, Le retour
continuel à Dieu).
[7] Cfr.
S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, meditazione XVI (trad. it.
Apostolato della Preghiera, Roma 1990)
[8] «L’uomo
fu creato per contemplare il suo Creatore, affinché cercasse sempre
il Suo volto e dimorasse sempre nella stabilità del Suo amore» (S.
Gregorio Magno, Moralia in Job, l. VII, cap. XII; trad. it. Commento
morale a Giobbe, Città Nuova, Roma 1997).
[9] «Semper
memineris Dei, et caelum mens tua evadit» (S. Efrem). «Mens animae
paradisus est, in qua, dum caelestia meditatur, quasi in Paradiso
voluptatis delectatur» (Ugo di S. Vittore).
[10] S.
Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-IIae, q. 180, a. 4 (trad.
it. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998)
[11] «Lottare
contro le passioni e i vizi è ben maggior lavoro che sudare per le
fatiche corporali» (S. Gregorio Magno).
[13] Quali
che siano le difficoltà della vita attiva, vi sono solamente gli
inesperti che osino negare le prove della vita interiore. Molte
persone «attive», pur essendo sinceramente pie, confessano che
molto spesso ciò che più costa nella loro vita non è l’azione,
ma la parte obbligatoria dell’orazione e si sentono sollevate
quando arriva l’ora dell’azione (Dom Festugière O.S.B.).
[14] «L’uomo
è posto tra le cose di questo mondo e i beni spirituali, nei quali
consiste l’eterna beatitudine; dimodoché, quanto più si avvicina
e aderisce alle prime, tanto più si allontana e separa dagli altri,
e viceversa» (S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, I-IIae, q.
108, a. 4).
[15] «Infatti,
nel mio intimo, acconsento alla Legge di Dio; ma nelle mie membra
vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e
mi rende schiavo della legge di peccato che domina le mie membra.
Sventurato che sono! Chi mi libererà da questo corpo votato alla
morte?» (Rom. 7, 22-24).
[16] In
un altro capitolo si vedrà quale sia questa vita interiore che dà
alle opere la loro fecondità (parte IV).
[18] L’A.
si riferisce alla situazione della Francia nel secolo XIX. Passata la
tempesta della Rivoluzione Francese, i cattolici riottennero
gradualmente le libertà a partire dalla Restaurazione, giungendo
negli anni Settanta a riconquistare la piena libertà
dell’insegnamento superiore. Ma sùbito dopo tornarono al potere i
massoni, e le scuole cattoliche furono sottoposte a vessazioni di
vario genere e private gradualmente dei diritti ottenuti con tante
lotte; finché si giunse alla legge del 9 dicembre 1905, che sanciva
una radicale separazione tra Chiesa e Stato, impediva numerose opere
cattoliche e sopprimeva gli ordini religiosi e sequestrava i beni
della Chiesa (N. d. T.)
[20] S.
Gregorio Magno, Homiliae XII in Ezechielem; trad. it. Omelie su
Ezechiele, Città Nuova, Roma 1993.
[22] S.
Bernardo, De consideratione, l. II, cap. III (trad. it. La
considerazione, Città Nuova, Roma 1980).
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